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Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale dei minori di Bari Narcomafie, gennaio 2003 Archiviati vecchi modelli, il disagio minorile si sta manifestando in forme nuove, adeguandosi a tempi e contesti. Così come è ormai riduttivo parlare di "adolescenti" in senso generico, anche nell’ambito della devianza è sempre più necessario distinguere. Recenti manifestazioni di violenza, anche efferata, il cui movente non era riconducibile alla rapina o a funzioni rituali (come nelle iniziazioni di carattere mafioso) ci hanno messo sull’avviso e fatto riflettere. Accanto alle periferie, ai quartieri degradati e alle zone povere del Meridione, sono diventati luoghi di criminalità minorile i quartieri ricchi delle metropoli del nord, ma anche i paesi della provincia benestante. Zone abitate da famiglie all’apparenza normali, se per "normalità" s’intende un buon inserimento nel tessuto sociale, una situazione economica stabile o agiata, nessun precedente penale. Ne abbiamo discusso con Franco Occhiogrosso, Presidente del Tribunale dei minori di Bari, che studia da tempo la relazione tra malessere e società del benessere.
Dottor Occhiogrosso, esaminando l’evoluzione della devianza minorile lei parla di "malessere del benessere". Quali sono le sue peculiarità rispetto alla devianza tradizionale? Il fenomeno della devianza minorile si va articolando in vari rivoli, e alla cosiddetta "delinquenza" vera e propria si affiancano altre forme. Ad esempio ci sono comportamenti devianti che non si caratterizzano per la presenza di un reato, ma che sono il segno indubbio di un malessere. Sono riconducibili a questa categoria le morti del sabato sera, i tentativi di suicidio dei ragazzi adolescenti, le forme di bulimia e anoressia. Il "malessere del benessere", che nasce all’inizio degli anni 90, si caratterizza invece per l’assenza di una motivazione adeguata all’efferatezza dei reati commessi, per la presenza inedita di una cospicua componente femminile e perché si manifesta anche in contesti di estrazione sociale media o alta. Inoltre si distingue perché, insieme ad altre condotte devianti come il bullismo o quelle dei naziskin, non ha alle spalle una cultura degli adulti. La devianza tradizionale nasce, infatti, sulla base di una sollecitazione, diretta o indiretta, della cultura degli adulti. Il numero dei ragazzi di 14 anni denunciati penalmente è grosso modo ogni anno lo stesso e questa cifra rappresenta i "nuovi devianti", coloro che l’anno prima non erano catalogati come tali. Perché questo numero è pressoché stabile, di anno in anno? La ragione non può che essere una: ci sono contesti familiari e ambientali tali da riprodurre, anche numericamente, un certo tipo di devianza. È quella che io definisco "sociopatica", laddove gruppi familiari e sociali utilizzano i ragazzi sia direttamente - coinvolgendoli nelle attività illecite - sia indirettamente, trasmettendo loro una cultura, anzi una subcultura del reato e inducendo i ragazzi a sceglierla come condizione di vita. È una forma di devianza prettamente maschile, che punta al guadagno economico, tipica di un’estrazione sociale e familiare umile e circoscritta a determinate aree. L’altra devianza, quella del "malessere del benessere" non è sollecitata dalla famiglia o strumentalizzata dagli adulti, anzi spesso è un’esplosione proprio contro la famiglia. Questo però non significa che non abbia a che farci. Si tratta di capire come. La mia idea è che mentre nel primo caso viene dato - dalla famiglia o dalla comunità di quartiere - un imprinting di "patologia sociale", nel secondo possiamo parlare di una "patologia familiare" che si manifesta non solo attraverso abusi e violenze ma anche, molto spesso, con il silenzio o l’indifferenza della famiglia. L’incapacità di educare, l’anaffettività, possono diventare un messaggio per il ragazzo che non si sente amato o che avrebbe bisogno di avere dei paletti, dei "no", delle condizioni. Non ricevendoli in un certo senso impazzisce, cresce senza saper distinguere il bene dal male e a 14-15 anni impara a sfogare la propria aggressività in modo patologico. Anche i casi di devianza estrema, ad esempio quello di Erika e Ornar, sono un’esplosione, e non è un caso che avvengano a Novi Ligure, o come in altri casi a Chiavenna, a Castelluccio dei Sauri, centri tranquilli, in cui si vive agiatamente, in equilibrio con l’ambiente, lontani dalle forme di devianza tipiche dei contesti metropolitani. Questi episodi, seppur quantitativamente limitati, hanno una notevole rilevanza sociale perché producono effetti pesantissimi. Addirittura rimettono in discussione tutta la giustizia minorile.
