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Ogni istituto penitenziario è dotato di un servizio medico e di un servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone inoltre dell'opera di almeno uno specialista in psichiatria. Così stabilisce il Iº comma dell'art. 11 della legge 354/75 intitolato Servizio Sanitario, la cui esecuzione è regolata dagli artt. 17 e 20 del D.P.R. 431/76. L'articolo continua prevedendo che ove siano necessarie cure o accertamenti diagnostici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti, i condannati e gli internati sono trasferiti, con provvedimento del magistrato di sorveglianza, in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. A questo proposito va citato l'art. 7 del D.L. 14 giugno 1993 n. 187, convertito, con modificazioni, nella legge 12 agosto 1993 n. 296, recante nuove misure in materia di trattamento penitenziario. L'art. 7 (Servizio Sanitario) prevede che "in ciascun capoluogo di provincia, negli ospedali generali sono riservati reparti destinati, in via prioritaria, al ricovero in luogo esterno di cura, ai sensi dell'art. 11 della l. 354/75 e dell'art. 17 del D.P.R. 431/76, dei detenuti e degli internati per i quali la competente autorità abbia disposto il piantonamento. Alle cure e agli accertamenti diagnostici provvede la struttura ospedaliera, mentre alla sicurezza dei reparti ospedalieri destinati ai detenuti e agli internati provvede l'Amministrazione Penitenziaria mediante il personale del Corpo di Polizia Penitenziaria". Esiste all'interno di ogni istituto penitenziario un'organizzazione sanitaria, prevista dalla legge n. 740 del 1970 "Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell'Amministrazione penitenziaria" composta dalle seguenti figure professionali:
Infine, esistono all'interno degli istituti di più grosse dimensioni il SERT, cioè il Servizio per le tossicodipendenze (l'unica struttura interna al carcere dipendente dal Ministero della Sanità), e il Presidio tossicodipendenze e H.I.V. composto da medici e psicologi. All'atto d'ingresso nell'istituto i soggetti sono sottoposti a visita medica generale, allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche. Nel caso di sospetto di malattia psichica sono adottati senza indugio i provvedimenti del caso col rispetto delle norme concernenti l'assistenza psichiatrica e la sanità mentale (art. 11, 7ºc., l. 354). È evidente quindi che lo specialista in psichiatria, nell'esercizio della sua attività medica all'interno del carcere, viene ad instaurare una fitta rete di rapporti professionali con una serie di figure operanti sia all'interno che all'esterno dell'istituto: dai magistrati, gli educatori, le guardie mediche, i detenuti, i medici del SERT, gli psicologi del Servizio Nuovi Giunti, fino ai medici che lavorano nei Servizi esterni, quindi con la psichiatria operante sul territorio. Nell'analizzare questi rapporti per capire come opera la psichiatria all'interno di un istituto di pena, ho scelto di lasciare per ultima l'analisi del rapporto che lo psichiatra instaura col detenuto, non perché questo sia il meno importante, ma al contrario, perché lo ritengo il più interessante, il più ricco di implicazioni sociologiche, umanitarie e deontologiche. L'intervento dello psichiatra può essere richiesto da varie figure: dal Direttore dell'Istituto o dal medico incaricato che, avendo la responsabilità di visitare quotidianamente il detenuto ammalato, può accorgersi di eventuali disturbi o sofferenze psichiche che potrebbero essere più opportunamente valutate dallo psichiatra e quindi procede alla formulazione della richiesta di visita specialistica. Può essere anche lo stesso detenuto a chiedere un colloquio con lo psichiatra e se il medico incaricato accetterà la richiesta, prescriverà la visita specialistica. Ancora, l'intervento di quest'ultimo può essere richiesto dalla guardia medica nel caso di cosiddetta urgenza psichiatrica che Calzolari ha definito come "...quell'aspetto della psichiatria che include quegli stati comportamentali che, per sintomatologia, condizioni e modalità di comparsa e di evoluzione richiedono un intervento immediato volto ad alleviare e a risolvere, nel minor tempo possibile, uno stato psichico alterato". Ciò che caratterizza l'urgenza psichiatrica è la necessità di adottare provvedimenti tesi ad identificare e risolvere parzialmente o completamente una situazione