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Esigenze cautelari e tutela della salute: normativa attuale
Novità significative in relazione alle misure cautelari furono introdotte dal nuovo codice di procedura penale del 1988, quali l’estensione della gamma di misure cautelari a disposizione del giudice e l’affermazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, con la conseguente eliminazione di ogni ipotesi di obbligatorietà basata su presunzioni precostituite di pericolosità. Nel nuovo codice mutava quindi radicalmente la configurazione della custodia cautelare destinata a divenire residuale, ovvero l’ultima di una serie di misure in ordine crescente di affettività, disponibile soltanto qualora nessuna altra fosse ritenuta idonea a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto. Il codice introdusse infatti il divieto espresso di disporre la custodia cautelare in quattro specifici casi, disciplinati dall’art. 275, commi IV e V c.p.p., ovvero nei casi di persona incinta o che allatta la prole; persona che si trova in condizioni di salute particolarmente gravi: ultra sessanta cinquenni; imputato tossicodipendente o alcoldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata quando l’interruzione del programma possa pregiudicare la disintossicazione dell’imputato stesso. La norma prevedeva che in tali casi la misura della custodia cautelare potesse essere disposta solamente nel caso in cui fossero riscontrate "esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". Nel nuovo sistema si realizzava quindi un attenuazione del periculum libertatis a favore degli imputati in condizioni fisiche speciali rispetto ai quali era in linea di principio esclusa la possibilità di disporre la custodia in carcere: qualora il giudice ritenesse di dover comunque disporre la misura in esame, sorgeva a suo carico un onere particolare di motivazione, posto che le esigenze cautelari ordinariamente idonee a giustificare il ricorso alla misura custodiale, in tali casi, dovevano assumere i connotati della "eccezionale rilevanza". Le nuove disposizioni si discostavano concettualmente dalle prime previsioni di rilevanza ostativa delle condizioni di salute sulle esigenze di custodia cautelare: se il sistema del codice previdente autorizzava ad interpretare la situazione di malattia dell’imputato come eccezione alla regola che ne imponeva 10 status custodiale, il nuovo codice autorizzava invece un’interpretazione diametralmente opposta: la custodia in carcere dell’imputato in condizioni di salute particolarmente gravi doveva costituire eccezione alla regola che ne vietava la detenzione. Nel regime del codice precedente si tentava di superare la relatività del concetto di "gravi condizioni di salute", attraverso il criterio della compatibilità con lo stato detentivo delle stesse condizioni di salute. In sede di valutazione medico-legale erano prese in considerazione ulteriori variabili quali l’esistenza di determinate strutture diagnostiche e terapeutiche nell’ambito degli istituti penitenziari, la presenza di personale specializzato e la qualità dell’assistenza infern1ieristica. L’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale del 1988 permise di superare sia la concezione relativistica, sia il concetto di compatibilità: con esso l’intrinseca gravità delle condizioni di salute del detenuto in attesa di giudizio divenne il criterio principale di valutazione. Nel nuovo codice fu quindi superato il riferimento alla compatibilità tra quadro clinico e stato di detenzione e venne prevista una scelta preferenziale a favore di misure cautelari diverse dalla carcerazione, tranne che in presenza di esigenze di eccezionale rilevanza. In sede di valutazione medico-legale, ciò sembrava autorizzare il ricorso al criterio utilizzato per gli arresti domiciliari, ovvero dell’intrinseca gravità delle condizioni di salute senza alcun collegamento con il criterio della compatibilità con lo stato detentivo. Conseguentemente la valutazione medico-legale della gravità delle condizioni di salute doveva riferirsi a criteri strettamente clinici, ovvero all’entità della compromissione dello stato di salute dell’imputato sotto il profilo fisiopatologico, ovvero il grado di compromissione organo-funzionale globale: prognostico, ovvero la natura del giudizio prognostico quoad vitam: terapeutico, ovvero l’intensità dei presidi terapeutici