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Prefazione
Chi abbia prestato attenzione alle dinamiche che direttamente o indirettamente ricadono sul mondo dell’esecuzione penale ed in particolare del carcere dovrebbe aver rilevato che da qualche tempo in questo campo si sta avviando nel nostro Paese un’inversione di tendenza rispetto ad un atteggiamento, in passato diffuso di trascuratezza se non di vera rimozione. Il controverso mondo dell’esecuzione penale sta formando oggetto di un fiorire d’iniziative che vanno dagli innumerevoli momenti di discussione e confronto a un più diffuso interesse dottrinale, alla moltiplicazione di indagini specialistiche, al sorgere di nuove riviste, al ripetersi di convegni. a una accresciuta qualificazione e partecipazione del volontariato e delle organizzazioni private sino al moltiplicarsi di corsi universitari e post universitari in forma di master o di specializzazioni. Tutto ciò rispecchia, d’altronde una tendenza nota altrove dove i problemi della vasta area definiti di "esecuzione penale" sono stati affrontati con maggior anticipo e con un’attenzione produttiva di importanti risultati. Sembra dunque che si sia finalmente radicata anche in Italia una qualche maggior consapevolezza circa l’importanza della riflessione sulla pena sulle modalità del recupero sull’efficienza del sistema nel momento dell’esecuzione su una valutazione costi benefici, sull’esigenza del rispetto di regole rispondenti agli standard europei. Uno degli argomenti ai quali si rivolge la rinnovata attenzione è rappresentato dalla sanità penitenziaria, tema quanto mai complesso, se si considera che le numerose disposizioni in materia sono spesso scoordinate e comunque mancanti di adeguata sistematicità. Di sanità penitenziaria si discute molto, non sempre con risultati pratici apprezzabili. L’argomento è tormentoso e, per quanto siano sinceri gli sforzi di venirne a capo, anche offrendo materiale di riflessione ai responsabili politici, non si può negare che talora le difficoltà, dovute soprattutto ai condizionamenti dei mezzi disponibili, appaiano a tal punto gravi da indurre a una sensazione di impotenza, che può anche essere scambiata per abbandono del campo. La legge 30 novembre 1998, n. 419, che si è proposta la riforma della medicina penitenziaria, seguita dal decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230, non si può dire abbia raggiunto gli obiettivi che si prefiggeva. Oltre ai ritardi e alle difficoltà della prevista sperimentazione in alcune Regioni, v’è da osservare che la riforma è improntata a una filosofia che tende ad esaurire la medicina penitenziaria nell’alveo della sanità pubblica generale. È un’impostazione che presuppone una risposta negativa alla questione della specificità della medicina penitenziaria. Risposta negativa che è certamente corretta per ciò che riguarda il profilo sanitario in senso stretto, non esistendo patologie esclusive della popolazione detenuta o che si sviluppino soltanto nel carcere. Ma non si possono trascurare altri profili pur incidenti sulla gestione sanitaria, quali la situazione di costrizione e coabitazione coatta produttiva di malesseri specifici, per definizione non risolubili con le modalità che nei casi corrispondenti verrebbero adottate nella società libera; l’esistenza di fenomeni simulatori e dissimulatori presenti in peculiari dimensioni e qualità all’interno della realtà carceraria; alcune patologie psichiatriche e alcuni disturbi psicologici concentrati in misura non rapportabile a quella di un gruppo sociale esterno; ed infine - ma non secondariamente - la ragione peculiare che impone negli istituti una risposta sanitaria sollecita ed adeguata, sia perché il detenuto è affidato alla responsabilità dello Stato, sia per i riflessi che ne conseguono sulla convivenza carceraria. È probabile che la risposta al quesito al quale facevamo cenno non possa darsi con un monosillabo, ma richieda una maggiore articolazione. Si può dubitare che la riduzione dell’intera problematica della sanità penitenziaria all’assistenza comune, frutto di una scelta teoricamente corretta, sia del tutto consapevole delle esigenze pratiche che s’incontrano nella gestione della salute in carcere. Occorre ricordare che la scelta di assorbire completamente la medicina penitenziaria nel servizio di assistenza sanitaria comune non è imposta dalle Regole europee (nella Raccomandazione n° R3 "Regole penitenziarie europee", adottata dal Comitato dei Ministri il 12 febbraio 1987, nel punto 26, relativo ai Servizi sanitari, richiede che questi siano organizzati "in stretta relazione con l’amministrazione generale del servizio sanitario della comunità o nazionale"), essendo in esse considerata essenziale la sostanza del servizio erogato e non già le forme organizzative o l’inquadramento ordinamentale del personale addetto. Ciò che si richiede dai principi internazionali (OMS, regole VE, Commitments nn. 6 e 7 del Documento dell’ABIM, dell’ACP-ASIM e dell’EFIM è l’equivalenza delle cure mediche, ovvero la capacità di assicurare standard di cura adeguati e uniformi Questa è l’ottica in cui si pongono altresì le disposizioni di legge interne, a cominciare dalla stella polare rappresentata