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Studi sul lavoro extramurario di Carlo Alberto Romano, criminologo dell’Università di Brescia
Lavoro extramurario ai sensi dell’art. 21 O.P.
"Una delle innovazioni di rilievo introdotte dalla legge 354/75 consiste indubbiamente nella costituzione del cosiddetto lavoro all’esterno, previsto dall’art. 21 della stessa legge e dagli artt. n. 45 e 46 del Regolamento d’esecuzione D.P.R. 25 aprile 1976, n. 431". (1) Con queste parole Baldassini evidenzia la volontà del legislatore di ampliare le possibilità offerte al detenuto, "anche se il regime del lavoro all’esterno resta sottoposto a sorveglianza del personale militare penitenziario che controlla direttamente l’esplicarsi quotidiano del rapporto di lavoro così instauratosi". (2) Sempre nei confronti del lavoro carcerario all’esterno, Ciccotti e Pittau assumono una posizione ben precisa, sostenuta da affermazioni innovative. Anzitutto essi formulano alcune riflessioni riguardanti il carcere stesso e cioè affermano che il modello capitalistico di accumulazione ha mantenuto, a propria salvaguardia, gli esclusi e " proprio per l’enorme aumento degli esclusi il controllo non può più esercitarsi negli spazi ristretti del carcere o del manicomio e la società stessa deve diventare istituzione, carcere. Il carcere vero e proprio deve rimanere solo per i casi più significativi di illegalità, per occuparsi di quelli che hanno oltrepassato i limiti e sono irrecuperabili; esso ha solo una funzione distruttiva e non rieducativa e, al suo interno, il lavoro riveste solo una copertura di natura ideologica". (18) Ed aggiungono: "In concreto bisogna aprire le porte e concedere ai detenuti di lavorare all’esterno, nelle fabbriche, a contatto con la popolazione civile e con la classe operaia". (19) Gli Autori credono, infatti, che solo così il condannato possa rieducarsi, prendendo coscienza dei diritti che i lavoratori si sono guadagnati nella società. In merito alla possibilità di una attività lavorativa all’esterno dell’istituto di pena, anche Monteleone ne mette in luce l’importanza, sostenendo che " chiara è la valenza risocializzante dell’istituto de quo solo che si consideri che in tal modo il condannato è autorizzato ad uscire dal carcere per svolgere un’attività lavorativa che gli consente di rapportarsi costruttivamente con il mondo esterno svolgendo la propria attività non recluso, e quindi emarginato anche fisicamente dalla comunità sociale, ma come lavoratore all’interno di essa". (20) Marchetti fa presente che l’istituto in questione era già stato previsto dal regolamento del 1931, laddove l’art. 117 statuiva la possibilità di creare " colonie mobili di detenuti che uscendo dagli stabilimenti per lavorare all’aperto, rientrino dopo il lavoro nello stesso stabilimento". (21) Per l’Autrice sussiste, comunque, una evidente differenza con l’art. 21 ord. penit., sebbene anche quest’ultimo possa includere l’ipotesi in cui sia la stessa amministrazione penitenziaria ad organizzare attività lavorative all’esterno dell’istituto. Marchetti, in proposito, aggiunge che, nella versione originaria dell’art. 21 ord. penit., il lavoro all’esterno rappresentava soltanto una modalità di esecuzione della sanzione penale e che l’unico cambiamento consisteva nella diversa dislocazione dell’attività lavorativa, anche se Monteleone definisce il carattere della natura di tale istituto "rivoluzionario". (22) In merito Cesari, nel suo lavoro di analisi del testo legislativo del 26 luglio1975/354 - relativamente all’art. 21 comma 2, del quale denuncia una formulazione vaga " nel caso di assegnazione" del lavoro all’esterno – sostiene di intravedervi un " tentativo di delimitazione ", laddove tale articolo recita: " l’ammissione dei condannati e degli internati al lavoro esterno è disposta dalle direzioni, solo quando ne è prevista la possibilità nel trattamento", (23) ma aggiunge che trattasi, pur sempre, di un ridimensionamento molto discrezionale dell’originale previsione legislativa "ancorandosi ad un concetto altrettanto elastico, quale quello del trattamento". (24) Precisa che il potere discrezionale conferito dal legislatore non viene ridotto neppure dal visto di approvazione del magistrato di sorveglianza sul programma di lavoro all’esterno, in quanto esso risulta "un mero visto di legittimità e non di merito". (25) Fa, però, presente che la stessa amministrazione ha cercato di ovviare all’assenza di un controllo preventivo sui programmi, prima che siano inviati, per il visto di approvazione, al Magistrato di Sorveglianza e che tale controllo preventivo rallenta il processo di ammissione e, di conseguenza, ridimensionando