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Abuso e sfruttamento sessuale dei minori: tipologia dell’autore e problematiche penitenziarie (da "Trattamento penitenziario e misure alternative", di Adriano Morrone)
La problematica dello sfruttamento sessuale dei minori, sebbene risalente a tempi lontani, è emersa con forza solo di recente a causa della forte spinta sociale seguita ai gravissimi fatti di cronaca degli ultimi anni. Nel periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta si è registrato, infatti, nei paesi più industrializzati un sensibile aumento di violenze, fisiche e psichiche, a sfondo sessuale, perpetrate nei confronti di persone minori di età. Contestualmente si è assistito ad un rapidissimo sviluppo e consolidamento di comportamenti legati al cosiddetto "turismo sessuale". Tale fenomeno si sostanzia nell’ormai costante "flusso migratorio" di turisti appartenenti alle nazioni più industrializzate - soprattutto dell’Europa e del Nordamerica - verso paesi del terzo mondo, nei quali lo sfruttamento della prostituzione e del lavoro minorile ha acquisito il ruolo di risorsa economica di primaria importanza per l’economia nazionale ed, in quanto tale, viene sostenuta ed incentivata - in modo più o meno esplicito - dalle stesse autorità governative locali. La "globalizzazione" dello sfruttamento sessuale dei minori che ha avuto, peraltro, un’accelerazione improvvisa alle soglie del Duemila attraverso la rete "internet", strumento estremamente efficace per lo scambio e la diffusione di materiale pornografico riguardante bambini e adolescenti, nonché per la promozione di iniziative turistiche legate alla prostituzione minorile - ha portato ad una mobilitazione della comunità internazionale, promossa soprattutto dagli Stati "fornitori di clienti". Tappe significative di questa mobilitazione sono da individuarsi nella Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata in Italia con la legge 27 marzo 1991 n. 176, e nella Conferenza mondiale contro lo sfruttamento sessuale dei bambini, tenutasi a Stoccolma nell’agosto 1996. La Convenzione dei diritti del Fanciullo è stata seguita dalla stipula - avvenuta a New York il 6 settembre 2000 - di "protocolli opzionali" contro la vendita e la prostituzione dei bambini, la pornografia raffigurante minori, nonché il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, ratificati dallo Stato italiano con la legge 11 marzo 2002, n. 46. Alla mobilitazione internazionale ha fatto riscontro un attivismo legislativo da parte dei paesi firmatari della Convenzione del 1989, teso alla repressione - mediante irrogazione di sanzioni penali anche detentive - di comportamenti legati non solo all’abuso sessuale in senso stretto, ma anche alla prostituzione, alla tratta di bambini e adolescenti, nonché alla pornografia infantile. Ad esempio, il Belgio - paese che negli anni Novanta è stato particolarmente scosso nella coscienza sociale da fatti di cronaca riguardanti "condotte pedofile" - ha attuato una profonda riforma dei reati sessuali ed ha introdotto, nel 1995, nuove fattispecie incriminatrici, che puniscono con la reclusione - analogamente a quanto avvenuto in epoca successiva in Italia con la legge 3 agosto 1998, n. 269 - lo sfruttamento, la pubblicità e la clientela della prostituzione infantile, la tratta di bambini e adolescenti, nonché la produzione, la cessione e la detenzione di materiale pornografico che coinvolga bambini. Ma le scelte repressive operate dai singoli Stati, avendo come effetto naturale quello di far incrementare l’ingresso nel circuito penitenziario dei condannati per delitti sessuali, rendono quantomai attuale il problema del trattamento rieducativo da attuare all’interno del carcere nei confronti di tali soggetti. In proposito, occorre rilevare che nella maggior parte dei paesi industrializzati - compresa l’Italia - a fronte di una legislazione compiuta in materia di repressione delle condotte sessuali criminose, non esistono norme particolari sugli interventi trattamentali specifici per i sex offenders. Ritornando al caso del Belgio, la tendenza attuale è di imporre un "percorso terapeutico" ai delinquenti sessuali anche se sono considerati pienamente responsabili. Il percorso imposto può essere precedente o successivo alla sentenza, oppure post-carcerario. Il trattamento terapeutico obbligatorio è svolto, però, esclusivamente in ambito extramurario secondo un approccio di tipo comportamentale e cognitivo (che focalizza