necessari. Successivamente l’originario assetto del sistema cautelare venne stravolto da interventi legislativi di carattere urgente acuendo la tendenza ad introdurre, anche per la fase dell’esecuzione della pena detentiva, forme presunti ve di pericolosità sociale desunte dal titolo del reato (vd. artt. le 2 del D.L. 13 novembre 1990. n. 324 o artt. 1, 2, 4, 5 del D.L. 13 marzo 1991, n. 152, convertito con modificazioni dall’art. 1 comma I. Legge 12 luglio 1991, n. 203 la limitazione del potere discrezionale del giudice nel modulare l’afflittività della custodia a favore di un potenziamento dei poteri dell’accusa (vd. art. 291 comma I bis c.p.p. ex art. 12 D.Lgs. 14 gennaio 1991, n. 12, in seguito abrogato dalla Legge 33 del 1995 e l’inversione dell’onere della prova relativo alla sussistenza o insussistenza delle esigenze cautelari. Con l’art. 1, comma I-bis del D.L. 9 settembre 1991, convertito nella Legge n. 356/91, il legislatore interveniva sul comma IV dell’art. 275 c.p.p., al fine di precisare la portata del divieto, stabilendo che "Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata è una persona, che si trova in condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione". Tale assetto pose però alcuni problemi di coordinamento tra i commi III e IV dell’art. 275 c.p.p., la presunzione di pericolosità sociale da cui derivava la cattura obbligatoria, incideva inevitabilmente sulla tutela della salute, ancor più di quella "eccezionale rilevanza", in base alla quale la tutela sanitaria doveva comunque abbozzare all’interesse collettivo di difesa sociale. Sul punto la Corte di Cassazione sottolineava che è legittimo ritenere che esigenze cautelari di eccezionale rilevanza debbano ravvisarsi nelle stesse finalità di prevenire i pericoli di cui all’art. 274 c.p.p., quando però tali pericoli si connotino in un non comune, spiccatissimo ed allarmante rilievo e derivino specificamente dalla eventuale attenuazione di misure custodiale a favore di soggetti che abbiano, sebbene in età avanzata o nelle precarie condizioni fisiche la concreta possibilità di eludere le finalità processuali e di prevenzione specifica tutelate dalla legge. La Suprema Corte precisava che le esigenze di eccezionale rilevanza richieste dall’art. 275. comma IV. c.p.p., non possono identificarsi con quelle presunte per legge derivanti dal titolo del reato, ai sensi del precedente comma III della medesima disposizione, ne farsi derivare dalla semplice constatazione che l’imputato abbia subito precedenti condanne, ma postulano l’esistenza di puntuali e specifici elementi dai quali possa emergere un non comune, rilievo dei pericoli ai quali fa riferimento l’art. 274 c.p.p., il che implica l’obbligo per il giudice di una congrua e puntuale motivazione. Secondo la Cassazione, la presunzione in bonam partem, fissata dall’articolo 275 comma IV c.p.p., poteva essere considerata prevalente, per la sua maggiore specificità, rispetto a quella in malam partem, contenuta nel c. III dello stesso articolo: così che, per applicare la custodia cautelare in carcere a chi si trovasse nelle condizioni di cui all’art. 275 comma IV, il giudice doveva valutare come eccezionali le esigenze cautelari, quand’anche sussistessero gravi indizi in ordine ai reati di cui al comma III dell’articolo citato. Per quanto riguarda il riferimento all’età, il Legislatore stabiliva il divieto di disporre la custodia cautelare in carcere al soggetto ultrasettantenne e non più all’ultra sessantacinquenne. La Corte di Cassazione, peraltro, affermò che per chi avesse superato l’età di settanta anni, l’incompatibilità con il regime carcerario era presunta dalla legge, senza che fosse necessario accertare la sussistenza di infermità particolarmente gravi, in tal caso, ogni indagine circa la gravità e la compatibilità delle infermità, da cui il soggetto fosse eventualmente affetto, con lo stato di detenzione, pur potendo essere utile, non aveva valore decisivo, quel che era decisivo, invece, era l’accertamento, imposto dalla legge, circa la sussistenza delle esigenze cautelari, che dovevano essere riconosciute dal giudice come aventi rilevanza eccezionale. La giurisprudenza sottolineava come la nuova norma facesse derivare dal superamento del settantesimo anno di età "una presunzione di ridotta pericolosità sociale connessa all’inevitabile scadimento delle facoltà fisiche e psichiche