Articolo di Francesco Ceraudo

 

Il carcere: una città murata

di Francesco Ceraudo  (Dirigente Sanitario Casa Circondariale di Pisa)

 

Il carcere è un luogo di sepolti vivi. Nella classifica degli eventi esistenziali più drammatici, secondo un campione di popolazione americana, la carcerazione viene al terzo posto dopo la morte di un figlio e la morte della moglie. In un contesto drammatico dove dominano la miseria e la promiscuità, attualmente le carceri sono degli enormi serbatoi, dove la società, senza eccessive remore, continua a rinchiudere una marea di tossicodipendenti, di extracomunitari, di disturbati mentali, quasi un tentativo per neutralizzarli e renderli così inoffensivi.

I numeri parlano fin troppo chiaramente e sono numeri preoccupanti mai raggiunti nella storia del nostro Paese. Questi numeri esorbitanti rendono tutto più difficile e complicato. Sovraffollamento vuol dire inevitabilmente minor vivibilità per i detenuti. Ci troviamo di fronte uomini e donne degradati ed umiliati. Prevalgono i "poveri diavoli", cosiddetti "cani senza collare", tutti appartenenti agli strati sociali più deboli e più poveri, levati sui marciapiedi e nei sobborghi delle città. I detenuti sono dei residui di umanità che vivono al di fuori dei cicli della natura. Il carcere li condiziona, li disumanizza, li modifica, i peggiora sia fisicamente che psicologicamente.

Non indossano più il pigiama a strisce, non portano sul camiciotto o sul berretto il numero di matricola, ma resta, purtroppo la realtà di rappresentare un numero, talora un fascicolo. Il carcere è una chirurgia dell’anima. Il carcere è malattia. Entrando in questo microcosmo infernale riusciamo ad afferrare un’atmosfera infelice, irreale, ove i detenuti si muovono come robot.

I ritmi, e abitudini, confini esistenziali risultano alterati. Tutto viene modificato da una realtà lontana anni luce dai normali percorsi quotidiani. Il carcere modifica tutto: il tuo essere, il tuo sorriso, i tuoi pensieri, il modo di camminare, di amare, di credere, di sperare, di sognare. Il carcere è responsabile di questa spoliazione umana, sociale dell’uomo, un mondo sperimentale di regressione.

La realtà quotidiana è piena di desolazione. È un simulacro di vita, non profonde lacerazioni psicologiche. Spesso diventa criminogeno, quasi sempre abbrutisce. La solitudine in carcere diventa una penosa radice del deterioramento dell’uomo, dell’invecchiamento delle emozioni. Rimane, del resto, facilmente intuibile lo stato d’animo di chi, improvvisamente sradicato dagli affetti, alle proprie abitudini, ai propri interessi, al proprio ambiente è costretto, un giorno, a varcare il portone del carcere. Vede cadere inesorabilmente tutto intorno a sé.

Prendono corpo vigorosamente l’idea di rovina, l’angoscia, il vuoto esistenziale, il senso di emarginazione dalla società, l’umiliazione insita nella posizione stessa di detenuto, l’incertezza e la paura del proprio futuro e molto spesso il rimorso che preme. Al di là delle sbarre il detenuto non si sente più un uomo. Il carcere si delinea a questo punto come un luogo per il suo completo annientamento.

Il carcere è una città murata, violenta, crudele. Gli eventi che vi accadono, i sentimenti, le emozioni, e paure e le speranze, li odi e gli amori assumono uno strano contorno di irrealtà caricandosi di significati di allarme e di allusione. Il detenuto vive la vita a rischio di un uomo braccato. Si sente soprattutto respinto, comitato dalla società. Il detenuto è ormai un altro. Alterato, modulato, violentato nei suoi connotati essenziali, il detenuto è ormai un corpo invecchiato in fretta, un volto anonimo, uno sguardo spento nel vuoto. Sono pochi quei detenuti che reagiscono, che riescono a resistere e a vincere l’ambiente; molti sono, invece, quelli che lo subiscono.

In carcere si subiscono gravi umiliazioni relativamente al sesso, il movimento fisico, alla vista, all’udito, al linguaggio.