l’attenzione soprattutto verso il comportamento criminale e verso il contesto nel quale il reato è stato commesso), cui si associano spesso metodi psicoterapeutici, psicodinamici ed - a volte - trattamenti farmacologici. Al contrario, il trattamento dei delinquenti sessuali in carcere non è una realtà in Belgio: solo dal 1997 si è dato inizio ad una fase sperimentale in otto istituti del regno. Nel caso dell’Olanda, invece, il trattamento degli autori di reati sessuali ha avuto luogo - almeno fino agli anni Ottanta - principalmente presso ospedali psichiatrici giudiziari, che ospitano soggetti giudicati non imputabili, totalmente o parzialmente, perché affetti da malattia o disturbo mentale. Il contesto olandese, infatti, è stato fortemente influenzato dalle scuole di pensiero riconducibili alla psicodinamica e la condotta sessuale criminosa è stata, pertanto, considerata effetto di soggiacenti disturbi della personalità del reo. Ne consegue che il comportamento dell’autore del reato ed il contesto in cui il fatto è avvenuto venivano in concreto trascurati, o poco evidenziati, nella presunzione che il pericolo della recidiva venisse meno una volta curati i disordini della personalità causa della condotta criminale. Si deve, tuttavia, rilevare che nei primi anni Novanta i programmi trattamentali olandesi sono stati influenzati, sebbene in misura lieve, dall’approccio cognitivo comportamentale di matrice nordamericana, cui è seguita un’attenzione verso l’analisi del reato, quale elemento essenziale dal quale trarre informazioni per la classificazione psicologica del sex o/fender e per gli interventi specifici di trattamento. In sostanza il trattamento degli autori di reati sessuali in cliniche psichiatriche giudiziarie si sta sviluppando verso un’enfasi del comportamento tenuto dal soggetto in occasione del reato, nonché verso l’applicazione delle procedure di auto controllo e l’integrazione della sessualità nel trattamento. Per quanto concerne i soggetti giudicati imputabili, il contesto olandese non offre interventi trattamentali all’interno del carcere, limitandosi a contemplare un "trattamento ambulatoriale" di tipo cognitivo-comportamentale, alternativo alla pena detentiva ed al quale possono avere accesso esclusivamente le persone non recidive, condannate ad una pena detentiva non superiore ai diciotto mesi, che abbiano ammesso le proprie responsabilità. I criteri di selezione per l’accesso ai programmi di trattamento risultano, quindi, così restrittivi, che la maggior parte di autori di reati sessuali non presentano i requisiti necessari per poterne beneficiare ed entrano nel circuito penitenziario olandese, il quale non offre alcun tipo di assistenza individuale o di gruppo. Tali soggetti riceveranno solamente un controllo globale da parte degli uffici di probation dopo la scarcerazione. In Olanda, infine, è escluso il trattamento farmacologico, in quanto ritenuto forma punitiva di controllo sociale. Terminato il breve excursus sulle realtà del Belgio e dell’Olanda, occorre ora soffermarsi sulle problematiche riguardanti il regime penitenziario egli interventi trattamentali cui sono sottoposti i condannati per delitti sessuali in Italia. In linea di principio, il trattamento penitenziario dei delinquenti sessuali - come del resto quello attuato nei confronti degli altri individui sottoposti a privazione della libertà personale - segue un criterio di "individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti", previa osservazione scientifica della personalità degli stessi. Presupposto essenziale per la realizzazione di un percorso trattamentale individualizzato è, però, l’assegnazione del detenuto al reparto detentivo, assegnazione che deve tener conto delle indicazioni eventualmente fornite dall’esperto del servizio nuovi giunti. Con riferimento alla collocazione logistica del detenuto per reati sessuali all’interno della struttura carceraria, si possono distinguere tre strategie (Traverso, 1999). La prima è ispirata ad una strategia di "esclusione": la sorveglianza del detenuto avviene in ambito protetto o semi-protetto. Questo tipo di strategia è attuata allorché vengono riscontrati fattori di criticità, quali, ad esempio, la difficile convivenza con gli altri detenuti, o problemi collegati al rapporto con gli operatori. In questo caso il detenuto viene di solito assegnato in una particolare sezione e seguito dagli esperti ex articolo 80 dell’ordinamento penitenziario. La seconda strategia, definibile