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Le novità introdotte nel 2000 con la L. 193 e il D.P.R. 230
Da sempre si è tentato di giustificare
l’impiego della pena individuando gli elementi che la rendono più adatta alle
esigenze di difesa sociale, in essa meglio rilevabili rispetto ad altre sanzioni
giuridiche; tali elementi sono: a) costante applicabilità;
b) possibilità, o maggiore possibilità,
di adattarsi alla pericolosità del delinquente;
c) capacità di rieducare o rendere
innocuo il delinquente;
d) possibilità di essere più
fortemente sentita, costituendo valido deterrente.
Per quanto la pena sia uno dei
fenomeni più diffusi e costanti della vita sociale, ne è stata spesso
contestata la fondatezza da parte di pensatori e scienziati che l’hanno
definita ingiusta, inutile e persino dannosa. In proposito, oltre agli utopisti
Tommaso Moro e Tommaso Campanella, vanno ricordati parecchi teorici
dell’anarchismo, tra cui primeggia la figura di Leone Tolstoj, e soprattutto
alcuni grandi sociologi e criminalisti: Girardin, Ferri, Wargha, Montero, etc.
Questi ultimi, partendo da una concezione ottimistica della vita umana, hanno
sostenuto che un’opera di prevenzione largamente e sapientemente esercitata,
può rendere inutile la repressione dei delitti. Tutti però prescindono da un
fatto di importanza capitale, e cioè che la tendenza al delitto non è
circoscritta ad una particolare categoria di individui, come nelle tesi di
Cesare Lombroso, ma ha un carattere generalissimo.
La tendenza al delitto, la capacità a
delinquere, in misura maggiore o minore esiste in forma più o meno latente in
quasi tutti gli uomini. Sorge la necessità di un opposizione a tale
propensione, individuata in una sofferenza, e il castigo diviene pertanto lo
strumento (l'unico) capace di trattenere gli uomini dal commettere i delitti.
In
realtà, a tale risultato, indubbiamente, contribuiscono anche altri fattori: i
sentimenti morali e sociali, il senso del dovere, dell’onore e della dignità
personale, l’influenza dell’opinione pubblica, le credenze religiose, etc.
(etica personale e solidarietà sociale), l’intervento educativo della scuola
e la capacità formativa di ogni situazione aggregante, ivi comprese quelle
lavorative.
Le
funzioni della pena
Per funzione della pena si intende
l’efficacia di essa, ossia l’insieme degli effetti che produce e in vista
dei quali è adottata dallo Stato.
Molte sono le teorie elaborate da
illustri filosofi e giuristi per definire la funzione della pena.
Le finalità della pena sopra descritte
sono evidentemente basate su presupposti diversi;
per garantire l’efficacia della pena è necessario che esse non siano in
conflitto.
Le teorie
più moderne, che ambiscono ad avere un fondamento giustificato di tipo
scientistico, individuano la legittimazione delle funzioni della pena non tanto
su basi ideologiche, per di più esterne all’ordinamento giuridico, quanto
nella misura in cui la sanzione è capace di perseguire gli obiettivi di
prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati.
Soprattutto in relazione alla prevenzione speciale l’effettività della pena
rimane tuttora una realtà indimostrata, e non può certo oggettivamente
affermarsi che il nostro sistema “migliori”
sia la società tutta, sia il colpevole.
Sembra che dal punto di vista
legalistico (Bentham) la carcerazione rappresenti l’unica forma di pena
politicamente corretta, mentre altri studiosi che seguono il pensiero di
Beccaria, come lui ritengono la carcerazione una pena irrazionale, priva di
principi e inumana per l’intera società. Inoltre, “il tasso di recidivismo
indica che la permanenza in prigione fa dei disadattati, esacerbando, quindi il
problema del delitto”.
Un detenuto rilasciato non solo non
sembra “rieducato” ma non mostra quali possono essere gli effetti della sua
pena sul resto della popolazione. L’obiettivo dichiarato dal carcere non
corrisponde ai suoi effetti risultati, esso può essere descritto non tanto
sulla base dei suoi successi, quanto su quella delle sue limitazioni: la
limitazione della libertà dell’individuo, la coercizione di vita in un
ambiente residenziale sgradevole, e promotore di nuova criminalità.
