|
La
figura dello psichiatra penitenziario:
ruolo,
professionalità e responsabilità. Rieducare o curare?
"La
necessità di dedicare una riflessione specifica ai problemi dell'etica dello
psichiatra che opera nell'ambito giudiziario e penitenziario, scaturisce da
reali specificità deontologiche connesse al particolare ruolo che ivi ricopre e
al peculiare rapporto che si instaura con le persone oggetto della sua
attenzione professionale: egli opera infatti in condizioni ben diverse da quelle
sue abituali, da quelle cioè del prestatore di cura in quello speciale rapporto
fiduciario che si instaura fra medico e paziente, uniti in ciò che si denomina
"alleanza terapeutica" Lo
psichiatra penitenziario si trova a dover adempiere ad un duplice mandato,
quello eminentemente clinico e quello di difesa sociale. Chi opera in ambito
penitenziario e giudiziario, infatti, oltre a farsi carico dell'interesse del
soggetto di cui si occupa, non può dimenticarsi di avere un committente, il
giudice o l'amministrazione penitenziaria e comunque la società, come
espressione di un mandato di interesse pubblico. In
modo molto schematico possiamo dire che lo psichiatra interviene nel sistema
della giustizia penale con le seguenti funzioni: Come
perito su diretto mandato della magistratura, per rispondere come prevede
l'art. 220 c.p.p. a quesiti attinenti la capacità di intendere e di volere
di un imputato. Come
operatore carcerario nella fase della "osservazione scientifica della
personalità" prevista dall'Ordinamento Penitenziario per rilevare le
carenze fisiopsichiche e le altre cause del disadattamento sociale, e ciò
al fine di formulare indicazioni in merito al trattamento rieducativo e
all'idoneità o meno a fruire di misure alternative e dei vari benefici
previsti dalla legge. Anche in questo caso la prestazione è effettuata su
richiesta della Magistratura, ovvero dell'Amministrazione Penitenziaria. Sempre
come operatore carcerario, ma nell'attività di trattamento e di cura, in un
ruolo più specificamente terapeutico. Come
consulente di parte a favore dell'imputato, ovvero come consulente per conto
del pubblico ministero, nel corso delle varie fasi del procedimento penale. Tralasciando
le funzioni dello psichiatra chiamato a svolgere una perizia per conto
dell'Amministrazione Penitenziaria o come consulente di parte, vorrei centrare
l'attenzione sul ruolo dello psichiatra come operatore carcerario. In
questo caso l'ambiguità di ruolo è massima, poiché nella stessa persona
confluiscono le funzioni di colui che deve fornire informazioni all'autorità
giudiziaria o all'amministrazione penitenziaria e, quella di operatore del
trattamento. Si tratta in sostanza di una situazione in cui convivono controllo
e cura, in cui lo psichiatra che opera in carcere oltre che terapeuta (prestando
assistenza e cura ai detenuti con disturbi psichiatrici o, più semplicemente,
con difficoltà psicologiche), diviene anche criminologo. Come tale è fra
coloro che si occupano, per conto dell'amministrazione giudiziaria o
penitenziaria, di studiare la personalità di un delinquente per valutarne la
probabilità di recidiva, la idoneità a fruire di benefici, di riduzioni di
pena, di sanzioni, di misure alternative. Egli, in sostanza, per esercitare
questa attività, dovrà spogliarsi, in parte, di ciò che costituisce
l'abituale veste professionale di ogni clinico, vale a dire quel particolare
atteggiamento di affettività che lo porta ad essere solidale col soggetto che
gli si affida in cerca di aiuto. In pratica l'alleanza terapeutica viene a
scontrarsi con il fatto che il paziente, in molti casi, è esaminato non in
prospettiva di una cura o di un intervento a suo favore, bensì per assolvere a
richieste e a necessità dell'amministrazione giudiziaria. La
duplicità del mandato, l'impossibilità di un'effettiva alleanza terapeutica e
il dover esaminare in modo neutrale un soggetto creano una situazione di
ambiguità e di conflitto, che sono comunque inevitabili, e che è compito etico
dell'esperto conciliare. Questo
duplice mandato si avvicina a quello del quale si trova investito il normale
psichiatra operante nelle strutture civili, il quale, sebbene abbia
essenzialmente un mandato di cura, non può sfuggire a compiti di controllo
sociale. Ma, mentre per lo psichiatra diciamo "civile" questa è
un'evenienza eccezionale o quantomeno rara, la duplicità del ruolo è pressoché
