Il Servizio Nuovi Giunti

 

La tutela della salute in carcere ed il Servizio Nuovi Giunti

(da "Trattamento penitenziario e misure alternative", di Adriano Morrone)

 

L’articolo 32 della Costituzione prevede che "da Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti". Il secondo comma dell’articolo aggiunge che "nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana".

L’articolo 32 ha la sua matrice nel principio fondamentale sancito dall’articolo 2 della Costituzione, secondo cui "da Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo", tra i quali rientrano - senza ombra di dubbio - il diritto alla vita e all’integrità psicofisica della persona. Tale affermazione riconosce, quindi, diritti c.d. "naturali" e li garantisce secondo le regole dello Stato contemporaneo che conferisce loro rilievo e rango costituzionale.

Il diritto alla salute si inserisce, in particolare, nell’ambito del sistema di "sicurezza sociale", vale adire di "quel complesso di attività, a preminenti fini di solidarietà, con cui lo Stato fornisce ai cittadini prestazioni di ordine assistenziale, previdenziale o talora di beneficenza, garantendo loro una "stabile e completa libertà dal bisogno" e consentendo l’effettivo godimento dei diritti civili e politici riconosciuti dalla Costituzione" (Macchiarelli, Arbarello, Cave Bondi, Feola, 1998).

In quanto diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività, la salute della persona deve essere tutelata sempre e, pertanto, anche nel momento in cui lo Stato esercita i propri poteri coercitivi nei confronti di coloro che hanno violato le norme penali.

Più precisamente, le attività statali di accertamento della responsabilità penale e di esecuzione della pena, sebbene comportino spesso una restrizione o una privazione della libertà personale, non possono spingersi fino al punto di incidere in qualche modo, limitandola, sulla tutela della salute dell’individuo. Del resto, anche l’articolo 27 della Costituzione, nel sancire che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, non fa altro che sottolineare l’inviolabilità della vita e dell’integrità psicofisica del condannato.

Ma "tutela della salute dell’individuo" non sta a significare soltanto un generico obbligo per lo Stato di astenersi dal porre in essere interventi lesivi della vita e dell’integrità psicofisica della persona; al contrario, lo Stato ha il dovere di garantire concretamente tutti quei servizi destinati alla promozione, al miglioramento, al mantenimento ed al recupero dello stato di salute fisica e psichica individuale e della collettività. Tale dovere prescinde dal contesto in cui viene a trovarsi il cittadino e dalla capacità o meno del medesimo di fare fronte agli oneri economici derivanti dall’attuazione degli interventi di assistenza sanitaria.

Nel sistema della giustizia penale, la salvaguardia della salute dei cittadini, intesa come primario interesse della collettività oltre che come bene individuale, viene perseguita anzitutto attraverso norme legislative orientate ad evitare che le persone vengano detenute in carcere allorché la privazione della libertà personale comporti riflessi negativi sullo stato di salute particolarmente grave del soggetto oppure impedisca l’effettuazione degli interventi terapeutici richiesti dal quadro patologico individuale.

Infatti, l’articolo 275 del codice di procedura penale esclude salvo esigenze cautelari di eccezionale rilevanza - la custodia cautelare in carcere della donna incinta o con prole di età inferiore a tre anni, dell’imputato affetto da patologie gravi "incompatibili Con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere", oppure affetto da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, nonché del tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata.

Relativamente ai condannati, poi, gli articoli 146 e 147 del codice penale prevedono il rinvio dell’esecuzione della pena, a seconda dei casi obbligatorio o facoltativo, nell’ipotesi di donna incinta o che ha partorito da breve tempo, di individui colpiti dal virus HIV e di persone che versano in condizioni di grave infermità fisica. Nelle situazioni contemplate dagli articoli 146 e 147, anziché il rinvio dell’esecuzione della pena, può essere concessa la misura alternativa della detenzione domiciliare prevista dall’art. 47 -ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354. La detenzione domiciliare può, altresì, essere concessa, se la pena da espiare non supera i quattro anni, alle donne incinte ed alle persone in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali.

Sul versante penitenziario, invece, la legge 26 luglio 1975, n. 354, contiene una serie di disposizioni tese ad attuare una tutela preventiva della salute della popolazione penitenziaria attraverso la salvaguardia dell’igiene e delle condizioni generali di vita. In particolare, gli articoli 5 e 6 dettano prescrizioni sulle caratteristiche degli edifici penitenziari e sui locali di soggiorno e di pernottamento affinché questi siano rispondenti alle "normali" esigenze di vita dell’individuo ed in buono stato di conservazione di pulizia. L’articolo 7 dà, invece, indicazioni sul vestiario e sul corredo che devono essere forniti ai detenuti, mentre l’articolo 8 detta prescrizioni specifiche per la tutela dell’igiene personale, con particolare riferimento all’uso dei lavabi, dei bagni e delle docce. L’articolo 9, poi, prevede che alla popolazione penitenziaria sia assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, vale adire adeguata alle condizioni personali del soggetto, attribuendo ad una rappresentanza di detenuti odi internati il controllo sulla qualità, sulla quantità e sulla preparazione del vitto. I detenuti e gli internati hanno, infine, diritto, ai sensi dell’articolo 10, di trascorrere almeno due ore al giorno all’aria aperta.

