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Esecuzione penale e tutela preventiva della salute
Il cittadino detenuto dovrebbe mantenere immutata la titolarità di ogni diritto che non sia in contrasto con il suo stato di detenzione e la possibilità di esercitarlo in concreto. In realtà la situazione del detenuto, a causa della privazione della sua libertà personale, è profondamente diversa da quella di ogni altro cittadino; lo stato di coercizione gli impone infatti di dipendere, per la più piccola necessità, da chi è incaricato della sua custodia. In base all’art. 4 della Legge 26 luglio 1975, n. 354, norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (O.P.). "I detenuti egli internati esercitano personalmente i diritti loro derivanti dalla presente legge anche se si trovano in stato di interdizione legale". L’art. 32, I comma, Cost. stabilisce che "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti"; la salute è espressamente tutelata dall’ordinamento giuridico in quanto considerata bene primario di ogni cittadino e condizione essenziale affinché egli possa realizzare in modo libero e compiuto la sua personalità. Oggetto di tutela sono la salute del singolo, cioè il suo equilibrio psicofisico, e la salute della collettività, cioè delle condizioni di vita della collettività stessa: da questo duplice aspetto del diritto in questione deriva un duplice modello di tutela: da una parte la difesa del singolo dalla malattia, cioè da quel fenomeno che altera il suo equilibrio: dall’altra la difesa della collettività da ogni evento che può provocare lo stato di malattia. Il concetto di salute non si limita peraltro alla cura delle malattie, per cui il diritto alla tutela della salute non si perfeziona in un mero diritto all’integrità fisica e psichica, ma comprende, oltre alla qualità della vita. anche la tutela dell’ambiente in cui il cittadino vive. In proposito, e per quanto riguarda più specificatamente la situazione del detenuto, la Legge n. 354v75 (ordinamento penitenziario) contiene alcune norme di carattere igienico-sanitario, dettate per tutelare la salute dei detenuti e in particolar modo per garantire la soddisfazione delle basilari esigenze igieniche. L’art. 5 O.P. (Caratteristiche degli edifici penitenziari) stabilisce che gli istituti penitenziari siano realizzati "in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati" e che gli edifici siano "dotati. oltre che di locali per le esigenze di vita individuale, anche di locali per lo svolgimento di attività in comune". Secondo l’art. 6 O.P. (Locali di soggiorno e di pernottamento) i locali nei quali si svolge la vita dei reclusi "devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura: aerati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale" ed inoltre "devono essere tenuti in buono stato di conservazione e di pulizia". Sempre il medesimo articolo afferma che "agli imputati deve essere garantito il pernottamento in camere ad un posto a meno che la situazione particolare dell’istituto non lo consenta": ciò, di fatto, risulta di difficile attuazione a causa del sovraffollamento delle carceri. Sempre a proposito dell’igiene personale gli artt. 7 (Servizi igienici) e 8 (Igiene personale) del D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento di esecuzione della Legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative della liberà), in riferimento all’art. 8 O.P. (Igiene personale), prevedono che i servizi igienici siano collocati in un vano annesso alla camera: che i servizi igienici e lavabi debbano essere presenti anche "nelle adiacenze dei locali e nelle aree dove si svolgono attività in comune". Sempre in relazione alla tutela costituzionale della salute è opportuno segnalare l’art. 7 O.P. relativo al vestiario e al corredo da fornire al detenuto al quale devono essere garantiti "la biancheria, il vestiario e gli effetti di uso in quantità sufficiente, in buono stato di conservazione e di pulizia e tali da assicurare la soddisfazione delle normali esigenze di vita": l’art. 9 O.P. secondo il quale deve essere "assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima": l’art. 10 O.P. (Permanenza all’aperto) riguardante la permanenza all’aperto, che deve avere una durata di almeno due ore al giorno, tempo che "può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno per motivi eccezionali" e l’art. 11 O.P. (Servizio sanitario) relativo al servizio sanitario.
