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Sistema penale e dipendenze patologiche
Evoluzione della normativa italiana sugli stupefacenti
Solo a partire dal codice Rocco (1931) le sostanze "stupefacenti" assumono un’autonomia concettuale e di disciplina. I mutamenti intervenuti nel corso di 70 anni, hanno riguardato il trattamento del consumatore di stupefacenti, il sistema normativo di individuazione delle sostanze e l’intervento pubblico di prevenzione del consumo. La prima disciplina degli stupefacenti è contenuta nella Legge 18 febbraio 1923, n. 396, la quale, come il successivo codice penale, riguardo al primo aspetto in linea di principio non puniva il consumatore di droga; le sostanze erano classificate in appositi elenchi e dalla legge traspariva una scarsa attenzione agli aspetti psico-sociali del consumo di stupefacenti. La successiva Legge 22 ottobre 1954, n. 1041 introdusse l’incriminazione della detenzione, anche per uso personale, e il tossicodipendente veniva equiparato al produttore e allo spacciatore. Seguì la Legge del 22 dicembre 1975, n. 685 che costituì una sostanziale novità nella legislazione sugli stupefacenti; il consumatore venne ritenuto un soggetto debole socialmente e il consumo per la prima volta venne considerato alla stregua di una malattia. Ne conseguì una valutazione negativa della risposta punitiva nei confronti del tossicodipendente, e l’introduzione di una speciale causa di non punibilità basata su due elementi: uno, soggettivo, costituito dall’uso personale non terapeutico; l’altro, oggettivo, concernente la "modica quantità" di sostanza detenuta. Tali elementi escludevano la punibilità, ed il tossicodipendente poteva essere sottoposto a ricovero ospedaliero oppure a cure ambulatoriali o domiciliari. Numerose critiche riguardarono la possibilità che tali cure potessero essere disposte coattivamente. Le critiche più intense riguardarono però la causa di non punibilità della "modica quantità" poiché tale esimente avrebbe originato nel consumatore la falsa percezione di liceità del consumo; occorre sottolineare, tra l’altro, che tale situazione in molti casi aveva costituito un escamotage di impunità anche nel mondo dello spaccio. L’assenza di idonei strumenti di prevenzione sociale e di recupero e riabilitazione individuale non consentirono inoltre una piena attuazione del disegno legislativo. Le carenze della Legge 685 portarono alla Legge 26 giugno 1990, n. 162, la quale per il vero, non sostituì completamente la precedente, ma vi introdusse una serie di modifiche. Ciò rese necessario un ulteriore intervento di riordino dell’intera disciplina che si concretizzò nel Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti adottato con D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Si tornò a sanzionare il consumo, anche se con misure di natura amministrativa, e l’alternativa del trattamento riabilitativo divenne oggetto di scelta volontaria del consumatore, anche se comunque sottoposta alla "minaccia " di irrogazione di sanzioni punitive. La quantità di sostanza detenibile venne individuata mediante il criterio di predeterminazione detto della "dose media giornaliera", il cui scopo era quello di fissare il limite tra la detenzione a fine di uso personale non terapeutico e quella penalmente rilevante. L’individuazione dei valori di tale criterio fu affidata alla competenza ministeriale. La Legge 162 si prefisse altresì di introdurre gli strumenti per allestire un idoneo apparato di prevenzione, controllo e repressione delle attività illecite. La formulazione complessiva della norma risultò equivoca: in particolare, il consumatore, sotto la minaccia della sanzione punitiva, piuttosto che avviarsi verso il trattamento riabilitativo si spinse sempre più verso la clandestinità. La "dose media giornaliera" si evidenziò come strumento concettuale di scarsa consistenza scientifica e assoluta rigidità applicativa; lo sconfinamento dei valori predeterminati comportava per i tossicodipendenti la sottoposizione alle medesime sanzioni previste per i trafficanti, e ciò portò di fatto ad un aumento dei detenuti tossicodipendenti. La Corte Costituzionale intervenne sul tema con tre sentenze (11 luglio 1991, n. 333; 27 marzo 1992, n. 131; 1 luglio 1992, n. 308) ribadendo nelle proprie posizioni le principali perplessità su alcuni punti della Legge 162 che già erano scaturite dal dibattito politico e dottrinario. Nel 1993 fu indetto un referendum abrogativo che si proponeva fra l’altro di abrogare il limite predeterminato della "dose media giornaliera "dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale; il Governo tentò di evitarlo emanando il D.L. 12 gennaio 1993, n. 3 (Disposizioni urgenti concernenti l’incremento dell’organico del Corpo di polizia penitenziaria, il trattamento delle persone detenute affette da HIV, le modifiche al Testo Unico delle leggi in materia di stupefacenti e le norme per l’attivazione di nuovi uffici giudiziari), il quale introduceva un’attenuazione delle misure sanzionatorie nei confronti del consumatore e della rigidità dei limiti fissati dalla "dose media giornaliera ". Le sanzioni furono adeguate in base al presupposto che la quantità corrispondesse alla "dose individuale abitualmente assunta nelle 24 ore"; e che fosse "comunque" non superiore al triplo della "dose media giornaliera". Ciò, di fatto, riconosceva la qualità peculiare del consumatore abituale. Il decreto decadde per mancata conversione; nel frattempo ebbe luogo il referendum abrogativo che determinò, grazie all’esito positivo, l’abrogazione dell’articolo 72 (Attività illecite) comma I che dichiarava l’illiceità del consumo per uso non terapeutico e la caducazione del limite quantitativo della "dose media giornaliera". Come è noto ciò ha originato l’odierna situazione per la quale si distingue tra responsabilità del consumatore, con conseguente sanzionamento amministrativo, e dello spacciatore, con conseguente sanzionamento penale, sulla base di una contestuale valutazione in ordine alla quantità di sostanza e alla finalità cui la sostanza stessa viene destinata. L’esito referendario comportò inoltre abrogazione dell’art. 76 (Provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Sanzioni penali in caso d’inosservanza) che prevedeva il procedimento pretorile e l’irrogazione di misure. La conseguenza del referendum riguarda la detenzione per uso personale, che ante consultazione poteva costituire illecito amministrativo eventualmente seguito anche da misure penali, mentre oggi costituisce comunque ed esclusivamente illecito amministrativo. Una delle ragioni che portò alla riforma della legge del 1975, fu l’incertezza della determinazione del concetto