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In prigione, ma senza cura. Un sistema paralizzato da anni, nel disastro, dal ministero della giustizia
Il Manifesto, 9 agosto 2003
Le urla di Omar squarciano i corridoi del nuovo complesso di Rebibbia. E arrivano dall’altra prigione che lo incatena: tubercolosi ossea, con "secondini" che si chiamano epatite C pregressa e dischi schiacciati. I dolori alla schiena sono insopportabili e lo costringono a letto, come paralizzato. Effetti collaterali: non può restare in quella cella, ma alla ASL dicono che necessita di un particolare tipo di ricovero assistito che loro ora non possono fornire. E soprattutto, dicono, chi pagherebbe? La sanità penitenziaria è rimasta nelle mani – immobili da due anni – del ministero della giustizia e le ASL possono farci ben poco. È pieno di zelo, invece, il ministro dell’interno: ha fatto sapere che visto che Omar, tra un anno e mezzo, potrà accedere ad alcuni benefici di legge, tra cui gli arresti domiciliari, a quel punto dovrà essere espulso, lui e la sua tubercolosi che gli sta mangiando le ossa: lo prevede la Bossi – Fini. Tornerà in Palestina, dove forse ci penserà il "Piano Marshall" berlusconiano ad assicurargli assistenza sanitaria. E intanto resta in cella perché non si trovano altre sistemazioni, meno incompatibili con la sua condizione. Il personale cerca di rendergli meno insopportabile la situazione, che gli dà un po’ di respiro solo se resta sdraiato e immobile. Un medico del Gemelli gli ha prescritto una cura, sette pasticche tre volte al giorno: faticoso per chiunque, figuriamoci per chi sta in galera. Nell’attesa, la Consulta penitenziaria romana sta cercando di aiutarlo, dopo che al Comune è arrivata la domanda di alloggio di Omar: arrestato nel 2001 per droga, ma arrivato in Italia parecchi anni fa, in fuga dalla Palestina: padre e un fratello uccisi, lui in un campo di prigionia a Tel Aviv, dove gli toccarono anche le torture. Scappato in Siria, poi in Egitto, quindi in Libia, è approdato in Italia, dove aveva amici. E s’è arrangiato con la droga, finendo a Rebibbia. "È un essere umano che sta soffrendo come un cane mentre intorno non sembra possibile risolvere nulla: una situazione gravissima, che vede in parte responsabile anche l’immobilismo del ministero della giustizia sul fronte penitenziario e che è uno degli esempi dell’intera situazione carceraria attuale", dice Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria romana e coordinatore del piano cittadino sul carcere del Comune di Roma. "Proprio la sfera sanitaria del sistema penitenziario, nonostante leggi e regolamenti – continua Di Mauro – è rimasta saldamente nelle mani dei medici e delle procedure che dipendono da Via Arenula, guardandosi bene dall’entrare nella sfera del Sistema sanitario nazionale e nella gestione delle ASL, con riflessi sui detenuti fatti di medicinali che non arrivano, assistenza insufficiente e scarsa comprensione delle problematiche tutte particolari legate a detenuti che siano anche dei pazienti o abbisognino di cure specifiche".
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