LA
REPUBBLICA, 13 aprile 2002
Il
telefono pubblico all'angolo fino a pochi giorni fa era pieno di bigliettini
fitti di numeri di cellulari, contatti ed esche per i ragazzini appena dimessi
dal Beccaria. Ora non c'è più neanche l'apparecchio per chiamare. L'hanno
sradicato e portato via, così come le telecamere collegate con il nulla che
punteggiavano la recinzione del carcere minorile. La strada che in fondo sbatte
contro un cantiere, via dei Calchi Taeggi, è garage a cielo aperto, pista da
rally, discarica. Una no man's land, direbbero gli americani. Di giorno ci sono
i marocchini che smontano pezzo a pezzo le carcasse di macchine abbandonate da
chissà quanto vicino ai cumuli di rifiuti, quando cala il buio piombano quelli
che in auto ci gareggiano. E aggirando la facciata con le bandiere scolorite,
sul retro si rischia di inciampare in gente che lancia di tutto oltre la rete
del campetto da calcio - pezzi di hashish, in particolare - e a urla dialoga con
i giovani detenuti aggrappati alle finestre, in lingue e dialetti
incomprensibili.
Tre
metri più in là, in questo edificio che cade a pezzi e sembra una brutta
scuola, un esempio malriuscito di architettura anni '70 lasciato andare in
malora, vivono e cercano di costruirsi il futuro 67 "ragazzi cattivi"
e 12 coetanee. C'è Erika, cui adesso piace la danza, che a giorni compirà 18
anni e sa di rischiare di essere sbattuta a San Vittore a causa della riforma
messa a punto dal ministero. Ci sono un paio di diciassettenni dentro per altri
omicidi. E decine di stranieri che pagano per storie di spaccio da strada o per
piccoli furti. Oggi è giorno di visita, per tutti loro. Arrivano i consiglieri
comunali della commissione carceri, pilotati in un rapido percorso guidato tra
le camere a uno o due letti, un locale che qui chiamano palestra però ha solo
due spalliere, gli spazi per le attività comuni. Ma non c'è alcuno dei
giovanissimi detenuti che osi aprire bocca, riferiscono i rappresentanti di
Palazzo Marino, e non un adulto che pubblicamente rovesci addosso agli
interlocutori l'intero elenco delle cose che servirebbero (dall'accensione del
riscaldamento, alle panchine nei giardini interni, allo sgombero delle cartacce
sotto le finestre) e dei tanti problemi che si rincorrono (l'unica psicologa
ministeriale è in maternità, occorrerebbero tre ragionieri ma se ne è trovato
solo uno e in prestito da Brescia).
Lo scoramento però è nell'aria, come il profumo delle paste sfornate dalle
ragazze del laboratorio di pasticceria, una delle cento attività portate avanti
nella struttura grazie all'abnegazione di educatori, volontari, agenti e
insegnanti impegnati tra l'altro in un progetto mirato che «in altri istituti e
in altri Stati se lo sognano». Un corso multimediale, che dovrebbe sfociare in
un video, sta mettendo a confronto un gruppo di ragazzi del minorile con una
classe di una scuola superiore milanese. A volte sono i detenuti ad uscire e a
raggiungere i coetanei, a volte il contrario. Ma poi capita che, durante le
seguitissime lezioni, piovano calcinacci dai soffitti o filtri l'acqua piovana.
«Di quelli che abbiamo visto - riassume il consigliere verde Maurizio Baruffi -
strutturalmente è l'istituto carcerario messo peggio». «Le carenze di edifici
e laboratori - incalza il collega di Rifondazione, Daniele Farina - sono enormi.
È evidente che l'amministrazione penitenziaria non investe, che l'impegno
politico manca del tutto». Eppure, è la sensazione condivisa, «è un ambiente
molto vivo, denso di umanità». E il personale, nessuno ne dubita, si fa in
quattro per salvare vite acerbe dalla deriva. «Ma vedi chiaramente - continua
il consigliere Davide "Atomo" Tinelli, vicepresidente della
commissione carceri, anche lui di Rifondazione - che a Roma non gliene frega
niente, che è tutto lasciato alla buona volontà di chi ci lavora». E stringe
quotidianamente i denti, perché - parole di un operatore di lungo corso - «per
il Beccaria questo è un momento difficile. Servirebbe più gente, scarseggiano
le risorse, basta un collega in malattia e si va in crisi. Rispetto al passato
si è impoverita la proposta, anche se tutti concorrono per evitare che i
ragazzi non escano di qui peggiori di quando siano entrati. E con i venti di
tempesta che spirano da Roma, non capisci più a cosa puntino, a cosa servano i
tuoi sforzi».
I più arrabbiati in assoluto sono i poliziotti penitenziari. Di ragioni,
ricordano, ne hanno da vendere. Ma è come se gridassero al vento. Nulla cambia.
Da anni. «Siamo sotto organico. E ciò crea una totale mancanza di sicurezza,
che va a scapito dei ragazzi. La situazione all'esterno è fuori controllo, lo
diciamo noi per primi e da sempre. La verità è che fatichiamo a garantire
anche i servizi interni». Un esempio. Se non c'è personale sufficiente, i
giovanissimi detenuti vengono portati in ritardo dalla camere alle aule e ai
laboratori. Un altro esempio. Di notte può succedere - è appena avvenuto - che
un albanese, apparentemente ben inserito e alloggiato in una stanza senza
sbarre, salti da una finestra e scavalchi il muro. «Ma invece di andare a
vedere che cosa ha portato a questa situazione - denunciano gli agenti - aprono
una inchiesta per trovare tra noi un capro espiatorio. Però quando solleciti i
vertici ministeriali al confronto diretto, non ti danno nemmeno risposta».