Sistema penale e tutela della salute

 

Esecuzione penale e incompatibilità con il regime carcerario

 

Il differimento dell’esecuzione della pena

Incompatibilità con il regime carcerario

L’esecuzione penale extramuraria per motivi sanitari: la detenzione domiciliare

 

Il differimento dell’esecuzione della pena

 

Le più recenti riforme in materia di esecuzione della pena, la Legge 12 luglio 1999, n. 231 (Disposizioni in materia di esecuzione della pena, di misure di sicurezza e di misure cautelari nei confronti dei soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria o da altra malattia particolarmente grave) e la Legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori), e le relative conseguenze sul piano della compatibilità carceraria hanno seguito due percorsi differenti: da un lato si è realizzata una modifica all’istituto del rinvio obbligatorio dell’esecuzione (art. 146 c.p.) in relazione allo stato di gravidanza e alle necessità dei condannati affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria in situazione di incompatibilità con lo stato detentivo; dall’altro, la riforma ha modificato la disciplina del rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena (art. 147 c.p.) che può essere disposto quando la pena deve essere eseguita nei confronti di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica ovvero nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni.

L’istituto del differimento dell’esecuzione della pena detentiva nelle ipotesi previste dagli artt. 146 (Rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena) e 147 (Rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena) c.p., risponde all’esigenza di tutela della salute del detenuto nonché all’esigenza di garantire il diritto di assistenza da parte dei propri congiunti durante la malattia.

Il profilo di incompatibilità di maggior rilievo medico-legale, per la problematicità della relativa valutazione, attiene propriamente all’ipotesi del rinvio facoltativo dettato dalle "condizioni di grave infermità fisica".

L’art. 11 (Servizio sanitario) O.P. costituisce uno dei parametri di riferimento nella decisione del rinvio facoltativo: l’incompatibilità dovrà essere accertata considerando la capacità e il livello di erogare prestazioni dell’Amministrazione penitenziaria. Il giudice dovrà svolgere una serie di accertamenti "verificando non solo l’entità della patologia e le conseguenze che da essa possono derivare, ma anche se tale malattia sia curabile nella struttura sanitaria dell’istituto di reclusione o in altro luogo esterno di cura".

Giurisprudenza e dottrina appaiono concordi in merito alla necessità di valutare l’utilizzo del criterio del livello di efficienza della struttura sanitaria penitenziaria tenendo presente la possibilità offerta dall’art. 11 c. II O.P., di curare all’esterno il detenuto: l’infermità grave deve essere valutata alla luce di considerazioni "relative alla qualità dell’assistenza fornita dall’istituto penitenziario di assegnazione, alle individuate scelte terapeutiche, ai rimedi indicati dai clinici e alle possibilità di giovamento che il richiedente può trarre in concreto dalla sospensione"; considerazioni che "non possono prescindere poi

 

Incompatibilità con il regime carcerario

 

Dal raffronto con il complesso degli strumenti che la legislazione pone al servizio del cittadino-detenuto al fine di garantire l’effettività del suo diritto alla salute".

Il rinvio dell’esecuzione della pena rappresenterebbe quindi il rimedio residuale, al quale cioè ricorrere "in tutti quei casi in cui il diritto alla salute ed all’integrità personale del detenuto non sia altrimenti tutelabile da parte del complesso degli strumenti normativi preposti (assistenza interna, assistenza in centri clinici specialistici dell’amministrazione, assistenza ospedaliera esterna ai sensi dell’art. 2 legge penitenziaria), ovvero il protrarsi della carenza di adeguati interventi terapeutici esponga il detenuto a rischi incompatibili con il rispetto dei parametri costituzionali": soltanto nei casi in cui non sia realizzabile una tutela "attiva" del diritto alla salute del soggetto condannato nei modi descritti sarà possibile applicare l’art. 147 comma I n. 2) c.p..

Sempre in merito all’identificazione dell’infermità fisica, la Corte di Cassazione ha precisato che "deve ritenersi grave non esclusivamente quello stato patologico del condannato che determina il pericolo di morte, ma pure ogni altro tipo d’infermità fisica che cagioni il pericolo di altre rilevanti conseguenze dannose o, quantomeno, esiga un trattamento che non si possa attuare in ambiente carcerario e che necessariamente abbia probabilità di regressione nel senso del recupero, totale o parziale, dello stato di salute" e in altra sentenza precedente ha affermato che, ai fini dell’applicazione dell’art. 147 comma I n. 2) c.p. "è necessario che l’infermità fisica, oltre a potersi giovare, nello stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi e più efficaci di quelli che possono essere prestati nelle apposite istituzioni dell’ambiente carcerario, sia di tale gravità, per proporsi infausta quoad vitam o per altro motivo.