di "modica quantità ", che comportava la conseguente definibilità del concetto del consumo, dell’acquisto e del piccolo spaccio. La modifica apportata dalla 162 tentò di arginare il problema, ma fu proprio questo punto a suscitare le reiterate perplessità della Corte Costituzionale e a stimolare in senso abrogativo l’opinione popolare. La dottrina criticò inoltre la causa di esclusione della punibilità per chi avesse accettato di sottoporsi ad un trattamento curativo o riabilitativo. L’alternativa tra "cura e pena" venne infine accettata, ed anche il Giudice Costituzionale più volte ebbe modo di ribadire la liceità di tale opzione, anche se, disponendo che un soggetto tossicodipendente possa ottenere vantaggi in termini di libertà personale perseguendo un programma di recupero, appare indubitabile che si dia atto, quantomeno, ad un "processo decisionale fortemente coartato". Con la legge del ‘90 ci si spinse profondamente verso questa filosofia di intervento: la sanzione penale o amministrativa divenne uno strumento di "coazione" al progetto terapeutico. Fu questo verosimilmente un tentativo di privilegiare l’aspetto riabilitativo del tossicodipendente, anche se in proposito non manca chi ha sottolineato una certa incoerenza normativa. L’abrogazione del comma I dell’art. 72 non ha poi direttamente modificato il regime della repressione, (nonostante vi fosse chi sosteneva che lo scopo del quesito referendario, positivamente accolto, fosse proprio quello di operare una netta distinzione tra il consumo ed ogni altro tipo di utilizzazione di droghe) che rimane quello fissato dall’art. 75, divenuta, obtorto collo, norma-cardine in materia. La Corte Costituzionale ebbe, in sede di giudizio di ammissibilità del referendum, modo di ribadire che la prevista abrogazione dell’art. 72 c. I non si poneva in contrasto con la ratio dell’iniziativa referendaria "oggettivamente diretta a depenalizzare, ma non ad eliminare l’illiceità della detenzione per uso personale delle sostanze, sì che non viene chiesta l’abrogazione delle disposizioni da cui deriva la punibilità di tali comportamenti con sanzioni amministrative". La Corte escluse che vi fosse anche "contraddizione tra il permanere della sanzione, sia pure solo di carattere amministrativo per la detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope per uso personale e l’abrogazione del divieto che ha come oggetto l’uso personale di tali sostanze, quale comportamento considerato in se stesso". La disciplina del consumo di sostanze stupefacenti oggi prevede, in conclusione, il divieto sanzionato penalmente di ogni attività non volta all’uso personale; l’inesistenza del divieto di uso personale non terapeutico precedentemente sancito dall’art. 72; il sanzionamento solo amministrativo dell’attività di detenzione di sostanze stupefacenti finalizzate per uso personale non terapeutico.
Le nozioni di sostanza stupefacente e di tossicodipendenza
Gli artt. 13 e 14 del D.P.R. n. 309 del 1990 definiscono i criteri in base ai quali il Ministro della Sanità di concerto con quello di Giustizia, sentito l’Istituto Superiore della sanità, classifica le sostanze stupefacenti in sei tabelle contenenti l’elenco delle sostanze stesse in conformità alle normative internazionali. La dottrina ha redatto diverse definizioni di sostanza stupefacente. Alcuni ritengono necessario far riferimento all’Organizzazione Mondiale della Sanità: "Sono da considerarsi sostanze stupefacenti tutte quelle sostanze di origine vegetale o sintetica che agendo sul sistema nervoso centrale provocano stati di dipendenza fisica e/o psichica, dando luogo in alcuni casi ad effetti di tolleranza (bisogno di incrementare le dosi con l’avanzare dell’abuso) e in altri casi a dipendenza a doppio filo e cioè a dipendenza dello stesso soggetto da più droghe". In altri termini, l’abuso di una sostanza chimica, naturale o di sintesi, ha come conseguenze: il desiderio incontrollabile di continuare ad assumere la sostanza e di procurarsela con ogni mezzo; la tendenza ad aumentare la dose per ottenere gli stessi effetti e la dipendenza a volte fisica, a volte psichica, e talvolta contestuale dagli effetti della sostanza. Altri, invece, definiscono sostanza stupefacente "ogni sostanza che, assunta in quantità relativamente piccola, è capace di modificare funzioni psichiche nel senso di produrre stimolazione o depressione del sistema nervoso centrale o mutamenti nelle percezioni, nell’ideazione, nell’affettività e, di conseguenza, è capace di modificare la tensione psichica, l’umore, il pensiero, il ciclo veglia-sonno". Per altri ancora, "possono essere considerate, in via generale, stupefacenti o psicotrope quelle sostanze che manifestano potenzialità lesive del funzionamento individuale e sociale dell’individuo; sono suscettibili d’uso e di abitudine voluttuari al fine di procurarsi effetti psichici di fuga dalla realtà e presentano attuale diffusione o pericolo di diffusione in un determinato contesto sociale". Infine, vi è chi, non senza ragioni, sostiene che "il difficile problema della droga comincia dalla stessa definizione in quanto tutte quelle fornite appaiono non completamente soddisfacenti". Le Convenzioni di New York del 1961 e di Vienna del 1971, la normativa del 1990, e già la legge del 1975, hanno delegato il compito di individuare le sostanze stupefacenti all’autorità amministrativa, cioè, nel nostro paese, al Ministro della Salute, che vi provvede con decreto, di concerto col Ministro della Giustizia, sentito l’Istituto superiore di sanità ed il consiglio superiore di sanità (art. 13). L’art. 14 fissa i criteri che devono essere seguiti per identificare la singola sostanza stupefacente e la sua appartenenza ad una delle 6 tabelle; la giurisprudenza si è raramente espressa in ordine alle singole sostanze: solo in riferimento alla cannabis sono state prese alcune posizioni. Sempre in tema di cannabis, ricordiamo la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile una richiesta di referendum popolare per abrogare il divieto, contenuto nella Legge 685/75, di coltivazione, commercio, detenzione e uso della canapa indiana e dei suoi derivati. Secondo parte della dottrina, la delega al potere amministrativo della competenza in ordine alla formazione e modifica delle tabelle costituisce una violazione del dettato costituzionale, in quanto la relativa condotta penalmente sanzionabile, così facendo, viene ad essere determinata da un’autorità non legislativa. Al contrario, per altri non vi sarebbe tale violazione in quanto occorre che sia solo la legge (o altro atto equiparato) ad indicare presupposti, caratteri, contenuto e limiti dei provvedimenti alla cui trasgressione segue la pena.