La
risocializzazione del condannato
E’ oggi, quindi del tutto evidente che
la pena non possa più essere considerata come un semplice castigo; emblematico
in questo senso l’art. 27 della nostra Costituzione in cui è sancito il
principio per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al
senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Con
riferimento all’Ordinamento italiano, l’Art. 27 della Costituzione, il quale
prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che
prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il
completamento con la cessazione d’ogni controllo, ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975.
Con la
legge 26 luglio 1975, n. 354 l’amministrazione penitenziaria è venuta ad
acquisire l’indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti
costituzionali dell’umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo per
i condannati.
Per la
prima volta la materia penitenziaria è stata
disciplinata con legge invece che con atti amministrativi di carattere generale.
La Legge 354/75 mostra l’evidente
sfavore verso la completa esecuzione della pena inframuraria, ed introduce la
possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, in pratica
sancendo la fine del principio assoluto di intangibilità della sentenza di
condanna.
Misure alternative alla pena
detentiva
Il principio della funzione rieducativa
della pena ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle Misure
alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive ed
abituando il condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l’opera
di risocializzazione. Ricordiamole brevemente.
Affidamento
in prova al servizio sociale
“Il condannato a pena detentiva non
superiore a tre anni ed al quale non sia stata applicata una misura di sicurezza
può essere affidato al servizio sociale” per un periodo di prova, può essere
quindi posto al di fuori dell’istituto di pena per tutta la durata della pena
ancora da scontare, salvo, naturalmente la revoca della misura. I presupposti
per ottenere tale beneficio consistono in pratica dopo l'introduzione della L.
Simeone (n. 165/98), nella durata
della pena: quest’ultima non deve superare i tre anni.
E’
inoltre necessario che, dopo un periodo di osservazione della personalità di
mesi uno, le prescrizioni, che l’affidato deve osservare nel corso della
misura, siano sufficienti alla sua rieducazione e a prevenire una sua ricaduta
nel reato. Competente per la concessione dell’affidamento in prova al servizio
sociale è il Tribunale di Sorveglianza. All’affidato vengono imposte delle
prescrizioni che ne agevolano l’inserimento nella società: svolgere attività
lavorativa che dia sufficiente garanzia, non avere rapporti personali che
possano occasionare il compimento di reati, dimorare o meno in certi luoghi,
adoperarsi in favore della vittima del suo delitto. Il servizio sociale
controlla il comportamento del soggetto e lo aiuta nel reinserimento nella vita
sociale, riferendo periodicamente al giudice di sorveglianza. L’affidamento
viene revocato ogni qualvolta il comportamento dell’affidato appaia
incompatibile con la prosecuzione della prova; al contrario il periodo di prova
che ha esito positivo estingue la pena ed ogni altro effetto penale.
Una figura specifica di affidamento
in prova è quello che si applica in casi particolari, disciplinato dall’art.
94 del D.P.R. 9-10-1990, n. 309 (così come modificato dalla L. 14-07-1993, n. 222
e definitivamente consacrato dalla Simeone): si tratta dell’affidamento in
prova relativo a condannati tossicodipendenti che abbiano in corso o intendano
sottoporsi ad un programma di recupero.. Costoro possono chiedere in ogni
momento di essere affidati in prova al servizio sociale qualora la pena
detentiva loro inflitta o ancora da scontare non superi i 4 anni, e purché
abbiano in corso o intendano intraprendere un programma riabilitativo, la cui
sussistenza ed idoneità deve essere accertata e certificata dal servizio
pubblico per le tossicodipendenze.