come "inclusione-subordinata", viene applicata tutte le volte in cui i detenuti vengono stimolati con attività lavorativa intramuraria e da frequenti colloqui con educatori, psicologi e volontari. Permane in questa strategia la difficoltà di far partecipare il soggetto ad eventuali attività e iniziative organizzate all’interno della sezione a causa dell’atteggiamento quantomeno di insofferenza degli altri ristretti. Infine, una strategia di "inclusione", caratterizzata dalla parificazione del delinquente sessuale con gli altri: in questo caso il detenuto accede alle stesse possibilità trattamentali concesse agli altri condannati. Orbene, l’ingresso nel circuito penitenziario di soggetti indagati o condannati per delitti a sfondo sessuale presenta aspetti di criticità connessi a difficoltà di relazione con i compagni di detenzione e con gli operatori penitenziari. Infatti, l’autore di reati sessuali, e ancor più il pedofilo (al momento identificabile esclusivamente in un soggetto di sesso maschile), è oggetto di rifiuto e repulsione da parte degli altri detenuti, i quali tendono a porre in essere atteggiamenti spregiativi, vessatori ed aggressivi nei confronti di tali soggetti. Le ragioni di tali atteggiamenti - non approfondite dalla scienza criminologica - possono essere individuate, sebbene con una certa difficoltà, empiricamente attraverso segni percettivi, diretti o mediati, desumibili nella realtà del penitenziario. Posto che nella "sottocultura criminale-penitenziaria" sono presenti "valori" dei quali si esige l’osservanza, si può constatare che all’interno del gruppo costituito da delinquenti comuni e da appartenenti alla criminalità organizzata vi è una forte attenzione per la famiglia intesa non come nucleo sociale primario di una comunità più ampia, bensì come "famiglia propria", ossia gruppo di persone e di affetti riguardanti la sfera individuale del soggetto, la sua vita relazionale e affettiva, vita che è comunque isolata dal quel contesto sociale e relazionale esterno del quale non si condividono i valori morali e giuridici. Più precisamente, il delinquente "classico" - motivato spesso da finalità egoistiche di benessere individuale materiale, perseguite attraverso atteggiamenti di sopraffazione del prossimo - si contrappone alla società, ed alle istituzioni che ne sono espressione, ponendo in essere comportamenti che ledono o mettono in pericolo beni giuridici tutelati dall’ordinamento; egli, quindi, si pone in contrasto con lo Stato, aggredendolo nei valori morali e sociali e violandone le norme giuridiche. Sovente il delinquente classico si percepisce come "individuo forte", in grado di sfidare e sopraffare il prossimo, la collettività e lo Stato. Caratteristica dell’individuo forte" - di certo non sempre presente, ma frequentemente ostentata - è la virilità, intesa come attitudine a conquistare, ad avere relazioni e rapporti sessuali con le donne in genere; virilità che consente all’individuo di essere apprezzato da persone di sesso diverso. Infine, nella ricerca del benessere individuale, assumono importanza esclusivamente le relazioni affettive intrafamiliari; tali relazioni acquisiscono, peraltro, maggiore rilevanza - quali fattori di sostegno psicologico ed affettivo - nel momento in cui il soggetto è sottoposto a pena detentiva. Al contrario, l’autore di reati sessuali, e soprattutto il pedofilo, è considerato un individuo debole, incapace di instaurare una relazione normale con una donna e di avere rapporti sessuali consenzienti con la stessa, ma capace solamente di sopraffare quelle persone (donne e bambini) non in grado di opporre un’adeguata resistenza fisica; pertanto, il delinquente sessuale non è ritenuto soggetto capace di misurarsi con gli altri uomini. Il sex offender è, poi, percepito dal delinquente comune come pericolo potenziale per i propri familiari e, pertanto, come soggetto capace di colpire e turbare quel contesto affettivo-relazionale tanto importante soprattutto nella fase di esclusione sociale dovuta alla carcerazione. Di conseguenza, i detenuti comuni tendono a porre in essere comportamenti stigmatizzanti nei confronti degli autori di reati sessuali, comportamenti che spesso non si limitano ad atteggiamenti di esclusione sociale, isolamento, e altre forme di violenza psichica (denigrazione, offese, etc.), ma che sfociano in violenza fisica (percosse, lesioni personali, etc.) fino a giungere in alcuni casi, peraltro difficilmente individuabili, alla violenza