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Arresti domiciliari per il detenuto depresso La sindrome ansioso - depressiva può essere incompatibile con l'ambiente carcerario (Cassazione 35741/2004)
Il detenuto affetto da una forte depressione può ottenere gli arresti domiciliari. È quanto stabilito dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha accolto il ricorso di un detenuto al quale il Tribunale di Sorveglianza di Torino aveva negato il beneficio. La Suprema Corte ha rilevato in proposito che la sindrome ansioso - depressiva può costituire causa di differimento della pena quando assuma aspetti di tale gravità da non essere fronteggiabile in ambiente carcerario (nel caso in questione il detenuto aveva perso trenta chili) o assuma addirittura le caratteristiche di vera e propria infermità psichica. Il Giudice di Sorveglianza, in particolare, deve valutare se la depressione del detenuto sia tale da fare sì che l'espiazione della pena appaia contraria al senso di umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti. (10 dicembre 2004) Corte suprema di Cassazione - Sezione V Penale Feriale Sentenza n. 35741/2004
Fatto e diritto
Il Tribunale di sorveglianza di Torino esaminava in primo luogo la richiesta del F. volta al riconoscimento dello status di collaboratore di giustizia ai fini dell’ottenimento della detenzione domiciliare, consentita ai sensi dell’art. 58 ter O.P. [1] anche per i condannati per reati ostativi ai sensi dell’art. 4- bis O.P. Rilevava che le informazioni acquisite consentivano di escludere che il F. avesse compiuto un’attività di collaborazione o che si trovasse nella particolare situazione di non aver potuto collaborare per aver avuto una minima partecipazione nella struttura associativa e che pertanto l’istanza conseguente di detenzione domiciliare doveva essere dichiarata inammissibile. Passava quindi ad esaminare la richiesta di differimento pena e concessione della detenzione domiciliare ai sensi dell’art. 47 ter comma 1 ter, cioè in caso dell’esistenza di gravi ragioni di salute, e rilevava che il F. risultava affetto da una condizione depressiva di carattere reattivo alla detenzione, con una ricaduta sul piano fisico costituita da un importante calo ponderale, pari a oltre trenta chili. Sollevava perplessità sul fatto che mentre una relazione clinica del 14/2/2004 rilevava che il detenuto era in cura con antidepressivi e che le condizioni generali erano compatibili con il regime detentivo, una seconda relazione medica del 5/3/2004, ad una distanza di soli venti giorni, concludeva in senso del tutto difforme, affermando che la prosecuzione del regime detentivo poteva aggravare ulteriormente le condizioni di salute. La Corte territoriale rilevava ancora che la sindrome ansioso- depressiva, pur di significativa gravità, non era in grado di porre in pericolo di vita il detenuto e quindi ai sensi dell’art. 147 comma 1 n. 2 c.p. non sussisteva nessuna delle due condizioni (prognosi infausta quad vitam o cure che non possono essere praticate in carcere) che consentivano il differimento nell’esecuzione della pena. Aggiungeva poi che anche valutando il fatto alla luce del rispetto del principio di umanità della pena e della necessità di evitare una sua abnorme afflittività, nel caso di specie il detenuto era in grado di partecipare al programma rieducativo della pena e di compiere i normali atti della vita quotidiana. Contro la decisione presentava ricorso il condannato deducendo violazione di legge in relazione all’omesso riconoscimento dello status di collaboratore di giustizia ed al conseguente diritto ad accedere alle misure alternative alla detenzione, anche in presenza di titoli di reato ostativi, in quanto il Tribunale avrebbe omesso di considerare che la collaborazione vi era stata e che se non aveva potuto collaborare e che se non aveva potuto collaborare ulteriormente ciò era dovuto alla sua minore partecipazione ai fatti. Deduceva ancora che per le sue condizioni di salute, eccezionalmente gravi, aveva comunque diritto al differimento della pena, prevista dagli artt. 147 e 148 c.p. in relazione all’art. 47 ter comma 1 ter O.P. Con memoria presentata successivamente produceva documentazione medica consistente in pareri sulle condizioni di salute e sulla incompatibilità col regime carcerario. La Corte rileva che il primo motivo di ricorso deve essere rigettato in quanto la valutazione operata dal Tribunale sull’impossibilità di riconoscere lo status di collaborante appare conforme a legge ed agli accertamenti compiuti. Deve sottolinearsi infatti che la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato che la qualità di collaboratore a norma dell’art. 58 ter O.P. non può formare oggetto di una pronuncia dichiarativa fine a se stessa, mirante al preventivo riconoscimento dello status, ma deve essere accertata all’interno del procedimento di merito attivato dalla richiesta di uno dei benefici penitenziari (Sez. I 19 aprile 1999 n. 1865 ric. Sparta, rv. 213066, Sez. I 18 gennaio 1998 n. 5885, ric. Piras, rv. 212201) e nel caso di specie questo accertamento è stato correttamente compiuto ed ha condotto alla conclusione che il condannato non ha mai collaborato e non si trovava nelle condizioni di inesigibilità della collaborazione per cui nei suoi confronti opera il divieto di ammissione alla detenzione domiciliare previsto per i reati contemplati all’art. 4- bis O.P. Il secondo motivo di ricorso volto ad ottenere la detenzione domiciliare in alternativa al differimento della pena per gravi motivi di salute merita accoglimento, con annullamento con rinvio. Deve ribadirsi l’orientamento già espresso dalla Suprema Corte in merito alla nozione di grave infermità fisica, secondo cui non è tra esse annoverabile la debilitazione conseguente ad esempio ad anoressia (Sez. I 21 agosto 1997 n. 4574, ric. Particò, rv. 208423), ma deve anche ricordarsi che la sindrome ansioso- depressiva può costituire causa di differimento della pena quando assuma aspetti di tale gravità da non essere fronteggiabili in ambiente carcerario o addirittura assuma i caratteri della infermità psichica sopravvenuta (Sez. I 10 dicembre 1996 n. 5282, ric. Ciancimino, rv. 206329). La motivazione della sentenza sul punto appare contraddittoria laddove da un lato si ritiene non credibile un aggravamento delle condizioni in soli venti giorni e dall’altro si ritiene a tal punto grave la situazione da richiedere un controllo assiduo da parte della struttura carceraria. Premesso che non è conforme alla più recente giurisprudenza di legittimità richiedere per il differimento della pena il requisito della prognosi infausta quoad vitam (vedasi per tutte Sez. I 15 novembre 1999 n. 5715, ric. Di Girolamo, rv. 214419), dovendosi invece valutare se le condizioni di salute, ritenute gravi, facciano sì che l’espiazione della pena appaia contraria al senso di umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti, deve nel caso di specie valutarsi se la perdita di peso di oltre trenta chili, in un soggetto che partiva da un peso di 111 kg, costituisca sintomo o conseguenza di un grave stato di malattia ai sensi ed ai fini degli artt. 147 (o 148) c.p..
P.Q.M.
La Corte annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Torino.
Depositata in Cancelleria il 31 agosto 2004.
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