Le disposizioni citate assumono particolare rilevanza se si considera che le strutture penitenziarie, spesso carenti sotto il profilo igienico e dotate di spazi angusti non sufficientemente illuminati e aerati, comportano un elevato rischio di contrarre malattie infettive, quali la pediculosi, la scabbia, le micosi, l’epatite virale, la salmonellosi, nonché l’insorgere di mali tipicamente carcerari come le emicranie, l’insonnia, i deficit della vista, etc.

Ma la norma fondamentale in materia di tutela della salute in carcere è da individuarsi nell’articolo 11 della legge n. 354/75, il quale prevede che: "ogni istituto penitenziario è dotato di servizio medico e di servizio farmaceutico rispondenti alle esigenze profilattiche e di cura della salute dei detenuti e degli internati; dispone, inoltre, dell’opera di almeno uno specialista in psichiatria".

L’istituzione del servizio sanitario penitenziario non risponde solamente ad esigenze di tutela preventiva della salute, ma tende anche ad assicurare l’attuazione degli interventi terapeutici strettamente connessi all’attualità della condizione di ristretto (Canepa, Merlo, 2002). Esso, infatti, si configura come "organizzazione di tutti gli interventi di carattere medico e paramedico che sono necessari per garantire la conservazione delle buone condizioni di salute dei detenuti e degli internati e le cure opportune in caso di infermità o di altre esigenze sanitarie" (Di Gennaro, Breda, La Greca, 1997).

Più precisamente, gli obiettivi del servizio sanitario penitenziario comprendono la cura della salute fisica, la prevenzione delle malattie, nonché la riabilitazione medica e sociale del paziente. Ciò in quanto "il programma di assistenza deve tendere a restituire i prigionieri alla comunità nelle migliori condizioni fisiche e mentali che la moderna medicina permetta di ottenere" (Carlson, Brutschè, 1989).

Si deve, tuttavia, tener presente che per servizio medico penitenziario non si intende necessariamente l’installazione in ogni istituto, anche di dimensioni molto ridotte, di un reparto dotato di farmacia, di infermeria, nonché di attrezzature diagnostiche e cliniche. Negli istituti più piccoli è sufficiente, infatti, assicurare almeno la disponibilità di medicamenti e l’opera tempestiva del sanitario (quest’ultima da intendersi non solo come attività di pronto soccorso, ma anche come attività comprensiva degli interventi connessi

all’ingresso in carcere ed alle visite di controllo quotidiane), mentre nei penitenziari di dimensioni più grandi l’assistenza sanitaria viene assicurata mediante un’organizzazione più complessa dotata di attrezzature e di personale a tempo pieno, venendo in alcuni casi a configurarsi come vero e proprio centro clinico.

Il diritto alla salute delle persone ristrette in carcere è in questi ultimi anni oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore e delle autorità di governo. Il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, riguardante il riordino della medicina penitenziaria - ormai affidata al servizio sanitario nazionale - cui è seguito il decreto interministeriale 21 aprile 2000, recante: "Approvazione del progetto obiettivo per la tutela della salute in ambito penitenziario" (G.U.

25 maggio 2000, n. 120), stabilisce che i detenuti e gli internati, al pari dei cittadini in stato di libertà, hanno diritto all’erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione previste nei livelli essenziali e uniformi di assistenza, individuati nel piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali ed in quelli locali. Le principali aree di intervento individuate dal progetto obiettivo sono: la medicina generale, specialistica e d’urgenza; l’assistenza ai detenuti tossicodipendenti; l’assistenza sanitaria alle persone immigrate detenute; la diagnosi e la cura delle patologie infettive; la tutela della salute mentale.

Volendo operare una classificazione delle tipologie di assistenza medica fornite in ambito penitenziario, si possono distinguere (Carlson, Brutschè, 1989): l’assistenza al paziente interno, che si ha nel caso in cui i detenuti vengano ricoverati presso l’infermeria del carcere evi permangano fino a quando il quadro clinico non consenta di dimettere il paziente, rinviandolo nella sezione detentiva di provenienza; l’assistenza al paziente esterno, riguardante il soggetto che viene inviato al reparto medico dove viene esaminato e/o curato per poi essere immediatamente ricondotto tra la popolazione generale dei reclusi; l’assistenza medica di routine, che si estrinseca nell’attività di cura e controllo fornita giornalmente durante le ore lavorative, sulla base del programma prestabilito; l’assistenza medica eccezionale, consistente negli interventi effettuati, di regola, nell’infermeria del carcere per fronteggiare le situazioni di emergenza.

