|
Trieste: mai più manicomi e camicie di forza Intervista a Peppe Dell’Acqua, responsabile del Distretto di Salute Mentale di Trieste
Itaca, 24 giugno 2004
Negli articoli usciti finora per quanto riguarda l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario si è parlato della confusione tra cura e custodia, del fatto che il tempo per le persone internate in qualche modo si appiattisca, del fatto che si venga a creare una sorta di dipendenza e non riabilitazione, delle costrizioni che deve subire una persona che già soffre di un disturbo mentale. Qual è la situazione, anche legislativa, degli Opg in Italia oggi? Esiste una grande confusione tra cura e custodia, due concetti che non possono venire sovrapposti. Dirò di più: il loro accostamento è impraticabile ed anzi innesta una contraddizione che non può avere soluzione se le cose restano così come sono. D’altra parte la presunta pericolosità del malato di mente come suo inscindibile attributo (e dunque la sua conseguente custodia) ha fondato e sostenuto gli ospedali psichiatrici. In questo senso la legge di riforma del ‘78 segna un punto di frattura, di discontinuità: la pericolosità viene separata dalla malattia, la custodia dalla cura. Da questo momento il compito dello stato non è più custodire le persone con disturbo mentale ma garantire il loro diritto alla cura. La legge 833 del ‘78, che istituisce il servizio sanitario nazionale, all’art. 2 si esprime più o meno così: "…la tutela della salute mentale dovrà privilegiare il momento preventivo e inserire i servizi psichiatrici nei servizi sanitari generali in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione nella specificità delle misure terapeutiche… favorire il recupero e il reinserimento sociale…". Già nella sua denominazione, Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori, la legge 180 sottolinea un radicale mutamento, una decisa scelta di campo in quanto sposta l’attenzione dalla malattia alla persona. E di conseguenza anche alla risposta istituzionale che viene messa in atto, cioè al servizio territoriale, alle sue risorse, al modo con cui si guarda al disturbo mentale. Perciò l’oggetto non è più, come nelle vecchie normative, la malattia, la pericolosità, l’internamento ma è la cura. Ed è sulle forme e le ragioni della cura che interviene la legge.
Ma se la persona non vuole curarsi? Di fronte al rifiuto ostinato della persona il diritto/necessità della cura diventa il Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) che dovrà attuarsi con la massima attenzione al rispetto della dignità e della libertà della persona umana. Si costruisce così un confine molto netto tra cura e "custodia". In questo quadro si collocano l’ordinanza del sindaco e l’intervento garantista del giudice tutelare che la legge impone. Dal ‘78 dunque in Italia c’è una legge che afferma: curare non ha niente a che vedere con la custodia e con la limitazione della libertà personale. Quanto avevamo appreso nella pratica del lungo lavoro di cambiamento del manicomio e nei percorsi di deistituzionalizzazione diventa norma condivisa: la limitazione della libertà personale non consente anzi impedisce il percorso di cura.
E gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari? Come si inseriscono in questo quadro? È da questo principio condiviso che nascono le eccezioni di costituzionalità che sono state avanzate sull’esistenza in vita dell’Opg e delle leggi, delle norme e delle procedure che lo sostengono. Vediamo di chiarire meglio. Se i cittadini detenuti in carcere o comunque sottoposti a una misura di sicurezza hanno diritto ad essere curati, se la cura può realizzarsi solo in quelle condizioni che garantiscono la libertà e il rispetto della dignità della persona, allora le condizioni oggettive dell’internamento in Opg diventano incostituzionali. E se il ricorso al manicomio giudiziario garantisce la custodia, rispondendo al bisogno di sicurezza sociale, non cura però le persone, anzi impedisce di fatto qualsiasi loro aspettativa di legittima emancipazione. Tutto questo è diventato sempre più evidente dopo la legge 180. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, ci sono state alcune proposte di legge che con percorsi diversi avrebbero voluto superare il problema attraverso la chiusura degli OPG. Tutte proposte che non hanno avuto fortuna. Da parte dell’attuale governo non c’è stata nessuna proposta di legge … e direi che è meglio così. Tuttavia in questi ultimi anni ci sono state diverse sentenze della Corte Costituzionale, l’ultima del luglio 2003, che hanno disarticolato la rigidità dei dispositivi di invio in Opg Due sentenze della Corte Costituzionale succedutesi nei primissimi anni ‘80 avevano già cominciato a limitare di molto l’internamento automatico delle persone prosciolte durante il procedimento giudiziario. Quelle due sentenze in pratica affermano che l’ingresso in Opg deve essere motivato dalla pericolosità sociale riscontrabile al momento dell’avvio della misura di sicurezza. Oltre dunque al disturbo mentale, alla incapacità di intendere e di volere, alla non imputabilità e dunque alla sentenza di proscioglimento la persona deve essere ritenuta socialmente pericolosa al momento dell’invio e non solo al momento in cui commise il reato. È evidente allora che un programma terapeutico in atto sostenuto dai servizi di salute mentale riduce di fatto la pericolosità sociale. Questo è un primo elemento che limita il rinvio all’Opg Il secondo: anche in corso di misura di sicurezza, se la pericolosità sociale viene a scemare grazie all’esito del programma terapeutico il giudice di sorveglianza propone l’interruzione della misura stessa e verifica le possibilità di reinserimento della persona nel suo contesto sociale. Sempre sostenuta da un adeguato programma dei servizi locali di salute mentale. E questo è il secondo dispositivo limitativo. Ecco il terzo: qualora si renda necessaria la misura cautelare (cioè la detenzione) nei confronti della persona con un disturbo mentale in atto, la detenzione deve avvenire nella città dove il reato è stato commesso e dove la persona verrà giudicata. Lo dispone il nuovo Codice di procedura penale, per evitare gli invii in Opg per perizia, per osservazione o per cure. Se la persona detenuta ha bisogno di cure, queste dovranno essere prestate dai servizi di salute mentale. Soltanto le particolari condizioni di organizzazione (io direi disorganizzazione) del carcere e l’assenza dei servizi di salute mentale possono costringere all’invio per osservazione in Opg E questa disposizione, se adeguatamente considerata dai giudici delle indagini preliminari, dai Tribunali e dai servizi di salute mentale, rappresenta un’ulteriore potente limitazione ai rigidi automatismi. Quarto. Il decreto legge 230 del ‘99 prevede che ci sia una convenzione tra il Ministero di Giustizia e quello della Salute, per cui dovranno essere le Aziende Sanitarie attraverso i Dipartimenti di salute mentale a prendersi carico della salute e della cura del cittadino detenuto. Questo decreto, laddove viene messo in pratica, apre già margini amplissimi ad un reale intervento territoriale e responsabilizza i servizi. Questo decreto costituisce forse lo strumento più efficace a limitare l’uso automatico della misura di sicurezza. Per ultimo, la Corte Costituzionale nel luglio del 2003 si è espressa sostenendo che le misure di sicurezza che fanno seguito al proscioglimento non devono necessariamente attuarsi nell’Opg In pratica la Corte afferma ancora una volta che l’Opg non è un luogo terapeutico e si preoccupa di garantire il diritto alla cura. Propone così che siano i servizi di salute mentale ad organizzare un adeguato programma terapeutico riabilitativo che si attuerà contemporaneamente alla misura di sicurezza. Per esempio attraverso la libertà vigilata o altri simili provvedimenti. Dunque il giudice al momento del proscioglimento deve verificare se è possibile che la misura di sicurezza si attui in luoghi diversi dall’Opg E il servizio di salute mentale territoriale dovrà essere molto coinvolto in questa verifica.