Esigenze cautelari e tossicodipendenza/alcoldipendenza
Lo status di tossicodipendente può incidere notevolmente su un provvedimento cautelare o definitivo riguardante la libertà personale di un soggetto, anche se tali provvedimenti sono irrogati per un titolo criminoso non necessariamente legato all’uso di stupefacenti. Tale prerogativa comporta, infatti, un "adattamento" del provvedimento cautelare o definitivo a causa di una preminente esigenza di riabilitazione del soggetto; obiettivo perseguito attraverso il ricorso a diversi istituti, tutti in grado di incidere in vario modo sullo status captivitatis del soggetto. Pare opportuno sottolineare che le misure alternative alla custodia cautelare previste dall’art. 89 del D.P.R. 309!90, (Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcoldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici) riguardano oltre che il soggetto tossicodipendente, anche l’alcoldipendente. La disciplina delle misure cautelari personali contempla alcune regole che, in deroga alla previsione ordinaria, mirano a favorire il recupero e la riabilitazione dell’assunto re di sostanze vietate attraverso un trattamento benevolo. Tale disciplina è ritenuta in Dottrina una coerente applicazione dei principi di "adeguatezza " e "proporzionalità " delle misure cautelari, la cui ratio risiederebbe nell’esigenza prioritaria di recupero della persona. Appare infatti incontestabile, allorché un tossicodipendente decida di curarsi e abbia conseguentemente concordato un programma terapeutico con servizi e strutture adeguate, l’inopportunità dell’interruzione del programma causata da un provvedimento di custodia cautelare in carcere. Per quanto riguarda la valutazione delle esigenze cautelari personali, secondo la giurisprudenza il giudizio sulla personalità dell’indagato tossicodipendente ex art. 274 lett. c) c.p.p., non può prescindere della certificazione A.S.L. in merito alla terapia disintossicante prima dell’arresto. Nel testo originario dell’art. 275 c.p.p. figurava un comma V, abrogato dall’art. 5 comma I del D.L. 14 maggio 1993, n. 139, convertito, con modificazioni, nella Legge 14 luglio 1993, n. 222. Tale disposizione (di cui l’art. 89 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, nella formulazione originaria anteriore alle modifiche introdotte dai D.L. 13 luglio 1992, n. 335, 11 settembre 1992, n. 374, 12 novembre 1992, n. 431, 12 gennaio 1993, n. 3, 13 marzo 1993, n. 60, e 14 maggio 1993, n. 139 con la relativa legge di conversione 14 luglio 1993, n. 222, costituiva la riproduzione) prevedeva che non si potesse disporre custodia cautelare in carcere, salvo che per esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputato fosse un tossicodipendente con in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata e quando l’interruzione del programma potesse pregiudicare la disintossicazione. La Legge 8 novembre 1991, n. 356 aveva parzialmente eccepito questa regola stabilendo che la custodia cautelare in carcere doveva essere comunque disposta, salvo fossero acquisiti elementi dai quali risultasse la non sussistenza di esigenze cautelari, anche nei confronti del tossicodipendente che avesse in corso un programma di recupero, quando lo stesso tossicodipendente fosse imputato di reati compresi nell’elenco dell’art. 275 comma III c.p.p., tra i quali figurano l’art. 73 (Produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope), aggravato ai sensi dell’art. 80 comma II (Traffico di ingenti quantità di stupefacenti) e l’art. 74 (Associazione finalizzata al traffico di stupefacenti) del D.P.R. del ‘90: in tali ipotesi le esigenze di tutela della collettività dovevano essere considerate prevalenti rispetto a quelle di recupero del soggetto. La disciplina venne modificata dai citati decreti legge, contenenti anche disposizioni urgenti sul trattamento di soggetti detenuti nonché affetti da infezione da HIV. L’art. 5 del D.L. 139/93, convertito nella Legge n. 12293, sostituì infine il testo dell’art. 89 del D.P.R. n. 309/90, modificando profondamente la disciplina della libertà personale degli imputati tossicodipendenti/alcoldipendenti. La condizione di tossicodipendente/alcoldipendente viene sostanzialmente ritenuta ostativa a qualsiasi disposizione di custodia cautelare in carcere dell’imputato, "salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza", quando imputata sia una persona che abbia in corso un programma terapeutico di recupero e l’interruzione del programma possa pregiudicare la disintossicazione della medesima. La normativa prevede inoltre la revoca della custodia cautelare in carcere, qualora il tossicodipendente - alcoldipendente intenda sottoporsi ad un programma di recupero e sempre che non ricorrano esigenze cautelari d’eccezionale rilevanza. La revoca è concessa su istanza dell’interessato sulla base dell’allegata certificazione rilasciata da un Servizio pubblico per le Tossicodipendenze, attestante lo stato di tossicodipendenza e la dichiarazione di disponibilità all’accoglimento da parte della struttura presso la quale deve essere seguito il programma di recupero. A seguito della legge di conversione n. 222/93 (diversamente dal testo del D.L. 139/93), venne introdotta l’ipotesi che il Ser.T. fosse comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell’interessato a sottoporsi ad un programma terapeutico. La giurisprudenza ha avuto cura di affermare che la revoca di cui sopra "non può essere negata solo in considerazione del fatto che il programma di recupero cui l’interessato intende sottoporsi sia destinato ad essere attuato non presso una struttura residenziale chiusa, ma presso un servizio pubblico per l’assistenza ai tossicodipendenti, funzionante come struttura aperta, essendo rimessa allo stesso interessato, in base al dettato normativo, la scelta tra l’una e l’altra forma di trattamento; scelta che però deve essere accompagnata dalla dettagliata predisposizione di un programma terapeutico, sì da mettere il giudice in condizione di valutare la