la regola quando lo psichiatra è chiamato ad operare nel contesto delle
istituzioni carcerarie. "La
duplicità del ruolo, tra l'altro, comporta per lui un atteggiamento che non
deve essere certo di diffidenza aprioristica, e men che meno di preconcetta
ostilità, ma non può essere neppure di acritica accettazione di tutto quanto
gli viene riferito: certo neppure il terapeuta stimerà sempre e comunque
sincere le parole del detenuto, ma la corrispondenza al vero avrà per lui minor
importanza, rilevando piuttosto, ai suoi fini, il perché una cosa viene
sottaciuta ed un'altra magari travisata: in terapia, cioè, conta più il
vissuto, in criminologia più il fatto" Ne
consegue la necessità di essere consapevoli che il reo in questione, sul quale
lo psichiatra è chiamato a formulare giudizi, possa avere particolare interesse
a simulare o dissimulare stati d'animo e propositi, addirittura cercare di
manipolare e strumentalizzare l'esaminatore, dal giudizio del quale possono a
lui derivare concreti ed attuali benefici o pregiudizi in termini di libertà
personale. Discuterò in modo più esteso questo argomento al della prima parte. La
particolare caratteristica del soggetto che lo psichiatra si trova di fronte,
quella cioè di aver commesso un reato, comporta d'altra parte il rischio
opposto a quello terapeutico, rischio del "distanziamento moralistico" Ponti
sottolinea che nell'incontro terapeutico non psichiatrico non ha incidenza il
confronto fra due concezioni di vita, fra due morali che possono essere diverse.
Nel rapporto psichiatrico invece ciò può accadere, in quanto uno dei soggetti
coinvolti nella relazione ha commesso un reato, ha cioè infranto delle norme
che, pur in una situazione di confusione di valori com'è probabilmente quella
attuale, più o meno rispecchiano le nostre concezioni su ciò che è giusto e
ciò che non lo è. Anche chi ritenga di essere particolarmente anticonformista,
o non voglia imporre i propri valori morali e sociali, troverà comunque dei
comportamenti che non solo disapprova, ma che magari turbano profondamente il
suo senso di giustizia, ed è ovvio che prima o poi lo psichiatra si trovi di
fronte a soggetti che hanno messo in atto questi comportamenti. Tutto ciò non
è necessariamente giusto o sbagliato, è probabilmente solo umano, si tratta di
imparare a convivervi, distinguendo tra "morale" e
"moralismo". L'obiettivo ideale è, secondo Ponti, quello di trovare
un giusto quanto difficile equilibrio fra i compiti valutativi, la
consapevolezza del ruolo pubblico e delle conseguenze che esso comporta e la
disponibilità empatica, che sola può consentire la comprensione. La
duplicità del ruolo ha poi riverberi particolari sul problema del segreto
professionale dello psichiatra: esso potrà essere invocato solo quando il suo
ruolo è esclusivamente terapeutico. Quando invece il suo compito è quello di
fornire informazioni richieste dall'amministrazione della giustizia per
formulare programmi di trattamento o per la concessione delle misure premiali,
allora non può invocarsi il segreto professionale, pena il venir meno dello
scopo stesso del suo accertamento. E ciò ovviamente anche quando le
informazioni acquisite possono essere dannose al soggetto in esame. Altra
questione generale è quella che concerne la necessità di aver consapevolezza
del carattere relativo delle conoscenze in materia di personalità. Il problema
è comune a tutte le scienze dell'uomo ove la soggettività del giudizio gioca
un ruolo preponderante: Contrariamente
alle scienze mediche, nelle quali i margini di incertezza sono assai più
ridotti e dove esistono delle verità comunque accettate e riconosciute, sia
pure in modo transitorio e sempre modificabile, nella psichiatria e nella
criminologia le certezze sono pressoché inesistenti. L'esame retrospettivo del
perché la persona ha agito in un certo modo, dei moventi che hanno suggerito il
comportamento delittuoso trascorso, l'indagine sulle caratteristiche
psicologiche al momento dell'esame, sui propositi e progetti futuri, sono tutti
accertamenti gravati necessariamente da un margine di ineliminabile incertezza. Ciò
non vuol dire rinunciare in partenza alla ricerca di conoscenze, ma certamente
obbliga alla cautela, alla modestia, alla consapevolezza dei limiti dell'operare
psichiatrico. Ciò
vale ancor più nei giudizi di previsione del comportamento futuro, cioè nei
giudizi che concernono la pericolosità sociale, per i quali la prudenza è resa