Che relazione c’è tra il malessere psichico delle famiglie e il loro benessere materiale? Quanto e come i due fenomeni siano correlati è ancora da verificare, ma è certo che questa forma di devianza è trasversale e trasnazionale. Episodi come quelli citati capitano in Italia, in Francia, in Germania, negli Stati Uniti, in generale nel mondo occidentale ricco, mentre non mi risulta che emergano in paesi poveri, in cui sopravvive un modello di famiglia patriarcale o un modello economico agricolo, simile a quello che avevamo 40 anni fa. C’è qualcosa, in questo malessere giovanile, che si connette al nuovo modello sociale. L’incapacità di dire di no, ad esempio, riconduce all’assenza di un genitore che ha sempre altro da fare. Allora la ricostruzione di figure genitoriali credibili passa anche attraverso l’"educazione all’educazione", cioè l’insegnare ai genitori come seguire i propri figli a seconda dell’età. Non si può dire "ormai è grande, se la cava per conto suo". Un figlio adolescente - e anche ventenne, perché no? - va ancora seguito, anzi forse più di prima. Si deve avere la capacità di creare un rapporto di fiducia tale da potergli concedere autonomia nella certezza che lui seguirà certe regole. Certo, una percentuale di rischio permane, ma la strada consigliabile rimane l’"educazione empatica": non solo "ti educo alla legalità" ma, insieme, "ti do affetto, ti faccio sentire accettato". È una sfida importante e impegnativa che credo debba essere raccolta un po’ da tutti, non solo dal genitore, ma anche dall’insegnante, dai servizi, dal giudice.
Qual è l’educazione che dovrebbero ricevere i genitori per essere educatori? Prima di tutto capire che quello del genitore è un mestiere che va imparato. Una volta, nella famiglia patriarcale, ciascuno aveva un ruolo che realizzava quasi istintivamente; oggi questo non esiste più. Nella famiglia nucleare o addirittura monoparentale, un genitore deve apprendere il mestiere. Deve sapere che non c’è bisogno di stare con il figlio 24 ore al giorno, ma che bisogna creare un rapporto qualitativamente significativo; che deve risparmiarsi un po’ nel lavoro per essere in grado, tornando a casa, di dare spazio alla conversazione, alle domande cui sarà chiamato a rispondere, al gioco; che deve avere la capacità di organizzare la propria vita e quella del figlio; che è necessario imparare a trasmettere principi e soprattutto, con un’educazione "empatica", riuscendo a infondere nel figlio la sicurezza che è amato, non solo accudito.
E quando si manifesta la ribellione contro la famiglia come deve comportarsi un genitore? Il problema è innanzitutto ammettere che si è raggiunto un livello di conflitto, non minimizzare e non "nascondere sotto il tappeto" per paura dei pettegolezzi o dei giudizi altrui. È molto importante avere l’umiltà e l’intelligenza di mettersi da parte e riconoscere che si ha bisogno di un aiuto esterno, soprattutto - ma non solo - nelle situazioni patologiche, come di un genitore che sappia di essere un pedofilo o un abusante. Diverso è il caso di una difficoltà relazionale tra genitori e figli, situazione che il più delle volte fa parte dello stesso cammino educativo. Una delle cause che ha prodotto questa nuova devianza credo sia proprio l’incapacità dell’adulto di essere tale, di saper gestire una situazione di tensione e di saper pronunciare i "no" che aiutano a crescere. Questo oggi manca. Un "no" empatico, motivato, ma assolutamente fermo. E soprattutto i genitori devono essere in sintonia assoluta: la concessione di una libertà non deve essere strumento per catturare il consenso o l’amore del figlio a scapito dell’altro genitore, come capita spesso tra genitori separati. Il rischio, in questo tipo di famiglia ma non solo in questa, è che un figlio non capisca più dove sta il bene e dove il male.
Come interpreta il dilatarsi dei tempi dell’adolescenza e quindi della convivenza tra genitori e figli? È un modo per i giovani di avere la libertà dell’adulto e l’irresponsabilità del bambino? Io non guardo in termini negativi all’adolescenza lunga perché nelle società in cui la fase di crescita ha tempi maggiori vi è più spazio concesso alla creatività, alla socializzazione. Le società nelle quali l’adolescenza si interrompe perché, ad esempio, un ragazzo a tredici anni comincia a lavorare, forse danno una sensazione di laboriosità, però possono far saltare qualche gradino di quest’evoluzione e creare adulti non equilibrati. L’adolescenza lunga non deve però andare a scapito del processo di autonomia del minore, che concerne l’educazione e non la durata della convivenza.
Da un punto di vista giuridico, come conciliare tutela della legalità ed educazione? L’Italia da sempre adotta una politica mirata a non criminalizzare i minorenni, a favorirne l’uscita dall’area penale e, quando è possibile, a prevenirne l’entrata, nella convinzione che l’intervento penale, anziché aiutare, stigmatizza. Ma c’è ancora molta strada da percorrere in intesa con i servizi e con la scuola. Utilizzare interventi di mediazione, creare occasioni di collegamento con le realtà locali, per aiutare i ragazzi con interventi di riparazione, quando ci sono state condotte lesive, da un lato li aiuta a responsabilizzarsi, dall’altro convince la società che il carcere non è l’unica soluzione.
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