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Il recupero dei minori che violano il codice Panorama, 15 febbraio 2002 Piccoli diavoli fuori dall’inferno Ladri, spacciatori, assassini. Hanno meno di 18 anni e si macchiano anche dei reati più gravi. Per chi riesce a evitare la reclusione ci sono centri di accoglienza e comunità. Ma le alternative al carcere servono davvero? Ecco, a un anno dalla tragedia di Novi Ligure, che fine hanno fatto i baby criminali messi alla prova. Da Milano a Palermo. Erika e Omar: bastano i due nomi per evocare una villetta su due piani, mamma e figlio uccisi con 97 coltellate. Era il 21 febbraio 2001. Un anno dopo l’Italia è ancora sotto shock. Non conta che al momento del delitto avessero 16 e 17 anni. Non basta che in primo grado siano stati condannati a 16 anni lei, 14 lui. Erika e Omar restano il simbolo di una violenza incomprensibile e inaccettabile che surriscalda il dibattito sulla giustizia minorile. Che
fare con baby killer, piccoli boss, componenti del "branco"
o figli assassini? Sabato 10 febbraio, a Milano, ci sono state quattro
aggressioni in poche ore a opera di teppisti minorenni. Sono stati solo
gli ultimi di una lunga serie di episodi allarmanti. Come fermare, allora,
la carriera criminale di quelli che, per età, potrebbero essere ladri
di merendine e invece mantengono le famiglie con furti, scippi, rapine?
Punire, risarcire o recuperare? E come? La legislazione penale minorile
è molto flessibile e, nonostante un budget di anno in anno ridimensionato,
offre diverse alternative al carcere. Funzionano? Si può immaginare di
concederle anche ai due ragazzi di Novi Ligure? Un parricida a casa nostra
Dal branco alla carriera militare "Ma quale tentata violenza sessuale di gruppo! Io sono innocente. Ho accettato la messa alla prova solo per uscirne pulito". Francesco ha 19 anni, vive vicino Roma. La sua versione non coincide affatto con quella della ragazzina che denunciò di essere stata aggredita dal branco. Per questo avrebbe preferito il processo e l’assoluzione, ma l’avvocato gli suggerì di approfittare della misura alternativa. "Non è stato facile mantenere per 16 mesi tutti quegli impegni: la scuola, lo sport, il volontariato" racconta il ragazzo. Uno dei suoi compagni non ce l’ha fatta e tra pochi giorni vedrà ricominciare il processo. Mentre il conto di Francesco con la giustizia è chiuso: "Quest’anno ho gli esami di maturità, poi chissà. Mi piacerebbe la carriera militare. Per fortuna ho la fedina penale pulita". Imparo a vivere: da solo Giorgio ha cominciato a rubare autoradio a 14 anni. Non ne aveva certo bisogno, lui che girava in motorino, con il giubbotto firmato. Ma al giudice è stato chiaro che i furti erano il suo richiamo per due genitori troppo distratti. Così ha disposto che invece che in galera finisse al Focolare: un appartamento di circa 200 metri quadrati ai Parioli a Roma, arredamento essenziale, sei posti letto per ragazzi con problemi di giustizia o psicofamiliari. "Non ci sono casi penali o non penali: per noi sono tutti ragazzi in difficoltà" sottolinea Filippo Camboni, presidente della cooperativa sociale ed ex giudice onorario del Tribunale dei minori. Con educatori e psicologi accoglie da 20 anni adolescenti a rischio. Tanto che per primo ha proposto la semiautonomia. Giorgio, da sei mesi, non vive più al Focolare: ha una stanza in affitto in una casa di studenti universitari (che non sanno dei suoi problemi con la giustizia) e un impiego. Tutto grazie a una borsa lavoro (una sorta di stage a costo zero per chi lo assume) finanziata dal comune. Lo stipendio (da artigiano, carrozziere, falegname, pasticciere) non supera i 400 euro ma abitua i ragazzi all’indipendenza. Giorgio deve tornare per i pasti al Focolare, confrontarsi ogni giorno con gli operatori della comunità e versare almeno la metà dei suoi guadagni in un libretto di risparmio. Ma perché è così difficile la messa alla prova? "Perché tutto dipende solamente da te e sei costretto a rimettere in discussione tutto ciò che hai fatto fino a quel momento" dice Matteo, 19 anni, una prova appena conclusa per la raffica di furti e rapine compiuti in provincia di Latina. In tre anni sotto osservazione ha fatto impazzire l’educatore del servizio sociale cambiando lavori e impegni di volontariato: la protezione civile, il doposcuola per bambini, il giardinaggio in chiesa. "Ma se fossi stato tutto questo tempo in carcere" ammette "perché avrei dovuto essere diverso rispetto a quando ci ero entrato?". La prova più difficile, il perdono Nicola era nato in una casa dove non c’era spazio neanche per il suo letto, così finì in orfanotrofio. Quando tornò in famiglia, trovò un quartiere a cui era stato dato un soprannome che ricorda la guerra per i continui scontri tra clan. Non faceva che disegnare fucili. E aveva un fucile più grande di lui quando, ad appena 15 anni, entrò nel negozio di un barbiere per rapinarlo. L’uomo consegnò i soldi, ma fece un movimento brusco che spaventò Nicola. Lo sparo, il sangue. Il barbiere morì e Nicola scappò. Ma fu arrestato con l’accusa di omicidio volontario a scopo di rapina. Il tribunale dispose una prova con lavoro, volontariato e incontri con lo psicologo. Non solo. Il baby killer avrebbe dovuto mettere da parte i suoi guadagni per un risarcimento simbolico alla famiglia della vittima. Nicola ha superato la prova, il suo reato è stato estinto. "Che vuol dire estinto" ha chiesto il figlio del barbiere rifiutando i soldi di Nicola "che forse mio padre non è mai nato e non è mai morto?". Un frate per amico
Ilir, invece, entra ed esce quando vuole con la sua bicicletta: arrivato in Italia a 13 anni, ha vissuto rubando fino a che non è incappato nella polizia. Ora è in messa alla prova, deve studiare molto per prendere la licenza media e lavorare, come tutti, per la comunità: c’è un cuoco, ma ci sono turni per lavare i piatti, riordinare, pulire, sistemare il giardino. "Da
qui si può anche scappare" ammette padre Gaetano "e qualche
volta è accaduto". Nel 2000 sono stati 503 i ragazzi che se la sono
svignata da una delle comunità convenzionate con il ministero della Giustizia.