obbligatoria non solo dalla relatività della conoscenza predittiva, ma anche
dalla consapevolezza delle rilevanti implicazioni che il giudizio comporta sia
per il soggetto che per la società. È
evidente quindi che la figura dello psichiatra che opera in ambiente
penitenziario sia caratterizzata da questioni deontologiche non indifferenti,
accentuate dalla duplicità di ruolo di cui egli è investito. È
però ovviamente difficile sdoppiare l'operatore nei due ruoli distinti, talché
è stato più volte auspicato, anche da Ponti e Merzagora, che le due funzioni
fossero effettivamente svolte da persone differenti, e non solo in momenti
diversi della loro attività. Questa netta differenziazione di funzioni è stata
prevista dalla legge nel momento in cui stabilisce che l'esperto facente parte
del collegio giudicante del tribunale di sorveglianza non possa operare in
carcere. Ragioni analoghe varrebbero qui, in quanto l'attività di fornire
informazioni è pur sempre attività di valutazione, anche se non strettamente
giudicante. Nel
momento in cui l'esperto effettua l'osservazione, quindi, l'ambiguità di ruolo
e la difficoltà dell'operare derivano dal fatto che la sua funzione si esplica
nell'ambiente carcerario, a stretto contatto con i detenuti, esposto a minacce e
pressioni provenienti spesso dalla stessa Amministrazione penitenziaria o dagli
altri medici penitenziari e contemporaneamente gli viene assegnata una funzione
valutativa. Egli può trovarsi perciò esposto alla necessità di effettuare
apprezzamenti negativi, con pesanti conseguenze sulla libertà del soggetto:
giudizi che non può evitare in questo ruolo perché è investito di una
funzione pubblica a lui richiesta a tutela della società, che deve essere
quella in definitiva in lui preminente. "Senza assumere atteggiamenti
preconcetti nei confronti del detenuto, dovranno prevalere la neutralità e
l'oggettività connesse al ruolo di rappresentante di valori sociali di cui in
questa fase lo psichiatra è investito". La
situazione si capovolge in un certo senso quando lo psichiatra agisce come
operatore del trattamento, quando cioè il ruolo clinico è quello preminente.
Gli obiettivi che l'operatore qui si pone sono quelli del recare aiuto, di
alleviare le sofferenze e le preoccupazioni, di supportare la persona di fronte
alle difficoltà che frequentemente gli si prospettano nel momento della
condanna, durante la carcerazione ed anche in vista dell'imminente reinserimento
nella vita libera. Questo tipo di attività comporta pertanto un atteggiamento
di completa disponibilità, di empatia e di alleanza terapeutica. Tale
intervento non può ovviamente essere imposto, ma si fonda sulla richiesta e
sulla libera accettazione da parte del soggetto. Al
di là di questi interventi di aiuto e sostegno o anche propriamente curativi,
lo psichiatra che stringe un'alleanza terapeutica non può però dimenticare di
essere anche investito della responsabilità di effettuare un intervento pur
sempre mirato a trattamenti correzionali, tenendo presenti i fini istituzionali
della risocializzazione. Come
sostiene Solivetti, la riabilitazione del detenuto, di una persona estremamente
sofferente perché priva del prezioso bene della libertà personale, non è però
compito che può riguardare esclusivamente l'Amministrazione Penitenziaria, ma
richiede l'impegno di tutte le forze sane della società per consentire che in
essa rientri colui che, con il delitto, se ne è allontanato. La
partecipazione di nuove figure professionali all'opera di rieducazione è la più
significativa espressione della sensibilità della società a tematiche fino a
qualche tempo fa del tutto trascurate, per il prevalere della concezione
custodialistica e del rifiuto del carcere perché considerato "altro"
rispetto al normale contesto sociale. Per
Solivetti si tratta, allora, di rendere la pena utile non solo per lo stesso
detenuto che la sconta, ma anche per la società che riacquista, a beneficio
dell'intera collettività, un nuovo soggetto profondamente diverso dall'uomo del
delitto. Al di là del valore retributivo della pena e al di là dei suoi fini
di sicurezza per la società, l'esperienza detentiva non può risolversi in un
parcheggio inutile o addirittura dannoso alla stessa società, della personalità
del reo. Nel convincimento che non sia sufficiente la carcerazione da sola ad
avviare un processo di riabilitazione, che oggi si configura quasi come
