Afflizione ed educazione

 

Afflizione ed educazione: per una pedagogia della pena

di Nicolò Pisanu (Istituto di ricerca e formazione "Progetto Uomo")

 

Riflessione sul rapporto tra le devianze dei giovani e la risposta giudiziaria alla luce alle recenti possibilità di attenuazione della pena a minori giudicati colpevoli di omicidio. Nell’opinione pubblica serpeggia lo sgomento o lo sdegno per alcune notizie, rimbalzate dai mass media, riguardanti protagonisti della cronaca nera, quale Erica, Omar e Juncker.

Pare, infatti, che i primi due potranno adire benefici previsti dall’ordinamento giudiziario, mentre il terzo registra una drastica riduzione di pena, grazie al patteggiamento. Non credo che il nodo critico stia nel mero comportamento dei giudici, purtroppo unico elemento alla mercé del giudizio popolare.

È più utile, a mio avviso, cercare l’anello di partenza della catena, cioè provare a capire il significato generale della pena, alla luce del condannato e della società. Una prima distinzione ci rimanda a persone che non appartengono a sottoculture delinquenziali e non presentano condotte criminali abitudinarie. Già questa è una discriminante essenziale per non ridurre il giudizio a pura e matematica applicazione del Codice.

Erica e Juncker, per esempio, rientrano, stando alle Perizie suffragate dal giudizio, in profili psicopatologici, mentre Omar si può considerare psicologicamente gregario nella commissione di un delitto occasionale ed efferato. Va da sé che tali definizioni pesano non poco sull’esito del giudizio, mentre l’opinione pubblica non è adusa a considerarle nelle loro conseguenze e, talvolta per mal costume forense, le considera "scappatoie" di scaltri avvocati a favore del loro cliente - come purtroppo pare sia accaduto in alcuni casi di abuso di "seminfermità mentale" -, laddove, poi, il cittadino comune non conosce gli esiti di una condanna di una persona affetta da patologia psichica.

Se poi l’attenuante pesa più del crimine e la pericolosità sociale del reo si rivela quale definizione "sgusciante", e ci si trova di fronte a condannati a piede libero che reiterano reati, è facile esprimere scetticismo nei confronti della Giustizia o dei suoi apparati, desiderando, di conseguenza, pene severe e definitive. Quando l’uomo si sente minacciato, offeso nelle sue aspettative di protezione, deriso nel suo osservare la Legge, confuso da meticciamenti ideologici della giustizia, annaspa facilmente verso il miraggio della "Legge del taglione", pronto ad abdicare anche alla democrazia.

 

L’etica nella diffusione della notizia

 

Esistono possibili rimedi? Rinunciando in questa sede a sofisticate analisi, un primo rimedio consiste nell’evitare di formalizzare gli schieramenti dei "giustizialisti" e dei "perdonisti" ambedue estremi quindi manichei e, sovente, pregni di ideologia, vuoti di argomenti consistenti e generalisti.

Ma questo implica depauperare il ricco piatto che permette al giornalismo, dei rotocalchi e della televisione, di sopravvivere e compiacersi nel confezionamento dei cosiddetti "tormentoni", mascherati da desiderio di informare e conditi con l’arte di far sentire il lettore o il telespettatore investigatore e giudice (il delitto di Cogne ne è icona dei nostri tempi).

Inoltre, attribuiscono al reo, vero o presunto, un alone spettacolare che urta col riserbo che ogni evento delittuoso pretende, disturbando quella che dovrebbe essere una serena ed autorevole indagine o processo, magari ribaltandola ad arte in capriole conflittuali che vedono ruzzolare magistrati e legislatori. Negli adolescenti, nei giovani o in personalità immature, poi, possono sortire una sorta di culto del leader negativo che incarna quegli inconfessati e irrisolti conflitti che la personalità non ha ancora elaborato. A pensarci bene, è il ritorno all’antico giudizio della piazza - esemplarmente applicato da Ponzio Pilato - che, fondamentalmente, placa mediante la sentenza gli animi e fa barriera alle paure sociali.

 

L’assunzione di responsabilità

 

Un secondo rimedio consta nell’espletare una strategia "pedagogica" della pena; nell’attenzione, cioè, al reo e al tessuto sociale. Il carcere è generalmente luogo di reclusione, poiché togliere la libertà è la massima pena che si possa infliggere ad un essere vivente, che rappresenta la componente affittiva della pena ma non è l’unico strumento per porre la persona di fronte alla propria responsabilità, in certi casi il recluso si confronta solo con le conseguenze dei suoi atti.

A tale proposito, la Giustizia sta muovendo nuovi passi con l’adozione del concetto di "giustizia riparativa" che chiede al reo di riparare concretamente, anche nei casi irreparabili, al danno diretto o indiretto fatto al tessuto civile. Sullo stesso piano, la "mediazione penale" sta entrando nel nostro Paese allo scopo di porre "carnefice" e vittima di fronte, per tentare percorsi di riavvicinamento che rimarginino psicologicamente e concretamente le ferite che nessuna pena e afflizione possono sanare.

L’attenzione educativa consta proprio in questa apertura verso un’ottica per cui ogni sentenza di tribunale non è un atto isolato, dal quale vittima e società vengono progressivamente alienati a favore del binomio Stato-Colpevole, che si consuma prima in un aula poi in un carcere ma possiede una matrice e un’eco che può rinforzare o indebolire il senso di giustizia dei cittadini, soprattutto se poi gli esiti saranno incerti o contradditori.

Non per niente il Giudice emette la sentenza "in nome del popolo italiano". E a questo popolo deve rispondere, almeno in coscienza, non solo al Diritto, al Consiglio Superiore della Magistratura o agli Ispettori del Ministero! La società civile, anche se concretamente assente nei dibattimenti o nelle Camere di Consiglio o nei Tribunali di Sorveglianza, è la "parte civile" che ogni Giudice ha l’obbligo di ammettere nel giudizio e nella commissione della pena.

I grandi Giudici (Salomone fa testo) sono ricordati come tali non per la precisione con cui applicavano il Codice ma per "l’esemplarità" della sentenza, che non significa spettacolarità od onnipotenza, e per la saggezza, cioè per la capacità di giudizio in senso pieno e lato tanto da risultare educativa, diventando ulteriore tassello per l’edificazione del Diritto. Tali sentenze e la loro applicazione avevano il potere di contribuire a ricomporre lo strappo sociale di partenza. Il malessere, pur provocato da una piccola cellula e circoscritto, riverbera su un corpo e il buon medico, mentre cura, deve salvare tutto il corpo, prevenendo pure reazioni di rigetto che condizionano o neutralizzano l’atto curativo, mettendo nuovamente a rischio la salute.

 

 

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