In ogni sistema penitenziario vi è purtroppo una contraddizione di fondo duplice: da una parte si ha la pretesa di insegnare al detenuto il modo di vivere e di comportarsi nel mondo libero e nello stesso tempo lo si costringe a vivere nel carcere che di quel mondo è l’antitesi. Le istituzioni di recupero, sia per il complesso di transazioni negative che hanno mediato, sia per una reale difficoltà di integrazione con l’ambiente di lavoro, la scuola, la famiglia, non sono riuscite a gestire, indirizzare, incanalare positivamente la tensione esistente tra i bisogni, i valori della personalità in evoluzione, tesa alla realizzazione di sé.

La carcerazione può acquisire dei risultati concreti soltanto se si comprenderà che l’Io del detenuto riceverà un sostegno e sarà messo in condizioni di potersi sviluppare con tecniche di riabilitazione che siano positive e creative. Acquisiscono pertanto la loro peculiare e significativa importanza sia il concetto di individualizzazione e di territorialità della pena, sia quello del lavoro penitenziario, inteso come fattore di rieducazione, come esperienza qualificante capace di aiutare il detenuto a ritrovare pienamente il senso della sua identità civile e della sua dignità umana.

Bisogna curare la qualità della vita in carcere attraverso l’acquisizione di 2 importanti obiettivi:

a) il lavoro penitenziario;

b) gli interessi affettivi.

Finalità primaria della carcerazione è il riadattamento sociale. Riadattare alla vita significa far comprendere l’uso della libertà, risvegliare le qualità e i sentimenti buoni latenti in ogni persona, cercare di eliminare gli aspetti negativi, orientare e spronare verso un nuovo ed equilibrato indirizzo di vita sociale, orale e familiare per evitare di ricadere verso i contenuti etici dei sottogruppi e delle sottocolture dove l’aggressione e la violenza ne rappresentano i requisiti peculiari. La posizione più rispondente a queste prerogative è quella di chi vede nell’approccio, nel colloquio, nel dialogo, nel contesto umano il mezzo più sicuro per far uscire il detenuto dal suo pauroso isolamento, per distoglierlo dalle sue idee fisse, per disporlo su norme ben precise.

Va perseguito il rapporto umano, non pietistico o caritativo; solo da esso si può ottenere la possibilità di dischiudere in soggetti prevenuti e coartati il dubbio che la loro visione della vita sia distorta, che certi principi, certi sofismi ai quali sembrano avvinti, non reggono ad un confronto serio. L’istituzione penitenziaria deve essere in grado di compiere interventi psicoterapeutici e di formazione sociale e professionale e soprattutto di far compiere al deviante quel salto di qualità nel rapporto con la realtà sociale che gli può consentire di abbandonare il resto, cioè l’agire antisociale, visto da lui come unica possibilità esistenziale adatta a dargli successo nella vita. In definitiva, si può dire che si sente forte la necessità di dare un senso a questo tempo fuori del tempo dei detenuti.

La Legge - delega sul Riordino della Medicina Penitenziaria è naufragata miseramente il 30 giugno 2002. Nessuna delle Regioni prescelte (prima Toscana, Lazio e Puglia e poi Emilia - Romagna, Campania e Molise) è stata in grado di far decollare seppure uno straccio di sperimentazione. In termini incontrovertibili i fatti hanno evidenziato che la suddetta Legge, imposta dall’alto sull’onda della demagogia e senza alcun serio confronto con gli operatori sanitari penitenziari e con gli stessi detenuti, stato un provvedimento sbagliato e fortunatamente inattuabile, perché prevedeva una serie di atti burocratici, di adempimenti formali e di iniziative applicative eccessivamente complesse e perfino contraddittorie.

L’errore di fondo, grossolano e quindi insuperabile, è stato poi aver previsto il costo zero della Riforma.

Contro questo si è infranta ogni prospettiva di miglioramento. Tutto è diventato miseramente aleatorio, perché non si è potuto prevedere alcuna forma di investimento nelle strutture, nei servizi, nella tecnologia e nella formazione del personale sanitario. È una Riforma nata male e gestita peggio dalle Regioni. Nello stesso tempo finiva per penalizzare i medici e gli infermieri penitenziari, senza rafforzare il diritto alla salute della popolazione detenuta. E questo francamente ci sembra veramente troppo. La medicina penitenziaria è un servizio di prima linea con le sue urgenze notturne e festive e con il diritto a corsie preferenziali. Tutto ciò impone sburocratizzazione e snellimento delle pratiche.

Le Aziende Sanitarie Locali, secondo le regole del mercato, fanno del profitto il loro concetto guida e tutto ciò mal si concilia con gli abissi di necessità di un carcere. Alle Aziende Sanitarie Locali manca totalmente la cultura del carcere.