sessuale come forma di (primitiva) vendetta o di "pena del contrappasso". Al riguardo, occorre aggiungere che la privazione della libertà sessuale è fortemente sentita all’interno del penitenziario e l’esercizio "attivo" della sessualità nel periodo detentivo diventa una forma di affermazione dell’individuo e di esercizio del potere sui compagni di detenzione. Dal canto suo, l’autore di un reato sessuale, ed in particolare il pedofilo, consapevole di aver commesso un reato "infamante" che lo porta ad essere ripudiato dalla collettività e dagli altri detenuti e che lo espone a violenze, tende a rifiutare ogni addebito di responsabilità, negando la propria colpevolezza ed (a volte) attribuendo il reato ad altri. In tale contesto, le dinamiche relazionali interpersonali - e la socialità in generale - risultano ridotte ai minimi termini quando non sono addirittura assenti. Il tutto risulta aggravato dal fatto che il sex offender, in virtù dell’elevato rischio di subire violenza da parte degli altri reclusi, viene quasi sempre ristretto in sezioni differenziate che ospitano detenuti con problemi di incompatibilità con il restò della popolazione detenuta riconducibili a cause diversificate (es. collaboratori di giustizia, transessuali, destinatari dei cosiddetti "divieti di incontro" con altri detenuti, etc.). A ciò bisogna aggiungere anche il comportamento del personale che opera all’interno del penitenziario. Tale personale infatti, molto spesso non dotato di un’adeguata conoscenza del fenomeno degli abusi sessuali e delle cause ad esso sottostanti, prova avversione emotiva verso gli autori di reati sessuali anche in questo caso percepiti come soggetti capaci solamente di approfittare di persone che si trovano in situazione di "minorata difesa" (donne e bambini); soggetti dal carattere debole, dal comportamento subdolo ed aventi una concezione della sessualità distorta, meramente materiale, depravata e in un certo senso - riconducibile ad un’ideologia "maschilista" diffusa nel periodo precedente l’emancipazione della donna. Sovente gli operatori penitenziari applicati in servizio presso le "sezioni differenziate" che ospitano i sex offenders percepiscono tale scelta come atto punitivo nei loro confronti e sminuente la propria professionalità. Tale "stato di frustrazione" può dare causa ad atteggiamenti di repulsione ed insofferenza verso questa particolare tipologia di detenuti, atteggiamenti che precludono l’instaurazione di relazioni interpersonali tra operatore e detenuto, cui consegue una situazione caratterizzata da totale assenza di comunicazione, situazione che a volte può divenire ancor più pesante quando si incontra personale di custodia che, colpito emotivamente dal carattere "infamante" del reato, trova difficoltà nel contenere i propri impulsi "vendicativi" (non violenti) ed assume un atteggiamento di completa chiusura ed indisponibilità spesso di pregiudizio al rispetto dei più elementari diritti umani. In sostanza, si può affermare che all’interno del circuito penitenziario l’autore di reati sessuali è oggetto di esclusione sociale, con conseguente isolamento fisico e psichico, sia da parte dei compagni di detenzione, che degli operatori penitenziari. Ciò comporta una serie di difficoltà nell’assicurare al sex offender quell’osservazione scientifica della personalità e quel trattamento penitenziario, che la legge n. 354 del 1975 ha previsto quali strumenti indispensabili per il perseguimento della finalità rieducativa della pena. Più precisamente, nel colloquio tra operatore penitenziario (educatore, psicologo, criminologo, etc.) e autore di reati sessuali, il contesto psico-relazionale rende particolarmente problematica l’instaurazione di un’atmosfera di "comprensione empatica", utile per poter procedere ad una revisione critica del passato. Nel colloquio trattamentale, infatti, il sex offender - e soprattutto il pedofilo - tende a porre in essere meccanismi di difesa quali, ad esempio, la rimozione (disconoscimento delle proprie immagini mentali spiacevoli, istinti sessuali o aggressivi, pieni di particolare carica emozionale, che protegge il soggetto dal pericolo di rivivere tali situazioni), l’isolamento (intellettualizzazione anaffettiva esasperata di situazioni emozionali scabrose o penalizzanti per il soggetto a causa di un meccanismo iperdifensivo per cui l’intervistato si esprime con esposizioni abnormemente tecnicizzate ed affettivamente asettiche), l’autismo (radicale meccanismo di fuga