Tornando, ora, all’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, è opportuno soffermare l’attenzione sul disposto del terzo comma, secondo cui: "all’atto dell’ingresso nell’istituto i soggetti sono sottoposti a visita medica generale allo scopo di accertare eventuali malattie fisiche o psichiche". Essendo il carcere una comunità, esigenze di tutela di interessi collettivi hanno suggerito al legislatore di utilizzare la possibilità offerta dal secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione imponendo ai soggetti che entrano nel circuito penitenziario l’obbligo di sottoporsi a controllo sanitario. Tale visita deve essere effettuata con la massima sollecitudine ed in modo approfondito al fine di evitare che forme patologiche, sia fisiche che psichiche, sfuggano al tempestivo controllo sanitario e manchino, quindi, nel corso della detenzione o dell’internamento, di adeguate attenzioni e cure. L’importanza del primo controllo medico risulta di tutta evidenza se si considera che l’impatto con il carcere rappresenta un momento triste, doloroso, sconvolgente, nel quale non esistono spazi per la dimensione umana, fisica, affettiva e dove alle eventuali forme di patologia organica possono aggiungersi forme di patologia mentale a carattere reattivo psicogeno, determinate dalle condizioni di vita, dall’uniformità degli stimoli emozionali forniti dall’ambiente e dall’oggettività del soggetto (Ceraudo, 1989). La visita medica di ingresso rappresenta, inoltre, un’occasione utile per l’individuazione dello stato di tossicodipendenza del detenuto.

In proposito, appare utile richiamare il decreto 12.7.1990 n. 186 del Ministero della sanità che, nel fissare le procedure diagnostiche e medico - legali necessarie per l’accertamento dell’uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope, specifica che lo stesso si fonda su:

a) il riscontro documentale di trattamenti socio-sanitari per le tossicodipendenze presso le strutture pubbliche e private, di soccorsi ricevuti da strutture di pronto soccorso, di ricovero per trattamento di patologie correlate all’abuso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope, di precedenti accertamenti medico - legali;

b) i segni di assunzione abituale della sostanza stupefacente o psicotropa;

c) i sintomi fisici o psichici di intossicazione in atto da sostanze stupefacenti o psicotrope;

d) la sindrome di astinenza in atto;

e) la presenza di sostanze stupefacenti e/o loro metaboliti nei liquidi biologici e/ o nei tessuti.

In sostanza la diagnosi medico -legale di tossicodipendenza può essere divisa in due fasi: quella clinico-anamnestica e quella relativa agli accertamenti di laboratorio.

Tralasciando la fase relativa agli accertamenti di laboratorio, l’acquisizione dei dati clinici ed anamnestici avviene attraverso la visita medica generale ed il successivo colloquio di primo ingresso, espletato, di regola, dall’educatore.

Il sanitario deve procedere, infatti, all’acquisizione dei primi dati anamnestici, non che alla verifica della presenza degli elementi sintomatici dell’intossicazione da stupefacenti, tra i quali: la miosi, l’ipotensione, la sonnolenza, l’ansietà, la depressione respiratoria nel caso di oppiacei, lo stadio euforico e lo stadio dell’allucinosi nel caso di sostanze stimolanti il sistema nervoso centrale. Il medico effettua, poi, l’esame obiettivo del soggetto verificando in particolare le condizioni di nutrizione, la presenza di numerose carie dentali, la presenza di segni di agopuntura sulle vene superficiali dei gomiti, sul collo e sul dorso delle mani e dei piedi. La visita si completa di un esame psichico teso ad individuare eventuali disturbi più o meno marcati, a seconda che il soggetto si trovi in fase di astinenza più o meno avanzata.

I dati acquisiti durante la visita vengono trascritti, a cura del sanitario, in una scheda dettagliata che costituirà parte integrante del diario clinico del detenuto.

Qualora nel corso del controllo medico il detenuto risulti tossicodipendente, questi viene informato sugli interventi sanitari e SOcio-riabilitativi attuati nell’istituto, nonché sollecitato ad aderirvi.

Inoltre, previo consenso dell’interessato, il nominativo viene comunicato, per gli interventi del caso, agli operatori del Sert (servizio tossicodipendenze) operante nella struttura penitenziaria. Correlato al fenomeno della tossicodipendenza è il problema della prevenzione e della cura dell’infezione da virus HIV nella realtà penitenziaria.

Infatti, tra le problematiche mediche del tossicodipendente detenuto può esservi anche la sindrome da HIV. Ed anzi, la maggioranza dei detenuti portatori del virus appartiene alla categoria dei tossicodipendenti, analogamente a quanto si registra - o almeno si registrava fino a qualche anno fa- nell’ambiente esterno.

Si pone, pertanto, l’esigenza di attuare ogni misura sanitaria e trattamentale idonea a contenere il diffondersi dell’infezione in ambiente carcerario, nonché ad assicurare al soggetto sieropositivo cure tempestive ed efficaci. Ciò è ancor più vero se si considera che nel carcere i detenuti sono costretti a vivere in condizioni di elevata promiscuità a causa del problema del sovraffollamento, il che comporta inevitabilmente, oltre ad una vicinanza o promiscuità fisica, l’uso comune di molti oggetti, a cominciare dagli stessi servizi igienici.

Al riguardo, occorre rilevare che se, da una parte, sarebbe opportuno conoscere tempestivamente quali sono i soggetti affetti dalla malattia, dall’altra, l’articolo 5 della legge 5 giugno 1990, n. 135, stabilisce che nessuno può essere sottoposto, senza il proprio consenso, ad analisi tendenti ad accertare l’infezione da HIV, "se non per necessità cliniche nel suo interesse", o se tali accertamenti risultano essere condizione necessaria per l’espletamento di attività che comportano rischi per la salute dei terzi (Corte costituzionale, sentenza 23 maggio 1994, n. 218).