dell’uomo, affidando al giudice il compito di stabilire caso per caso se la situazione di fatto, complessivamente valutata, fosse di tale gravità da giustificare, anche in questa ipotesi, l’applicazione di una misura cautelare". Sempre in riferimento all’applicazione dell’art. 275 c. IV la S.C. precisò che tale norma si applica anche quando lo stato detentivo sia fattore causale o conca usale della patologia lamentata (X) e ribadi che "l’impossibilità di disporre la custodia cautelare in carcere, o la necessità di revocare quella disposta, non sussiste nel caso di una patologia che presenti ipotesi meramente eventuali di eventi acuti. non prospetti pericolo attuale e concreto di esiti infausti e possa essere facilmente curata con una terapia farmacologica praticabile e praticata all’interno del carcere". Ulteriori modificazioni furono apportate dalla Legge 8 agosto 1995 n. 332 che con la restrizione del numero dei delitti a custodia obbligatoria effettuata dal comma III dell’art. 275 introdusse una diminuzione dell’area dei delitti ad esigenze cautelari eccezionalmente rilevanti, per le quali il giudice doveva individuare un punto di equilibrio tra la "presunzione di ridotta pericolosità del soggetto, stante le sue condizioni di salute, e l’inversa presunzione della speciale gravità del delitto e della ritenuta adeguatezza della sola custodia in carcere". L’applicazione dell’art. 275 comma III c.p.p., si riduceva quindi al delitto di associazione a delinquere di tipo mafioso art. 416 bis c.p., e ai delitti consumati o tentati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416 bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, secondo quanto all’uopo disposto dall’art. 5 comma I della legge in esame. La riforma comportò un ampliamento della portata del comma IV dell’art. 275 c.p.p., l’ipotesi "Persona che allatta la propria prole", fu sostituita da "Madre di prole di età inferiore ai tre anni con lei convivente", in riferimento non più soltanto al criterio naturale dell’allattamento ma anche a quello sociale della convivenza, estesa anche al padre, qualora la madre fosse "deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole". La dottrina proponeva una lettura estensiva della norma in tale nuova formulazione, favorita dall’utilizzazione della disgiuntiva, volta a richiedere per il padre le medesime condizioni di convivenza e d’età della prole espressamente richieste per la madre e sottolineava come il riconoscimento della stessa posizione di tutela della madre anche al padre rischiava, per il modo in cui era stata attuata, di essere eccepibile per disparità di trattamento. D. Ambrosio, in particolare, metteva in evidenza come la norma così formulata fosse "astrattamente applicabile" a numerose ipotesi tra le quali i casi in cui non erano provati la precedente convivenza del padre con la prole ed il suo precedente legame di fatto e di diritto con essa: i casi in cui fosse stato lo stesso padre a cagionare il decesso della moglie; i casi in cui la prole cui doveva accudire il padre, per decesso o per impossibilità della moglie, fosse di età superiore a quella dei tre anni prevista nella normativa di favore stabilita per la madre e sulla quale, all’evenienza, doveva modellarsi anche quella relativa al padre, e i casi, infine, in cui la situazione di impossibilità per la madre di assistere la prole potesse essere strumentalmente e successivamente adattata a seconda delle necessità del marito imputato. Tale disposizione si poneva in linea di continuità con le indicazioni emergenti da una pronuncia della Corte Costituzionale che nel dichiarare la parziale illegittimità dell’art. 47 ter della Legge n. 354/75, in tema di detenzione domiciliare, aveva sottolineato come la parificazione del1e posizioni del padre a quelle già fissate per la madre deve avvenire ricorrendo le stesse condizioni. La Suprema Corte, relativamente al1a impossibilità del1a madre di dare assistenza alla prole, affermava che l’art. 275 comma IV, non contiene una delimitazione d’ordine temporale entro la quale si deve verificare l’assoluta impossibilità per la madre di dare assistenza alla prole, e tale impossibilità non può certo avere carattere assoluto se limitata a qualche giorno o a pochi giorni, essendo possibili soluzioni pratiche di immediata attuazione a tutela dei minori interessati. Quando però, essa è destinata a protrarsi per un tempo