clinica d'emergenza: Le misure intraprese in questo caso saranno ovviamente temporanee e spesso consistenti nella prescrizione di psicofarmaci; starà poi allo psichiatra riesaminare la situazione una volta superato lo stato di necessità e valutare se questo intervento d'emergenza debba essere seguito da una relazione terapeutica. È allo psichiatra infatti, che spetta il compito di decodificare il bisogno e articolare una risposta che tenga conto di tutte le variabili possibili, siano esse individuali o ambientali. Il passo seguente è concordare con il detenuto un progetto terapeutico, che preveda una presa in carico del soggetto, intesa come risposta alla persona e alla sua sofferenza. Considerato che nella maggior parte degli Istituti di pena italiani è prevista la presenza di un solo consulente psichiatra, al massimo due negli istituti di grosse dimensioni, è evidente come egli da solo non sia in grado di strutturare una frequenza settimanale d'incontro, "presupposto essenziale della psicoterapia", a favore di tutti i detenuti che presentano disturbi psichici. Così in molti istituti lo psichiatra finisce per assumere un ruolo assai riduttivo, quello di supporto psicofarmacologico per azioni di semplice contenimento. Spesso quindi si assiste ad una divisione dei compiti, in base alla quale lo psichiatra svolge le visite specialistiche e gli interventi di urgenza, limitandosi alla prescrizione degli psicofarmaci e segnalando invece allo psicologo la necessità di una relazione psicoterapica. È quindi evidente che l'organizzazione del sistema sanitario intramurario non permette ad un solo medico di realizzare una completa "presa in carico" dei problemi psichiatrici di un detenuto, il quale si trova di fatto ad essere visitato e curato da più medici. Ciò è spesso dannoso non solo per il detenuto, al quale viene in questo modo preclusa la possibilità di instaurare un rapporto di fiducia con un solo medico, ma anche per gli operatori sanitari costretti ad uno spreco di energie determinato da una inutile sovrapposizione di competenze riguardo allo stesso paziente. Come dicevo all'inizio di questo paragrafo, la legge prevede la possibilità di ricovero in ospedale civile o in altri luoghi esterni di cura. Tale connessione con il servizio psichiatrico esterno appare, però, ancora incerta e non sufficientemente organizzata. Ciò soprattutto per due motivi: il primo è costituito dal fatto che i piantonamenti in luogo esterno di cura gravano sul Corpo di Polizia Penitenziaria la cui insufficiente dotazione di organici è ben nota. Il secondo è dovuto alle "costanti e forti resistenze opposte da quasi tutti i servizi psichiatrici territoriali al ricovero ospedaliero di detenuti infermi di mente, anche nell'ipotesi in cui costoro siano stati cronicamente in cura presso quei medesimi servizi fino al momento del reato e del conseguente arresto". Però, dobbiamo riconoscere insieme al dott. Jannucci, psichiatra responsabile del carcere di Sollicciano, che, se da un lato riscontriamo questo atteggiamento di disinteresse nei servizi psichiatrici territoriali, dall'altro non possiamo trascurare la tendenza dell'apparato giudiziario ad usare il carcere come luogo di cura. Una tendenza che non è determinata soltanto dalla difficoltà di applicazione pratica delle norme del Codice di Procedura Penale o dalla inevitabile inclinazione del magistrato a comminare una pena al reo anche quando costui sia "infermo di mente"; né dalla percezione che il carcere si sta effettivamente e sempre più trasformando in un luogo di cura. Tale tendenza è da imputare semmai anche e soprattutto alla mancanza di un'organica e costante collaborazione tra psichiatri e giudici, alla mancanza di una comunicazione tempestiva ed efficace. La maggior parte degli operatori penitenziari afferma di aver assistito solo molto raramente all'applicazione degli articoli del Codice di Procedura Penale posti a tutela dell'imputato infermo di mente, in particolare degli artt. 73 e 286 (di cui ho ampiamente parlato nel paragrafo precedente). I suddetti articoli ed altri ancora (come gli artt. 70 e 71) sembrano presupporre una profonda e costante collaborazione tra gli psichiatri penitenziari e la magistratura, un tempestivo circolare di notizie che, per il momento, è assai lontano dall'avvenire. Al di fuori dei casi previsti di collaborazione con la Sezione di sorveglianza per l'applicazione delle misure