dalla realtà penalizzante per il soggetto e con la quale lo stesso teme di confrontarsi, attuato mediante il rifugio in un mondo immaginario, privo di reale contatto con gli altri individui). Ebbene, tali meccanismi di difesa rendono difficoltosa all’operatore penitenziario la ricostruzione e l’analisi delle cause del reato, presupposto indispensabile per l’elaborazione di un programma di trattamento individualizzato, rispondente ad esigenze di prevenzione speciale (rieducazione del condannato). Occorre, anzi, prendere atto che nella realtà penitenziaria caratterizzata dal fenomeno del sovraffollamento ed attraversata dalla crisi dell’ideologia del trattamento - al di là di enunciazioni di principio non esistono percorsi trattamentali specifici per i condannati per delitti sessuali, nei confronti dei quali ci si limita ad operare solamente interventi di sostegno psicologico necessari a fronteggiare gli effetti dannosi dell’isolamento carcerario, non che a ridurre il rischio di atti di autolesionismo o di suicidio legati a stress emotivo. È, peraltro, esclusa ogni forma di intervento farmacologico tesa ad eliminare il rischio di recidiva da parte dell’autore di violenza sessuale. Le ragioni di tale esclusione sembrano riconducibili al disposto dell’articolo 32, comma 2, della Costituzione, secondo il quale: "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana". La norma costituzionale sembra, tuttavia, tutelare l’individuo solamente da eventuali interventi farmacologici di natura coattiva, mentre nulla dice riguardo a terapie attuate con il consenso dell’interessato. In proposito soccorre l’articolo 5 del codice civile, il quale vieta alla persona il compimento di atti di disposizione del proprio corpo "quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume". Ne consegue che forme di castrazione chimica, ancorché attuate con il consenso dell’interessato, risolvendosi nella perdita (definitiva) della funzione sessuale, sono contrarie all’ordinamento e sanzionabili penalmente in quanto non riconducibili nei limiti di operatività della scriminante di cui all’articolo 50 del codice penale (21), visto che nel caso specifico la diminuzione dell’integrità fisica andrebbe certamente oltre la linea di confine delineata dall’articolo 5 del codice civile. Solo di recente l’Amministrazione penitenziaria ha elaborato un progetto ad hoc per il trattamento dei sex offenders (denominato "Wolf"), progetto che è stato ammesso al finanziamento da parte dell’Unione europea e che vede come partner dell’Italia il Belgio e l’Olanda. Si deve, tuttavia, constatare che l’iniziativa non va oltre enunciazioni di principio, limitandosi ad individuare linee d’intervento per l’attuazione di un trattamento penitenziario specifico nei confronti degli autori di reati sessuali, i cui contenuti rimangono tuttora sconosciuti. l’approccio verso questa tipologia di detenuti può definirsi di tipo psico-terapeutico, fondato sul presupposto che l’autore di reati sessuali sia affetto da disturbi psichici particolari che attengono esclusivamente alla sfera sessuale (parafilie o perversioni sessuali), disturbi che spingono il soggetto al confine con la malattia mentale. Dall’analisi del regime detentivo e degli interventi trattamentali cui soggiacciono gli autori di violenze sessuali traspare un approccio "patologico" allo studio di questa tipologia di delinquenti, ancorato a modelli interpretativi clinici o medico-psichiatrici e fondato sul nesso eziologico tra alcune forme di malattia mentale (es. la schizofrenia) e le condotte sessuali delittuose. Tale concezione, riconducibile ad un approccio criminologico tradizionale, sottende scelte come quelle effettuate in Belgio, dove l’autore di reati sessuali è sottoposto a trattamento terapeutico obbligatorio (anche post-carcerario), oppure come quelle operate in Olanda o in Italia, dove il trattamento intramurario per i sex offenders è di fatto attuato solamente all’interno degli ospedali psichiatrici giudiziari nei confronti di quei soggetti ritenuti (con sentenza) affetti da vizio totale o parziale di mente e socialmente pericolosi. Si deve, tuttavia, rilevare che l’approccio fondato sul rapporto violenza sessuale/fattori di natura patologica è stato messo in discussione da orientamenti più recenti che, partendo dall’inconsistenza (verificata a livello statistico) del rapporto citato, si sono indirizzati verso un approccio multidisciplinare nell’ambito del quale le cause di natura patologica