Arresti domiciliari e cure

 

Arresti domiciliari per potersi curare, di Aniello Carrillo

Tratto dal sito del carcere di San Vittore, www.ildue.it


In settembre, dopo nove mesi di carcere, finalmente, la Corte d'Appello di Milano ha riconosciuto la mia incompatibilità con le strutture penitenziarie e mi ha concesso gli arresti domiciliari "con possibilità di cure".

Possibilità di cure, nel mio caso, significa che prima devo avere un certificato medico da inviare loro per la concessione del permesso ad andare in ospedale, che attesti le necessità e poi, forse, ti concedono la possibilità di curarti.

Il problema è che il medico se prima non ti visita come può attestare le necessità di cui sopra? Quindi, in arresti domiciliari devi sperare di non avere emergenze mediche "non molto gravi" (per quelle gravi sono "umani" e comprendono ma, - facendo le corna - devi stare in ambulanza altrimenti se stai andando in ospedale con mezzi tuoi t'arrestano per evasione).
La domanda è: possibile che non capiscano che un positivo con meno di cento linfociti T4 deve avere col medico un rapporto quasi quotidiano? Possibile che non comprendano che per noi emergenza può significare morte? Uno nelle mie condizioni dovrebbe essere messo in grado di prevenirle le emergenze, cioè al primo sintomo sospetto dovrebbe, al pari di ogni altro cittadino, poter andare dal medico e chiedere cosa fare. Invece no, io posso "godere" solo di visite programmate per tempo (per controlli e ritiro farmaci) e, nel frattempo, sperare che non mi succeda nulla.

Eppure costituzionalmente e per le norme dell'ordinamento penitenziario un cittadino detenuto, a prescindere che sia colpevole o innocente (perché ancora in arresti domiciliari si è in attesa di giudizio definitivo), deve avere le stesse opportunità di cure di un normale cittadino libero.

Non sarebbe logico prevedere, per legge, strumenti come l' obbligo di avvisare la polizia giudiziaria competente quando si esce per cure e, dopo le stesse, esibire a chi di competenza la relativa documentazione? Come vedete la vera sfida non è convivere con l'Aids ma con la "civilissima" società nella quale dovremmo anelare di tornare quali esseri redenti.
Io ce la metto tutta e, lo dimostrano il buon comportamento tenuto in carcere, l'astensione dall'uso di droga, la partecipazione all'opera di rieducazione etc., ma siamo sicuri che la "civile" società voglia la stessa cosa che voglio io?

Vi lascio riflettere e colgo l'occasione per salutare i più sfortunati di me che nelle mie condizioni sono ancora in carcere, con lo stress detentivo che inibisce, in gran parte, l' effetto dei farmaci loro prescritti, (vi assicuro che a me succedeva così ed infatti ora, nonostante tutto, sto un po' meglio).

Saluti gli amici del C.P.A. di S. Vittore, gli operatori che ho lasciato lì, e tutti coloro che mi stimano, un abbraccio ed un augurio di buona sorte.

 

Aniello Carrillo

   

 

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