alternative, l'attività del giudice -e in particolare quella in sede di giudizio penale- rimane quasi sempre priva dell'apporto che potrebbe venire dalla collaborazione con il personale specializzato previsto dalla riforma. Non molto più intensa è la collaborazione che la psichiatria penitenziaria riesce ad instaurare con il Servizio Tossicodipendenze (SERT). L'attività svolta dai medici del SERT nel carcere, oltre ad essere rivolta alla prevenzione, cura e riabilitazione dei detenuti tossicodipendenti, dovrebbe essere rivolta anche a favorire il colloquio di questi soggetti, ormai privi di segni fisici di astinenza, con il personale dell'area sociale (per i programmi di reinserimento sociale e per una riabilitazione post-detentiva o per la concessione di misure alternative) e dell'area psicologica (per il contenimento del disagio psichico e per la formulazione di un progetto di recupero). Non sempre però ciò accade. La legge 162 del 1990 prevede la possibilità per ogni Istituto penitenziario di stipulare, attraverso il Ministero di Grazia e Giustizia, una convenzione con la Regione di appartenenza per attivare il Servizio Tossicodipendenze delle Unità Sanitarie Locali all'interno del carcere stesso. L'art. 27 della legge 162 stabilisce che il Ministro della Sanità, di concerto con il Ministro per gli Affari Sociali, determina con proprio decreto l'organico e le caratteristiche organizzative e funzionali dei servizi per le tossicodipendenze da istituire presso ogni Unità Sanitaria Locale. Nel far ciò, il decreto dovrà uniformarsi ad alcuni criteri direttivi, uno dei quali stabilisce che l'organico dei servizi deve prevedere le figure professionali del medico, dello psicologo, dell'assistente sociale, dell'infermiere, dell'educatore professionale e di comunità, in numero necessario a svolgere attività di prevenzione, di cura e di riabilitazione. Di poco successivo alla legge 162, il D.M. n. 444 del 30/11/90 stabilisce all'art. 2 lett. c) che le UU.SS.LL. si avvalgono dei SERT per la collaborazione con il servizio sanitario penitenziario ai fini degli interventi di cura e riabilitazione a favore dei detenuti tossicodipendenti, nell'ambito dei programmi concordati dalle UU.SS.LL. stesse con gli istituti di pena, ai sensi degli artt. 84 e 101 della legge 22/12/1975, n. 685. All'art. 6 del D.M. 444 è previsto l'organico del SERT e l'assegnazione del personale per l'assistenza ai detenuti. Tale organico però, essendo determinato in base alla "capienza" di ogni carcere e non in base alla reale "presenza" di detenuti, risulta insufficiente a garantire un buon livello qualitativo di assistenza. Faccio un esempio: la capienza del carcere di Sollicciano è di 404 detenuti (considerate sia le sezioni maschili che quelle femminili); in base ad un rilevamento al 31/10/97 le presenze nel carcere fiorentino arrivano a 962 detenuti (considerati anche i semiliberi). Si capisce che la previsione di un organico idoneo a coprire le esigenze di 404 detenuti circa, non potrà fronteggiare adeguatamente le esigenze di un numero di detenuti che sono più del doppio di quelli previsti. La previsione di un organico insufficiente e come tale non in grado di strutturare un'efficace "presa in carico" delle innumerevoli esigenze, è considerata da moti medici penitenziari, la causa principale della mancata collaborazione fra il SERT e gli altri operatori, compresi i medici psichiatri. La visita medica sistematica, effettuata all'ingresso sui nuovi giunti, ha lo scopo di individuare il tossicodipendente, la droga che egli usa, la durata della sua dipendenza così come le turbe somatiche e psichiche che la consumazione regolare della sostanza ha potuto determinare, nonché le conseguenze sul modo di vita, il contesto sociale e i legami con il gruppo. Essa mira, altresì, a prevedere il sopravvento di complicazioni, delle quali la prima manifestazione è la sindrome di astinenza. I consumatori di sostanze stupefacenti così individuati, vengono inviati al Servizio per le tossicodipendenze. Più precisamente, accedono agli ambulatori del SERT tutti coloro che dichiarano il proprio stato, pregresso o in atto, di tossicodipendenza da oppiacei o riferiscono di abuso di sostanze illecite. Poiché intercorrono almeno alcune ore tra l'ingresso in Istituto e l'accesso al SERT, molti soggetti si presentano con una sindrome da astinenza conclamata, in presenza della quale viene attuato