ricoprono un ruolo del tutto marginale, mentre assumono rilievo le caratteristiche socio-ambientali e culturali degli autori di delitti sessuali. L’approccio multidisciplinare ha, in particolare, sottolineato la correlazione tra componente sociale e condotte sessuali delittuose; ciò in quanto dalle statistiche sulla criminaltà è emersa l’appartenenza dei sex offenders a ceti sociali non elevati per livello socioeconomico e scolarità, con prevalenza di soggetti di estrazione sociale proletaria e sottoproletaria il cui grado di istruzione si ferma alla scuola dell’obbligo. n modello di sex offender che viene così a delinearsi è quello di una persona di bassa estrazione sociale, culturalmente limitata, che molto spesso presenta un disturbo della personalità. L’enucleazione di uno stereotipo dell’autore di delitti sessuali ed, in particolare, del pedofilo - come soggetto affetto da disturbi psichici o da vera e propria malattia mentale, quali fattori eziologici delle deviazioni sessuali, è probabilmente dovuta anche al fatto che la maggioranza dei sex offenders presenti nel circuito penitenziario si è resa responsabile di atti sessuali commessi contro la volontà della vittima o a danno di minori e consistenti in forme di compenetrazione corporale, ovvero in altre forme di contatto corporeo; atti questi valutabili come "morbosi" secondo un criterio medico-psichiatrico e riconducibili alle "parafilie" (attrazione per l’anormalità), la cui caratteristica essenziale consiste nel fatto che l’eccitazione sessuale viene ottenuta mediante comportamenti che esulano dagli abituali schemi naturalisticamente intesi. Si tratta, in sostanza, di manifestazioni dell’istinto sessuale mediante violenza, minaccia, abuso di autorità, inganno, abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica dell’offeso, considerate profondamente abnormi (anche perché in contrasto con i precetti dell’etica) e, in quanto tali, sanzionate penalmente. La ricostruzione di un modello di pedofilo come soggetto sessualmente deviato o disturbato, seppure non pienamente condivisibile, poteva - almeno in parte - giustificarsi in un contesto penitenziario che racchiudeva in se persone condannate (o in custodia cautelare) per i delitti di cui agli articoli 609-bis, quater, quinquies, octies del codice penale. Tale ricostruzione, però, necessita di una rimeditazione alla luce della legge 3 agosto 1998,269, recante: "Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù". Questa, infatti, coerentemente agli orientamenti emersi in occasione della Conferenza mondiale di Stoccolma del 1996 sulla tutela dei fanciulli contro ogni forma di sfruttamento e violenza sessuale, ha introdotto nel codice penale nuove fattispecie incriminatrici che sanzionano con pena detentiva condotte riguardanti minori, ma non sempre riconducibili al concetto di "atto sessuale" desumibile dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66, comprensivo di ogni condotta che interessi in qualche modo (ed in senso oggettivo) l’attività sessuale e che si estrinsechi in un contatto fisico tra la vittima ed il reo, nel quale almeno uno dei due partner sia interessato da tale contatto nelle zone genitali o erogene. La nuova "legge sulla pedofilia" - oltre a contrastare il fenomeno della prostituzione minorile sanzionando, in particolare, le condotte di induzione, favoreggiamento e sfruttamento - ha introdotto nel codice penale l’articolo 600-ter, il quale punisce con pena detentiva lo sfruttamento dei minori degli anni diciotto al fine di realizzare esibizioni o produrre materiale pornografico (comma 1), il commercio di materiale pornografico minorile (comma 2), la diffusione di materiale pornografico o di informazioni atte ad agevolare la pedofilia (comma 3) e la cessione di materiale pornografico riguardante i minori (comma 4). Altre novità introdotte dalla legge n. 269/98 sono l’articolo 600-quater del codice penale, che sanziona (sempre con pena detentiva) la semplice detenzione (consapevole) di materiale pornografico prodotto mediante sfruttamento sessuale di minori, e l’articolo 600 quinquies, il quale punisce "chiunque organizza o propaganda viaggi finalizzati alla fruizione di attività di prostituzione a danno di minori o comunque comprendenti tale attività". Le fattispecie incriminatrici teste citate dovrebbero tutelare almeno in teoria - un unico bene giuridico individuato nella libertà individuale (psico-fisica) del minore, offesa da forme di abuso e sfruttamento sessuale. A