Sembrerebbe che con alcune indicazioni delle leggi attuali si possa riuscire ad evitare l’internamento in Opg, per cui mi viene da chiedere se basterà sensibilizzare i magistrati verso questo problema per evitare a tante persone di finire in O.P.G… Dalla descrizione appena fatta del quadro attuale si comprende che è possibile filtrare, e di molto, l’ingresso in Opg senza arrivare però alla sua scomparsa definitiva. Manca per ora una specifica legislazione che tenga conto di questo obiettivo. Dal mio punto di vista posso dire che sono gli psichiatri e i servizi di salute mentale ad essere scarsamente sensibili. Più che i magistrati, sono i servizi a dover essere particolarmente reattivi. Sembra invece purtroppo che i criteri e i principi su cui si fondano la responsabilità, le procedure e gli interventi dei servizi di salute mentale comunitaria vengano dimenticati, sospesi, non praticati quando una persona è (o rischia di essere) internata in Opg Diciamo che è frequente che i servizi di salute mentale si sottraggano a questa responsabilità. Di solito il magistrato di sorveglianza e il giudice sono sensibili a proposte alternative all’Opg ovvero a progetti riabilitativi che abbiano una loro consistenza. Si capisce bene che quando c’è una assunzione di responsabilità da parte dei servizi viene a cadere una delle ragioni principali che portano alla misura di sicurezza. Se c’è un programma terapeutico, la persona vive in una situazione di protezione e di conseguenza viene a scemare la pericolosità sociale che è la condizione, la sola, che porta oggi all’internamento.
Parlando pochi giorni fa in una riunione si discuteva sul fatto che l’emergenza diventa la quotidianità quando manca nei servizi una reale e buona organizzazione, pare capiti la stessa cosa per gli Opg Ossia, emerge il rischio dell’internamento quando manca una buona organizzazione delle politiche sociali e di salute mentale a livello territoriale. L’apparente ineluttabilità del ricorso al manicomio giudiziario è certamente la conseguenza della mancanza di risposte concrete nel corso del tempo. Le persone che arrivano all’Opg hanno sopportato assenze, risposte mancate, sia di tipo sanitario che sociale, sia psichiatriche che assistenziali. Questo ci fa pensare che i servizi di salute mentale dovrebbero avere la capacità di ascoltare la sofferenza anche quando essa non emerge con clamore, anche quando il dolore è muto. Ci sono molte organizzazioni che hanno una soglia di attenzione esageratamente alta da non riuscire ad udire questa domanda di aiuto reiterata, questa sofferenza che si esprime con mille comportamenti, con mille gesti che potrebbero invece essere visti, ma che purtroppo sono sotto la soglia impenetrabile di questi servizi. Quando poi questa sofferenza si manifesta concretamente, l’urlo è troppo alto, troppo disperato e i gesti sono troppo clamorosi, i comportamenti troppo incontenibili per essere ascoltati. A quel punto questi servizi sono già fuori gioco. Chi interverrà non sarà più il Servizio di Salute Mentale. Si capisce allora che quanto più i servizi sono radicati nel territorio tanto più saranno in grado di assumere responsabilità in quella comunità, in quei contesti. I conflitti e le fasce a rischio, le situazioni marginali e di miseria devono essere viste e attraversate in lungo e in largo. Se un servizio è in grado di tenere conto di tutto ciò non dico che riuscirà sempre ad evitare l’urlo, il grido disperato, il dolore irreparabile, l’emergenza improvvisa, infine il reato ma certamente sarà in grado di esserci. Ma dirò di più, quando un servizio c’è riesce anche a contrattare con l’autorità giudiziaria la possibilità di una alternativa e quindi riesce a indirizzare il percorso della sanzione. Voglio dire che è possibile prevenire il manicomio giudiziario adoperandosi perché la persona, benché inferma di mente, possa partecipare al processo da imputato e se colpevole essere condannato. E non arrivare automaticamente alla misura di sicurezza attraverso il proscioglimento. Oggi si può e si deve affermare che la persona con un disturbo mentale è un cittadino e come cittadino ha dei diritti e deve essere uguale davanti alla legge, e che sia pertanto suo diritto essere condannato per quello che ha fatto e scontare la pena. Si tratterà poi di articolare modalità singolari e alternative per scontare la pena. Le persone in quanto cittadini devono essere considerate davanti allo Stato per quello che fanno e non per quello che sono o per come sono etichettati: schizofrenici o psicopatici, maschi o femmine, bianchi o neri. Al cittadino con disturbo mentale deve essere riconosciuto il fatto che ha commesso un reato, che deve essere processato ed eventualmente condannato come qualsiasi altro cittadino.