apprezzabile, si realizza la condizione oggettiva per l’applicazione del citato comma quarto, e che il giudice deve bilanciare le esigenze di difesa processuale o sociale con la particolare situazione personale dell’indagata, e che "le esigenze cautelari devono far riferimento ad un pericolo non comune rileva bile da fatti concreti e non possono essere desunte semplicemente dalla gravità del titolo del reato ne dal1’appartenenza dell’indagata ad una comunità, quella nomade, le cui abitudini di vita sono ritenute incompatibili con l’effettiva efficacia di cautele graduate rispetto alla custodia cautelare in carcere. Il Legislatore del 1995 sostituiva quindi, ai fini del divieto, il riferimento a "condizioni di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in stato di detenzione" con il riferimento a condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere, introducendo il criterio dell’incompatibilità con lo stato di detenzione. La dottrina, da subito, cercò di individuare il significato del concetto di incompatibilità non comprendendo appieno se l’imputato doveva trovarsi in condizioni di salute particolarmente gravi ovvero se la particolare gravità di tali condizioni operasse solo con riferimento all’ipotesi in cui esse fossero (anche) incompatibili con lo stato di detenzione. Secondo D. Ambrosio, la norma era diretta ad impedire la custodia in carcere, sia a chi si trovava in condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione, sia a chi si trovava in condizioni di salute particolarmente gravi che non consentivano le cure necessarie nello stato di detenzione. Così Riviezzo, per il quale, ai fini della presunzione di non pericolosità erano rilevanti le condizioni di salute particolarmente gravi, tali da non consentire adeguate cure in ambiente carcerario anche se in astratto compatibili con lo stato di detenzione comunque, ed inoltre quelle tali da essere considerate incompatibili con lo stato di detenzione, anche se indipendenti dalla possibilità di adeguate cure in carcere. Il Legislatore sostituì quindi il concetto di adeguatezza delle cure a quello di necessarietà. Precedentemente, la Cassazione aveva precisato che per stabilire se le condizioni di salute della persona consentivano le cure necessarie in stato di detenzione, occorreva fare riferimento al suo stato clinico attuale, in rapporto alla terapia che poteva e doveva essere praticata anche in funzione preventiva di eventuali aggravamenti improvvisi, nei centri clinici carcerari, e non a quella praticabile all’occorrenza tempestivamente in altra sede e ancora che "le cure necessarie di cui al comma IV dell’art. 275 c.p.p., erano quelle originariamente volte non alla risoluzione della malattia, ma anche al controllo della malattia stessa, al fine di evitare un peggioramento delle condizioni di salute". Cordero sottolineò la difficile definibilità del concetto di adeguatezza, dal momento che stare al chiuso non è allegro ne comodo: come minimo deprime gli umori col relativo effetto somatico: e le terapie ivi praticabili non sono mai adeguate, se pigliamo a parametro una clinica chic con vista sulle Alpi svizzere: D’Ambrosio a sua volta definì tale criterio un parametro sostanzialmente vago e strumentalizzabile. La riforma aveva inciso anche sulla previsione dell’art. 299 c.p.p., che, per essere "la trasposizione a custodia avviata dei principi che governano il momento introduttivo delle misure coercitive o interdittive, era inevitabilmente destinata a risentire delle tensioni subite da questi ultimi. Nella sua formulazione originaria, tale norma consentiva un’ampia discrezionalità al giudice in relazione alle misure cautelari disposte con facoltà di ricorrere a misure meno afflittive in caso di insussistenza o attenuazione delle esigenze cautelari derivanti da stati patologici. L’art. 5 comma III della Legge 332 1995, prevedeva l’adozione di procedure più rigorose per gli accertamenti delle condizioni di salute della persona sottoposta a misure coercitive, attraverso una ridefinizione dei tempi, delle forme e delle modalità degli stessi. La norma prevedeva che il giudice, qualora non fosse in grado di decidere allo stato degli atti. dovesse nominare un perito per l’espletamento degli accertamenti medici anche nell’ipotesi in cui la gravità delle condizioni di salute gli venisse comunicata all’esterno, ad esempio, attraverso una segnalazione del