il protocollo di detossicazione a scalare con farmaco sostitutivo. Gli psicofarmaci vengono concordati dallo psichiatra e dai medici del SERT e prescritti solo ove necessario, seguendo il criterio della "posologia minima indispensabile" e per il periodo strettamente necessario a superare la fase critica, alla fine della quale lo stesso medico procede a stilare un programma di detossicazione psicofarmacologica mediante graduale riduzione della posologia fino ad azzeramento. Che i tossicodipendenti rappresentino una parte consistente della popolazione carceraria, è un dato statisticamente provato, ma quanti di questi soggetti soffrono di un disagio psichico? Secondo la dott.sa Trotta, medico psichiatra vice responsabile Sert di Firenze, essi sono molti; tale fenomeno riconosciuto in letteratura ormai a livello internazionale, stenta invece ad essere riconosciuto nella pratica, dal momento che secondo la nostra legge (art 6 D.M. 444 del 39/11/90) non è necessaria la figura dello psichiatra all'interno del SERT, essendo la laurea in psichiatria semplice titolo preferenziale, nella valutazione del curriculum formativo, al pari di altri titoli conseguiti nelle discipline di farmacologia medica, tossicologia e medicina generale. Alcuni specialisti in psichiatria, come il dott. Jannucci e la stessa dott.sa Trotta, parlano di "psichiatrizzazione della tossicodipendenza" ad indicare come, alla base dell'assunzione di sostanze stupefacenti, ci sia molto spesso, un disagio psichico o, più semplicemente, un disturbo di personalità o di autostima, che porta il soggetto a rifugiarsi nella sostanza stupefacente per sfuggire a problemi più o meno evidenti di natura psichica. Tutto ciò, a mio avviso, comporta il rischio di giungere ad estreme ed infondate generalizzazioni. Sono infatti d'accordo con chi ritiene che la tossicodipendenza è trasgressione e la trasgressione è devianza, non disturbo psichico. Rimane comunque vero che un soggetto dedito all'uso di sostanze stupefacenti può avere problemi di natura psichica ed una semplice terapia metadonica può non essere sufficiente. Ed è a questo punto che dovrebbe intervenire l'opera dello psichiatra, considerato che l'attuale struttura del SERT (che, ripeto, non prevede come obbligatoria la presenza dello specialista in psichiatria), non consente la presa in carico a livello psicoterapeutico dei detenuti tossicodipendenti. "Là dove il tossicodipendente ha un problema psichico alle spalle, è sicuramente pericoloso ed inutile, dal punto di vista della riabilitazione del detenuto, effettuare un trattamento farmacologico o metadonico sostitutivo della sostanza con l'intento di detossicare il soggetto, se ad esso non fa seguito un attento progetto di ascolto e di recupero". Un'agile collaborazione manca anche con il Servizio Nuovi Giunti, di cui parlerò più approfonditamente nel 7º § della prima parte. Per il momento vorrei solo evidenziare che tale Servizio è effettuato non da medici psichiatri, bensì da psicologi i quali visitano tutti i nuovi giunti per cogliere e prevenire eventuali intenti autolesionistici e suicidari. Lo psichiatra è chiamato ad intervenire solo laddove lo psicologo ravvisi una situazione di sofferenza psichica tale da far temere un tentativo di suicidio. In tutti gli altri casi lo psichiatra non interviene. Ho discusso il problema del rapporto fra Servizio Nuovi Giunti e psichiatra con alcuni psichiatri del carcere di Prato e di Sollicciano. Molti di loro hanno affermato che fondamentale per la riuscita di tale servizio è il livello professionale di preparazione e di esperienza dell'esperto che lo conduce, lamentando il fatto che esso venga appunto svolto da psicologi e non da psichiatri che meglio potrebbero valutare eventuali connessioni cliniche. Molti dei medici con cui ho parlato hanno affermato che spesso viene richiesto il loro intervento per casi, a loro giudizio, non gravi e soprattutto non bisognosi di cure farmacologiche o psicoterapiche. Al contrario si sarebbero verificati casi in cui essi non sono stati chiamati e per i quali l'intervento psichiatrico era a dir poco necessario, tanto che, se fosse stato effettuato tempestivamente avrebbe potuto impedire il verificarsi di tragici eventi suicidari. Appare evidente quindi come la psichiatria penitenziaria sia ostacolata nella propria attività dall'assenza di un'agile collaborazione sia con i Servizi interni che con quelli