Edilizia penitenziaria e tutela della salute
Nel contesto della tutela della salute dei detenuti, assume un ruolo di primaria importanza l’attenzione all’edilizia penitenziaria ovvero allo stato degli edifici penitenziari. Le riforme del 1975 e del 1986 hanno posto l’accento sulla salvaguardia delle basilari esigenze umane individuali del detenuto e sulla possibilità di avere relazioni sociali in spazi a tal fine predisposti. L’art. 6 (Locali di soggiorno e di pernottamento) O.P. ed i successivi artt. 7 (Vestiario e corredo), 8 (Igiene personale), 9 (Alimentazione), sono comunque ispirati ad una finalità di tutela preventiva della salute del detenuto: tutto ciò in conformità dei principi costituzionalmente garantiti di umanizzazione della pena e rispetto per la dignità della persona (artt. 2, 3, e 27 Cost.). L’art. 6 O.P. deve essere letto congiuntamente agli artt. 59 (Istituti per adulti), 60 (Istituti di custodia preventiva), 61 (Istituti per l’esecuzione delle pene), 62 (Istituti per l’esecuzione delle misure di sicurezza detentive), che prevedono la divisione degli istituti in relazione alla finalità cui sono destinati: tale ripartizione è conforme alle metodologie rieducative introdotte nel campo dell’esecuzione penale. La riduzione della capienza degli istituti: la divisione dei detenuti in gruppi: la previsione di spazi per facilitare la partecipazione ai programmi: la predisposizione di zone differenziate per garantire la sicurezza interna all’interno degli istituti penitenziari sono i principi riformatori assunti dal Legislatore allo scopo di favorire il reinserimento sociale dei detenuti. Gli istituti di pena, già a partire dagli anni Settanta, si sono strutturati secondo un modello che prevede un’estensione in senso orizzontale con ampi spazi e corridoi: tali schemi si sono tuttavia rivelati scarsamente funzionali con riflessi negativi anche sulla personalità dei detenuti. Solo a partire dal 1975 con la valorizzazione della finalità rieducative della pena si è avvertita l’esigenza di rinnovare le strutture in cui essa viene erogata. Appare evidente la necessità di porre in essere un funzionale regime di separazione dei detenuti basato sull’osservazione del loro comportamento al fine di consentirne una collocazione adeguata alla soddisfazione delle esigenze loro e della sicurezza. In relazione a determinate categorie di detenuti infatti il problema della salute e del recupero sociale non può essere disgiunto da quello della sicurezza collettiva, e ciò richiede la predisposizione di circuiti differenziati per l’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà. Il problema del sovraffollamento, inoltre, ha da tempo raggiunto livelli di assoluta emergenza e supera in modo netto la capienza degli istituti di pena, con le conseguenze della degenerazione delle condizioni di vivibilità e dell’aumento dei rischi per la salute dei detenuti. Secondo Vitello, allo stato attuale si può auspicare, almeno con riferimento ai locali di soggiorno e di pernottamento, sufficienti ampiezza, luminosità, aerazione e servizi igienici adeguati alla prevenzione e tutela della salute. Non facile risulta poi la determinazione di criteri selettivi (la legge nulla dice in proposito) dei detenuti da porre nella medesima cella: tale scelta è affidata caso per caso alla direzione dell’istituto ed ai suoi collaboratori. Per determinare la dimensione dei locali si può fare rinvio alle previsioni del D.M. 5 luglio 1975, il quale prevede la predisposizione di spazi di almeno 9 mq per una persona: 14 mq per 2 persone e di ulteriori 5 mq per ogni persona aggiunta. I dati oggi disponibili evidenziano una situazione particolarmente preoccupante: è necessario chiedersi se il detenuto abbia a propria disposizione rimedi verso la mancata attuazione delle norme in materia di salute, anche alla luce del fatto che l’ordinamento penitenziario non prevede strumenti destinati a tal fine. Il diritto dei detenuti di presentare istanze o reclami orali o scritti, previsto dall’art. 35 O.P. (Diritto di reclamo), è dotato di scarso impatto nei confronti della amministrazione penitenziaria, in quanto il magistrato di sorveglianza non la può costringere ad un facere e, al più, "può rivolgere le opportune segnalazioni ai superiori gerarchici degli operatori". Il principio di umanizzazione è costituzionalmente garantito e si sostanzia nel divieto di trattamenti contrari al senso di umanità previsto dall’art. 27 c. III della Costituzione. Interessante in proposito appare la sentenza del Tribunale di Firenze (24 novembre 1992, Peruzzi c. Ministero di Grazia e Giustizia), in cui si condanna il Ministero a risarcire i danni da lesioni causate dalla caduta dal posto superiore di un letto a castello all’altezza di 2 metri dal suolo. Accanto al dovere dell’amministrazione penitenziaria di tutelare la salute dei soggetti ad essa sottoposti. predisponendo mezzi adeguati per la tutela preventiva e la cura della medesima, devono essere ricordati anche gli obblighi dei detenuti di collaborazione, tra i quali pulizia delle camere e dei servizi igienici, la cui violazione comporta conseguenze di due ordini: la mancata concessione di benefici motivata come non partecipazione al trattamento: l’applicazione di sanzioni disciplinari per "negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera art. 77, punto I) R.P. (Infrazioni disciplinari e sanzioni). Il diritto alla riservatezza dei detenuti non appare violato dai legittimi e necessari controlli posti in essere dall’amministrazione carceraria per garantire la sicurezza e l’incolumità dei detenuti sia da auto che etero-aggressioni: risulta quindi giustificata la diffusa prassi di ricavare nelle pareti dei locali adibiti a servizi spioncini che consentano un controllo di questi luoghi. Un altro dato da sottolineare è la vetustà delle strutture carcerarie: su circa 250 istituti, 138 sono anteriori al 1860, 35 sono costruiti dal 1860 al 1900, e circa 60 nella prima metà del secolo. La maggioranza di tali edifici non era inoltre originariamente adibita a tale scopo. È facile rendersi conto della inidoneità di queste strutture a soddisfare le esigenze personali e di vita in comune dei carcerati.