SemilibertàLa riforma del 1986 puntava a rimuovere
una palese incoerenza prospettatasi nell’esperienza applicativa; la
giurisprudenza infatti esigeva, ai fini dell’applicazione della misura, che il
condannato avesse iniziato l’esecuzione della pena al momento dell’istanza:
la necessità di non interrompere un percorso rieducativo già avviato in sede
extramuraria condusse all’introduzione di una modalità di accesso alla
semilibertà che prescindeva dalla instaurazione della detenzione. Ispirato
all’analoga soluzione adottata in tema di affidamento in prova, il dettato del
comma 6 dell’art.50 ord. penit. prevedeva che la semilibertà per le pene non
superiore a sei mesi potesse essere “altresì disposta” prima dell’inizio
dell’esecuzione qualora il condannato avesse dimostrato la propria “volontà
di reinserimento nella vita sociale”; la semilibertà per pene non superiore a
sei mesi si presenta quindi sotto una veste anomala, innestata sul ceppo della
figura madre destinata ai condannati a pene medio-lunghe. Ma la semilibertà
“ordinaria” svolge funzioni transitorie tra il regime di piena detenzione e
la scarcerazione finale, che la tipologia riformata non possiede.
La semilibertà ordinaria è concessa
sulla base dei progressi compiuti durante il trattamento, ed è finalizzata a
facilitare il graduale reinserimento sociale del soggetto.
La disciplina della semilibertà prevede
che i condannati alla pena dell’arresto di qualunque entità o della
reclusione non superiore a sei mesi possano essere ammessi a trascorrere parte
del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative,
istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Il limite dei sei mesi
suddetto vale solo per la reclusione, per cui i condannati all’arresto possono
sempre essere ammessi a godere della semilibertà. Nel caso di pena detentiva
superiore ai sei mesi al detenuto è concesso il beneficio solo dopo aver
scontato metà della pena o due
terzi nei casi dei reati di maggior allarme sociale. La semilibertà è concessa
dal Tribunale di sorveglianza, ed è revocata se il condannato si dimostra
inidoneo al trattamento, ovvero se il condannato rimane assente dall’istituto
per più di dodici ore o non vi faccia rientro. Con la L.356/92 recante
“Provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” si è posto il
divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione (tra cui la
semilibertà) ai soggetti che abbiano riportato condanna per alcuni tipi di
reato: associazione di stampo mafioso o finalizzata allo spaccio di
stupefacenti, sequestro di persona con finalità di rapina o di estorsione, etc.
La concessione è, tuttavia, ammessa allorquando il condannato svolga attività
di collaborazione con la giustizia e non vi siano a suo carico elementi tali da
lasciar presumere attuali collegamenti con la criminalità organizzata.
Liberazione
anticipata
La liberazione anticipata consiste in
una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di
detenzione scontata, concessa a quei condannati a pena detentiva che abbiano
fornito prova di partecipazione all’opera di rieducazione. E’ necessario
ricordare che l’articolo 54 O. P. è stato oggetto di un intervento
della Corte costituzionale, la quale lo ha dichiarato costituzionalmente
illegittimo relativamente alla parte in cui non consentiva la concessione della
liberazione anticipata ai condannati all’ergastolo. Nel computo del tempo è
valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare a detenzione
domiciliare.
La finalità principale dell’istituto
consiste nel rendere più efficace il reinserimento del condannato nella società;
la prospettiva di ricevere tale beneficio costituisce un incentivo per il
condannato a collaborare attivamente all’opera di rieducazione.
Detenzione domiciliare
Si tratta di una forma di espiazione
della pena presso la propria abitazione. La pena della reclusione non superiore
ai quattro anni e la pena dell’arresto possono essere scontate anche nella p
La detenzione domiciliare si
differenzia dagli arresti domiciliari, in quanto, quest’ultima figura
costituisce un provvedimento di carattere cautelare, che viene adottato nei
confronti di soggetti che non sono stati ancora condannati con una sentenza
definitiva.