dall’art. 32 della Costituzione, dove il legislatore ha scritto, tra l’altro, l’obbligo di permanente attualità di assicurare cure gratuite agli indigenti. Sotto questo profilo non si può dimenticare che il dissolvimento della sanità penitenziaria in quella generale potrebbe non risolversi in un vantaggio per i livelli di assistenza della popolazione detenuta, in un momento, come l’attuale, in cui stanno manifestandosi crepe nell’edificio dello Stato sociale, in special modo nel settore dell’assistenza sanitaria. Non va trascurato che, per quel terzo di popolazione carceraria costituita da stranieri irregolari, la prospettiva dell’assistenza sanitaria sarebbe scoraggiante anche se non si trattasse di detenuti, le difficoltà del passaggio al servizio sanitario comune si coniugano con una situazione di pesantezza che incide particolarmente, stante l’impostazione conseguente alla svolta politica conosciuta nel nostro Paese dal 2001, sui soggetti deboli e in condizione di particolare indigenza, come spesso si trovano nel carcere. In questa torrida estate 2003, nella quale si sono contate a migliaia le vittime di una assistenza insufficiente si è lanciato un allarme per una sanità dove la spesa (75 miliardi di euro distribuiti in un anno alle Regioni dal Fondo sanitario nazionale. somma alla quale vanno aggiunti 24 miliardi versati dai cittadini a titolo di ticket o per visite ambulatoriali o spese di ricovero ospedaliero) dev’essere contenuta per porre rimedio a un deficit che viene indicato in 3 miliardi di euro. A titolo di esempio, nella sola Regione Veneto, che pure appartiene a quel nord spesso indicato come ricco ed efficiente, il disavanzo previsto per il 2003 si aggira sui 470 milioni di euro, mentre ben 6 USL (Vicenza. Rovigo. Venezia. Verona. Padova e Mirano) e 2 Aziende ospedaliere (Padova e Venezia), che da sole lamentano un deficit che assomma al 70% dell’intero deficit sanitario della Regione, sono state sottoposte a "trattamento speciale" per il rientro del deficit (trattamento speciale comportante, inter alia, un blocco di assunzioni). Nella sola ASL di Vicenza il disavanzo previsto per il 2003 è di 92 milioni di euro e a Rovigo di 50 milioni. Dinanzi a questa situazione si cercano rimedi che sfociano nell’accollo di parti sempre maggiori della spesa sanitaria sull’utente, in particolare attraverso forme più o meno esplicite di privatizzazione. Nella Regione Lombardia, ad esempio, dal gennaio 2003 è stato istituito un "voucher socio-sanitario" definito come una "nuova modalità di organizzare il servizio di Assistenza Domiciliare Integrata" e finanziato con circa 80 milioni di euro. Non è questa la sede per diffondersi su un esame analitico dei problemi che incontrano i cittadini comuni nell’accesso all’assistenza sanitaria, ma occorre ammettere, in termini generali, che la riconduzione della sanità penitenziaria al sistema generale rischierebbe di subire i contraccolpi di una situazione oggi seriamente compromessa. È probabile, e sotto un certo profilo ineluttabile, che al carcere non verrebbero destinate risorse maggiori rispetto a quelle previste per altri settori dell’assistenza sanitaria. E tuttavia l’esperienza indica che risorse aggiuntive occorrono per conseguire nel carcere i risultati richiesti dalla peculiarità della situazione. Torniamo così all’interrogativo: è possibile ridurre la sanità penitenziaria all’assistenza comune? Il libro che presentiamo affronta tale interrogativo senza evitarne la complessità. Francesco De Ferrari e Carlo Alberto Romano affrontano l’argomento con taglio sistematico e scientifico venendo a colmare una lacuna avvertita tanto dagli studiosi, quanto dagli operatori del settore. Ma la ricchezza degli spunti e delle prospettive del lavoro. che analizza l'argomento nelle sue molteplici dimensioni mettendo in luce gli aspetti problematici ed offrendo risposte articolate, si spiega con la circostanza che esso è frutto di una riflessione teorica che si alimenta però sull’esperienza pratica della realtà penitenziaria. Esperienza che Carlo Alberto Romano possiede sia quale ricercatore dell’Istituto di medicina Legale ed esperto di criminologia, materia della quale è docente nell’Ateneo bresciano, sia grazie all’impegno in attività di volontariato, essendo egli il responsabile, con Giancarlo Zappa, l'indimenticabile presidente del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, della "Associazione Carcere e Territorio", organizzazione che si segnala in modo peculiare per lo spirito di realismo con cui opera in sintonia con gli Enti locali interessati al recupero e all’assistenza dei detenuti e delle loro famiglie. Grazie a queste competenze, ad un tempo scientifiche ed acquisite "sul campo", la fatica di De Ferrari e di Romano ha condotto mi sembra ad un risultato che va oltre l’obiettivo per se prezioso di fornire un testo di conoscenza accurata e sistematica delle norme, per offrire in molti casi un contributo realistico, e dunque praticabile alla soluzione dei problemi che affliggono il servizio della sanità penitenziaria.
Roma, agosto 2003
Giovanni Tamburino, Direttore Ufficio Studi e Ricerche Dipartimento Amministrazione Penitenziaria
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