Di conseguenza, in occasione della visita medica di primo ingresso, il sanitario invita il detenuto a sottoporsi ad apposito test evidenziando l’opportunità di conoscere il proprio stato in relazione all’infezione da HIV e prospettando le precauzioni da adottare nella vita in comune.

Qualora il detenuto rifiuti di sottoporsi allo screenzng, l’accertamento potrà essere effettuato - solo se la condizione clinica del detenuto sia tale da richiedere l’accertamento della sieropositività al fine di poter attuare gli interventi terapeutici e di profilassi del caso - con le modalità del trattamento sanitario obbligatorio di cui all’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n. 833 e, dunque, inoltrando la relativa richiesta al Sindaco.

L’esito dell’accertamento deve essere comunicato, ai sensi dell’articolo 5 della legge n. 135/90, esclusivamente all’interessato ed a coloro che, per motivi di operatività in ambito penitenziario, sono necessariamente coinvolti nella gestione della salute psicofisica e del reinserimento sociale del soggetto; questi, peraltro, sono tenuti a non diffondere tale informazione, in quanto vincolati dal segreto professionale.

Accertata la presenza della malattia, vi è la necessità di porre in essere, nei confronti del detenuto sieropositivo, un trattamento penitenziario adeguato alle particolari condizioni fisiche e psicologiche del soggetto.

Per quanto concerne quest’ultimo aspetto, occorre tener presente che la consapevolezza della malattia comporta problematiche psicologiche e relazionali, che, nel caso del tossicodipendente, si vanno ad aggiungere ad un quadro fisio-psichico già di per se profondamente alterato.

L’identificazione del tossicodipendente come potenziale portatore del virus HIV e la paura del contagio, sono, infatti, alla base di "istanze espulsive sociali" (Coco, Runsteni, 1988) presenti anche in ambito penitenziario.

La reazione sociale spesso determina nel sieropositivo una reazione individuale che si manifesta o in un’accentuazione delle tendenze autolesionistiche e suicide, o in una serie di condotte aggressive che possono giungere fino al tentativo di contagio, quale "modalità di risposta alla iper-criminalizzazione dei portatori di HIV" (Coco, Runsteni, 1988). A ciò bisogna aggiungere che spesso le particolari condizioni fisiche del soggetto sieropositivo rendono problematico un eventuale inserimento lavorativo dello stesso.

La complessa situazione psico-relazionale del sieropositivo richiede, di conseguenza, un’integrazione dei vari interventi sanitaripsico-socio-educativi e custodiali, al fine di promuoverne l’inserimento nel contesto relazionale penitenziario. In proposito, la partecipazione alle varie attività trattamentali (culturali, ricreative, lavorative) assume particolare rilevanza e può essere considerata strumento attraverso il quale organizzare una sorta di socialità, in cui poter affrontare, attraverso discussioni mirate, non solo le tematiche relative al problema "AIDS, ma tutto ciò che riguarda la salute dell’individuo, l’igiene e la profilassi, con particolare riferimento al contesto penitenziario. In tal modo, infatti, si tenta di favorire nei detenuti una responsabilizzazione dei propri comportamenti ed una partecipazione consapevole alla vita di relazione (Lamonica, 1988).

Per quanto concerne l’aspetto sanitario, occorre premettere che il quadro clinico delle infezioni da HIV è caratterizzato da una estrema dinamicità e varietà di situazioni, che richiedono trattamenti differenziati. In particolare, per i soggetti che versano nelle fasi della malattia LAS, ARC, AIDS, si rendono necessari: un più assiduo contatto con gli operatori sanitari del carcere, accertamenti diagnostici, trattamenti sanitari complessi e reiterati e, nei limiti del possibile, appositi spazi nelle infermerie e nei centri clinici degli istituti di pena.

Orbene, i limiti strutturali, di risorse e di mezzi, nonché quelli inerenti alle stesse caratteristiche istituzionali del penitenziario (9), consentono, in genere, di fornire solamente un’assistenza sanitaria di base, di livello medio-basso. Infatti, il detenuto in LAS, ARC, o AIDS, deve essere periodicamente e frequentemente sottoposto a complessi accertamenti, sia per monito rare con adeguata precisione gli specifici e necessari interventi sanitari e farmacologici (quali, ad esempio, l’AZT), tutti altamente tossici e comunque molto delicati, sia per evidenziare tempestivamente e curare adeguatamente le frequenti infezioni c.d. "opportunistiche" causate dall’abbassamento delle difese immunitarie dell’organismo, infezioni alle quali i detenuti in AIDS sono particolarmente esposti anche a causa della promiscuità delle condizioni di vita esistenti nell’ambiente carcerario. Conseguentemente, poiché tali accertamenti sono per lo più eseguibili solamente in ambito ospedaliero, si rende indispensabile una stretta collaborazione delle strutture sanitarie esterne, in particolare delle aziende sanitarie locali e, soprattutto, dei presidi ospedalieri specializzati in malattie infettive.