L’ibridismo della detenzione
domiciliare, a parer nostro, è aumentato con l'introduzione della legge Simeone
(165/98), che disciplina, infatti, una misura del tutto singolare nel
quadro delle alternative alla pena detentiva. Dalla lettera della disposizione
non emerge, infatti, né che l’istituto in questo caso abbia quei contenuti
rieducativi che la costituzione impone in via generale perché possa attuarsi la
sostituzione dell’espiazione in forma detentiva con misure ad essa
alternative, né che la deroga al regime detentivo ordinario sia introdotta per
ragioni di contemperamento con altri interessi costituzionalmente tutelati. Le
motivazioni che hanno indotto ad un innesto di questo genere sono altre e
concernono il tentativo di evitare ai condannati a brevi pene detentive il
contatto con l’ambiente del carcere. Alla misura si accede sulla base di un
giudizio prognostico circoscritto alla idoneità riconosciuta al beneficio di
essere in grado di fronteggiare il pericolo che il soggetto commenta altri
reati; ma la legge non specifica in alcun modo quali siano gli elementi da cui questa valutazione deve scaturire. I
parametri di riferimento normativo su cui la decisione deve basarsi, sono dunque
piuttosto indeterminati e tali da rendere prospettabile una indiscriminata
sottrazione del condannato alla sanzione della pena detentiva.
Il lavoro come strumento
trattamentale elettivo
Lavorare per un detenuto è un diritto
più che un dovere. Il lavoro è essenziale nel trattamento rieducativo, così
come sancisce l’art. 15 dell’O.P.
Al condannato “deve” essere
assicurato un lavoro, salvo i casi di impossibilità soggettiva (cioè propria
del soggetto e non dell’amministrazione), come recita in modo tassativo il
secondo comma. Lo sforzo dell’Amministrazione Penitenziaria per adeguarsi a
questo principio non sembra però, ad oggi,
aver sortito grandi risultati. L'Art. 50 del DPR 230, peraltro, afferma
perentoriamente che I condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della
colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime
di semilibertà o al lavoro all'esterno o non siano stati autorizzati a svolgere
attività, artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i
quali non sia disponibile un lavoro corrispondente ai criteri indicati nel sesto
comma dell'articolo 20 della legge (l'O.P. n.d.r.), sono tenuti a svolgere
un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate dell'istituto. Se esiste,
ci permettiamo di rilevare.
Il
lavoro in carcere
L’Amministrazione
Penitenziaria è in grave difetto, come abbiamo detto, perché non soddisfa il
dovere di fornire lavoro; a tale dovere corrisponde un diritto (del condannato)
ad ottenere quel “trattamento rieducativo” che è incentrato proprio sul
lavoro.
In tale situazione, che ormai si
trascina da anni, nel 1993, si è tentato
il coinvolgimento dell’esterno(vedi quanto da me scritto su questa stessa
rivista nel 1993), mediante l’introduzione degli artt. 20 bis e 25 bis. Ma il
tentativo fino ad oggi non ha dato gli esiti sperati.
L’Amministrazione
avrebbe potuto cedere alcune sue competenze a terzi mediante “contratti
d'opera” nel settore della direzione tecnica e della formazione del personale;
si sarebbero potute istituire a titolo sperimentale nuove lavorazioni
avvalendosi se necessario “dei servizi prestati da imprese pubbliche o private
ed acquistando le relative progettazioni”.
Sono state istituite le “Commissioni
Regionali per il lavoro penitenziario” ma almeno fino ad oggi non si sono
visti apprezzabili risultati e non risulta che abbiano partorito le
“direttive” di cui parla la legge, in base alle quali il Provveditore
dovrebbe organizzare le lavorazioni (trovando anche i locali che spesso neanche
ci sono).
Il legislatore nel 1993 ha riconosciuto
che l’Amministrazione Penitenziaria da sola non è in grado di affrontare un
problema del genere; che la stessa per tradizione ha il grave compito di
sorvegliare e di custodire i detenuti e di assicurare l’ordine e la
disciplina; che al trattamento concorre tutta la comunità, come ricorda
l’art. 17, tuttora purtroppo usato con grande parsimonia e nel senso,
sbagliato, di mera “assistenza” a detenuti.