servizio sanitario penitenziario o del difensore o ancora dei familiari. Il perito, per espressa previsione di legge, deve tenere conto del parere del medico penitenziario e riferire entro il termine di cinque giorni, ovvero nel caso di rilevata urgenza, non oltre due giorni dall’accertamento" (art. 299 comma IV ter c.p.p.). La giurisprudenza osservava in proposito che è comunque consentito al giudice di delibare sull’ammissibilità della richiesta, onde attivare la procedura decisoria, ma al solo fine di verificare che sia stata prospettata una situazione di salute della specie prevista dall’art. 275 comma IV c.p.p., senza la possibilità di alcuna valutazione di merito, mentre gli è inibito respingere la domanda solo perché, in via preliminare, si prefiguri la sussistenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, non potendo tale apprezzamento che essere successivo all’accertamento peritale che offre il parametro di comparazione. Sempre in relazione alla compatibilità della custodia cautelare in carcere con lo stato di salute fisica la S.C. affermava che, occorre tenere conto non solo della situazione clinica esistente al momento dell’accertamento, ma anche della prevedibile evoluzione del quadro clinico e della potenziale incidenza in modo irreparabile della detenzione sulla salute del paziente. In altra sentenza la S.C. stabiliva che il giudice può esercitare il potere coercitivo di assoggettamento dell’imputato al trattamento più afflittivo soltanto dando conto, con il rigore di una specifica motivazione, delle precise ragioni che legittimano una deroga al principio stabilito dal comma IV dell’art. 275 c.p.p., e dimostrando l’esistenza nel caso concreto, di un periculum in libertate di intensità così elevata e straordinaria da far venir meno il divieto di applicazione della misura custodiale in relazione alla comprovata inidoneità di ogni altra misura a fronteggiare esigenze cautelari di inusuale gravità. Per quanto riguarda le istanze di revoca odi sostituzione della misura custodiale in carcere, fondate sull’incompatibilità delle condizioni di salute, la giurisprudenza ha più volte sottolineato che, qualora il giudice non ritenga di accogliere in base agli atti tale richieste e quindi disponga gli accertamenti medici del caso, nominando un perito ai sensi dell’art. 220 c.p.p., e seguenti, "devono essere rispettate tutte le formalità della perizia, ivi compresi gli avvisi per l’accertamento peritale, in modo da garantire il contraddittorio tra le parti": il giudice, deve tener conto della situazione di incompatibilità con lo stato di detenzione dal punto di vista oggettivo, perciò quando si sia determinata una condizione di grave decadimento psicofisico, è del tutto irrilevante il fatto che essa sia stata determinata dalla ripetizione di tentativi di suicidio a carattere dimostrativo o strumentale. La giurisprudenza sottolineava inoltre come la presentazione di tali istanze "non impone automaticamente al giudice la nomina dello stesso (perito) per gli accertamenti medici, se non sussiste un apprezzabile fumus e cioè se non risulta formulata una diagnosi di incompatibilità o comunque non si prospetta una situazione patologica tale da non consentire adeguate cure in carcere" e poiché l’attivazione del procedimento di revoca o di sostituzione della custodia cautelare in carcere a causa di condizioni di salute incompatibili con lo stato di detenzione, o comunque tali da non consentire adeguate cure inframurarie, postula solo che risultino al giudice sulla base della richiesta. ovvero della segnalazione del servizio sanitario penitenziario, le condizioni predette, non può essere posto a carico dell’interessato un onere di allegazione sanitaria a pena di inammissibilità della richiesta. La Corte ha inoltre precisato che il riferimento agli artt. 220 e segg. c.p.p., contenuto nell’ultimo comma dell’art. 299 c.p.p., così come modificato dalla Legge n. 332 95, va interpretato. Lenendo conto necessariamente dell’urgenza e della celerità che connotano l’accertamento tecnico (perizia medica) sulle condizioni di salute dell’imputato (o dell’indagato), da eseguirsi di regola solo in cinque giorni e, addirittura. in due nel caso di rilevata urgenza. Nuove modifiche sono state introdotte con l’approvazione della Legge 12 luglio 1999, n. 231 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti di soggetti affetti da