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Il lavoro penitenziario di Monica Vitali (Giudice del lavoro presso il Tribunale di Milano)
Introduzione
Il problema peculiare del lavoro penitenziario, inteso come lavoro caratterizzato soggettivamente dalla condizione di detenuto del prestatore di lavoro, è quello del continuo intersecarsi tra situazioni giuridiche nascenti dal rapporto di lavoro e istanza punitiva dello Stato. Il tema del riconoscimento dei diritti di coloro che prestano una attività lavorativa durante la detenzione, infatti, può essere sintetizzato nella dicotomia tra "detenuti lavoratori" e "lavoratori detenuti" ed è stato affrontato, essenzialmente, in un’ ottica penale e penitenziaria, così da privilegiare, rispetto ai diritti civili dei lavoratori detenuti, la pretesa punitiva dello Stato, subordinando permanentemente i primi alla seconda. Come è stato autorevolmente affermato, la secolare ossessione dell’istituzione penitenziaria è stata ed è quella di vedersi distruggere dall’affermazione dei diritti. Tale ossessione ha condizionato e condiziona, ancor oggi, il modo con cui i penitenzialisti affrontano l’argomento, atte standosi su una linea difensiva tutta tesa alla salvaguardia del rapporto punitivo e poco attenta al tema del riconoscimento dei diritti, riconoscimento che, al contrario, appare l’elemento centrale nel pensiero dei (pochi) giuslavoristi che, in tempi ormai lontani, si sono avvicinati al tema. Tale approccio difensivo non è stato abbandonato neppure dopo l’entrata in vigore della prima legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 e della successiva novella del 1986, la c.d. Legge Gozzini: i riflessi di tale approccio saranno posti in luce nel prosieguo del discorso, ma, in questa sede introduttiva, vale la pena di evidenziare la profonda limitazione culturale che questa ossessione ha comportato, sotto il profilo della tutela giurisdizionale dei diritti dei lavoratori detenuti, sempre e comunque considerati come detenuti lavoratori. Sotto altro profilo, le novità introdotte con la L. n. 663 1986 (c.d. Legge Gozzini) hanno addirittura raddoppiato l’ossessione lavoristica dei penitenzialisti: la Legge Gozzini si poneva non solo l’obiettivo di migliorare il governo del carcere, bensì anche quello di decarcerizzare, prevedendo un catalogo più ampio di alternative alla detenzione. La tendenza giurisprudenziale che si è venuta formando ha però finito, in generale, con l’attribuire all’attività lavorativa il carattere di presupposto necessario per il riesame della pretesa punitiva dello Stato, anche laddove non era normativamente richiesto, per esempio in materia di affidamento in prova al servizio sociale, e, in particolare, con il connotare il lavoro come presupposto essenziale per l’ammissione alle misure alternative nell’unica direzione del lavoro subordinato a tempo indeterminato, valutando come inaffidabili ipotesi diverse da questo paradigma. Il circolo virtuoso immaginato dal legislatore, di allargamento delle occasioni di lavoro, come conseguenza dell’ampliamento delle misure alternative non si è, quindi, realizzato, ed è quanto mai improbabile che si verifichi ora, nell’attuale assetto del mercato del lavoro: persino un legislatore poco innovativo come quello italiano, ha preso atto della mutata situazione occupazionale, riconoscendo maggiori spazi alle ipotesi di lavoro autonomo, interinale e a tempo determinato, così che la pretesa della Magistratura di Sorveglianza di moderare il lavoro extramurario nei termini tradizionali del rapporto subordinato a tempo indeterminato risulta ancorata a schemi superati dalla situazione di fatto e restringe, ancora una volta, l’ambito di operatività della decarcerizzazione. L’evoluzione legislativa emergenziale ha condiviso e favorito queste linee di tendenza giurisprudenziale: la modifica strutturale del lavoro penitenziario, attuata normativamente, si è mossa appunto nell’ottica di un allargamento delle ipotesi di lavoro inframurario, sul presupposto di ormai acquisite restrizioni all’ammissione al lavoro extramurario, attraverso la riduzione degli spazi delle misure alternative. Il presupposto, rimasto invariato e sottostante ad ogni riflessione in materia, è comunque quello della peculiarità del lavoro penitenziario, in quanto giuridicamente collegato alla valenza rieducativa: la funzione terapeutica del lavoro ha così finito per incidere sulla causa del rapporto che, ancor oggi, non è visto in termini di neutra sinallagmaticità, bensì di assoggettamento a un regime riabilitativo, con conseguenti discriminazioni, rispetto ai lavoratori e tra gli stessi lavoratori detenuti. In realtà, il lavoro non può più ritenersi seriamente uno strumento terapeutico, per la gran parte dei detenuti attualmente ristretti nelle carceri italiane: in primo luogo, perché essi sono in grande misura stranieri, privi di prospettive giuridiche di inserimento nella realtà sociale ed economica italiana; in secondo luogo, su un piano più generale, perché la strada del lavoro terapeutico non può prescindere dalla possibilità di offrire occasioni di lavoro professionalmente gratificanti e spendi bili nel mondo esterno (e qui il discorso riguarda anche i detenuti italiani). L ‘abbandono della prospettiva terapeutica, prima ancora che dar luogo a modificazioni legislative, si deve tradurre in un diverso criterio interpretativo d’individuazione dei diritti del lavoratore detenuto, sottolineando che sono gli stessi che ineriscono al rapporto di lavoro di ogni soggetto di diritti, con le necessarie limitazioni derivanti dalle esigenze di un regime detentivo. In altri termini, si tratta di ridefinire il rapporto di lavoro dei detenuti, non come un tipo legale a se stante, caratterizzato dalla finalità rieducativa (finalità che si è ormai ridotta a una fiera foglia di fico sotto la quale occultare il fallimento della prospettiva correzionale), bensì come un normale rapporto di lavoro, salvi alcuni indispensabili adattamenti legati alla condizione soggettiva di una delle parti del rapporto stesso. È questa la prospettiva in cui si muove la presente trattazione.
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