ben guardare, però, le condotte contemplate dagli articoli 600-ter, quater e quinquies del codice penale - ad eccezione di quelle previste dal primo comma dell’articolo 600-ter - sono riconducibili soltanto in via mediata allo sfruttamento sessuale dei minori. Si tratta, infatti, di ipotesi di commercio, diffusione, cessione e detenzione di materiale pornografico avente ad oggetto minori di età; condotte che presuppongono a monte (invero non sempre) lo sfruttamento sessuale dei minori, ma che si estrinsecano in tutt’altre attività e che sovente possono essere motivate da scopi esclusivamente patrimoniali/lucrativi (si pensi, ad esempio, ai viaggi organizzati dai tour operator nei paesi dove è diffuso - spesso tollerato e incentivato dalle autorità governative locali - il fenomeno della prostituzione minorile); condotte che, quindi, non necessariamente concretizzano un’offesa diretta ed immediata, ovvero una messa in pericolo, del bene giuridico della libertà individuale del minore. Si tratta, al contrario, di norme penali introdotte dal legislatore in virtù di una consuetudine che si sta diffondendo in questi ultimi anni, secondo la quale, dinanzi a fenomeni socialmente intollerabili e difficili da arginare, si tenta di porvi rimedio colpendo l’utente finale- stante la difficoltà di colpire l’autore - delle attività illecite. In proposito, è sufficiente richiamare quanto avvenuto in materia di stupefacenti con la legge 162/90, che sanzionava penalmente anche l’uso personale non terapeutico colpendo direttamente il consumatore, oppure quanto avvenuto più di recente nei confronti dei clienti delle prostitute, colpiti da sanzioni amministrative previste dal codice della strada o da altri comportamenti vessatori (es. le fotografie che li immortalavano in momenti ben precisi, recapitate presso il domicilio con conseguenze familiari facilmente prevedibili, oppure la singolare equiparazione, contra legem, della condotta del cliente con quella dello sfruttatore, cui consegue relativo procedimento penale). Il tutto è aggravato dal fatto che la legge n. 269/98, nel sanzionare comportamenti collegati alla pornografia minorile, non dà di quest’ultima una definizione, lasciando così alla discrezionalità del giudice l’individuazione del reale significato del materiale oggetto di contestazione. Ciò comporta perplessità in relazione al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie penale da parte dell’arti colo 600-ter, atteso il contenuto aleatorio del concetto di pornografia. Peraltro, anche l’indeterminatezza del concetto di pornografia si riflette sulla reale offensività delle condotte di cessione, diffusione e detenzione contemplate rispettivamente dagli articoli 600-ter, commi 2 e 3, e 600-quater del codice penale, dal momento che potrebbe incorrere in responsabilità penale anche chi cede o detiene materiale che riproduce minori in determinate "posture", valutate come pornografiche solo in epoca successiva a seguito di pronuncia del giudice; materiale che magari risale a cinquant’anni prima, con la conseguenza che al momento del fatto il minore è ormai alle soglie della vecchiaia se non addirittura deceduto. Ci si chiede, pertanto, se tali ipotesi risultino davvero offensive dell’integrità psico-fisica del minore ritratto nella riproduzione. E ancora: è davvero giustificabile l’applicazione della pena della reclusione al detentore di tale "materiale pornografico"? Da quanto finora illustrato si può desumere che la legge 3 agosto 1998, n. 269, solo marginalmente colpisce gli autori di violenze sessuali a danno di minori, orientandosi invece a ricomprendere nel concetto di "pedofilia" - sanzionandole con pena detentiva - condotte che non si estrinsecano in forme di contatto fisico con minori e che non sono strettamente legate alla sfera della sessualità; condotte alle quali spesso sono sottesi motivi non riconducibili all’istinto sessuale (o a sue deviazioni), ma di natura meramente patrimoniale. Ne consegue che le nuove fattispecie incriminatrici introdotte dalla "legge sulla pedofilia" avranno come effetto naturale quello di far entrare nel circuito penitenziario persone che non solo non sono affette da malattia mentale o da disturbi della personalità, ma che presentano caratteristiche socio-demografiche profondamente differenti dallo stereotipo di autore di reati sessuali elaborato dalla criminologia o desumibile dall’attuale contesto carcerario. Il "nuovo modello di pedofilo" potrà essere una persona