congruità e la sufficienza del medesimo rispetto allo scopo terapeutico perseguito, come pure di esercitare i dovuti controlli sulla sua puntuale esecuzione e sul comportamento dell’interessato, in funzione dell’eventuale esercizio del potere di ripristino della custodia cautelare". In una successiva sentenza la Suprema Corte ha poi ribadito che la revoca in oggetto costituisce "istituto diretto a favorire i programmi di recupero, in strutture autorizzate, di soggetti tossicodipendenti o alcoldipendenti mediante un’idonea terapia " e che "ferme le condizioni soggettive ed oggettive di ammissibilità, non può essere negata qualora il giudice valuti positivamente la congruità e la sufficienza del programma". Nel caso in cui il soggetto interrompa l’esecuzione del programma oppure mantenga un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione o, ancora, si accerti la mancata collaborazione alla definizione del programma nonché si sia sottratto all’esecuzione di esso, è previsto che il giudice disponga la custodia cautelare in carcere o ne disponga il ripristino. Relativamente alle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza che non rendono operativa la disciplina di favore prevista dall’art. 275 comma IV c.p.p., si è sostenuto in giurisprudenza che tale disposizione non impone l’obbligo di disporre la custodia cautelare in carcere dei soggetti in essa indicati, ma pone il divieto "non può essere disposta" di tale misura nei confronti di dette persone, "salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza". Il legislatore ha così delineato la possibilità, e non l’obbligo, per il giudice di disporre la custodia cautelare in carcere, sebbene si tratti di un soggetto che si trovi nelle condizioni previste dallo stesso art. 275 comma IV c.p.p.. La "eccezionalità" delle esigenze cautelari, legittimante la custodia cautelare in carcere, va valutata anche considerando l’allarme che deriverebbe dalla situazione di soggetti che, imputati di delitti di criminalità organizzata o di altri gravi crimini che turbano la collettività, si trovassero ad avere, nonostante le precarie condizioni fisiche, la possibilità di eludere finalità processuali e di prevenzione specifica tutelate dalla legge. Il carattere di eccezionalità deve essere distinto dal carattere di normalità riscontrabile nelle esigenze cautelari ordinariamente disposte. In particolare tale previsione normativa si attaglia alla prima parte del comma III dell’art. 275 c.p.p., la quale stabilisce che la custodia cautelare in carcere possa essere disposta quando ogni altra misura risulti inadeguata. Le esigenze cautelari eccezionali possono essere dedotte semplicemente dal titolo di reato o dall’appartenenza dell’indagato ad un ambiente ritenuto incompatibile con l’efficacia applicativa di cautele attenuate rispetto alla custodia cautelare in carcere. Nei confronti del tossicodipendente/alcoldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero all’interno di una struttura organizzata, i requisiti di eccezionalità delle esigenze cautelari, che giustificano la custodia cautelare in carcere, sussistono qualora si accerti una certa sistematicità e diffusione dell’attività criminosa organizzata. L’art. 89 c. IV del D.P.R. n. 309/90, come modificato dalla Legge n. 222/93, e della Legge 8 agosto 1995, n. 332, prevede non darsi luogo alla deroga, se il tossicodipendente risulti imputato di uno dei delitti di cui all’art. 407 comma II lett. a), numeri da la 6, c.p.p., nella configurazione più recente introdotta dal D.L. 5 aprile 2001, n. 98, convertito dalla Legge 14 maggio 2001, n. 196 che comprendono, ad esempio, le ipotesi previste dall’art. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, comma Il, e art. 74 del D.P.R. 309/90, nonché i delitti di omicidio volontario (art. 575 c.p.), di rapina aggravata (art. 628 comma III c.p.), di estorsione aggravata (art. 629 comma II c.p.), di sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), etc. Il giudice deve indicare le ragioni che per le quali intende derogare alla regola del divieto di custodia cautelare in carcere e per le quali ritenga che il periculum in liberiate sia davvero tale da giustificarne il supera mento. Il programma terapeutico non si individua in un generico rapporto con qualsiasi ente di assistenza, ma è necessario che il tossicodipendente indagato "abbia in corso un programma terapeutico di recupero nell’ambito di una struttura autorizzata", e che tale terapia venga attuata sulla base di un programma prestabilito, la cui interruzione a causa della custodia cautelare in carcere potrebbe pregiudicare la disintossicazione. Il giudice, qualora non adotti alcuna misura cautelare, può disporre controlli per verificare il rispetto del programma di recupero. Il programma di recupero deve esaurirsi nella raggiunta disintossicazione e, in caso contrario, il giudice può disporre (sempre che sussistano ancora esigenze cautelari da tutelare) la misura cautelare originariamente non adottata per favorire il recupero terapeutico. Alcuni sostengono che in caso di commissione di nuovi reati non si possa verificare un aggravamento del regime cautelare ex art. 276 c.p.p. in quanto la commissione di nuovi reati e la violazione di prescrizioni inerenti ad una misura cautelare non sono assimilabili. Qualora vengano commessi nuovi reati, per i quali è necessario disporre custodia cautelare in carcere, si provvederà a prescindere dalle esigenze cautelari di "eccezionale rilevanza ": la reiterazione di condotte criminose nel corso di un programma terapeutico, secondo gli stessi Autori, ne dimostra l’inefficacia terapeutica e non giustifica più la considerazione di favore. Amato osserva che l’adozione di tale misura può essere di "interesse" per l’imputato poiché da essa ne deriva, oltre alla prosecuzione del programma di recupero, lo scomputo del periodo trascorso nella struttura da quello della durata complessiva della pena eventualmente irrogata al termine del processo (artt. 137 c.p. e 284 ultimo comma c.p.p.).
