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Psicoterapie di gruppo nell’O.P.G. di Aversa
"Quando entrai per la prima volta in Ospedale Psichiatrico Giudiziario era di febbraio e faceva molto freddo. Ero laureato da poco più di due anni e quello era il mio primo lavoro seriamente retribuito che concretamente mi si offriva: ero stato molto in dubbio, sentendo anche le preoccupate raccomandazioni di mio padre, che mi avrebbe visto meglio come medico scolastico che come "alienista"; ma alla fine vinse il desiderio (si era molto giovani) di potersi migliorare dedicandosi alle miserie umane, per cui la scelta divenne quasi obbligata. La visita iniziatica dei "reparti" che praticai con un vice direttore anziano mi depresse e preoccupò: l’istituto, allora, era popolato da quasi ottocento ricoverati, di cui un quarto di falsi matti, cioè di delinquenti comuni che avevano scelto la via della follia riconosciuta per poter evitare la galera, e per il resto da una popolazione lacera e invecchiata, alla perenne ricerca di una sigaretta. I primi godevano inevitabilmente di benefici che i secondi neanche supponevano esistere: stanze singole, con lenzuola colorate e la macchinetta del caffè sempre carica, foto di familiari o di play girl attaccate ai muri, ed una specie di rispetto impaurito da parte di tutti, agenti di custodia e medici compresi. I secondi alloggiavano in stanze multiple, si rubavano i vestiti tra loro e spesso venivano legati quando alzavano la voce. Anche i falsi matti venivano legati, ma sempre su loro richiesta e quasi sempre in occasione di un processo o di una traduzione, ed i legacci erano spesso larghi, tanto da permettere addirittura loro di fumare ogni tanto una sigaretta, magari dopo il caffè. Gli infermieri in camice bianco si confondevano con le divise allora grigie degli agenti di custodia, i farmaci convivevano con i muri di cinta con sentinelle armate, ed io non capivo se mi trovavo in un carcere o in un ospedale: era il manicomio criminale, insomma, o, come aveva iniziato a chiamarsi, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, che all’epoca (era il 1980) stava uscendo da storie spaventose, come direttori- suicidi e scandali forensi, ricoverati incendiati su letti di contenzione e morti sospette. L’innegabile contraddizione mi era già allora sufficientemente chiara, in quanto a soggetti colpevoli di reato e riconosciuti malati di mente e quindi non imputabili secondo legge, non veniva applicata una pena, ma una cosiddetta misura di sicurezza, che evitava il carcere ma offriva un luogo che di curativo proponeva solo il controllo, rappresentando dunque non tanto una cura per i malati che vi alloggiavano, ma piuttosto un rimedio per una società egualmente malata che curava se stessa con la chiusura istituzionale e penitenziaria: ore d’aria e Serenase, regime carcerario e sorrisi di cappellani stanchi, domandine scritte al Direttore e schiavettoni per le traduzioni. I pazzi veri, infatti, erano gente che aveva perso, oltre il senno, tutto quello che possedeva, dalle famiglie al lavoro, dalle case alla dignità. Il dubbio era quello se sentirsi e comportarsi da funzionari dello stato, con leggi e codici applicati alla lettera e tranquillizzante burocrazia, oppure sentirsi quello che si era, cioè medici, e pure psichiatri, al comando o quasi di una struttura che serviva a tamponare le falle giuridiche e penitenziarie, che per uno strano scherzo legislativo erano dirette appunto da sanitari, e non da direttori di carcere. Iniziammo quindi tentativi di trattamento, insieme ad educatori motivati ma insoddisfatti e agenti alla soglia della pensione, affittando pullman e compiendo le prime gite con i ricoverati, le prime uscite dopo anni per qualcuno, e ci serviva a valutare il grado di ripresa del paziente: se al ritorno ringraziava servizievole della bella giornata trascorsa, allora non c’era più nulla da fare per quello, ma chi al ritorno si incazzava sul serio, e diveniva litigioso, e tentava di farsi male, ecco quello era sicuramente una persona ancora viva, ed utile e vitale. Negli anni i ricoverati diminuirono assai, sia perché attuammo un piano di evacuazione con giusto affidamento alle strutture territoriali di salute mentale dei loro luoghi d’origine, sia perché i "camorristi" disertarono l’Opg in quanto la legge Gozzini dava loro più chance. Restarono e restano due tipi di matti: i pericolosi ed i diseredati. I primi sono la nostra sconfitta, soprattutto perché sono quelli su cui abbiamo perso la speranza di poterli reintegrare, e già questa considerazione è di per sé troppo dogmatica per non essere criticabile, ma queste sono persone che uccidono e stuprano, e la funzione di difesa sociale credo sia una delle poche che valga la pena di rispettare. Restano i diseredati, povera gente che sta in OPG magari perché denunciati da familiari stanchi di fallimenti terapeutici, di cure e violenza in casa, e che sporgono denuncia per maltrattamenti in famiglia, o gente che è stata dimenticata lì da anni da familiari amnesici e Servizi di salute mentale inesistenti. Strana analogia: anche i Manicomi