Definizioni non dissimili sono state date successivamente dalla Dottrina medico-legale. Nanni e De Sando, dopo aver richiamato il concetto di gravità del fenomeno morboso secondo il De Vincentiis, sottolineano come esso non possa prescindere, oltre che da elementi di carattere sanitario, "dalle esigenze della amministrazione della giustizia". Più recentemente il problema definitorio è stato affrontato da Giusti, da De Pietro e D’Ancora, da Crestani e Bordignon, da Canfora e coll.

In ossequio ai principi costituzionali, il giudizio di gravità o di infermità viene ad avere carattere non assoluto ma relativo fondandosi su un rapporto di volta in volta mutevole tra condizioni individuali del condannato e condizioni dell’ambiente carcerario così come sottolineato anche da Minna e Mangili.

Albino e Pannain suggeriscono che "per comportare la formulazione di un giudizio di non compatibilità l’infermità deve essere di entità tale per cui lo stato detentivo costituisce - con ragionevole prevedibilità - causa di peggioramento delle condizioni del soggetto o di non miglioramento - anche riabilitativo - o, pur non incidendo sulla evoluzione della infermità, sia però motivo di sofferenza non conciliabile con la salvaguardia dei diritti della persona o non consenta una attuazione, ragionevole, del diritto di scelta del medico e del luogo di cura".

D’altra parte la sospensione della pena per motivi di salute ha sempre rappresentato un problema spinoso, allorquando si tratta di applicare la norma nei casi di più gravi reati e di condannati socialmente pericolosi. Da un punto di vista tecnico, appare utile distinguere le patologie ad andamento acuto da quelle ad andamento cronico.

La natura di provvedimento temporaneo cui tende il differimento per le prime, infatti, risulta certamente soddisfatta poiché la durata della pena detentiva non sarà intaccata dalla sua essenza. In questi casi la concessione del beneficio potrà essere motivata, oltre che da ragioni squisitamente umanitarie, dalla inattuabilità della necessaria terapia in ambiente carcerario. Nel caso, al contrario, di patologia divenuta cronica ci si è chiesti se si possa applicare tale istituto considerando che, in questo modo, il rinvio della esecuzione della pena si sostanzierebbe in una mancata esecuzione della pena stessa. Per il vero, oggi, nel caso di situazioni fisiche insanabili, vi è la possibilità di optare per la detenzione domiciliare in luogo del differimento, ai sensi dell’art. 47 ter, c. I ter O.P .

Il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena deve essere disposto anche nel caso in cui riguardi donna incinta o cha abbia partorito da meno di un anno (art. 146 comma I, nn. le 2 c.p.) o nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata oda grave deficienza immunitaria accertate (art. 286 bis comma II c.p.p.), oda "altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trovi in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative" (art. 146 comma I, n. 3). Entrambi gli articoli (146 c.p. e 286-bis c.p.p.) sono stati oggetto di attenzione da parte della Corte costituzionale, diretta alla revisione degli orientamenti del Legislatore espressi nella Legge 14 luglio 1993, n. 222 (di conversione del D.L. 14 maggio 1993, n. 139) che aveva sostituito l’art. 146 comma I, n. 3 c.p. e la relativa connessione sul codice di procedura penale, causando una disparità rispetto alla disciplina del rinvio facoltativo e della custodia cautelare in genere.

L’incompatibilità assoluta e relativa prevista dall’art. 286 bis c.p.p. e art. 146 c.p. si estranea dal livello di efficienza del servizio sanitario penitenziario, riferendosi invece ad altri parametri normativi o di giudizio.

Ciò comportava un automatismo nei provvedimenti adottati dal giudice: il medico, rilevate le evidenze diagnostiche, accertava l’incompatibilità dalla quale scaturiva a sua volta l’obbligo di differimento della pena o il divieto di custodia cautelare. La Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 438 del 1995 aveva dichiarato l’illegittimità dell’art 146 I comma, n. 3 c.p., nella parte in cui stabiliva che il differimento avesse luogo anche quando l’espiazione della pena potesse avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e di quella degli altri detenuti.