extra-carcerari. Tutto ciò si ripercuote ovviamente sull'operato dei medici psichiatrici, ma soprattutto sui detenuti. Molti psichiatri penitenziari ritengono che sarebbe più utile, sia per la società che per il detenuto, che egli venisse prima curato in carcere e poi, una volta libero, che fosse seguito dai servizi territoriali, in modo tale da non rendere vani tutti gli sforzi compiuti durante la detenzione per uscire dal tunnel della malattia e ricadere in breve tempo negli stessi problemi psichici, o più semplicemente comportamentali, che lo avevano spinto a delinquere e che lo avevano portato in carcere. Molti lamentano che lo psichiatra si trova ad essere diviso tra vocazione medica da una parte, e i mandati contenitivi e repressivi propri dell'istituzione carceraria dall'altra, correndo un duplice rischio, quello di identificarsi con il detenuto e di colludere pericolosamente con lui, individuando nell'orientamento punitivo dell'istituzione e nei tratti sadici del personale, l'obbiettivo primario del proprio lavoro, attraverso una perversa alleanza terapeutica con il detenuto, e il rischio opposto, cioè di identificarsi a sua volta con le tendenze punitive dell'ambiente. Un ulteriore rischio per lo psichiatra penitenziario è rappresentato dal burn out (tracollo conseguente a scoraggiamento) che deriva dalla constatazione della scarsa incisività del lavoro svolto, sia per la rigidità dei sistemi carcerari, sia per la difficoltà di avviare un reale cambiamento nei detenuti. È in questo difficile contesto che lo psichiatra deve svolgere la propria attività. Egli però non può e non deve allontanarsi dalla relazione clinica, per quanto essa sia difficile da stabilire e mantenere all'interno del carcere. Spesso accade che il lavoro clinico nel carcere corra il rischio di appiattirsi in una sorta di routine terapeutica, dove i linguaggi diventano sbrigativi e superficiali, le descrizioni si fanno sommarie e le risposte consistenti prevalentemente in prescrizioni di psicofarmaci. La conseguenza inevitabile di tutto questo può essere proprio la scomparsa di una figura che faccia da interlocutore alla sofferenza psichica del paziente detenuto, venendo meno aspetti relazionali quali l'ascolto e il prendersi cura, caratteristici ed essenziali dell'essere medici terapeuti. Non raramente lavorare in carcere significa occuparsi di persone che sono state respinte prima dalla società, la quale le ha emarginate escludendole per esempio dal mondo del lavoro, e poi dal carcere stesso non appena la capacità di convivenza entra in crisi (pensiamo ai rapporti gerarchici che vengono a crearsi all'interno non solo del carcere nel suo complesso ma anche nelle singole celle: essere esclusi da tali rapporti può voler dire preparasi a spiacevoli contrasti). La psichiatria pertanto non può a sua volta respingere il deviante, "rappresentando per lui un baluardo estremo, un argine terapeutico e conoscitivo, nonché il punto d'incontro in cui il sistema sociale e i circoli viziosi che hanno contribuito a creare la follia e la devianza si aprono alla comprensione e alla ricerca". In carcere anche l'osservazione clinica non può mantenere invariate le caratteristiche che assume all'esterno. Il medico opera all'interno di un ambiente artificiale creato dalla collettività per gli individui cosiddetti asociali ed è consapevole di rappresentare, agli occhi del recluso il medico del sistema, un collaboratore della stessa Autorità che lo ha condannato. Dovrà di conseguenza farsi accettare e la sua disponibilità dovrà essere più intensa perché il detenuto è diffidente, vive in una comunità coatta ed è portato ad ingigantire segni e stimoli e ad interpretarli con reattività in parte utilitaristica, ma principalmente su base ansiosa. Scrive Ceraudo: I detenuti, generalmente, non si sottopongono volentieri a un trattamento psichiatrico. Strutturalmente impazienti, indubbiamente impacciati dal loro senso di orgoglio, non amano essere considerati pazienti, non amano ammettere di aver bisogno di una terapia. Ci sono però talune circostanze che favoriscono l'instaurarsi delle relazioni terapeutiche. Una di queste è certamente costituita dalla capacità del terapeuta di ispirare una passione ricostruttiva nel suo paziente, di tradurre, in lui, la forza trasgressiva da distruttiva in costruttiva, da ostile in amichevole. Uno degli elementi fondamentali in ogni psicoterapia, sia