L’igiene personale rappresenta un aspetto essenziale della tutela della salute per la cui salvaguardia è quindi assolutamente necessario garantire una condotta di vita igienicamente corretta anche in stato di detenzione. L’ordinamento penitenziario prevede, a tal fine (art. 7), la fornitura di vestiario e corredo in misura adeguata a garantire un buono stato di conservazione e pulizia (vedi anche art. 9 R.P.). Gli imputati ed i condannati possono indossare abiti propri: inoltre ai detenuti ed internati può essere concesso l’uso di corredo di loro proprietà e di oggetti di particolare valore morale o affettivo. Tali disposizioni rivestono una notevole importanza anche dal punto di vista psicologico, contribuendo a contrastare quei fenomeni di spersonalizzazione tipici nei soggetti privati della libertà personale. La definizione qualitativa del materiale sopraindicato è determinata in tabelle (diverse per uomini e donne) approvate con decreto ministeriale. Sempre conformemente al principio di umanizzazione della pena è previsto all’art. 9 del R.P. che i capi e il corredo corrisposti ai detenuti ed internati debbano avere caratteristiche adeguate al variare delle stagioni e alle particolari condizioni climatiche delle zone in cui gli istituti sono ubicati. Nella prassi corrente nessun detenuto fa uso dell’abito fornito dall’amministrazione: tale comportamento è infatti caduto sostanzialmente in desuetudine e ciò peraltro non stride affatto con lo spirito della riforma penitenziaria. L’art. 9 c. IX R.P. stabilisce che "i detenuti e gli internati, i quali fanno uso di abiti e di corredo personale di loro proprietà che non possono essere lavati con le normali procedure usate per quelli forniti dalla amministrazione, devono provvedervi a loro spese": tale disposizione dà adito a qualche dubbio d’opportunità perché, di fatto, introduce condizioni di disparità tra i detenuti in relazione al loro status economico. Al fine di assicurare un’adeguata igiene personale presso ogni istituto devono essere inoltre predisposti servizi per il taglio dei capelli e la rasa tura della barba, anche se imposizioni in tal senso non sono ammesse se non per ragioni di carattere igienico-sanitario. All’interno delle carceri risultano connotate da maggior rischio le diffusioni di malattie infettive: il contagio è, infatti, favorito dal sovraffollamento che costringe i detenuti a vivere in condizioni di promiscuità. Potrebbe essere non priva di interesse l’ipotesi di far assumere alla pulizia personale la fisionomia di un obbligo per il detenuto in ragione delle negative conseguenze che un comportamento omissivo in tal senso potrebbe causare verso gli altri detenuti.In proposito la sentenza della Corte Costituzionale n. 218 del 1994, in materia di interventi per la protezione e la lotta all’Aids ha sancito il fondamentale principio per cui il diritto alla salute dei singoli trova "un limite nel reciproco riconoscimento e nell’eguale protezione del coesistente diritto degli altri" e che "la tutela della salute implica e comprende il dovere dell’individuo di non ledere ne porre a rischio con il proprio comportamento la salute altrui". Di conseguenza per la tutela della salute dei detenuti l’amministrazione penitenziaria non solo deve garantire, ma anche imporre, qualora se ne presenti la necessità, regole di condotta in materia di igiene personale.