L’incompatibilità delle condizioni di salute con lo stato detentivo origina da due fattori fondamentali: la tutela della salute del singolo e la tutela della salute degli altri detenuti, per la quale la presenza di malattie infettive può costituire pericolo. Inoltre l’incompatibilità può essere posta in relazione anche al concreto pericolo che la patologia da cui è affetto un detenuto crea agli altri detenuti ovvero al personale penitenziario: anche tale pericolo deve essere naturalmente valutato in relazione alle strutture e all’assetto della vita detentiva di ciascun istituto.

Questo concetto di incompatibilità relativa ha notevolmente diminuito il numero dei casi di scarcerazione per motivi di salute: l’incompatibilità va infatti vagliata non in assoluto, ma in relazione alla concreta possibilità di cure e alla situazione strutturale di ciascun istituto penitenziario.

In tutti i casi di detenuti affetti da una patologia che abbia come conseguenza inevitabile la morte, come, per esempio, un carcinoma in fase terminale, situazioni nelle quali, stricto sensu, non è possibile parlare di incompatibilità con lo stato detentivo per motivi di salute, è diffusa una prassi a disporre la scarcerazione, come vero e proprio atto di clemenza dello Stato, che rinuncia al suo potere punitivo nei confronti del malato detenuto.

Del resto, nel caso di malati terminali la funzione stessa della pena perderebbe la sua ragione di essere sancita a livello costituzionale dall’art. 27, III comma, secondo il quale "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato".

La funzione rieducativa della pena confligge con la presenza di un malato in carcere, la quale, invece, sembrerebbe soddisfare la sola funzione general-preventiva. Attraverso la modifica dell’art. 146 c.p., il nuovo quadro normativo prevede un’ipotesi di rinvio obbligatorio della pena, che si configura, analogalmente a quanto valido per l’imputato, come unica ipotesi di incompatibilità automatica ed assoluta tra condizioni di salute del condannato e detenzione in carcere.

Il punto n. 3 del comma I dell’art. 146 c.p., dopo essere stato dichiarato illegittimo dalla sentenza n. 438 del 1995, nella parte in cui prevedeva che il differimento avesse luogo anche quando l’espiazione della pena potesse avvenire senza pregiudizio della salute del soggetto e di quella degli altri detenuti, è stato modificato ampiamente dalla Legge 231/99, in virtù della quale ora si prevede che "L’esecuzione di una pena, che non sia

pecuniaria, è differita, se deve avere luogo nei confronti di persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286-bis, comma II c.p.p., ovvero da altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione, quando la persona si trovi in una fase della malattia così avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative".

La modifica si conforma al dettato costituzionale che, nell’esecuzione della pena, vieta il ricorso a trattamenti contrari al senso di umanità, "significativamente includendo tra i beneficiari, al contrario della normativa previgente, non solo i soggetti affetti da HIV / AIDS in fase avanzata, ma anche i condannati che si trovano in condizioni critiche di salute a causa di altra patologia".

A tale riguardo, sempre nell’ottica di ricondurre il problema dell’AIDS in carcere nel più generale alveo dell’infermità fisica generata da qualsivoglia patologia, la nuova formulazione dell’art. 146 c.p. comma I n. 3, contempla congiuntamente sia le fattispecie di persona affetta da "AIDS oda grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell’art. 286-bis comma II c.p.p.", sia i casi di persona affetta da "altra malattia particolarmente grave per effetto della quale le sue condizioni risultano incompatibili con lo stato di detenzione".

È opportuno comunque precisare nuovamente che entrambe le condizioni assumono rilievo ai fini del differimento di una pena detentiva soltanto nell’ipotesi in cui il soggetto si trovi in uno stadio della malattia talmente avanzato da non rispondere ai trattamenti e alle cure disponibili, conformemente a quanto d’altra parte stabilito nella corrispondente disposizione relativa alla fase anteriore al giudizio di cui all’art. 275, comma IV-quinquies c.p.p., venendo perciò a configurare l’unica ipotesi di automatica incompatibilità carceraria per motivi di salute.

Oltre a ciò, appare opportuno evidenziare come il sistema così delineato risponde anche alle indicazioni della sentenza n. 438 del 1995 della Corte Costituzionale che invitava il legislatore ad adottare strumenti preventivi in grado d’impedire che l’imputato rimesso in libertà potesse commettere nuovi reati; sembra del tutto scontato infatti che la nuova norma, dati i presupposti sopra delineati, non permetta il reiterarsi di condotte delittuose da parte del soggetto che ha potuto beneficiare del differimento dell’esecuzione della condanna, ai sensi dell’art. 146 comma I n. 3 c.p.