un'utopica auto-redenzione, tutti i mezzi a disposizione, sociali, scientifici e
legislativi debbono essere utilizzati al fine di permettere al detenuto il
reinserimento nella società. Secondo
alcuni autori l'impegno sociale e legislativo dovrebbe essere rivolto alla
costruzione di un nuovo patto sociale e di una nuova identità comportamentale
del detenuto. Concetto che rappresenta una radicale opposizione al principio,
sia morale che giuridico, che considerava inopportuno ogni intervento
psicologico o psichiatrico sulla personalità del detenuto, visti come violenza
sul libero arbitrio del carcerato. Personalmente
nutro delle forti perplessità al riguardo. Sono d'accordo infatti con Bandini e
Gatti circa il fatto che il trattamento inteso in senso tradizionale, e cioè la
trasformazione della personalità finalizzata ad ottenere un cittadino
rispettoso delle leggi, non soltanto è del tutto inutile, ma è anche
gravemente mistificante. E non solo inutili, ma addirittura dannosi sono gli
interventi psichiatrici rieducativi in conflitto con il libero arbitrio che ogni
uomo, in quanto tale, ha diritto ad avere. Nel
processo di rieducazione del condannato un ruolo più o meno importante a
seconda dei punti di vista è svolto dalla psichiatria. Ma se il fine della
psicoterapia consiste nell'annullamento della figura caratteriale, culturale e
comportamentale del soggetto, attraverso una regressione coercitiva, a quali
modelli potrà riferirsi il terapeuta per operare la sostituzione di valori e
referenti pretesa dai progetti trattamentali? Non
è mia intenzione affrontare qui il tema dell'osservazione e trattamento del
detenuto cui sarà completamente dedicato il prossimo paragrafo; vorrei invece
centrare l'attenzione sul ruolo dello psichiatra all'interno del carcere,
cercando di capire se spetta a lui rieducare, o se egli abbia invece compiti e
fini esclusivamente terapeutici. Molti
psichiatri penitenziari ritengono che il loro compito sia quello della diagnosi
e cura degli stati morbosi, nonché della prevenzione delle ricadute, con
l'obiettivo di minimizzare i danni che un sistema ingiusto produce a persone
socialmente sfavorite. Altri, a mio avviso un po' presuntuosamente, considerano
la rieducazione sociale un parto della riabilitazione psichiatrica, sostenendo
che per riabilitare una persona sia a livello psichiatrico che giuridico, sia
necessario suscitare in essa una passione che può nascere solo all'interno di
una relazione psicoterapeutica. Non
è allo psichiatra che spetta il difficile compito della rieducazione, semmai
all'istituzione penitenziaria nel suo complesso, attraverso le molteplici figure
professionali che operano all'interno di essa: Se
il termine rieducazione, nel concetto assunto dalla Costituzione, non può che
essere inteso come sinonimo di "reinserimento sociale", lo Stato non
può prendersi cura della morale dei cittadini se non in forma indiretta -
promuovendo in tutti i modi possibili l'osservazione delle proprie leggi- e in
senso sociale, cioè ponendo attenzione alla condotta esterna dei singoli e dei
gruppi ai fini di un'ordinata convivenza all'interno della società. L'opera di
rieducazione in uno Stato e secondo le leggi di uno Stato, va necessariamente
considerata come un'opera demandata alla società stessa attraverso l'aiuto che
questa deve offrire a chi è caduto nel delitto, anche a questi soggetti dovendo
estendersi l'impegno di sociale solidarietà fissato nella Costituzione. L'Ordinamento
Penitenziario all'art. 1 stabilisce che "nei confronti dei condannati e
degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche
attraverso contatti con l'ambiente esterno, al reinserimento sociale degli
stessi". L'inciso "anche attraverso contatti con l'ambiente
esterno" rafforza l'idea che si tratti di reinserimento sociale e non di
mera emenda morale o di riabilitazione psichiatrica. Quando poi la stessa legge
all'art. 15 stabilisce gli elementi del trattamento e li individua -oltre che
nell'istruzione, nel lavoro, nella religione, nelle attività culturali
ricreative e sportive- nell'agevolazione di opportuni contatti con il mondo
esterno, ancora una volta è chiaro che il trattamento rieducativo ha per scopo
precipuo ed essenziale la ripresa, un giorno, della vita all'esterno del
penitenziario, e cioè appunto il recupero del reo alla vita sociale. In
questo contesto ritengo che il compito dello psichiatra penitenziario sia quello