Il problema è la prospettiva della clandestinità: la legge italiana prevede
che i minori stranieri abbiano un permesso di soggiorno solamente per
la durata della messa alla prova. Ma, si chiedono gli operatori dei servizi
sociali che nel 50 per cento dei casi hanno a che fare con extracomunitari,
come si fa a parlare di futuro con un ragazzo il quale sa che sarà rimpatriato
alla fine della messa alla prova? Un obiettivo li salverà Quando, come e perché il giudice può sospendere il processo. Il minorenne entra nel vero e proprio carcere minorile (istituto di pena minorile) solo su provvedimento di un giudice. I minori fermati o arrestati dalla polizia finiscono al centro di prima accoglienza, una struttura collocata in una sede distinta. Solo con l’udienza di convalida, entro quattro giorni, il giudice decide se applicare la custodia cautelare in carcere o altre misure: prescrizioni di studio o lavoro, permanenza in casa, collocamento in comunità. Il giudice, all’udienza preliminare o durante il dibattimento, può sospendere il processo e mettere alla prova per massimo tre anni. Il ragazzo imputato, seguito dall’ufficio di servizio sociale per i minorenni (che dipende dal Dipartimento della giustizia minorile), si impegna per degli obiettivi (studio, lavoro, volontariato, richiesta di perdono o risarcimento delle vittime) da realizzare in famiglia o durante l’affidamento a una comunità. Se la prova ha successo il reato è estinto, non compare nemmeno sulla fedina penale. In caso contrario, riprende il processo ordinario e il ragazzo sconta la pena (massimo 21 anni) a cui viene condannato. Per il recupero di un ragazzo in comunità si spendono 52-104 euro al giorno. Un adulto detenuto in carcere costa circa 260 euro. Ma a Palermo qualcuno sogna le sbarre La direttrice del centro: qui i ragazzi pensano al carcere come a un salto di qualità. Scrive canzoni, poesie, guarda fuori dalla finestra e pensa alla sua amata. Maurizio (ma il suo vero nome è un altro) ha 16 anni. Lavorava nei mercatini rionali quando, un anno fa, ha conosciuto una ragazzina della sua età. Colpo di fulmine: dopo due giorni i due decidono di scappare dalle loro famiglie. La casa in affitto costa 120 mila lire al mese. Ma è vuota, va arredata. Maurizio ruba un furgoncino e svaligia un appartamento. Bottino: tv, sedie, quadri e tanto altro. Ma manca ancora qualcosa: un letto per dormire, un armadio. Così, pistola giocattolo in mano, si procura un furgone più grande e il nido d’amore è completato. Però la strada di Maurizio è segnata: una rapina dietro l’altra, dalla tabaccheria all’ufficio postale. Poi il carcere minorile. Oggi vive nella comunità di recupero per minori a Palermo con altri 13 ragazzi della sua età. Sono figli di genitori bambini che spesso si sposano dopo la classica fuga d’amore. Il livello culturale è bassissimo. Oggi hanno un letto, una stanza con bagno e un piatto caldo. Prima no, vivevano ammucchiati in abitazioni dichiarate inagibili. La famiglia? Dispersa nei vicoli, per le strade. I primi furti, infatti, servono per aiutare in casa, si ruba per comprare la bombola del gas alla mamma. Come Marco, 16 anni, di Catania. "Mio padre è in carcere da quando ero piccolo. A 13 anni lavoravo di nascosto. Uscivo di casa con i libri, facevo finta di andare a scuola, ma finivo a fare il muratore per 50 mila lire al giorno. Mia madre non si accorgeva di nulla. In una sala di videogiochi ho conosciuto brutta gente. Mi hanno proposto di fare una rapina con i taglierini. Mi avevano detto tutto, tranne che in quella banca c’era una guardia giurata. Io tenevo in ostaggio una donna. Poi lei mi ha morso il braccio e quello ha cominciato a sparare. Eccoci qua". Qui tutti sognano il carcere. Sì, proprio così. Nella loro cultura, il carcere è un salto di qualità. Se poi sei finito dietro alle sbarre al posto di qualcuno, è il massimo: vuol dire che sai rispettare la parola, il silenzio. "La comunità ti obbliga a confrontare le tue regole (prevaricazione, forza fisica, illegalità) con le regole, le responsabilità e i modelli della cultura dominante. Il carcere è un ambiente che non ti porta a confronti continui con il mondo esterno" spiega Marina Restivo, direttrice del centro di prima accoglienza. "Piuttosto che pensare preferiscono tagliar corto: io vado in galera. Per loro anche una domanda normale, tipo "come stai?", è sconvolgente perché impone un pensiero nuovo. Nelle loro famiglie non c’è lo spazio mentale per porsi queste domande". |