L’amministrazione penitenziaria ha, quindi, elaborato - nel 1990 - un "protocollo per l’accertamento della sieropositività in persone detenute e per la sorveglianza clinica ed immunologica di reclusi con infezione da HIV", con l’intento di assicurare una

più efficace collaborazione delle strutture sanitarie esterne e di uniformare gli interventi operativi da attuare nei confronti dei detenuti sieropositivi sintomatici.

Terminata la digressione sulle problematiche connesse alla tossicodipendenza e all’AIDS, è opportuno concludere l’esame dell’articolo 11 dell’ordinamento penitenziario, le cui disposizioni riguardano anche l’assistenza sanitaria prestata nel corso dell’intero periodo detentivo.

Il legislatore, infatti, ha previsto l’obbligo per il medico del carcere: di effettuare controlli periodici e frequenti indipendentemente dalle richieste degli interessati; di visitare ogni giorno gli ammalati e coloro che ne fanno richiesta; di segnalare tempestivamente la presenza di malattie che richiedono particolari indagini e cure specialistiche; di controllare periodicamente l’idoneità dei soggetti ai lavori cui sono addetti. Inoltre, nel caso di patologie infettive, i detenuti e gli internati devono essere posti in isolamento, mentre, se vi è il sospetto di una malattia psichica, devono essere adottati senza indugio i provvedimenti necessari nel rispetto delle norme inerenti all’assistenza psichiatrica ed alla sanità mentale. L’amministrazione penitenziaria deve, infine, assicurare l’assistenza sanitaria alle gestanti ed alle puerpere.

In sostanza, il servizio medico del carcere dovrebbe essere in grado di rispondere a tutte le possibili esigenze sanitarie della popolazione detenuta. Sarebbe, tuttavia, non realistico pretendere che nel sistema penitenziario esistano tutte le strutture specializzate di cui dispone la società esterna. Consapevole di ciò, il legislatore ha previsto (art. 11, comma 2) che, ove siano necessari interventi diagnostici o terapeutici che non possono essere apprestati dai servizi sanitari degli istituti penitenziari, i condannati e gli internati sono trasferiti in ospedali civili o in altri luoghi esterni di cura. La legge n. 354/75, nel riconoscere il valore costituzionale della salute come fondamentale diritto dell’individuo, ha altresì attribuito ai detenuti la facoltà di essere visitati da un sanitario di fiducia, ma, poiché si tratta di una facoltà non imposta dalle circostanze e che implica la rinuncia ai mezzi offerti dall’amministrazione penitenziaria, è stato opportunamente stabilito che l’interessato provveda a proprie spese (Di Gennaro, Breda, La Greca, 1997).

Riguardo alla necessità di un’azione di controllo e sostegno da svolgersi, nel primo periodo della detenzione, nei confronti dei detenuti tossicodipendenti, l’amministrazione penitenziaria ha preso atto che l’impatto con il carcere costituisce un momento particolarmente delicato per il soggetto che vi fa ingresso, specie se tossicodipendente, durante il quale diviene elevatissimo il rischio di tendenze autolesioniste e suicide.

Conseguentemente, è stato istituito - con circolare n. 3233/ 5683 del 30 dicembre 1987 - un servizio, denominato "Servizio nuovi giunti", da attivare proprio al momento del primo ingresso in istituto per tutti i detenuti. Infatti, è soprattutto nella fase iniziale della carcerazione che possono verificarsi forme di reazione abnormi, ossia risposte psichiche o comportamentali anomale rispetto ai fattori psicosociali stressanti. Si tratta, in sostanza, di quelle reazioni che in psichiatria vengono classificate come "disturbi dell’adattamento";

reazioni emotive di furore primitivo, di eccitazione, distruttive, ansiose, depressive. Alcuni tipi di queste reazioni, sia auto che eteroaggressive, sono dovute al clima particolarmente teso dell’ambiente carcerario, ai valori della sottocultura violenta in esso dominanti e, soprattutto, al carico di frustrazione che la carcerazione comporta (Ponti, 1999).

Nell’emanare la circolare citata, l’amministrazione penitenziaria ha, quindi, preso spunto dalla considerazione che spesso dalla libertà provengono soggetti giovanissimi o anziani (la fascia a rischio è infatti quella della popolazione compresa tra i 20 e i 29 anni e quella al di sopra dei 65 anni), tossicodipendenti, soggetti in condizioni fisiche o psichiche di particolare fragilità, ai quali la privazione della libertà, specie se trattasi di detenuti c.d. "primari" (quelli cioè che per la prima volta fanno ingresso negli istituti penitenziari) può arrecare sofferenze o traumi accentuati e tali da determinare in essi dinamiche autolesionistiche o suicide o tali da esporli al rischio di violenze da parte di detenuti o internati più duri o adusi al crimine, insieme con i quali essi fossero improvvisamente allocati.

La necessità di assicurare un intervento tempestivo al fine di accertare l’eventuale presenza di uno stato psichico o fisico precario del soggetto, che possa condurre lo stesso alla commissione di atti auto o eteroaggressivi o lo ponga in posizione di particolare vulnerabilità nei confronti dell’aggressività altrui, comporta che il servizio venga attivato non solo al momento dell’ingresso in carcere, ma anche in occasione di particolari avvenimenti che possono costituire causa di particolare trauma o turbamento per il detenuto (condanne sopravvenute, disgrazie familiari, etc.), accrescendo i rischi che egli commetta atti autolesionistici o subisca atti di violenza.