Misure alternative alla detenzione per l’imputato ed il condannato tossicodipendente
Appartengono a tale gruppo di provvedimenti le misure modificative della custodia cautelare (arresti domiciliari) e le misure alternative all’esecuzione della pena detentiva (sospensione dell’esecuzione della pena e affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari). La diffusa convinzione che il carcere non sia in grado di fornire un aiuto efficace nel trattamento del problema tossicomanico è all’origine di tali modificazioni e alternative. Se infatti in carcere è possibile iniziare o continuare un processo di disintossicazione fisica, difficilmente si riesce a portare a termine un programma che comprenda la riabilitazione e il recupero sociale del tossicodipendente. Il carcere del resto aggrava la situazione di disagio, il senso d’inadeguatezza del soggetto tossicodipendente, e comporta ulteriori sofferenze; i rischi legati a tale disagio sono molti, tra i quali le pratiche di autolesionismo attuate al fine di ottenere un ricovero in infermeria e i tentativi di suicidio. Se i programmi di trattamento extramurale sembrano quindi essere l’unica strada percorribile, la realtà delle forme alternative alla detenzione non può considerarsi esente da critiche. Innanzitutto la scelta stessa, presentata come "alternativa" al carcere, crea di fatto commistione, contaminazione e confusione con la pena; molti soggetti tossicodipendenti vivono la terapia non come scelta eletti va ma come imposizione. La terapia, inoltre, può costituire un’alternativa valida soltanto laddove non prescinda dalle esigenze di controllo del sistema penale: occorre cioè che funzioni una sorta di "delega disciplinare" tra il sistema penale e il sistema socio-sanitario. L’alternativa non è poi ritenuta tale neppure dal sistema sanitario, che la considera tendenzialmente destinata al fallimento a causa dell’impossibilità di curare "punendo". Del resto, non si può certo ritenere che il consenso del detenuto tossicodipendente, condizione essenziale per l’esito favorevole di ogni programma terapeutico, provenga da una valutazione cui sia estranea la volontà di evitare la detenzione. L’obiettivo di evitare la detenzione all’imputato tossicodipendente mediante l’introduzione della misura dell’arresto domiciliare nella propria abitazione, in un luogo di privata dimora, o in un luogo pubblico di cura odi assistenza è disciplinato dalla formulazione dell’art. 284 c.p.p.; con il provvedimento che dispone gli arresti domiciliari il giudice prescrive all’imputato di non allontanarsi dalla propria abitazione oda altro luogo stabilito; generalmente l’imputato ottiene gli arresti domiciliari presso l’abitazione della propria famiglia con l’autorizzazione ad allontanarsene in precisi orari per frequentare il programma terapeutico. Talvolta le stesse comunità accolgono direttamente nelle proprie strutture soggetti agli arresti domiciliari: esiste in proposito un elenco contenuto nel decreto 7 giugno 2000 del Ministero della giustizia (G.U. del 21 gennaio 2001, n. 17). L’art. 284 c.p.p., pur non prevedendo esplicitamente le comunità terapeutiche, consente di usufruirne mediante il rimando all’art. 116 del D.P.R. 309/90. Le comunità terapeutiche ottennero un primo riconoscimento, con la Legge 398 del 1984 (Nuove norme relative alla diminuzione dei termini di carcerazione cautelare e alla concessione della libertà provvisoria), con la quale vennero poste a carico dell’amministrazione penitenziaria le spese per il mantenimento dell’imputato a seguito dell’esecuzione della misura dell’arresto domiciliare tramite il ricovero presso le predette comunità. Sempre in relazione all’istituto degli arresti domiciliari è opportuno ricordare come la circolare ministeriale 9 aprile 1987, n. 516, riguardante appunto gli arresti domiciliari presso le comunità terapeutiche o di riabilitazione, chiarì che per le comunità non esisteva l’obbligo di accogliere i soggetti sottoposti agli arresti domicili ari "posto che nessuna norma prevede un obbligo di tal fatta a carico di soggetti o strutture di natura privatistica, quali sono appunto le comunità, e tenuto conto del disposto dell’art. 23 Cost., secondo il quale prestazioni obbligatorie possono essere imposte soltanto in base alla legge". Nella circolare si faceva anche riferimento all’importanza del reale consenso di colui che deve essere sottoposto al trattamento, e, quindi, alla opportunità di accertare tale consenso. Relativamente agli arresti domiciliari in comunità, il comma VI dell’art. 96 (Prestazioni sanitarie per tossicodipendenti detenuti) del D.P.R. 309/90 stabilisce che grava sull’amministrazione l’onere per il mantenimento, la cura o l’assistenza medica delle persone sottoposte alla misura; infine il comma VI dell’art. 116 del D.P.R. 309/90 dispone, come condizione necessaria per l’utilizzazione delle relative sedi come luoghi di abitazione odi privata dimora ai fini dell’applicazione della suddetta misura cautelare (nonché per la concessione del beneficio dell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47-ter ordinamento penitenziario), l’iscrizione agli albi regionali o provinciali degli enti che gestiscono strutture per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei tossicodipendenti. Con la Legge 21 giugno 1985, n. 297, venne disciplinata l’erogazione da parte del Ministero dell’Interno di contributi finanziari ad enti e associazioni che svolgono, senza fine di lucro, attività nel settore del recupero e del reinserimento di tossicodipendenti: lo Stato, per la prima volta, assunse un impegno diretto nell’incoraggiare e favorire le attività di recupero svolte anche da soggetti privati. L’obiettivo perseguito dalla legge citata era quello di evitare la compromissione delle possibilità di recupero dei tossicodipendenti a causa di interventi di carattere penale, consentendo a tali soggetti di continuare il programma terapeutico fuori dal carcere. L’art. 4 quater della Legge 297 dispose che "quando per divieto di legge o per disposizione dell’autorità giudiziaria, il tossicodipendente o l’alcoldipendente imputato o condannato no0 sia ammesso alla misura sostitutiva prevista, il programma terapeutico al quale l’interessato risulti sottoposto o intenda sottoporsi viene proseguito nello stato di detenzione ad opera del servizio sanitario penitenziario con il concorso delle strutture sanitarie territoriali". Tale principio fu poi recepito dall’art. 96 comma II del D.P.R. 309/90, il quale prevede che le cure mediche e l’assistenza sanitaria necessaria per i tossicodipendenti detenuti siano fornite "anche al tossicodipendente non ammesso, per divieto di legge o a seguito di provvedimento dell’autorità giudiziaria, alle misure sostitutive previste negli articoli 90 e 94 per la prosecuzione o l’esecuzione del programma terapeutico al quale risulta sottoposto o intende sottoporsi". Sempre nell’ottica della decarcerizzazione del tossicodipendente, appare congruo ricordare il c.d. "indulto condizionato", introdotto dall’art. 10 del D.