 

L’esecuzione penale extramuraria per motivi sanitari: la detenzione domiciliare

 

La detenzione domiciliare è "una misura alternativa ispirata alla prospettiva della piena decarcerizzazione quale modalità di esecuzione extraistituzionale della pena detentiva".

La detenzione domiciliare, disciplinata dall’art. 47 ter O.P., introdotto dall’art. 13 della Legge 10 ottobre 1986, n. 663, consiste nell’obbligo di risiedere "nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza".

Presupposto per l’applicazione dell’istituto in esame è la pena della reclusione non superiore a quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena, e la pena dell’arresto: l’applicabilità della detenzione domiciliare è dunque condizionata dalla pena da espiare concretamente, e non da quella erogata per il reato commesso dal soggetto.

La sanzione alternativa è evidentemente finalizzata ad impedire l’ingresso del reo in carcere con pregiudizio delle relazioni familiari e sociali e delle condizioni di salute dello stesso ovvero a favorirne il graduale reinserimento nella comunità di precedente appartenenza. Altro presupposto per l’applicazione della detenzione domiciliare è costituito dalle particolari condizioni psico-fisiche richieste all’art. 47 ter comma I lettere a), b), c), d), e).

La prima situazione rilevante riguarda "donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni dieci con lei convivente"; tale disposizione è dettata dall’esigenza di risolvere le problematiche della presenza in carcere di donne in stato di gravidanza e del rapporto madre detenuta-figli, offrendo un’adeguata tutela a gravidanza, maternità, e infanzia, secondo una lettura combinata degli artt. 3, 30, 31 e 32 Cost.

Per quanto riguarda il rapporto tra la norma in esame e gli artt. 146 e 147 c.p., relativi al differimento dell’esecuzione della pena, è possibile, in caso di situazioni riconducibili ad entrambi gli istituti dal punto di vista delle situazioni personali dei soggetti coinvolti, individuare la posizione di specialità della detenzione domiciliare che, per la sua applicazione, richiede particolari requisiti normativi. Con riferimento alla situazione delle detenute-madri, l’art. 3 della Legge 8 marzo 2001, n. 40 (Misure alternative alla detenzione e tutela del rapporto tra detenute e figli minori), introduce nell’ordinamento l’istituto della "detenzione domiciliare speciale", applicabile, in presenza di determinate condizioni, alle condannate madri di prole di età non superiore ad anni dieci, laddove non ricorrano i presupposti previsti dall’art. 47 ter O.P.

La lettera b) dell’art. 47-ter contempla esplicitamente anche la situazione del "padre, esercente la potestà, di prole di età inferiore ad anni dieci con lui convivente, quando la madre sia deceduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole". Altra situazione personale che consente l’applicabilità dell’art. 47 ter O.P. è quella relativa alla "persona in condizioni di salute particolarmente gravi che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali": anche in tale caso la ratio della norma è individuabile nel combinato disposto degli artt. 3, 27 e 32 Cost., ovvero nell’esigenza di tutelare la salute del condannato anche al fine di consentire il suo migliore reinserimento nella società, nelle migliori condizioni psico-fisiche.

L’art. 47 ter comma I lettera d) tutela invece l’età avanzata del soggetto, unitamente alle disagiate condizioni dello stesso, contemplando l’ipotesi della "persona di età superiore a sessanta anni, se inabile anche parzialmente"; per quanto riguarda il concetto di "inabilità anche parziale", tale requisito sembrerebbe escludere tanto il concetto di invalidità in senso assistenziale e previdenziale, tanto quello più ristretto di infermità pura e semplice.

L’ultima situazione personale prevista dalla norma riguarda la "persona minore di anni ventuno per comprovate esigenze di salute, di studio, di lavoro e di famiglia": le condizioni di salute indicate si riferiscono evidentemente ad una situazione non così grave da non risultare affrontabile in carcere, ma meglio fronteggiabile al di fuori di esso con terapie di non breve durata.

La detenzione domiciliare rappresenta una modalità di esecuzione extraistituzionale della pena detentiva con l’obbligo, per chi ne usufruisca, di risiedere "nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura e di assistenza".