Il servizio consiste in un presidio psicologico, che si affianca alla prima visita medica e al colloquio di primo ingresso, ed è destinato ai "nuovi giunti", intendendosi per tali quei detenuti o internati provenienti dalla libertà. Nei confronti, invece, di coloro che giungono in istituto in seguito a trasferimento o a temporanea assegnazione o per transito, il servizio è attivato solo nel caso in cui, dall’esame della cartella, risulti che questo non è stato espletato nell’istituto di provenienza.

li presidio è affidato agli esperti ex articolo 80 della legge n.

354/75, specializzati in psicologia o criminologia clinica e consiste, in via preliminare, in un colloquio con il nuovo giunto (nello stesso giorno dell’ingresso e prima dell’assegnazione nella sezione e nella camera) diretto ad accertare il rischio che il soggetto possa compiere violenza su se stesso o subire violenza da parte di altri detenuti. Perché l’esperto possa integrare gli elementi acquisiti durante il colloquio con i dati raccolti relativi al soggetto, il personale dell’ufficio matricola del carcere trasmette copia completa dei dati anagrafici e giuridici risultanti dall’immatricolazione e notizie su precedenti esperienze penitenziarie del soggetto. Allo stesso modo, il sanitario che ha effettuato la visita medica trasmette copia della cartella clinica compilata in seguito alla prima visita medica del nuovo giunto.

È di tutta evidenza che una strutturazione siffatta dell’intervento richiede partecipazione attiva, massima collaborazione e intesa tra le diverse figure di operatori, dall’esperto incaricato del servizio nuovi giunti al personale sanitario a quello addetto alla matricola ed alla custodia.

Il servizio è giornaliero, è assicurato anche nei giorni festivi, durata ed orari sono stabiliti da una delle tabelle allegate alla circolare che lo prevede e lo disciplina; viene preferita la fascia oraria tardo-pomeridiana e serale, in considerazione del fatto che, generalmente, almeno negli istituti ad alta concentrazione di popolazione detenuta, la maggiore frequenza di ingressi si ha nelle ore serali.

L’esperto, per un primo apprestamento delle misure richieste dai singoli casi, conduce il colloquio sulla base di una scheda prognostica, allegata alla circolare, contenente sinteticamente i punti sui quali l’intervistatore dovrà fondare il giudizio relativo al rischio di comportamenti auto o eteroaggressivi. La relazione che l’esperto compila alla fine del colloquio conterrà pertanto: un giudizio sintetico sugli aspetti epidemiologici/anamnestici (es. età, sesso, ambiente, lavoro, istruzione, malattie, impatto con l’istituzione, choc dall’evento), sugli aspetti di personalità (aggressività, egocentrismo, recidività, dipendenza, disturbi) e affettivi (es. sviluppo, contatti, stile di vita, emotività, depressione) e sul rischio di subire violenza (età, aspetto fisico, mancanza di esperienze penitenziarie, sessualità specifica, abulia, aggressività); una valutazione globale di massima sul livello di rischio di condotte violente su se stesso e di subire violenze; specifiche indicazioni immediate per l’operatore della custodia (sovrintendente o ispettore) responsabile dell’assegnazione del detenuto, relative alla sistemazione del detenuto (nel caso di detenuti a rischio, questi sono assegnati in uno specifico reparto per nuovi giunti a rischio, composto da camere ricavate, di regola, in ambienti sanitari).

Il giudizio sintetico e la valutazione globale suddetti devono essere articolati rigidamente secondo i parametri: minimo, basso, medio, alto, massimo.

Per quanto concerne la natura dell’intervento effettuato dal servizio nuovi giunti, questo non può assumere ne valenza trattamentale, in quanto non tende alla rieducazione del soggetto, ne di osservazione scientifica della personalità, visto che l’articolo 13 della legge n. 354/75 dispone che quest’ultima debba essere effettuata solo nei confronti dei detenuti definitivi e che, al contrario, la maggior parte degli utenti del presidio psicologico sono soggetti in attesa di giudizio o, comunque, non condannati in via definitiva. L’intervento dell’esperto ha, invece, una connotazione esclusivamente di tipo diagnostico e prognostico, esulando dal medesimo anche l’attività di sostegno psicologico. Al riguardo, è stato posto in rilievo come il servizio nuovi giunti sia rapidamente pervenuto al "ruolo di "filtro" anti-suicidario imperniato su un (spesso breve) colloquio clinico e sulla redazione di una scheda (munita di un elenco di fattori "a rischio" e di "indici" del rischio stesso) da rimettere, poi, al personale addetto (di custodia e all’educatore" (Coco, 1997).

n direttore dell’istituto, competente ad impartire le disposizioni e a vigilare sulla corretta attuazione della prima visita medica, del colloquio di primo ingresso e del servizio nuovi giunti, può delegare ad un educatore il coordinamento del servizio stesso e l’attività degli operatori ad esso interessati; in questo caso, l’educatore coordina anche il servizio nuovi giunti con l’equipe esterna della A.S.L., destinata all’assistenza e alla cura del tossicodipendente detenuto, nonché con i sanitari dell’istituto, con l’equipe di osservazione e trattamento e con il personale di custodia.