Giudiziari hanno il loro "residuo manicomiale", come le strutture psichiatriche civili che a volte invidiamo perché hanno maggiori possibilità di evoluzione, e quest’ultimo è e rappresenta la possibilità di trasformare il Manicomio Giudiziario in Ospedale Psichiatrico, cioè di intervenire finalmente da medici ed operatori sociali, con la possibilità concreta di attuare un progetto su cui lavoriamo da anni: come ad esempio la possibilità di costituire cooperative di lavoro con i nostri ospiti, che possono interessarsi di lavori coerenti col proprio retroterra culturale, e socialmente utili, come cooperative di giardinaggio o agricole. O ancora di creare canali comunicanti tra l"’interno" e l"’esterno", realtà che tendono ad ignorarsi tra di loro con una strana sottile nostalgia che li unisce, e con la nostra chiara consapevolezza che le condizioni di segregazione istituzionale sono tra i più efficaci e potenti fattori di regressione psichica. E tutto ciò diventa sempre più difficile per le difficoltà prodotte da un "esterno" timoroso e spesso ipocritamente filantropico, ed un "interno" burocratico dove è fondamentale che "le carte siano a posto", indipendentemente da azioni o risultati: ciò produce ulteriori ambiguità, per cui l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario viene considerato alternativamente un carcere o una struttura sanitaria a seconda di chi decide di giudicare, impedendo migliorie qualitative di vita ("E' una struttura penitenziaria") o rinfacciando il ruolo segregante ("Si tratta di poveri malati"), tanto che spesso noi operatori pensiamo, nei nostri momenti depressivi, che siamo lì per funzionare da capri espiatori di magistrati o ispettori ministeriali, giornali in cerca di scoop o politici in cerca di voti. L’unica realtà, comunque, è che da anni, dopo le levate di scudi dei decenni precedenti, non si parla più della possibilità di superamento degli OPG, né tantomeno si ipotizza un progetto che preveda la possibilità legislativa di modificare legislature indietro nei tempi e in qualche modo antiscientifiche. Rimangono solo loro, i matti e criminali, ultimo gradino di una umanità deportata e inconsapevole." Così scriveva, ad un anno dalla sua nomina, dopo lunga militanza come vicedirettore, l’attuale gestore sanitario ed amministrativo dell’O.P.G. di Aversa. Il suo lavoro, supportato dal principio secondo il quale l’atto deviante e delittuoso commesso da un malato mentale va inteso come ultimo grido di aiuto, si è sviluppato in direzione di un clima privilegiante un’area terapeutica - riabilitativa che permetta ed agevoli lo sviluppo comunicazionale e spazio - temporale dell’individuo. La condizione di vita degli internati, fino a qualche anno prima era pietosa ed assurda. Trattati con massicce dosi farmacologiche, spesso in situazione di contenzione forzata ed identificati con numeri, vivevano in situazioni igieniche precarie, con vitto di terz’ordine, ma soprattutto in un totale isolamento inter, e forse anche intrapersonale. Questa condizione di vita sicuramente non dava alcun spazio alla comunicazione ne alla relazione, favorendo, anche a chi era meno compromesso, il peggioramento della propria condizione psico-fisica. Con lo scopo, allora, di restituire spazi che favorissero i contatti relazionali, privilegiando e sostenendo la funzione comunicazionale nella componente spaziale e temporale per agevolare qualsiasi tipo d’espressione, si è lavorato in questi ultimi tre anni, ed ancora lo si sta facendo, in questa direzione. L’idea di avvicinarsi alle terapie di gruppo, o meglio ad attività gruppali, inizialmente nacque dal volere sperimentare tecniche psicodrammatiche, di cui il dott. Ferraro è esperto. Vennero organizzati gruppi di tipo psicodrammatico nel teatro dell’istituto, ma le forti risposte emotive suscitate da questo tipo di tecnica e gli incontenibili frequenti acting-out agevolati negli attori coinvolti, fecero decidere la recessione verso direzioni terapeuticamente più contenitive, che rispettassero soprattutto i tempi dei pazienti. Si passò così a sperimentare dei gruppi di ascolto, organizzati in uno spazio semiaperto, molto somigliante ad una piazza di paese. Fu allestito un bar con tavolini, dove era possibile sostare tutta la mattinata, per leggere il giornale, favorire la comunicazione e soprattutto ascoltare. Questa nuova dimensione favorì e stimolò molto velocemente la comunicazione, nella ri-creazione di uno spazio familiare e nel rispetto dei tempi dei ricoverati. Le dimensioni individuate di spazio, tempo e relazione potevano e dovevano ora essere sviluppate in direzione di un sempre maggiore coinvolgimento terapeutico. Si venivano, pian piano, ad ottenere i primi successi e miglioramenti sviluppando la comunicazione, le relazioni ed il confronto. Pazienti particolarmente mutacici ed autistici venivano fuori dal loro isolamento per confrontare la propria realtà con quella degli altri, verso la direzione della risocializzazione. Bisognava allora favorire e sviluppare l’espressione in tutte le sue dimensioni, anche fra i più psicologicamente compromessi e chiusi nella