la discrezionalità delle direzioni, ne impedirà interventi tempestivi. Per Marchetti, la poca fortuna toccata al lavoro carcerario all’esterno è dovuta in parte all’incapacità dell’amministrazione penitenziaria di reperire e gestire il lavoro all’esterno, in parte all’ " eccessiva circospezione con la quale veniva concesso" (26), sia anche ad alcuni limiti posti dallo stesso art. 21. A questi ultimi, secondo l’Autrice, si deve il fatto che il compito di assegnare i detenuti al lavoro all’esterno, sostanzialmente demandato al direttore dell’istituto (fermo restando che ciò fosse previsto dal programma individuale di trattamento), fu in parte modificato con la circolare 7 /12/ 82 n. 2906/5356 che ritenne preferibile un esame preventivo del provvedimento da parte del Ministero o dell’ Ispettorato distrettuale. Bernardo sottolinea che modifiche sostanziose vennero applicate dalla legge 663/86, con lo scopo di avvicinare "la disciplina del lavoro all’esterno a quella del lavoro libero" e di offrire a più detenuti "l’opportunità di svolgere un’attività lavorativa al di fuori degli istituti di pena". (27) Marchetti, in merito, precisa che il fatto che sia stato previsto l’intervento del Magistrato di Sorveglianza, che deve approvare il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno per renderlo esecutivo, " rappresenta la più significativa innovazione apportata dalla L. 663/86 alla precedente disciplina, in quanto implica – secondo la prevalente dottrina – la giurisdizionalizzazione del relativo procedimento". (28) Cioè, continua Marchetti, si è provveduto ad avvicinarlo alle misure alternative alla detenzione intese in senso proprio secondo la definizione legislativa". (29) L’Autrice puntualizza che fino all’86, infatti, uno degli elementi di distinzione fra lavoro all’esterno e semilibertà consisteva proprio nel fatto che il primo era un atto esclusivamente amministrativo, mentre la seconda richiedeva l’autorizzazione del Tribunale di Sorveglianza. Che il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno fosse nell’ord. penit. del ‘75 atto puramente amministrativo, inserito nel programma di trattamento, è ben illustrato da Cesari, il quale afferma che il Magistrato di Sorveglianza, approvando con il suo visto l’ammissione al lavoro esterno, non creava assolutamente "una situazione identica alla semilibertà: l’ammesso al lavoro rimane, anche fuori dell’istituto, un detenuto a tutti gli effetti e la sua stessa attività un luogo di detenzione. Nell’allontanamento anche momentaneo dal luogo del lavoro, previsto dal programma, è quindi ipotizzabile anche un reato di evasione". (30) Cesari evidenzia che lo status di semilibero è del tutto diverso, in quanto quest’ultimo può trascorrere parte del giorno all’esterno dell’istituto addetto ad attività varie, utili al reinserimento sociale. Per il semilibero – specifica l’Autore – "si verifica una vera e propria modificazione dello status subiectionis e solo con un atto giurisdizionale", (31) cosa che non avviene nel caso del detenuto ammesso al lavoro esterno. Anche Bernardi puntualizza la differenza fra l’approvazione del Magistrato di Sorveglianza, richiesta dal vecchio quarto comma dell’art. 69 ord. penit., la quale altro non era che " un mero controllo di legittimità dal vero e proprio esame di merito sul provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno preso dal direttore dell’istituto" (32). Ed aggiunge che la giurisdizionalizzazione della concessione del lavoro all’esterno risulta di rilevanza pratica in quanto " col decreto di approvazione il magistrato di sorveglianza fa proprie le scelte del direttore, sollevandolo da innaturali responsabilità e quindi – di riflesso – invogliandolo ad utilizzare con maggior frequenza il provvedimento di ammissione al lavoro all’esterno". (33) Ricorda, inoltre, che la disciplina prevista dal nuovo quarto comma dell’art. 21 ord. penit., togliendo validità alla circolare 2900/5356 del 1982 laddove imponeva al direttore, tra le altre cose, di comunicare preventivamente il provvedimento di ammissione con le relative valutazioni all’ufficio competente della Direzione centrale, finendo col disincentivare la direzione stessa dal proporre provvedimenti d’ammissione, lascia spazio alla speranza di un " rilancio del lavoro all’esterno". (34) Bernardi, però, pur ribadendo che, tra le riforme introdotte dall’art. 6 L. 663/86, quella della giurisdizionalizzazione dell’ammissione al lavoro esterno è la più rilevante, sostiene che essa " più che rappresentare un vero e proprio passo in avanti, si limita a cancellare un’indubbia regressione fatta segnare – in questa circoscritta materia – dall’ordinamento penitenziario del 1975". (35) L’Autore commenta che sarebbe stato meglio " conferire al magistrato di sorveglianza un autonomo potere di iniziativa in relazione all’ammissione al lavoro all’esterno, piuttosto che un mero potere di controllo sul provvedimento di ammissione fattogli pervenire dal direttore dell’istituto ", onde evitare il rischio di "sotterranei patteggiamenti e transazioni fra i detenuti e l’autorità amministrativa più volte denunciati dalla magistratura e dalla stessa dottrina". (36) Pavarini, a sua volta, sostiene che l’Istituto del lavoro all’esterno, con le modifiche dell’86, "da modalità trattamentale vera e propria si era significativamente spostato nell’area gravitazionale di una modalità esecutiva attenuata". (37) Secondo l’Autore, cioè, era ancora possibile, formalmente e tecnicamente, individuare la disomogeneità esistente fra lavoro all’esterno e semilibertà, ma ciò non era facilmente dimostrabile nella prassi. Per chiarire ulteriormente tale considerazione, aggiunge che certamente, con esso, non si ha a che fare ancora con una "misura alternativa alla detenzione, per le medesime ragioni per cui solo nominalisticamente anche la semilibertà può essere definita tale". (38) Marchetti fa notare che del resto "la progressiva assimilazione dell’istituto de quo alle misure alternative è sottolineata anche dai successivi interventi del legislatore che sottopone il lavoro all’esterno alle stesse condizioni restrittive cui sono subordinate le misure alternative". (39) Il riferimento è alla legge 12 luglio 1991 n. 203 e alla legge 7 agosto 1992 n. 356: la prima recante provvedimenti urgenti circa la lotta alla criminalità organizzata, la seconda provvedimenti contrastanti la criminalità mafiosa. Marchetti sottolinea che la prima, tra l’altro, ha inserito l’art. 4-bis e modificato il comma 1 art. 21 ord. penit.; la seconda ha sancito il divieto di concessione di benefici a quanti appartengono alla criminalità organizzata. L’Autrice, tuttavia, pur condividendo quanto afferma la dottrina circa il progressivo modificarsi dell’istituto de quo fino a diventare, in buona sostanza, una misura alternativa, da taluno definita impropria, sottolinea come, rispetto alle misure alternative " sussistano comunque tuttora delle notevoli differenze relative sia ai presupposti sia alle modalità di concessione rispetto al lavoro all’esterno ". (40) Così, nei confronti del lavoro che il detenuto può svolgere all’esterno dell’Istituto di pena, Marchetti sottolinea che, fermo restante che esso deve "presentare caratteri di permanenza o di abitualità ", (41) non vi è alcun limite nei confronti del tipo di impresa alle cui dipendenze si svolge l’attività lavorativa. Ciò – evidenzia l’Autore – in seguito alla modifica apportata dalla legge 663/86, che estende il lavoro all’esterno anche all’ipotesi in cui esso debba essere effettuato presso imprese commerciali, ipotesi in precedenza esclusa. In merito, Di Gennaro, Bonomo e Breda sostengono che la scelta di non ammissione al lavoro presso imprese commerciali " corrispondeva al carattere comunemente più strutturato di tali imprese (per lo più costruite in zone recintate e comunque operanti in ambienti ove anche i lavoratori liberi sono sottoposti a un controllo costante sulla loro presenza) e alla natura di lavoro separato dal pubblico che tali imprese assicurano". (42) Da ciò emerge quanto ritiene Marchetti e cioè che l’esclusione del terziario nel lavoro all’esterno, da parte del legislatore, fosse dovuta all’esigenza di maggiori garanzie di sicurezza; l’Autrice, tuttavia, è convinta che trattasi di un’esigenza alla quale " si è ritenuto di poter rinunciare in favore dell’ipotizzabile maggior estensione dell’istituto di cui trattasi". (43) Anche Ciccotti e Pittau (44) considerano il fatto dell’eliminazione di limiti nei settori del collocamento del lavoro all’esterno come una innovazione sostanziale della riforma del 1986, soprattutto se rapportata al regolamento penitenziario del 1931, in cui era prevista soltanto la possibilità di appaltare la manodopera carceraria a ditte esterne, senza possibilità, dunque, che sussistesse un rapporto di lavoro fra il carcerato e le aziende stesse. La bontà della scelta emerge pure dal commento che Cesari fa dell’esclusione del lavoro nel terziario per i condannati, stabilita dall’ord. penit. del ‘75, vista dal medesimo come un vero e proprio retaggio storico, non più comprensibile né giustificabile e tanto più perché riduttiva delle già scarse possibilità di lavoro e induttiva di ozio forzato. "E questo – sottolinea Cesari – proprio in un momento in cui si fa strada fra le forze sociali e politiche, la