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865. In base a tale disposto al tossicodipendente era concesso un condono della pena inflitta, nel massimo di due anni, se la condanna era relativa ad un reato contro il patrimonio o che comunque offendesse il patrimonio, commesso a causa del pregresso stato di tossicodipendenza; la definizione di "pregresso" era perentoria, in quanto, per fruire di tale trattamento più favorevole, il soggetto doveva dimostrare di non essere più tossicodipendente al momento della presentazione dell’istanza. La possibilità e le modalità di dimostrazione dell’assenza dello stato di tossico dipendenza sono state oggetto di innumerevoli commenti, fra i quali quello della Corte di Cassazione, che con la sentenza 15 gennaio 1988 ebbe modo di affermare che "lo stato di detenzione protrattosi senza interruzione per parecchi mesi, può sicuramente indicare che per detto lungo periodo il condannato si è necessariamente dovuto astenere dall’assunzione di sostanze stupefacenti, con conseguente dimostrazione che il suo anteriore stato di tossico dipendenza è venuto meno; così da integrare una delle condizioni (lett. c) previste dall’art. 10 n. 1 del D.P.R. n. 865 del 1986 necessarie per la concessione dell’indulto condizionato a chi era tossicodipendente al momento del fatto, commesso "a causa " di tale sua condizione. Non infirmano tale convincimento né l’assunto - meramente ipotetico - che il detenuto possa essersi procurato sostanze stupefacenti anche in carcere, né l’eventualità che in futuro il soggetto possa ripristinare lo stato di tossicodipendenza": la Corte dunque considerò irrilevante la possibilità che il soggetto potesse ritornare al suo precedente stato di tossicodipendenza. Sull’opposto problema della definibilità attuale dello stato di tossicodipendenza, oggetto di profonda discussione in dottrina e giurisprudenza, provvide invece il D.M. 12 luglio 1990, n. 186 (Regolamento concernente la determinazione delle procedure diagnostiche e medico-legali per accertare l’uso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope, delle metodiche per quantificarne l’assunzione abituale nelle 24 ore e dei limiti quantitativi massimi di principio attivo per le dosi medie giornaliere) il quale introdusse e fissò le procedure diagnostiche e medico-legali per l’accertamento dell’uso abituale di sostanze stupefacenti (decreto assolutamente ancora in vigore, ed anzi, troppo spesso interpretato con una certa superficialità dagli operatori).
La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva
La sospensione dell’esecuzione della pena detentiva è disciplinata dagli artt. 90 e segg. del D.P.R. 309/90. Già il disegno di Legge 1 marzo 1985, n. 2609, presentato alla Camera dei deputati nell’aprile successivo, prevedeva che "la sospensione condizionale della pena può essere subordinata alla sottoposizione ad un trattamento terapeutico nei casi in cui il reato sia stato commesso in stato di ubriachezza o sotto l’azione di sostanze stupefacenti, sempre che questo trattamento sia stato richiesto dal soggetto". In base all’art. 90 (Sospensione dell’esecuzione della pena detentiva) comma I la sospensione dell’esecuzione della pena può essere concessa solo in presenza di due condizioni: per "reati commessi in relazione al proprio stato di tossicodipendente"; quando la persona "si è sottoposta o ha in corso un programma terapeutico e socio-riabilitativo". Il primo presupposto si soddisfa nei reati commessi al fine di procurarsi la sostanza stupefacente, sia direttamente, sia indirettamente, e nei reati commessi sotto l’influenza della sostanza e quindi indotti dalla ridotta capacità di autogestione, sempre che non sia esclusa l’imputabilità ai sensi dell’art. 95 c.p. (Cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti). Per quanto riguarda invece il secondo presupposto, bisogna anzitutto sottolineare come per la concessione del beneficio non si richieda l’attualità del programma terapeutico, il quale può, infatti, essere anche già terminato al momento della presentazione dell’istanza: in tal caso però dovrà trattarsi di un programma eseguito dopo la commissione del reato per il quale si chiede la sospensione della pena. Tre sono invece i limiti ai quali è sottoposta la concessione della sospensione della pena: la gravità del reato (il Tribunale di Sorveglianza può sospendere l’esecuzione della pena "nei confronti di persona condannata ad una pena detentiva non superiore a quattro anni, anche se congiunta a pena pecuniaria" ovvero se la persona "debba ancora scontare una pena della durata di quattro anni"); la commissione di altro delitto non colposo punibile con la reclusione "nel periodo compreso tra l’inizio del programma e la pronuncia della sospensione" e l’aver già usufruito del beneficio: "la sospensione della pena non può essere concessa più di una volta". I limiti di pena entro i quali si può ottenere il beneficio sono piuttosto elevati; il momento iniziale del programma di recupero deve corrispondere al momento a partire dal quale il soggetto non deve commettere altri delitti non colpo si punibili con la reclusione. Il procedimento di applicazione della sospensione della pena è disciplinato dagli artt. 91 (Istanza per la sospensione dell’esecuzione) e 92 (Procedimento innanzi alla sezione di sorveglianza). L’art. 91 c. I dispone che la sospensione "è concessa su istanza del condannato presentata al tribunale di sorveglianza del luogo in cui l’interessato risiede": il fatto che la competenza territoriale sia determinata in relazione al luogo di residenza dell’interessato, deriva dalla necessità di favorire più facili collegamenti con i servizi socio-sanitari e con lo stesso ambiente in cui il condannato vive. Per ottenere il beneficio, è fondamentale la "certificazione rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze" che deve essere allegata all’istanza e che deve accertare: il tipo di programma terapeutico e socio-riabilitativo prescelto; l’indicazione della struttura (pubblica o privata) ove il programma è stato eseguito o è in corso; le modalità di realizzazione e, nel caso del tossicodipendente che ha eseguito il trattamento, l’eventuale completamento del programma. Il provvedimento provvisorio è adottato dal pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la condanna, nella ipotesi in cui l’ordine di carcerazione non sia stato ancora emesso, mentre è di competenza del Tribunale di Sorveglianza nell’ipotesi in cui tale ordine sia già stato eseguito. n pubblico ministero, se non osta il limite di pena di cui all’art. 90 comma I, sospenderà quindi l’emissione dell’ordine di carcerazione o la sua esecuzione, ovvero ordinerà la scarcerazione del condannato, in attesa della decisione del Tribunale di Sorveglianza che, sulla base degli atti trasmessigli, deciderà nel termine di quarantacinque giorni dalla presentazione dell’istanza. Il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza è regolato dall’art. 92, secondo il quale "il Tribunale di Sorveglianza può acquisire copia degli atti del procedimento e disporre gli opportuni accertamenti in ordine al programma terapeutico e socio-riabilitativo effettuato" e si conclude con un’ordinanza che, se non concede il beneficio, determina la privazione della libertà del soggetto interessato, mentre se concede la sospensione dell’esecuzione della pena, apre un periodo di cinque anni nel corso dei quali il soggetto deve seguire il programma e non commettere delitti non colpo si punibili con la reclusione. Su richiesta dell’autorità che ha disposto la sospensione, l’A.S.L. trasmette una relazione in merito all’andamento del programma, al comportamento del soggetto e ai risultati ottenuti a seguito del termine del programma: tale norma sottolinea la relazione intercorrente tra il Tribunale di Sorveglianza e le strutture sanitarie alle quali è affidata una funzione determinante, stanti le conseguenze giuridiche derivanti dalla verifica dell’esecuzione del programma. Vedasi anche, in proposito, il D.M. 29 dicembre 1990, n. 448 (Regolamento concernente le modalità di redazione della relazione sulla verifica del trattamento dei tossicodipendenti in regime di sospensione del procedimento o di sospensione dell’esecuzione della pena). La sospensione dell’esecuzione della pena determina tre ordini di effetti: impedimento o interruzione della carcerazione, qualora essa sia già iniziata; inapplicabilità delle misure di sicurezza, tranne la confisca; eventuale estinzione della pena e di ogni altro effetto penale, a condizione che il condannato attui il programma terapeutico e non commetta un delitto non colposo punibile con la sola reclusione nei cinque anni successivi al provvedimento di sospensione. La sospensione è invece revocata di diritto se il condannato si sottrae al programma senza giustificato motivo, ovvero tiene un comportamento incompatibile con gli obblighi assunti, o nel termine sopra indicato commette un delitto non colpo so punibile con la reclusione.