Prima di un grosso cambiamento come lo è stato il superamento degli Ospedali Psichiatrici, ci sono dei cambiamenti culturali che ne annunciano in qualche maniera l’avvento. In parte, tali cambiamenti poi si radicano tramite le leggi. Il cambiamento che è avvenuto con la riforma 180, a suo avviso, basta ad annunciare il superamento degli Opg? Sicuramente il cambiamento a cui alludi basterebbe. Se ci fossero state misure, azioni, programmi conseguenti ai principi e alle trasformazioni degli assetti istituzionali. È necessario oggi ridurre la dissociazione tra questi principi e le pratiche quotidiane. La separazione concettuale e pratica della cura dalla custodia, così come la restituzione del diritto costituzionale al cittadino ancorché folle rappresentano elementi che aprono alla possibilità di mutamenti molto più radicali di quanto si verifica nelle pratiche dei servizi. E malgrado tutto devo dire che sì, che questi cambiamenti alludono al possibile superamento dell’Opg. Come conseguenza di questi cambiamenti di cultura e di assetti organizzativi sono state avanzate due proposte di legge. La prima ha previsto la territorializzazione progressiva degli Opg in maniera tale da rendere accessibile all’internato un percorso riabilitativo individuale, in una prospettiva di reintegrazione nel suo territorio e non in un altro luogo. La seconda è stata presentata dall’on. Corleone, allora sottosegretario del ministero di grazia e giustizia. Questa prevederebbe l’abrogazione degli articoli 88 e 89 del codice penale - …… non è imputabile la persona che al momento del reato per infermità di mente non era in grado di intendere e volere….- Dunque la persona, anche se inferma di mente, verrà riconosciuta titolare di quel reato di cui è imputata e sarà sottoposta a processo. L’erogazione della eventuale pena dovrà tenere conto delle caratteristiche soggettive della persona e costruire misure alternative alla detenzione finalizzate alla cura e all’integrazione sociale. … non so quanto questo sia un’utopia. Significa in definitiva pensare che tutti i cittadini sono uguali rispetto al reato e che il riconoscimento di una differenza, la malattia nel nostro caso, non significhi disuguaglianza di fronte al giudice. Disuguaglianza che nel nostro caso porta a percorsi istituzionali devastanti. Gli strumenti terapeutici di cui oggi disponiamo possono permettere alle persone condannate, quando bisognose di cura, di restare in carcere e, adeguatamente sostenute, accedere nei tempi giusti a tutte le possibili misure alternative alla detenzione.
Sta dicendo che queste persone per il reato commesso dovrebbero andare in carcere. La funzione degli Opg, oltre che al contenimento della pericolosità sociale, è legata anche alla capacità di intendere e di volere. Ci sono novità su questo fronte? Come dicevo il profilo della non imputabilità ha visto tanti cambiamenti ed è così corroso che, a mio modo di vedere, è oramai improponibile. La persistenza del concetto della non imputabilità dovuta a infermità di mente si spiega come conseguenza di una visione assolutamente deterministica della malattia mentale; è il residuo prodotto di una visione fredda e scientifica della psichiatria. Come se la psichiatria potesse disporre di strumenti certi e dunque potesse ben definire i confini netti tra normalità e malattia, tra capacità e incapacità sulla base di osservazioni oggettive, di unità di misura predefinite, su percorsi di indagini riproducibili sempre e dovunque. Come sappiamo, non è così. Non è possibile oggi immaginare l’incapacità assoluta. Nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Non è possibile negare un significato ai gesti che una persona compie. Come se quei gesti fossero delle espressioni fuori dalle relazioni, fuori dal tempo, fuori dallo spazio in cui conviviamo, fuori dall’umano sentire. Al di fuori dunque di qualsiasi possibilità di comprensione. Sappiamo al contrario che i gesti più estremi diventano comprensibili quando sono osservati all’interno di una relazione, all’interno di una storia, all’interno di un contesto sociale e familiare.