Quanto finora esposto riguarda le case circondariali la cui popolazione detenuta è particolarmente elevata in termini numerici e di afflusso. Per gli altri istituti penitenziari è data, invece, facoltà al direttore di organizzare il servizio nuovi giunti avvalendosi del personale disponibile e secondo le esigenze che si presentano, purché siano assicurati l’esame del soggetto e la redazione della relazione con i requisiti prescritti e per le finalità indicate in precedenza.

A questo punto si impongono alcune riflessioni. Una prima considerazione riguarda l’indicazione del grado di rischio nella relazione dell’esperto. Stante l’impossibilità, nell’ambito di un solo colloquio con il nuovo giunto, di effettuare un esame completo della personalità e di acquisire certezza sui rischi di atti autolesionistici o di violenza subita, l’operatore, responsabile comunque delle affermazioni contenute nella sua relazione, potrebbe essere tentato, nel dubbio, di livellare verso l’alto l’indicazione del grado di rischio, rendendo in tal modo pressoché inutili gli sforzi dell’amministrazione carceraria di poter distinguere soggetto da soggetto, nel nome di quella individualizzazione del trattamento che rappresenta la pietra angolare dell’ordinamento penitenziario. Senza contare il fatto che, pur minimizzando il rischio di atti autolesionistici o di violenza altrui, si corre il pericolo di inutili e ingiustificati sovraffollamenti del reparto specifico, nonché di eccessivo e non razionale impiego di risorse umane destinate alla sorveglianza dei detenuti. Occorre pertanto che l’operatore che redige la relazione raccolga con la massima cura e attenzione tutti gli elementi necessari utili per la valutazione.

Un’altra considerazione va fatta in relazione ad una presa di posizione di alcune autorità giudiziarie che, in ordine all’effettuazione del servizio per i nuovi giunti sottoposti ad isolamento giudiziario e per gli arrestati in flagranza di reato, hanno espresso perplessità o addirittura hanno disposto che i colloqui tra detenuto e educatori, assistenti sociali ed esperti possono avere luogo solamente dopo il primo interrogatorio da parte del magistrato. Esasperando tale posizione, altre autorità giudiziarie hanno addirittura negato la possibilità che, in mancanza del proprio nulla osta, l’imputato possa avere contatti con il personale penitenziario.

Posizioni siffatte non appaiono conformi ne alla lettera ne allo spirito dell’ordinamento giuridico vigente; infatti, non poche norme contenute nell’ordinamento penitenziario prevedono e impongono numerosi rapporti tra detenuti (anche in isolamento giudiziario) e operatori penitenziari (direttore, medico, personale addetto alla custodia), mentre tutto il sistema normativo e le necessità del concreto svolgimento della vita penitenziaria richiedono la presenza di altri operatori.

Per quanto riguarda in particolare gli esperti, essi sono da considerarsi operatori penitenziari, ben che non legati da un rapporto di pubblico impiego, in quanto previsti dall’articolo 80 dell’ordinamento penitenziario sotto la rubrica "Personale dell’Amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena". Inoltre, deve ritenersi che essi siano comunque vincolati per deontologia professionale, pur volendo prescindere dalla innegabile qualificazione di operatori penitenziari, dagli obblighi di riservatezza e dal segreto professionale, Ugualmente deve affermarsi che gli interventi degli esperti nell’ambito del servizio e dei medici in sede di prima visita non possono essere ricondotti alla disciplina generale dei colloqui, per i quali invece occorre il permesso o nulla osta dell’autorità giudiziaria, quando si tratti di imputati, anche se in isolamento giudiziario, Infatti, il colloquio di primo ingresso, la prima visita medica e il presidio psicologico rappresentano interventi tecnici tempestivi per fini di tutela della salute, della vita e dell’incolumità fisica e psichica dei detenuti, in linea con i principi sanciti nella Carta costituzionale a tutela di diritti primari, che, in quanto tali, non sono comprimibili o limitabili.

Infine, è da aggiungere che le attività di cui sopra formano, comunque, oggetto di relazioni e registrazioni che consentono di risalire ai soggetti tra i quali sono intercorsi i contatti, nonché alla data, ai motivi ed ai risultati degli stessi. In relazione a quanto detto, deve anche ritenersi che nel caso di nuovi giunti di lingua straniera sia facoltà della direzione dell’istituto utilizzare l’opera di un interprete scelto tra quelli di cui di solito si avvalgono gli uffici giudiziari e che dia garanzie di affidamento e riservatezza, in quanto l’interprete altro non è se non il mezzo tecnico del quale gli operatori penitenziari si avvalgono per l’espletamento dei loro compiti istituzionali.

Pertanto, non può revocarsi in dubbio che tutte le attività di cui sopra debbano essere comunque svolte; se necessario, tuttavia, l’autorità giudiziaria dovrà segnalare al direttore dell’istituto nei singoli casi l’esistenza di determinate condizioni soggettive o di circostanze oggettive o, comunque, di esigenze istruttorie che impongano particolari cautele nello svolgimento del servizio nuovi giunti.