propria malattia; fra i deliranti, gli allucinati, gli ebefrenici o i catatonici, in accordo con Bleuler secondo il quale "per la schizofrenia l’unica terapia da prendere sul serio è quella psichica". Si pensò, grazie alla collaborazione esterna della dottoressa Mancini, studiosa ed esperta dei linguaggi per l’espressione e la comunicazione, di allestire un Laboratorio di espressione con il colore, per sperimentare una nuova possibilità comunicativa, coinvolgendo nuovi e diversi gruppi di pazienti privilegianti questo tipo di espressione. I risultati furono interessanti. Si incominciava a far recuperare ai pazienti spazi di libera comunicazione all’interno di un ambiente dove la reclusione annulla l’identità dell’individuo e ne nega l’espressione, individuando precisi interventi con funzioni riabilitative. Parallelamente si lavorava non solo sui pazienti ma su tutta l’istituzione, cercando di apportare, con modifiche sul regolamento interno, lenti ma continui cambiamenti anche in altre aree. Veniva abolito il servizio di sorveglianza sulle torrette del muro perimetrale, mentre contemporaneamente si lavorava all’istituzione di corsi di formazione psico-sanitaria per il personale di custodia. La partecipazione di tutte le figure operative dell’istituzione alle attività terapeutico-riabilitative, in qualità di osservatori partecipanti, agevolava la possibilità di "sgonfiare le tensioni", migliorando la convivenza quotidiana, istruendo all’ascolto e alla comprensione. Venivano organizzati reparti pilota di "socioterapia trattamentale" completamente gestiti dai ricoverati con l’ausilio del solo personale sanitario paramedico, e senza la presenza del personale di Polizia Penitenziaria. Si sperimentava poi ogni tipo di riabilitazione facendo organizzare e partecipare i ricoverati ad ogni tipo di spettacolo musicale, teatrale, ricreativo o sportivo. Si tentava l’apertura all’esterno, permettendo sempre più spesso l’ingresso della "gente comune" all’interno dell’istituto con visite al museo e all’area verde, visione agli spettacoli, partecipazione alle feste, al fine di sensibilizzare ed istruire la pubblica opinione circa quel luogo pre-giudicato contenitore solo di orrori e brutture. Tutto ciò ha trasformato in pochi anni un luogo di chiusura e di negazione in un progetto di cura e riabilitazione, in cui è possibile sperimentare nuove ipotesi di rieducazione sociale, come stanno a dimostrare i successi ottenuti negli ultimi anni. È una convinzione, questa, interpretabile dalle parole stesse dei ricoverati. Queste, durante l’ultimo convegno di studi nazionale sul tema dell’"espressione negata", tenutosi proprio ad Aversa nel Novembre del 1999, così si articolavano nell’intervento di un ricoverato: "Dopo innumerevoli lotte civili e democratiche, negli istituti psichiatrici giudiziari si è raggiunto un livello di solidarietà veramente eccezionale. Soprattutto nel suo lato umano e comprensivo. Sono riusciti ad ottenere e conquistare, grazie soprattutto al consenso delle autorità Ministeriali Direzionali, Giuridiche e di Vigilanza, un grande e fortissimo ruolo di primo piano. Da oltre un decennio gli O.P.G. ormai tendono con enormi sforzi reciproci a recuperare l’individuo, il malato, a migliorare le sue condizioni di vita e la sua rieducazione civica e morale. Non è più sottovalutato il suo reinserimento sociale, ma è sempre in azione e in attività con grandi risultati e soddisfazioni, soprattutto grazie agli operatori. Vi sono grandi possibilità di lavoro, cure psichiatriche e mediche di ogni livello, grandi ristrutturazioni, reparti più moderni e confortevoli. I rapporti con tutto il personale medico, paramedico e di sorveglianza sono molto più distesi. Gli operatori nutrono verso il malato un grande interesse morale e civico per il suo inserimento nella società, compito assai arduo e difficoltoso. Non dimentichiamo ne sottovalutiamo che negli O.P.G. vi sono delle patologie mentali molto gravi e croniche che richiedono cure molto efficaci, molto lunghe e da un punto di vista psichiatrico un grande senso della responsabilità. Ci sono, cosa assai gradita dai ricoverati, molteplici attività, come ad esempio: attività teatrale, musicale, scuola, area verde, calcio nella buona stagione, spettacoli, manifestazioni culturali, gite ed anche la pittura. Inoltre non deve mai essere trascurato e sottovalutato l’aspetto giuridico… il più determinante. Dove il ricoverato veramente meritevole, sotto ogni profilo educativo, comportamentale e psicomentale, può ottenere dei notevoli benefici giuridici, di enorme importanza per l’eventuale dimissione, in futuro, dall’Istituto. Nell’obiettività dell’opinione personale, tutto questo non si può trascurare né sottovalutare, né passare inosservato… anzi, tutt’altro. Oramai è veramente una realtà; è cambiato, si è trasformato l’atteggiamento verso di noi da parte della società ed anche noi siamo cambiati insieme ad essa. Gli Istituti Psichiatrici Giudiziari sono oramai ad una svolta storica, irrefrenabile. Non si può più fermare né si può tornare indietro…".
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