Le misure alternative alla detenzione: l’affidamento in prova in casi particolari
L’affidamento in prova in casi particolari venne introdotto dal D.L. 144/1985, convertito, con modificazioni, nella Legge 297/1985, il cui art. 4 ter aggiunse l’art. 47 bis della Legge 354/1975. Tale articolo è stato poi sostituito dall’art. 12 della Legge 663/1986. In seguito l’istituto è stato inserito anche nel D.P.R. 309/1990, all’art. 94. La coesistenza delle due norme disponenti l’affidamento terapeutico si è mantenuta fino all’entrata in vigore della Legge 165/1998 che ha abolito l’art. 47-bis O.P. a favore dell’art. 94 D.P.R. 309/90. Con l’art. 94 il Legislatore ha inteso mantenere la disciplina preesistente in materia, come risulta dal rinvio contenuto nell’ultimo comma di tale articolo alla legge sull’ordinamento penitenziario. La misura può essere richiesta in ogni momento da persona tossicodipendente - alcoldipendente che abbia in corso un programma di recupero o ad esso intenda sottoporsi; l’attività terapeutica deve essere proseguita o intrapresa sulla base di un programma concordato dalla persona con un’unità sanitaria locale o con uno degli enti previsti dall’art. 115 (Enti ausiliari) del T.U. o con privati. La definibilità clinica dello stato di tossicodipendenza è ricavabile dal citato D.M. 12 luglio 1990, n. 186; la definizione di: "persona abitualmente dedita all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope" è quella cui si riferisce l’art. 96 (Prestazioni socio-sanitarie per tossicodipendenti detenuti) del T.U., laddove individua i soggetti destinatari del "diritto a ricevere le cure mediche e l’assistenza necessaria a scopo di riabilitazione" all’interno delle carceri. La disciplina dell’istituto sembra inoltre richiedere la coincidenza temporale tra lo stato di tossicodipendenza e il momento in cui viene richiesto il beneficio, escludendo quindi coloro che, seguendo da tempo una terapia, non sono più consumatori di sostanze stupefacenti, pur trovandosi in situazioni ancora precarie che richiedono il proseguimento del programma. In relazione alla non richiesta connessione tra tossicodipendenza e commissione del reato, appare evidente come il legislatore abbia privilegiato la necessità di cura e riabilitazione del soggetto tossicodipendente rispetto a quella repressivo-punitiva. La seconda condizione per l’applicazione dell’istituto è che il soggetto abbia in corso un programma di recupero o che ad esso intenda sottoporsi: il legislatore ha voluto non soltanto impedire che la riabilitazione in atto fosse compromessa dallo stato di detenzione, ma anche indurre il condannato a scegliere un percorso terapeutico. Tale opzione terapeutica deve essere proseguita o intrapresa sulla base di un programma concordato con una struttura sanitaria locale o con uno degli enti previsti dall’art. 115 T.U. o privati. La norma richiede genericamente l’esistenza di un programma di recupero, senza specificarne i contenuti: in tale programma possono quindi essere inclusi, per esempio, anche i trattamenti con metadone presso le strutture sanitarie locali, e le cure ambulatoriali. I programmi di recupero non presentano caratteristiche univoche: un programma può prevedere una prima parte da attuarsi presso il Ser.T. con controlli e verifiche serrati, e una seconda parte da attuarsi sempre presso il Ser.T., ma con controlli progressivamente ridotti e finalizzata soprattutto all’inserimento sociale e lavorativo. Il programma può inoltre richiedere diverse condizioni, tra le quali, ad esempio, il rientro in famiglia, uno o più incontri la settimana con l’operatore, una o più analisi delle urine durante la settimana, etc.; a tali condizioni possono esserne aggiunte altre dal Tribunale di Sorveglianza, come, ad esempio, il rientro serale entro una determinata ora, o il divieto di lasciare il Comune in cui l’interessato risiede. Tra il Ser.T. e l’apparato giudiziario interviene il Centro di Servizio Sociale per Adulti (CSSA) del Ministero della Giustizia che costituisce una sorta di cuscinetto fra il mandato terapeutico dei Ser.T. e le esigenze di giustizia ad essi delegate dalla norma. In particolare, l’art. 47 O.P. prevede che "il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita" e che "riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto". L’affidamento in prova in casi particolari soggiace a due limiti: il limite quantitativo di pena inflitta o ancora da scontare nella stessa misura, che non deve superare i quattro anni, e l’aver usufruito del beneficio per due volte. Per quanto riguarda l’iter procedimentale dell’istituto, avviato ad impulso del soggetto interessato tramite la presentazione della domanda al pubblico ministero competente per l"esecuzione, esso è il medesimo previsto per la sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, con la sola differenza che il Tribunale di Sorveglianza ha l’obbligo di accertare che "lo stato di tossicodipendenza o l’esecuzione del programma di recupero non siano preordinati al conseguimento del beneficio". Alla domanda deve essere allegata, ex art. 94 comma I, "certificazione rilasciata da una struttura sanitaria pubblica attestante lo stato di tossicodipendenza e la idoneità, ai fini del recupero del condannato, del programma concordato". Come già ricordato il D.M. 12 luglio 1990, n. 186 riporta i criteri fondativi dell’accertamento in questione: riscontro documentale di trattamenti socio-sanitari per le tossicodipendenze presso strutture pubbliche e private; riscontro di soccorsi ricevuti da strutture di pronto soccorso; riscontro di ricovero per trattamento di patologie correlate all’abuso abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope; riscontro di precedenti accertamenti medico-legali; riscontro di segni di assunzione abituale della sostanza; sintomi fisici e psichici di intossicazione in atto da sostanze stupefacenti o psicotrope; sindrome di astinenza in atto; presenza di sostanze stupefacenti e/o loro metaboliti nei liquidi biologici e/o nei tessuti. L’art. 94 comma III prevede che il Tribunale di Sorveglianza accerti "che lo stato di tossicodipendenza, o alcoldipendenza, e l’esecuzione del programma non siano preordinati al conseguimento del beneficio". In realtà, il Tribunale di Sorveglianza non ha a disposizione molti strumenti sulla base dei quali verificare l’eventuale esistenza di una preordinazione. Di fatto nella prassi si tende a privilegiare la visione della misura come concreto tentativo di recupero, indipendentemente dal fatto che essa possa nascere come strumento di ottenimento del beneficio penitenziario. Gli accertamenti riguarderanno, comunque, l’esistenza di un reale stato di tossicodipendenza e di un "serio" programma terapeutico al quale il soggetto intende sottoporsi, essendo francamente non ipotizzabile che un soggetto si ponga nella condizione di tossicodipendenza al solo scopo di ottenere un beneficio penitenziario. Se il Tribunale di Sorveglianza concede l’affidamento, nell’ordinanza deve impartire alcune prescrizioni, tra le quali "quelle che determinano le modalità di esecuzione del programma", nonché "le prescrizioni e le forme di controllo per accertare che il tossicodipendente prosegue il programma di recupero" (art. 94 c. IV). Tali prescrizioni evidentemente, per quanto riguarda l’affidamento in prova in casi particolari, sono giustificate nei limiti in cui non ostacolano il programma terapeutico. L’art. 126 (Accompagnamento del tossicodipendente in affidamento) T.U. prevede che, durante il periodo di affidamento, "il responsabile della comunità può accompagnare o far accompagnare da persona di sua fiducia il tossicodipendente fuori della comunità in casi di necessità o di urgenza dipendenti da ragioni di assistenza sanitaria o da gravi motivi familiari dandone immediata comunicazione all’autorità giudiziaria". Gli effetti prodotti dall’affidamento in prova in casi particolari riguardano l’impedimento o l’interruzione della carcerazione a seconda che, rispettivamente, non ne sia o ne sia iniziata l’esecuzione; la sottoposizione del soggetto alle prescrizioni impartite dal Tribunale di Sorveglianza; e, alla scadenza del periodo di prova - che ha la stessa durata della pena da espiare - l’estinzione della pena detentiva e di ogni altro effetto penale. In base al comma XI dell’art. 47 O.P., richiamato dall’art. 94 T.U., "l’affidamento è revocato qualora il comportamento del soggetto, contrario alla legge o alle prescrizioni dettate, appaia incompatibile con la prosecuzione della prova". Le revoche effettuate sono piuttosto elevate; nel 1999 sono stati concessi 6358 affidamenti particolari e sono stati revocati 563 affidamenti particolari, pari all’8,35% dei concessi. I motivi delle revoche sono soprattutto legati alla ripresa dell’uso di sostanze stupefacenti. Nonostante l’affidamento in casi particolari susciti molte perplessità a causa della pericolosa coniugazione di sanzione e terapia, si rileva come, ferme restando le numerose revoche, risulti essere la misura più applicata dopo l’affidamento ordinario; la sospensione di cui all’art. 90 ha infatti avuto minore applicazione: oltre al fatto che la sospensione può essere concessa una sola volta, essa si applica soltanto ai tossicodipendenti e non, come l’affidamento, anche agli alcoldipendenti; inoltre, nei confronti dei tossicodipendenti con programma in corso molti Tribunali di Sorveglianza preferiscono applicare l’affidamento poiché permette di impartire dettagliate prescrizioni e quindi controllare il comportamento del soggetto. Nonostante il "successo applicativo" dell’affidamento particolare occorre osservare come il soggetto tossicodipendente, soprattutto se condannato ad una pena breve, preferisca spesso il carcere alla comunità terapeutica, le cui regole sono non infrequentemente ritenute più difficili da accettare e da rispettare. In questi casi il periodo più difficile è quello dell’adattamento, ovvero quando il tossicodipendente, dopo un periodo breve di disorientamento, non è in grado di reggere e gestire la prova. Capita anche che, essendo limitate le possibilità di usufruire dei benefici suddetti, il tossicodipendente condannato definitivamente e in attesa della conclusione di altri procedimenti a suo carico non richieda l’alternativa e preferisca conservare questa possibilità per il futuro. Questo spunto suggerisce una esigenza di riflettere sul limite delle due con cedibilità previsto dal Legislatore, francamente poco comprensibile, alla luce delle caratteristiche della tossicodipendenza, per definizione malattia cronica recidivante, e dell’assenza di vincoli numerici di questo genere applicati alla "norma madre" dell’affidamento ordinario. Per quanto concerne infine la misura alternativa della detenzione domiciliare, non vi sono norme specifiche per i soggetti tossicodipendenti, ma se essi rivestono la figura di persone "in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedono costanti contatti con i presidi sanitari territoriali" (art. 47 ter O.P.) non è in alcun modo escludibile a priori l’applicazione della detenzione domiciliare anche nei loro confronti, ferme restando alcune perplessità in termini di controllo e positiva applicabilità della misura stessa per i tossicodipendenti.
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