Aids conclamata oda grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave). Con tale legge, da un lato (artt. 1-4), si è inteso dettare una nuova regolamentazione della custodia cautelare nei confronti delle persone affette da Aids o da altre malattie particolarmente gravi, dall’altro (artt. 5-6), si è intervenuti nella fase di espiazione della pena, con l’introduzione di una nuova disciplina sul rinvio obbligatorio dell’esecuzione e con un ampliamento delle ipotesi di ammissibilità verso misure alternative alla detenzione. La Legge 231v99 ha unificato, sotto il profilo normativo, il trattamento cautelare degli imputati affetti da malattie particolarmente gravi, per effetto delle quali le condizioni di salute risultino incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in carcere, e degli imputati affetti da Aids conclamata oda grave deficienza immunitaria, tali situazioni erano precedentemente oggetto di due differenti disposizioni: l’art. 275 comma IV c.p.p., e l’art. 286 - bis del medesimo codice di rito. L’articolo 275 c.p.p., (Criteri di scelta delle misure) veniva quindi nuovamente riformulato con l’introduzione di quattro nuove disposizioni, mentre la prima parte del vecchio comma I dell’art. 286 bis c.p.p., veniva inglobata nel nuovo comma IV bis, in forza del quale: "Non può essere disposta ne mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l’imputato è persona affetta da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286-bis, comma II, ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere". Nonostante le due situazioni ora trovino disciplina nell’ambito della medesima disposizione, quest’ultima effettua comunque una bipartizione tra le due differenti fattispecie. Mentre nel caso dell’infezione da Hiv il riferimento alle categorie Aids conclamata e grave deficienza immunitaria limita la discrezionalità del giudice (nel senso che il criterio nosografico determina di per se una situazione di incompatibilità), nel caso di "altra malattia particolarmente grave" le nuove norme ripropongono la formulazione ex Legge n. 332 del 1995. Nella valutazione dell’incompatibilità delle condizioni di salute con lo stato detenzione, la Legge n. 231 del 1999 fa proprio quel parametro "dell’adeguatezza" delle cure che, se da un lato rappresenta lo strumento per una più efficace tutela del diritto alla salute dell’imputato malato rispetto al previdente parametro della "necessità" delle cure, dall’altro sembra consentire margini di discrezionalità molto ampi. Il nuovo comma IV ter della disposizione in esame, in relazione al caso delle patologie diverse dalla infezione da Hiv, stabilisce che "Nell’ipotesi di cui al comma IV bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non è possibile senza pregiudizio per la salute dell’imputato odi quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza". In caso di "malattia particolarmente grave" il diritto alla salute dell’imputato risulta quindi preminente anche in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza; significativo appare anche il riferimento alla tutela della salute degli altri detenuti, in relazione soprattutto "al dato epidemiologico di un’aumentata incidenza nella popolazione detenuta della patologia tubercolare". Il comma IV quater dell’art. 275 c.p.p., prevede che, qualora il malato, dopo avere beneficiato, in sede di applicazione e di sostituzione di misure cautelari, delle favorevoli disposizioni appena viste, commetta un delitto compreso tra quelli per i quali sia previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, il giudice possa comunque disporre la custodia cautelare in carcere e prevedere che l’imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessaria. Con tale norma si è inteso colmare una lacuna della normativa previdente, anche a fronte del forte allarme sociale generato dalle famigerate azioni della cosiddetta "banda dei sieropositivi", operante a Torino proprio in quegli anni in forza di un’impunità che scongiurava ai componenti il rischio del rientro in carcere. "Nel caso di cui al comma IV quater quindi non sono le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza ad imporre un nuovo ingresso in carcere all’imputato, ma esigenze di sicurezza sociale, la cui tutela si rende necessaria in seguito alla commissione di reati da parte di chi, a tutela della propria salute, aveva potuto beneficiare del trattamento