Quali proposte sono possibili per superare gli Opg oggi? I Dipartimenti di Salute mentale devono prendere in carico concretamente le persone provenienti dai loro territori internate in Opg, formulare un programma terapeutico riabilitativo, provvedere al rientro delle persone nei loro contesti. Bisogna fare in modo che ogni Dipartimento di Salute Mentale sappia e dica che cosa sta facendo per ridurre l’invio e la permanenza delle persone di sua competenza negli Opg Oggi questo si può già fare, così come stanno le cose, senza alcun altro intervento legislativo. Per potenziare e accelerare questi processi il Governo centrale potrebbe autorizzare le Regioni ad utilizzare risorse ad hoc che saranno progressivamente sottratte ai manicomi giudiziari che andrebbero a loro volta a ridurre la popolazione degli internati. Sto pensando ai Centri, alle Cooperative, alle Associazioni che messe insieme e guidate da un organismo di coordinamento, per esempio il Dipartimento di salute mentale, possano disporre di risorse aggiuntive per programmi terapeutici riabilitativi individuali e forti. Credo che questo permetterebbe di vedere dimezzata la popolazione degli Opg in breve tempo. Ci sono programmi speciali che si stanno realizzando un po’ qui e un po’ là e che stanno già dando buoni risultati, senza che ci sia stato bisogno di nuove leggi.
Adesso ci sarà questa nuova proposta di riforma della 180 che torna… Devo dire che non mi appassiona discutere di questa cosa, anche perché penso che la discussione stessa sia come una cortina fumogena che impedisce di guardare alla concretezza dei problemi che pure ci sono. Intanto penso che sia difficile che passi, non c’è accordo all’interno della stessa maggioranza. Davvero non ha alcun senso parlare di questo argomento. Chi la propone ottiene un effetto devastante già col solo costringerci a discuterne. Ci porta infatti ad abbassare il nostro sguardo critico sulle illegalità e le inadempienze che ci sono. Ci costringe alla difesa. E per quanto riguarda gli Opg questa proposta in realtà non ci dice niente di nuovo, e non potrebbe essere altrimenti visti i principi assolutamente arcaici cui si ispira. Insomma non sarà una legge come questa che risolverà il problema. I problemi degli Opg si possono affrontare con delle pratiche più determinate, intenzionali, decise. E naturalmente ci sarà bisogno di una cornice legislativa.
In ultimo, cosa possiamo fare noi cittadini per aiutare questo cambiamento? Oddio… come cittadini onestamente non saprei. I cittadini sono troppo soggetti ai condizionamenti dei media. Se mi metto nei loro panni avverto solo una grande confusione. Da un lato si grida al pazzo criminale e quindi alla pericolosità e al bisogno di sicurezza e dunque di luoghi di reclusione. Dall’altra gli stessi mezzi di informazione si impietosiscono davanti agli Opg perché li la gente non vive, non ha speranza. Il cittadino, come vedi, può essere impietosito un giorno e terrorizzato il giorno dopo. Ci sono però cittadini che possono avere una posizione più responsabile degli altri. Gli operatori socio sanitari e della giustizia, i cittadini attivi nelle Associazioni e nelle Cooperative sociali possono denunciare con le loro quotidiane buone pratiche l’anacronismo di questa istituzione, e gridare a gran voce che della vergogna dei manicomi giudiziari è possibile fare a meno. Già da oggi.
|