di recare cura e assistenza ai detenuti e non quello di rieducare. Curare
perché, come ho già detto, sono molti i disturbi psichici di cui soffrono i
condannati sia a causa delle stesse condizioni di vita all'interno del carcere,
sia per tutti quei disagi che in carcere trovano terreno fertile per sbocciare e
maturare. Assistere perché dopo un periodo di carcerazione, di allontanamento
forzato dalla vita collettiva non è semplice rientrare nella società ed un
supporto psicologico e psichiatrico può senz'altro essere d'aiuto nel tragitto
personale che ogni detenuto deve compiere per accettare il carcere, il limite e
soprattutto il contenimento che molti soggetti da soli non sono riusciti a
trovare. Solo
dopo tale conquista si può iniziare a parlare di rieducazione. Se l'obiettivo
della psichiatria non fosse quello di emendare la morale (deviante) di questi
soggetti detenuti, aspirando invece ad una riabilitazione che sia prima di tutto
psichiatrica, allora forse lo psichiatra potrebbe effettivamente portare un
valido contributo al processo di reinserimento sociale. La
necessità di svolgere una funzione intermedia fra i bisogni del detenuto e il
mandato repressivo e contenitivo del carcere è quindi alla base di tutte le
responsabilità che gravano sullo psichiatra penitenziario. Egli rimane colui
che da un lato non può ignorare la legalità, ma dall'altro comprende i motivi
che hanno portato allo sconfinamento nell'illegalità. Inevitabilmente egli si
troverà ad essere soggetto a pressioni e sarà coinvolto in una lunga serie di
scontri: con il personale militare, ad esempio, ma anche con gli altri medici
penitenziari che, pur avendo in comune con i primi lo stesso mandato
terapeutico, concepiscono il carcere in maniera diversa, ritenendo inconcepibile
parlare di sofferenza psichica e affettiva dei detenuti. Spesso
ho sentito dire dagli operatori penitenziari che per svolgere la propria
professione in un carcere bisogna tracciare delle linee di confine: solo
riuscendo a non farsi coinvolgere personalmente, infatti, si può sopravvivere.
Il ruolo dello psichiatra, invece, se adempiuto seriamente e con umanità, non
permette un distacco netto dalle vicende personali dei reclusi. Questo
farsi carico di grandi problematiche per offrire una progettualità di
ricostruzione personale al paziente, è senz'altro una delle più grosse
responsabilità che incombono sullo psichiatra. Ma non è certo l'unica; esse
sono numerose e pesanti, poiché il confine tra malattia mentale e normalità,
in certi casi, diventa molto labile. Pensiamo
alla decisione di presentare richiesta di ricovero esterno: allo psichiatra non
solo spetta il difficile compito di valutare se per il detenuto sia più
opportuno rimanere in carcere o essere ricoverato all'esterno, ma anche quello
di sfidare nel secondo caso l'organizzazione carceraria a causa del già
ricordato atteggiamento di resistenza dell'Amministrazione Penitenziaria che,
per motivi di sicurezza e di custodia, è restia ad effettuare ricoveri esterni. Non
dimentichiamoci, infine, che i detenuti fanno tante richieste, per vedere
soddisfatte le quali si dicono pronti a qualunque cosa. Minacciano di tagliarsi,
anche di uccidersi se non vedono il magistrato inquirente, se non ricevono la
visita urgente dello psichiatra, dal quale magari non vogliono altro che uno
psicofarmaco. In questa molteplicità di richieste e di minacce lo psichiatra
deve valutare i reali rischi e conseguentemente agire secondo coscienza ed
esperienza. Non tutto ciò che viene richiesto può essere concesso, e lo
psichiatra deve sapere o quantomeno decidere che cosa si può concedere e in che
misura. È
ormai a tutti noto che in carcere si verificano maltrattamenti e
"pestaggi" ai danni dei detenuti, indagini a livello internazionale
hanno messo in luce questo fenomeno. Pensiamoci un attimo: a chi il detenuto
picchiato griderà la sua rabbia e il suo dolore? Verosimilmente allo
psichiatra, deputato ad ascoltare e assistere, a farsi carico dei problemi e
delle sofferenze dei reclusi. E lo psichiatra? Si troverà di fronte
all'ennesima scelta: denunciare l'abuso perpetrato dagli agenti di custodia o
dai gradi più elevati dell'amministrazione, in nome della giustizia sì, ma
esponendo il detenuto al rischio di ritorsioni ancora peggiori per aver parlato
o, invece lasciar perdere - anche se sembra assurdo - nell'interesse del
detenuto, ritrovandosi poi a fare i conti con la propria coscienza? |