I presupposti per l’ammissione dei condannati alla detenzione domiciliare risultano ben determinati dovendosi trattare di soggetti in condizioni fisio-patologiche particolari. I soggetti ai quali il beneficio è rivolto devono trovarsi in condizioni di minor rischio comportamentale: il legislatore ha voluto sottolineare l’esigenza che la valutazione comportamentale sia rigorosamente allineata, in termini temporali, al momento del giudizio. Nel concedere la misura alternativa della detenzione domiciliare, il Tribunale di Sorveglianza deve fissarne le modalità di esecuzione, e ha la facoltà: 1) di imporre al condannato limiti relativi alla comunicazione con persone diverse dai familiari; 2) di autorizzare il condannato ad uscire dal luogo di detenzione durante la giornata per il tempo strettamente necessario per provvedere alle indispensabili esigenze di vita, se mancano persone che possono provvedervi, oppure per recarsi presso luoghi di cura.

Il Tribunale deve inoltre stabilire le modalità di intervento del Servizio Sociale. Tali prescrizioni possono venire modificate, durante l’esecuzione delle misure, dal Magistrato di Sorveglianza competente nel luogo in cui si svolge la detenzione domiciliare.

Da un punto di vista storico-giuridico possiamo ricordare come la misura rappresenti il frutto di una evoluzione dottrinaria e legislativa le cui radici risalirebbero addirittura al Diritto Romano, il quale la prevedeva quale trattamento di privilegio dell’allora classe dominante. Istituti simili erano inoltre presenti nei Codici precedenti alla unità d’Italia e anche nel Codice del 1889. Veniva definita modalità di esecuzione della pena oppure era direttamente applicabile dal Giudice di merito, "poiché il valore delle leggi si ricava anche considerando il tempo in cui vengono emanate, il senso di ribadire un principio precedentemente già presente può significare una dimostrazione di volontà di porre in maggior risalto quel principio e la sua operatività". Appare perciò quasi naturale che nel convulso panorama internazionale seguito alla fine degli anni ‘60 con la messa in crisi del concetto di trattamento penitenziario, in Italia venisse alla luce anche l’istituto della Detenzione domiciliare, forse in ritardo rispetto alle istanze innovatrici della Legge 354/75, ma comunque in pieno ossequio alla tendenza maturata nei vari sistemi penali degli ordinamenti giuridici più evoluti.

Non a caso, come evidenziato da Pavarini, proprio nella detenzione domiciliare il contenuto trattamentale tende a ridursi a zero avvalorando quella corrente di pensiero per cui il vero significato di trattamento penitenziario è il contrario di sofferenza inflitta intenzionalmente.

Pienamente in linea con i principi ispiratori della Legge Gozzini appariva lo spirito della Detenzione domiciliare così come risulta dalla relazione del Senatore Gallo alla II commissione Senato del 29 maggio 1986. La misura in esame, pur non abbandonando il carattere intimidativo e quindi general-preventivo della pena, è finalizzata ad impedire l’inutile permanenza del reo in carcere. A riprova della natura detentiva reale sono gli effetti correlati al calcolo della pena eseguita in caso di revoca o di concessione della liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 O.P.

Allorquando, invece, la detenzione domiciliare venga adottata quale misura alternativa agli ultimi 2 anni di reclusione, come ha sancito la legge Simeone - Saraceni, la sua finalità vira decisamente nella direzione del reinserimento sociale del reo (e dello sfoltimento della popolazione penitenziaria). Questa ultima tesi non è tuttavia da tutti condivisa. Propria la assenza di qualsiasi contenuto risocializzante e rieducativo, secondo Cesaris, non permetterebbe alla detenzione domiciliare di essere considerata nel novero delle misure alternative vere e proprie.

Non vi è dubbio, invece, come ribadito anche da Ponti, che la detenzione domiciliare, così come è formulata, rappresenti un istituto di carattere umanitario nei confronti dei soggetti cui si rivolge, in armonia con il dettato costituzionale (artt. 27 e 32 Cost.), e, a suo tempo, introdotto anche per sanare una discrasia normativa derivante dalla possibilità di eseguire domiciliarmente la custodia preventiva e, invece, la mancata stessa possibilità in sede di esecuzione della pena.