I principi ispiratori della Legge - delega erano forse anche positivi, a le successive elaborazioni della delega (l’Amministrazione Penitenziaria si riservava un proprio contingente medico che di fatto avrebbe controllato e diretto il personale dell’ASL) hanno creato un mostro giuridico, un coacervo di compromessi vergognoso che ha finito per rendere inutile anche ogni tentativo di sperimentazione.

Si può senza dubbio affermare che la Legge - delega è nata in Toscana sulla spinta cieca della Bindi e della Bolognesi, ma è anche naufragata in Toscana, perché in 5 anni questa Regione non è stata in grado di operare neppure un misero tentativo di sperimentazione. Importanti assunzioni di responsabilità, discorsi autocelebrativi, ma risultati zero.

Dopo 5 lunghissimi anni la Regione Toscana rincorre pateticamente l’allestimento di una Carta dei Servizi! Bisogna dare atto alla Regione Toscana che è stata la prima a mettere a disposizione delle strutture penitenziarie i farmaci. Hanno seguito l’esempio della Toscana, la Calabria, il Piemonte, la Sardegna, la Basilicata, a Campania e il Molise. Il Decreto legislativo 230/99 prevedeva che il Presidio delle tossicodipendenze e la Medicina Preventiva dovevano passare alle ASL l’1.1.2000. Di fatto non è stata registrata alcuna iniziativa. Tutto come prima o peggio di prima.

Nel mese di giugno è pervenuta la direttiva che gli Operatori del Presidio delle tossicodipendenze (medici, infermieri e psicologi) dall’1.7.2003 sono a carico delle ASL. L’Assessore alla Sanità della Regione Toscana ha subito impartito direttive ai Direttori Generali delle ASL di non farsi carico di quanto sopra. La beffa continua.

I medici penitenziari italiani sono indignati. Si continua a giocare sulla pelle dei detenuti. Ecco perché abbiamo definito un eventuale passaggio della medicina penitenziaria alle ASL un salto nel buio che ci avrebbe messo alla porta dell’Europa.

La medicina penitenziaria italiana offre una grande testimonianza di civiltà e di solidarietà sempre a fianco dei più deboli ed emarginati e ha scritto pagine importanti, tutela dei diritti alla salute in carcere. Siamo sempre più convinti che la medicina penitenziaria deve avere una sua dignità, nella consapevolezza che deve saper riconoscere i propri limiti, in quanto il malato serio deve poter acquisire un beneficio di legge per potersi curare anche in seno alla propria famiglia.

La medicina penitenziaria deve salvaguardare la propria autonomia, come ha sentenziato con grande autorevolezza il Consiglio di Stato già nel 1987. Intanto perché fa parte integrante del trattamento penitenziario, assicura continuità assistenziale, rende particolarmente incisivo il delicato rapporto medico - paziente. La medicina penitenziaria deve rimanere autonoma per la sua straordinaria specificità e per la singolarità e la delicatezza delle competenze.

Per gli effetti nefasti della pseudo riforma Bindi, la medicina penitenziaria per 5 anni è rimasta tra le nuvole e quasi fosse terreno di conquista, ha registrato ogni anno con la manovra finanziaria tagli gravissimi al budget annuale. In un contesto carcerario drammatico dove la popolazione ha raggiunto cifre preoccupanti ridurre le risorse vuol dire togliere l’ossigeno, vuol dire ridimensionare i servizi medici ed infermieristici, ossia la prima linea della Medicina Penitenziaria. Vuol dire tagliare la Medicina Specialistica e i farmaci essenziali.

A questo punto se il carcere non è nelle condizioni di poter tutelare la salute, e il carcere non può curare, diventa automaticamente incompatibile e noi medici penitenziari abbiamo l’obbligo morale di certificarlo senza frapporre alcun indugio per non rischiare di far morire in carcere qualcuno per mancanza di adeguata terapia medica. Occorre invertire la rotta. Siamo stufi di vivere alla giornata. Occorre serietà e competenza nella programmazione. Occorre saper investire. Occorre rinnovare la tecnologia. Occorre la formazione del personale. Accanto ad un paziente in carcere bisogna mettere un Medico e un Infermiere professionalmente motivato. Solo in questi termini la tutela della salute in carcere può essere considerato un bene costituzionalmente protetto.

 

 

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