giovane di età, di estrazione sociale e livello culturale elevati, perfettamente inserita nel contesto sociale e con relazioni affettive normali e stabili: un soggetto, per così dire, "normo-inserito". Il "nuovo pedofilo" si troverà, però, in un contesto ambientale fortemente influenzato dalla "concezione tradizionale" del sex offender cui si è fatto riferimento in precedenza e sarà, quindi, costretto a vivere la particolare atmosfera relazionale riservata agli autori di delitti sessuali da parte dei detenuti e degli operatori penitenziari. Inoltre, il "nuovo pedofilo", sebbene non affetto da alcuna patologia o deviazione dell’istinto sessuale e (almeno fino al momento della carcerazione) perfettamente inserito nella società, sarà sottoposto al trattamento penitenziario individualizzato al fine di favorirne la rieducazione ed il reinserimento sociale. La gravità di tali conseguenze appare ancor più evidente se si prende in considerazione il caso del Belgio. Considerato, infatti, che il codice penale belga punisce - analogamente a quanto avviene in Italia -la semplice detenzione di materiale pornografico riguardante minori ed alla luce dell’apparato trattamentale intra ed extramurario vigente in tale paese, si potrebbe verificare che soggetti "normo-inseriti" sorpresi con materiale pornografico raffigurante persone minori di età siano costretti a subire il trattamento terapeutico riservato ai veri autori di violenze sessuali, senza che si possa escludere - almeno in teoria - anche l’intervento farmacologico (castrazione chimica). Del resto, almeno per quanto concerne l’Italia, lo stesso legislatore sembra essersi reso conto degli "effetti secondari" che scaturiscono dalle nuove forme di lotta alla pedofilia. Infatti, l’articolo 17 della legge n. 269/98, nel prevedere l’istituzione di un apposito fondo per finanziare i programmi di prevenzione, assistenza e recupero psicoterapeutico dei minori vittime di abusi sessuali, stabilisce che la parte residua del fondo è destinata "al recupero di coloro che, riconosciuti responsabili dei delitti previsti dagli articoli 600-bis, secondo comma, 600-ter, terzo comma, e 600-quater del codice penale, facciano apposita richiesta". Dall’esame della norma citata sembrerebbe, quindi, potersi desumere che il trattamento penitenziario nei confronti dei condannati per i "nuovi delitti di pedofilia" debba essere effettuato solo su specifica richiesta dei medesimi, contrariamente a quanto prevede l’articolo 1 della legge 26 luglio 1975, n. 354, il quale sancisce l’obbligo di attuare nei confronti dei condannati (tutti) un trattamento rieducativo che tenda al reinserimento sociale degli stessi. Ciò significa che, nel caso specifico, ci si trova dinanzi ad una particolare tipologia di detenuti che non necessita di interventi rieducativi, perché non ha manifestato un evidente distacco dai valori morali, culturali e giuridici propri della comunità sociale di appartenenza. In conclusione, ci si chiede - alla luce delle problematiche prospettate - se possa davvero essere condivisibile la scelta operata dal legislatore del 1998 di combattere il fenomeno dello sfruttamento sessuale dei minori attraverso l’irrogazione di sanzioni penali detentive all’utente finale (e mediato) di tale sfruttamento. Di certo la scelta di incriminare condotte che non offendono almeno per via diretta ed immediata - il bene giuridico della libertà psico-fisica del minore mal si concilia con il percorso evolutivo del diritto penale italiano, il quale, partendo dalla "concezione formale" del reato recepita nella Costituzione, è sempre più orientato verso la "concezione sostanziale" dell’illecito penale (reato come offesa di beni giuridici costituzionalmente rilevanti), nell’intento di limitare l’intervento del legislatore nelle scelte di penalizzazione, nonché verso l’inclusione dell’offesa all’interno degli elementi costitutivi del reato. Viene, quindi, da domandarsi: è davvero condivisibile la scelta di estendere il concetto di "pedofilo" a soggetti che pongono in essere condotte non direttamente riconducibili alle parafilie e prive di manifestazioni sessuali abnormi? Qual è la linea di confine tra manifestazioni dell’istinto sessuale normali e manifestazioni abnormi? Quale tipo di trattamento penitenziario "individualizzato" dovrebbe essere attuato, nei confronti dei soggetti condannati per violazione delle norme incriminatrici introdotte dalla legge n. 269/98?
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