Il legislatore del 2000 ha compiuto un
ulteriore passo al comma 2 dell'Art. 1 della L. 193 del 22 giugno, laddove,
introducendo il doppio regime contributivo
per le cooperative sociali, rispettivamente previsto dalla nuova formulazione
del comma 3 dell'Art. 4 della L. 381 e dall'introduzione del successivo comma 3
bis, per i quali l'agevolazione può consistere nelle aliquote ridotte a zero
(ipotesi comma 3) o nelle aliquote ridotte in misura percentuale individuata
ogni due anni con decreto ministeriale (ipotesi comma 3 bis), finalmente
formalizza l'inclusione dei detenuti e degli internati nelle categorie dei
soggetti svantaggiati previste dalle succitate norme.
Appare evidente che trattasi di un
percorso da gambero, quello del legislatore, non riuscendo francamente a capire
la ragione di tale sdoppiamento, ed anzi rilevando che, semmai, le categorie
maggiormente disagiate sono proprio quelle incluse nel regime per così dire ,
meno di favore; ci riferiamo infatti ai condannati detenuti sic et simpliciter,
non usufruenti, cioè di alcuna misura alternativa alla detenzione, nonché agli
ex internati in O.P.G. Non risulta
assolutamente allineata a criteri di logica giuridica o trattamentale neppure la
differenziazione fra i condannati ammessi al lavoro esterno ex Art. 21 O.P. e
quelli ammessi alle misure alternative
Assai più comprensibile e condivisibile
appare invece l'estensione delle agevolazioni contributive ad aziende pubbliche
o private che organizzino attività produttive o di servizi, inframurarie,
impiegando persone detenute o internate, seppure nel regime di sgravio più
limitato.
Il DPR 230, all'Art. 47,
specifica espressamente che le lavorazioni penitenziarie , sia interne
che esterne all'istituto, possono essere organizzate dalle direzioni
penitenziarie, da imprese pubbliche o private e, in particolare, da imprese
cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle direzioni. Il comma 1
prosegue poi con la definizione della organizzazione di tali lavorazioni. Il
comma 3 ulteriormente specifica che, le convenzioni con le cooperative sociali
di cui al c. 1, possono anche avere ad oggetto servizi interni, come quello di
somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione dei fabbricati. Questa
è una novità assoluta che sancisce, in pratica, il riconoscimento del valore
degli accordi convenzionali e programmatici intercorsi fra il Ministero della
Giustizia e la Cooperazione Sociale negli ultimi anni.
Tale riconoscimento era già stato
attuato mediante l'art. 5 della L. 193, il quale, apportando alcune modifiche
all'Art. 20 della L. 354, ha introdotto una deroga al regime ordinario,
stabilendo la possibilità per le direzioni penitenziarie, centrali e locali, di
stipulare apposite convenzioni con soggetti pubblici e privati o cooperative
sociali, finalizzate a fornire ai detenuti opportunità lavorative.
Il lavoro fuori dal carcere
La
novità più evidente introdotta dalla L.
193 sembrerebbe essere la possibilità di ottenere sgravi fiscali, non meglio
identificati, ed anzi rimandati nella loro definizione concreta ad apposito
decreto del Ministero della Giustizia da emanarsi di concerto con i Ministeri
del lavoro e della previdenza sociale entro il 31 maggio di ogni anno, da parte
di altri soggetti imprenditoriali, oltre alle imprese sociali, che assumano
lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni o che
svolgano effettivamente attività formativa nei confronti dei detenuti, ed in
particolare dei giovani detenuti. Il successivo Art. 6 ragguaglia modalità ed
entità di tali agevolazioni alle risorse finanziarie disponibili, e stabilisce
altresì il limite di 9 miliardi per l'anno in corso.
Dal
canto suo il Regolamento 230, agli Artt. 48 e 54, disciplina il lavoro esterno e
il lavoro in semilibertà, richiamando espressamente l'applicazione dei diritti
riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli
obblighi inerenti alla esecuzione della misura privata della libertà.
Le
ultime due novità degne di nota che ci pare debbano esser richiamate riguardano
in primis il disposto dell'Art. 5, comma 2 della L. 193, secondo il
quale : Agli effetti della presente legge, per la costituzione e lo svolgimento
di rapporti di lavoro nonché per l'assunzione della qualità di socio nelle
cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, non si applicano
le incapacità derivanti da condanne penali o civili.