Alimentazione e tutela della salute
Una sana e sufficiente alimentazione è condizione imprescindibile per garantire la salute dei soggetti sottoposti a provvedimenti restrittivi della libertà: ai sensi dell’art. 9 O.P. "l’alimentazione deve essere adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima". La qualità del cibo ed il modo in cui è servito condizionano l’idea che i detenuti percepiscono dell’attenzione e della correttezza della amministrazione penitenziaria nei loro confronti. D’altro canto la privazione della libertà incide sui processi di assimilazione e metabolismo. Relativamente ai criteri qualitativi e quantitativi del vitto giornaliero si fa riferimento a tabelle (c.d. vittuarie) approvate con decreto ministeriale in conformità del parere dell’Istituto superiore della nutrizione (Art. 11 R.P.). Tali tabelle devono considerare le necessità alimentari dei detenuti in relazione alla loro condizione e secondo l’ausilio dei criteri indicati dalle scienze dietetiche. È prassi diffusa che le tabelle siano variate anche con semplici circolari del Direttore generale dell’amministrazione: tra queste la Circolare Ministeriale 7 aprile 1988, n. 686040, ha disposto che le proposte di modifiche del vitto d’infermeria devono essere formulate con l’intervento del sanitario. Tra i detenuti, piuttosto diffusa è la tendenza a rifiutare il cibo: per combattere tale fenomeno sono state varate commissioni composte da detenuti estratti a sorte mensilmente, con la funzione di sovrintendere alla produzione ed alla distribuzione del vitto: ciò avrebbe dovuto portare al coinvolgimento dei detenuti nella gestione penitenziaria, accrescendo nel contempo il loro senso di responsabilità. Di fatto, l’idea non si è concretamente realizzata. Opportuno sarebbe installare in ogni reparto dell’istituto cucine autonome per gruppi limitati di detenuti, ma tali iniziative incontrano spesso ostacoli di ordine organizzativo e finanziario. Fondamentale è la previsione per cui i pasti devono essere consumati in locali all’uopo destinati (Art. 13 R.P). La consumazione del pasto può, infatti, assumere valenza risocializzativa. Molto diffusa, invece, appare essere la consuetudine di preparare e consumare il cibo nelle celle, locali di per sé inidonei a tale funzione. I detenuti e gli internati possono, a proprie spese, acquistare generi alimentari secondo quanto dispone l’art. 14 R.P. (Ricezione, acquisto e possesso di oggetti e di generi alimentari), in misura non eccedente il fabbisogno di una persona. Deve infine essere ricordata la possibilità dei detenuti di ricevere generi alimentari mediante pacchi provenienti dall’esterno: il rischio connesso a tale procedura è quello dell’introduzione in carcere di oggetti non consentiti, da ciò deriva la necessità di predisporre adeguati controlli che non devono però assumere il carattere della censura. L’amministrazione, con regolamento interno, stabilisce quanti e quali beni possono essere posseduti, acquistati o ricevuti. Per quanto riguarda le bevande alcoliche, è previsto il divieto di ricezione dall’esterno delle stesse: è consentito l’acquisto presso lo spaccio interno e il consumo giornaliero di mezzo litro di vino (12 gradi alcolici) o di un litro di birra. In ogni caso ne è vietato l’accumulo.
Permanenza all’aperto e tutela della salute
L’art. 10 O.P. (Permanenza all’aperto) stabilisce che il detenuto ha diritto ad almeno due ore al giorno di permanenza all’aperto: periodo che può essere ridotto solo per motivi eccezionali e comunque a non meno di un’ora. La permanenza all’aperto oltre che rappresentare una fondamentale esigenza per la conservazione di un buono stato di salute, si configura quale momento di socialità ed è effettuata in gruppi, tranne nei casi in cui si sia in presenza di isolamento continuo v. art. 33 O.P. (Isolamento), oppure nelle ipotesi di sanzioni disciplinari di "isolamento durante la permanenza all’aria aperta" e di "esclusione dalle attività in comune" (di cui ai punti 4 e 5) dell’art. 39 O.P. (Sanzioni disciplinari). Solo con la riforma del 1975 il nostro ordinamento ha dato attuazione a tale garanzia fondamentale per i detenuti, adeguandosi a quanto già espresso nei principi costituzionali (art. 27), nelle regole minime per il trattamento dei detenuti approvate dall’ONU (artt. 21 e 22), e nelle regole approvate dal Consiglio d’Europa (art. 86). Prima della riforma del 1975 non si parlava di "permanenza all’aperto", ma di "passeggio nei cortili": evidente era la tendenza a considerare come diritto dei detenuti solo quello di passeggiare in file ordinate e senza alcuna finalità trattamentale. Il diritto alla permanenza all’aperto non viene meno neanche in regime di sorveglianza speciale (art. 14 quater O.P.). È peraltro evidente che le attività comuni che pongano a rischio l’ordine e la sicurezza possono comunque essere impedite.
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