Per quanto concerne, infine, le problematiche strettamente connesse all’attuale collocazione del servizio nuovi giunti all’interno della struttura organizzativa del carcere, è opportuno sottolineare che nella realtà penitenziaria si registra, di fatto, una scissione tra i diversi momenti di contatto del nuovo giunto con i vari operatori.

Ciò comporta che spesso il soggetto che fa ingresso in carcere viene sottoposto al consecutivo intervento del medico, dell’esperto addetto al presidio psicologico, dell’educatore, degli operatori dei servizi per le tossicodipendenze e via di seguito, con il risultato che viene a determinarsi una sovrapposizione ed una confusione di figure professionali, preclusive all’instaurazione dei meccanismi relazionali necessari ad assicurare al soggetto un effettivo sostegno. Peraltro, il servizio nuovi giunti, caratterizzato dal ruolo "egemonico" dell’intervento dello psicologo, ha visto accentuate le proprie caratteristiche di tipo specialistico-predittive, configurandosi come momento essenziale per identificare deterministicamente i nessi tra le condizioni psico-sociali del soggetto che entra in istituto e la possibilità di commettere atti autolesivi oppure di subire violenza.

Alla luce di quanto teste evidenziato, ben che il servizio nuovi giunti sembri in linea di massima aver riscosso il favore degli operatori penitenziari sulle modalità con le quali viene attuato, sarebbe auspicabile una riforma del medesimo, orientata ad attribuire un ruolo prevalente all’analisi dei bisogni del soggetto, rispetto all’accertamento del rischio auto o etero-aggressivo (Coco, 1997). Occorrerebbe, in sostanza, una "personalizzazione" dell’intervento a beneficio del nuovo giunto, caratterizzata dal fatto che gli operatori del carcere prendono in carico il caso individuale non solo limitatamente al momento dell’ingresso nella struttura detentiva, ma anche per i tempi successivi. Il colloquio con il nuovo giunto dovrebbe, poi, rispondere alla logica del lavoro in equipe, prevedendosi la presenza obbligatoria per l’intera giornata dell’esperto, dell’educatore e del medico, i quali, dopo un primo contatto con il detenuto, possano essere in grado di stilare una valutazione congiunta e di sintesi, con riferimento allo stato ed alle necessità contingenti dell’intervistato.

In tal modo, oltre ai vantaggi che può avere un intervento immediato e di portata multifattoriale per quanto concerne l’evidenziazione della condizione individuale attuale, il servizio nuovi giunti potrebbe recuperare "quella peculiare veste di sostegno da vedersi come la preferibile soluzione ai futuri disagi e come un "ammortizzatore" del sempre gravissimo trauma della carcerazione, specialmente se "primaria" (Coco, 1997).

Il servizio nuovi giunti dovrebbe, in sostanza, connotarsi come intervento unitario e integrato, costituito da tre momenti fondamentali: la visita medica generale, il presidio psicologico ed il colloquio di primo ingresso. Inoltre, allo spostamento dell’attenzione verso l’analisi dei bisogni del soggetto rispetto alla valutazione del rischio suicidario dovrebbe conseguire una revisione del contenuto della scheda prognostica da compilare dopo il colloquio con il nuovo giunto. Tale scheda, infatti, dovrebbe subire una riduzione di quei parametri standard derivanti dai consueti approcci psicologici e psicosociologici al suicidio -la cui attenzione è prevalentemente orientata verso la ricerca dei fattori di rischio remoti nel passato dell’intervistato - in favore di quelle cause riconducibili strettamente alla situazione immediata e contingente. Particolare attenzione dovrebbe, quindi, essere posta sull’impatto con l’istituzione carceraria e sullo choc dall’evento detenzione. Di conseguenza, la scheda prognostica dovrebbe essere rappresentata da un modulo centrato sia sui fattori inerenti all’ingresso in istituto, che su quelli riguardanti i bisogni del soggetto, in modo tale da porre in rilievo le dinamiche e le interazioni emergenti dall’impatto del nuovo giunto con la realtà del carcere).

Sebbene i tempi per una riforma del Servizio nuovi giunti appaiano ad oggi piuttosto lontani, si deve prendere atto che il nuovo regolamento penitenziario sembra aver "istituzionalizzato" il servizio, inserendolo tra gli adempimenti obbligatori compresi nelle modalità dell’ingresso in istituto. Infatti, l’articolo 23, comma 3, del citato regolamento, pur non facendo espressa menzione del servizio nuovi giunti, stabilisce che "un esperto dell’osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto, per verificare se, ed eventualmente con quali cautele, possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione". La norma prevede, poi, che i risultati del colloquio siano comunicati, "agli operatori incaricati per gli interventi opportuni" ed agli operatori dell’equipe di osservazione e trattamento, mentre gli eventuali aspetti di rischio - da intendersi come rischio autoaggressivo/suicidario o pericolo di subire violenza da parte di altri detenuti - devono essere segnalati alla magistratura di sorveglianza o, nell’ipotesi di soggetto in stato di custodia cautelare, all’autorità giudiziaria procedente.

 

 

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