Sempre
la L. 193, infine, dispone all'Art. 1, laddove modifica l'Art. 4 della 381
introducendovi il comma 3 bis, e all'Art. 3, laddove coinvolge le imprese che
assumono detenuti, che: Gli sgravi
contributivi o le agevolazioni di
cui al presente comma (Art. 1per i primi, Art. 3 per le seconde, n.d.r.) si
applicano anche nel periodo di 6 mesi successivo alla cessazione dello stato di
detenzione.
Alcune riflessioni riguardanti il lavoro dei condannati nelle cooperativeSono
fortemente convinto che , oggi, la cooperazione sociale costituisca lo strumento
elettivo di offerta lavorativa per i detenuti, e quindi, uno degli strumenti
trattamentali più efficienti proposti dal territorio. Ma ciò significa non
circoscrivere la portata dell'intervento alla sola dimensione lavorativa. Le
cooperative devono giocare un ruolo come attori del reinserimento sociale, non
solo lavorativo. per far questo occorre una presa di coscienza ideologica e
metodologica, iniziando dalla prassi quotidiana ed investendo, in concreto, il
proprio modo di agire complessivo.
Esiste,
ad esempio, un aspetto di contesto
generale comune a tutte le cooperative: la persona è inserita secondo un
contratto di lavoro o formativo, sa che le vengono richiesti puntualità,
continuità, impegno, sa che ci sono delle regole dichiarate da rispettare come
in un qualsiasi ambiente di lavoro.
Per il condannato tutto ciò diventa
formativo nel momento in cui è assunto all’interno di un progetto
personalizzato e sottoposto a verifica periodica.
Perciò al momento dell’inserimento è
necessaria una prima valutazione del reale possesso da parte della persona
di comportamenti coerenti con le necessità e le regole del lavoro, vale
a dire:
Questi punti, presentati o come
“regole” o come obiettivi generali della cooperativa al momento del
colloquio d’ingresso, costituiscono un vademecum fondamentale di
ri-adattamento della persona condannata alle regole primarie del vivere sociale,
e dall'inosservanza di questi può già desumersi un'incapacità di tenuta ad
altri e ben più gravi stimoli negativi. Se non sono posseduti, devono diventare
obiettivi specifici da raggiungere. Su tali obiettivi va costruito il progetto
individuale, affinché diventi lo strumento di controllo di
tutto l’intervento risocializzante.
Il progetto individuale deve prevedere,
fra gli altri, il monitoraggio di un elemento fondamentale, vale a dire la
capacità relazionale della persona condannata.
Gli aspetti relazionaliAll’interno dell’organizzazione del
lavoro in cooperativa è necessario controllare ed incentivare l'acquisizione di
capacità relazionali necessarie a ri-costruire la propria identità sociale
gravemente compromessa dalle vicende giudiziarie e detentive.
Ai lavoratori condannati, ne più ne
meno che agli altri, ma con maggior attenzione al processo di autonomizzazione,
deve richiedersi di essere capaci di comunicare in modo costruttivo, saper
collaborare con gli altri, saper
riconoscere e accettare il conflitto, essere
in grado di assumersi responsabilità anche minime, ecc.
Aiutare queste persone ad acquisire professionalità significa quindi anche aiutarle ad entrare in relazione e a costruire rapporti, non dimenticandosi che sovente l'incapacità comunicativa, è elemento fortemente criminogenico. Se è vero, come è vero, che fra le categorie di svantaggio, i detenuti costituiscono quella di maggior marginalità e isolamento, sia come percezione esistenziale di sé che come realtà di fatto, è chiaro che la cooperativa deve curare in modo particolare la rete di relazioni interne trasformandole in continua occasione di crescita.Non deve spaventare il rischio di recidiva: assai di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l'incapacità a comunicare e relazionare con la persona condannata; se ciò dovesse accadere ogni lavoro offerto, seppur positivo ed appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l'uscita dal carcere e il prossimo rientro.
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