più favorevole" . Con tale disposizione il diritto alla tutela della salute dell’imputato non si configura più, nella fattispecie considerata, come diritto assoluto, ma è invece graduato, secondo la discrezionalità del giudice, in relazione alla meritevolezza del detenuto (e in questo senso va visto l’obbligo per il giudice di disporre che l’imputato venga condotto in un istituto adeguatamente attrezzato, nel senso cioè di una misura volta a salvaguardare esigenze di carattere umanitario piuttosto che di tutela della salute nei confronti di un soggetto le cui condizioni di salute erano state precedentemente giudicate incompatibili con la detenzione in carcere), in secondo luogo, il passaggio da un automatismo ope legis ad una discrezionalità ope iudicis nell’accertamento delle condizioni d’incompatibilità, si propone anche un ovvio effetto di deterrenza, evitando così che il riconoscimento di una situazione di incompatibilità possa tradursi di fatto nella creazione di una categoria speciale di soggetti. le cui azioni sono immuni da conseguenze penali. Così l’art. 276 comma I bis c.p.p., stabilisce che il giudice possa comunque disporre la custodia cautelare in carcere, purché in istituto adeguatamente attrezzato, nel caso di trasgressione da parte dell’imputato delle prescrizioni inerenti alla diversa misura cautelare disposta: anche in tal caso, in assenza di reparti specializzati, il giudice dovrà far ricorso alla disposizione di cui al comma IV ter (Arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Il comma IV quinquies della disposizione in esame prevede un’ipotesi di incompatibilità assoluta tra condizioni di salute e stato di detenzione., affermando che "la custodia in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase così avanzata da non rispondere più. secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili ed alle terapie" (art. 275 c. IV quinquies c.p.p.). Il fatto che in presenza di tali condizioni la custodia in carcere non possa "comunque" essere disposta comporta il superamento anche di eventuali esigenze cautelari di eccezionale rilevanza o delle specifiche esigenze di sicurezza sociale di cui al comma IV ter: il prevalere delle esigenze di ordine umanitario emerge anche dal fatto che il legislatore evita ogni riferimento all’idoneità delle strutture. La notevole discrezionalità concessa al giudice rende il giudizio sulla compatibilità tra condizioni di salute e stato detentivo scaturente, anziché da una valutazione in termini astratti dell’entità nosografica. da un’effettiva considerazione dei criteri diagnostico (criterio qualitativo, di gravità della forma morbosa (criterio quantitativo), di disponibilità di strumenti diagnostici e terapeutici (criterio strutturale), di capacità di far fronte all’urgenza (criterio dell’urgenza), nello spirito di quella valutazione caso per caso postulata dalla Corte Costituzionale nella declaratoria di incostituzionalità della Legge n. 222 del 1993. La stessa discrezionalità, d’altra parte, comporta il rischio che, nonostante alcune aperture della giurisprudenza di legittimità, la magistratura di cognizione, accolga un orientamento restrittivo, minimizzando le conseguenze dell’obiettiva impossibilità di cura all’interno delle strutture carcerarie, sia in caso di crisi apicale di determinate patologie, sia in caso di particolari modalità terapeutiche confliggenti con la tradizionale staticità dell’organizzazione carceraria. In tale prospettiva un ruolo centrale è assunto dall’accertamento medico-legale, soprattutto alla luce della complessità degli attuali presidi diagnostico-terapeutici e di quelli implicati nel trattamento dell’infezione da Hiv: la Suprema Corte ha recentemente stabilito che ..ove il giudice non ritenga di accogliere sulla base degli atti, la richiesta di revoca o di sostituzione della misura cautelare in carcere basata sulla prospettazione di condizioni incompatibili con lo stato di detenzione o comunque tali da non consentire adeguate cure inframurarie, è tenuto a disporre gli accertamenti medici del caso, nominando un perito secondo quanto disposto dall’art. 299 comma IV ter c.p.p.. La valutazione in tema d’incompatibilità parrebbe prescindere dall’accertamento medico, in un’unica ipotesi di incompatibilità assoluta con lo stato di detenzione non derogabile dovuta a malattia con prognosi infausta, disciplinata, per quanto concerne