individuale che di gruppo, è infatti la fiducia e la speranza nello psichiatra; senza di esse non vi è alcun motivo perché il detenuto si affidi al terapeuta. L'instaurarsi di un rapporto di fiducia è complicato dal fatto che lo psichiatra fa parte di quel sistema che cerca, deliberatamente, di infliggere sofferenza al criminale. È necessario il raggiungimento di un grado estremo di fiducia, da parte del detenuto, per poter credere che un rappresentante del sistema penitenziario, il quale, di solito, è punitivo, possa avere il potere di guarire. L'empatia e il supporto positivo offerti dal terapeuta nella maggior parte delle forme di psicoterapia sono, di per se stessi, di aiuto. È anche vero che i pazienti hanno poca probabilità di sperimentare nuovi e più adatti comportamenti finché non abbiano sviluppato una relazione positiva e fiduciosa con lo psichiatra. L'incontro psicoterapeutico con il paziente-detenuto, non può che essere collocato in un "setting" specificamente orientato e significativo sul piano relazionale. Fuori dal carcere le possibilità esperienziali del paziente sono più ampie che all'interno. Qui, infatti, ciò che viene elaborato nella relazione terapeutica ha la possibilità di essere "re-sperimentato" solo in un campo molto limitato. Le elaborazioni emotive presenti nel paziente possono essere trattate in carcere soltanto a livello di rappresentazione mentale, senza la possibilità di sperimentare tali rappresentazioni nella vita quotidiana. Tutto ciò che sta fuori dal carcere e che ha fatto la biografia del paziente, viene riportato come ricordo, come mancanza, difficoltà, allentamento dei rapporti che, per lunghi periodi di detenzione, possono risultare anche distrutti. In carcere, infatti, è difficile ricreare situazioni di particolare intimità terapeutica. Lo spazio dell'incontro terapeutico, di per sé appartato e tendenzialmente isolato dallo spazio sociale e culturale esterno, non può che essere relativo in carcere, dove invece diventa paradossalmente realizzabile un isolamento massiccio determinato dal reato e dalla pena. Esistono esigenze e necessità di sorveglianza e di controllo: spesso i colloqui vengono fatti a porta aperta, a volte alla presenza del personale di Polizia Penitenziaria, o nella migliore delle ipotesi, in stanze dotate di vetri alle porte o alle pareti per consentire il controllo visivo. Per concludere, se è vero che il detenuto non può scegliere un medico di fiducia (salvo il caso in cui lo faccia a proprie spese come prevede l'art. 11 della l. 354/75), è anche vero però che spesso lo spirito filantropico ed umanitario di alcuni medici psichiatri, ha fatto sì che si instaurasse un rapporto di completa fiducia. Da molti, non solo tossicodipendenti, lo psichiatra è visto come dispensatore di psicofarmaci, colui che a ragione delle proprie qualità umanitarie è facile e vantaggioso cercare di commuovere. Spesso però questo iniziale atteggiamento dei detenuti si risolve, come dicevo, in una fiducia cieca e leale nello psichiatra, in grado di elaborare un rapporto in cui ciò che conta è la relazione terapeutica. Vorrei concludere questo paragrafo dedicato all'analisi delle problematiche che investono la psichiatria penitenziaria, con le parole del Dott. Jannucci, registrate durante un intervento al Iº Congresso Nazionale AMAPI di Psichiatria Penitenziaria tenutosi a Parma nell'ottobre 1993. La
Psichiatria, come branca specifica del sapere medico, nasce dalla costola della
Giustizia. Origine, questa, che non è rimasta senza effetto sulle relazioni tra
i due organismi: con un pendolarismo pieno di senso, abbiamo assistito ad un
alternarsi di dialoghi amorosi e di arroccamenti diffidenti e risentiti.
L'asintotico spostamento della Psichiatria dalla parte del comprendere, con il
crescente abbandono di quelle zone clinico-teoriche nelle quali la questione del
"controllo sociale" tiene un posto di rilievo, ha creato uno
strozzamento progressivo e insanabile del cordone ombelicale che la lega alla
Giustizia. Ma è anche quella Giustizia sempre più dimentica, sempre più
incline a spostarsi dalla parte delle azioni, sempre più affannata a ricercare,
attraverso queste azioni, un "controllo sociale" che sembra invece
progressivamente sfaldarsi, è anche quella Giustizia a rifuggire da un terreno
sul quale un utile dialogo con la Psichiatria potrebbe avvenire.
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