Con l’entrata in vigore della Legge 281uglio 1984 n. 328 che aveva inserito nel Codice di Procedura Penale l’Istituto degli arresti domiciliari per gli imputati, si era infatti creato un notevole squilibrio tra la fase cosiddetta cognitiva e quella cosiddetta esecutiva, sanato dall’introduzione della detenzione domiciliare. Una certa concorrenzialità tra le condizioni previste dagli articoli 146 e 147 (n. 2 e 3) c.p. e quelle definite dall’art. 47 ter O.P. è stata sottolineata da molti, fra cui Della Casa (27); d’altra parte, già nei lavori preparatori della Legge 663/86, si affermava come la detenzione domiciliare si ponesse quale deroga alla normativa codicistica in materia di rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione penale.

Da un punto di vista medico-legale, poi, non si può negare come, almeno fino alla promulgazione della Legge 663!86 non sussistessero sostanziali differenze tra i diversi istituti giuridici tutti accentrati, per quanto attiene alla indagine medico-forense, sulla gravità delle condizioni di salute del reo cosicché, come sottolineato da Crestani e Bordignon "la valutazione medico-legale dovrà basarsi su criteri sostanzialmente omogenei".

Dall’introduzione della Legge 663/86, il problema della compatibilità con il regime carcerario ha assunto nel tempo sempre maggiore rilievo medico-legale, con riferimento alla applicazione dell’art. 147 c.p., dell’art 47 ter O.P. e degli arresti domiciliari ai sensi dell’art. 284 c.p.p.. La letteratura scientifica, oltre che da un punto di vista dottrinario, se ne è occupata anche da un punto di vista casistico; in tal senso i contributi di De Pietro e D’Ancora, Giusti e Ferracuti, Gay, Perotti e Romano, nonché per la particolare situazione relativa alla compatibilità tra lo stato di detenzione e le manifestazioni morbose connesse con la infezione dal virus HIV, Antonietti e Romano.

Concludendo, considerate le diverse opportunità offerte dal sistema penitenziario, il parere medico-legale in tema di differimento potrà essere, oltre che di piena compatibilità con il regime detentivo ordinario, di incompatibilità relativa o assoluta.

Nel primo caso rientrano tutte quelle situazioni per cui, pur eventualmente ricorrendo a soluzioni alternative all’attuale regime detentivo, come il ricovero in un centro diagnostico terapeutico dell’amministrazione penitenziaria, la situazione non richiede forme alternative esterne. Nel secondo caso spetterà al giudice, sulla base dei criteri di ordine giudiziario oltre che sanitario, scegliere tra l’espiazione presso la propria abitazione o altro luogo di privata dimora, o il ricovero in un luogo di cura, assistenza o accoglienza extracarcerario, ovvero concedere provvedimenti di rinvio dell’esecuzione della pena, anche grazie ai pareri assunti dal medico del carcere o dal perito, i quali sono tenuti a fornire chiari elementi clinici di giudizio quali, ad esempio, l’emendabilità della condizione patologica mediante appropriata terapia, la condizione di cronicità o di lenta evolutività nonché la prognosi quoad vitam.

È evidente che le incompatibilità relative ed assolute possono avere, a seconda delle patologie e delle prognosi, carattere temporaneo o permanente, per cui questi fattori devono essere tenuti presenti ai fini della concessione di una misura alternativa. Per la concessione del differimento della pena restrittiva della libertà personale che deve essere eseguito a favore di chi si trova in condizioni di grave infermità fisica, occorre quindi la sussistenza di una malattia grave, tale cioè da porre in pericolo la vita del condannato o provocare altre rilevanti conseguenze dannose e, comunque, tale da esigere un trattamento che non si possa agevolmente attuare nello stato di detenzione. Come già rilevato, il giudizio sulla gravità ha carattere relativo giacche si fonda sul rapporto tra condizione individuale del soggetto e condizione dell’ambiente carcerario e, pertanto, l’accertata infermità costituirà causa possibile di differimento non solo perché grave nel senso sopra indicato, ma soprattutto in quanto potenzialmente aggravata dalla condizione carceraria.

Non può e non deve invece assumere rilievo il carattere cronico ed inguaribile della malattia dato che il requisito della guaribilità o della reversibilità dell’infermità non è richiesto dalla norma. Si tratta di un problema di incompatibilità relativa, cioè rispetto al singolo luogo di detenzione, per cui una volta mutato questo, si riavrà la compatibilità con il carcere, oppure, finito il periodo di ricovero, ad esempio, in un luogo di cura, l’incompatibilità "temporanea" potrebbe venire meno.

 

 

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