l’imputato, dall’art. 275 comma IV quinquies c.p.p., mentre per quanto concerne il condannato, dall’art. 146 comma I n. 3 c.p.. In tali casi, l’accertamento de quo è demandato al servizio sanitario penitenziario o a quello esterno, competente a rilasciare la relativa certificazione. Un diverso aspetto attiene invece al rischio che, a seguito della possibile revoca della misura cautelare o alternativa concessa in relazione alla meritevolezza del detenuto, si crei una sorta di pendolarismo forzato tra carcere, ospedale o altro luogo di cura e che si verifichino, conseguentemente, momenti di discontinuità terapeutica anche prolungati. Per evitare che la coerenza dell’intero impianto normativo venga vanificata, è necessario un adeguato sforzo finanziario ed organizzativo sia all’interno, sia all’esterno del carcere. A tale proposito un certo pessimismo sembra però scaturire dalla non completa attuazione delle convenute disposizioni in tema di riordino della medicina penitenziaria (D.Lgs. 230 1999), che avrebbero dovuto consentire di sostituire alla pluralità ed alla disomogeneità degli attuali rapporti tra amministrazione penitenziaria ed aziende-unità sanitarie locali, un diverso sistema di relazioni, permettendo così di compiere un passo decisivo nella direzione di una più concreta tutela del diritto alla salute del detenuto.
Le misure cautelari non detentive
Anche le misure coercitive diverse da quelle custodiali si pongono quale banco di prova dell’effettivo esercizio del diritto alla salute. La Corte Costituzionale, in relazione alla misura del divieto di espatrio, con Sentenza 31 marzo 1994, n. 109 ha dichiarato illegittimo il comma 2 bis dell’art. 281 c.p.p., che prevedeva che, in presenza di taluna delle altre misure cautelari coercitive, dovesse essere sempre disposto anche il divieto di espatrio: al giudice, anche in presenza di particolari esigenze di salute, non era consentita alcuna valutazione circa l’adeguatezza della misura stessa. Pertanto, qualsiasi emergenza di natura sanitaria che avesse richiesto cure all’estero difficilmente avrebbe potuto comportare manipolazioni giudiziali sul divieto di espatrio, stante la rigida automazione del meccanismo. In relazione alla misura dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. disciplinata dall’art. 282 c.p.p., il giudice precisa i giorni e le ore di presentazione in relazione all’attività lavorativa e al luogo di abitazione dell’imputato: tale previsione appare non riferibile in alcun modo alla tutela della salute dell’individuo. Al contrario l’ipotesi del divieto e o obbligo di dimora di cui all’art. 283 c.p.p. prevede che "nel determinare i limiti territoriali delle prescrizioni, il giudice considera, per quanto è possibile le esigenze di alloggio, di lavoro e di assistenza dell’imputato. Quando si tratta di persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il programma di recupero prosegua". L’art. 284 c.p.p. contempla invece la misura degli arresti domiciliari la cui applicazione comporta che l’imputato non possa allontanarsi "dalla propria abitazione o da altro luogo di privata dimora ovvero da un luogo pubblico di cura o di assistenza": il giudice può imporre inoltre "limiti o divieti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono". La Corte di Cassazione in proposito ha stabilito che "nell’imposizione di eventuali limiti e divieti alle facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che lo assistono, occorre considerare che il concetto di assistenza si correla anche al tipo e alla gravità della malattia. Compete al giudice di merito, da un lato, valutare in concreto se la partecipazione di uno stretto congiunto sia necessaria all’assistenza del degente (in particolare in quello in fase terminale), dall’altro, tenere conto delle esigenze di cautela processuale senza violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. Questo principio, dettato dall’art. 27 Cost. comma III con riferimento alla pena, deve a maggior ragione ispirare la concreta disciplina delle misure cautelari, considerata la presunzione di non colpevolezza dell’imputato. Il divieto o la drastica limitazione dei contatti degli stretti congiunti, senza l’esplicazione della specifica necessità ravvisata nella specie e senza tenere conto della fase e della gravità della malattia, viola l’art. 284 c.p.p..
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