tendenza ad una depenalizzazione che ha già trovato i primi sbocchi legislativi e che francamente è l’unica strada percorribile". (45) Per quanto riguarda il tipo di attività che il detenuto può svolgere nel lavoro all’esterno, Di Gennaro, Bonomo e Breda desumono, dall’ampia formulazione del secondo comma art. 21 ord. penit. che non si debbano "escludere a priori possibilità di lavoro tra le più varie". (46) Il terzo comma del citato art. 21, ove si esprimono le cautele da rispettare per l’esecuzione del lavoro all’esterno presso aziende private, non vuol infatti significare – secondo gli Autori – che "l’unica forma di assegnazione considerata sia quella presso imprese. In realtà – proseguono gli Autori - anche il lavoro autonomo o il lavoro domestico non sono teoricamente esclusi dalle attuali previsioni dell’art. 21, nelle quali sembrano poter rientrare anche le altre attività individuali di carattere artistico o culturale comunemente assimilate al concetto di lavoro". (47) In merito Marchetti distingue tra lavoro subordinato – "alle dipendenze di famiglie o professionisti" come precisano Canepa e Merlo (48) – e lavoro autonomo, conformemente all’art. 46 comma 12 reg. esec. Nel secondo caso, l’Autrice ricorda che, ovviamente, è indispensabile che il detenuto dimostri di possedere le attitudini necessarie e di essere in grado di dedicarsi all’attività lavorativa con impegno professionale, ferma restando l’esigenza che si tratti di "attività regolarmente autorizzata dagli organi competenti". (49) L’Autrice precisa ancora che il lavoro all’esterno è assimilabile anche alla frequenza ad un corso di formazione professionale (ex art. 21 comma 4 bis e art. 20 comma 16) per il quale è necessaria una convenzione fra la regione e l’azienda privata, nel caso in cui il corso sia affidato all’azienda stessa e che, per agevolare la partecipazione dei detenuti a tali corsi, sono garantite ai frequentanti " la tutela assicurativa e ogni altra tutela prevista dalle disposizioni vigenti in ordine a tali corsi". (art. 20 comma 16 ord. penit.) Marchetti non trascura d’illustrare anche il sistema di ammissione al lavoro all’esterno. Indica, pertanto, che , secondo l’art. 21 sono ammessi a tale istituto sia i condannati o internati, sia gli imputati, con modalità diverse nel caso in cui si tratti di condannati per uno dei reati di cui al comma 4-bis del nominato articolo ord. penit. Aggiunge che ulteriori limitazioni sono state definite con i divieti introdotti con la modifica del 1991 nei confronti dei condannati per i delitti di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione ovvero di estorsione (artt. 289-bis e 630 c. p.) che abbiano cagionato la morte del sequestrato ed anche nei confronti di condannati per uno dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. o abbiano subito la revoca di una misura alternativa. Precisa che le limitazioni di cui all’art. 21 comma 1 non operano, invece, nei confronti dei collaboratori con la giustizia (art. 58-ter ord. penit.) e di coloro che sono stati ammessi ad un programma di protezione (art. 13-ter commi 1 e 2 d.l. 15 gennaio 1991 n. 82). Passando ai presupposti e alle modalità per la concessione, Marchetti sottolinea che, in base all’art. 46 comma 1 reg. esec., essa anzitutto "è subordinata alla sua previsione nel programma di trattamento e all’approvazione del provvedimento da parte del magistrato di sorveglianza " (50) e si sofferma poi su altri aspetti inerenti ai modi di ammissione al lavoro stesso. L’Autore sostiene, infatti, che, sebbene il citato art. 46 faccia riferimento solo alla necessità della previsione nel programma di trattamento, ci sono altre condizioni non meno importanti quali:" l’affidabilità del soggetto, la carenza di idonee attività lavorative interne, le caratteristiche del posto di lavoro all’esterno: in altre parole quegli elementi che potrebbero incidere negativamente sulle reali finalità dell’istituto trasformandolo in un incentivo a ricadere nel reato". (51) Ciccotti e Pittau, (52) in merito alle modalità di ammissione al lavoro all’esterno, scendono nei particolari, ricordano, cioè, che il provvedimento di ammissione del direttore deve contenere tutte le indicazioni inerenti agli orari di lavoro, alle modalità di uscita e di rientro del detenuto che si reca al lavoro all’esterno, i comportamenti sul lavoro (attività sindacali, pasti) . Specificano che la verifica viene attuata anche relativamente a tali prescrizioni e che ne possono conseguire interventi modificativi o sostitutivi da parte dell’autorità amministrativa. In riferimento poi alla scorta, Marchetti sottolinea che, nella versione originaria dell’art. 21, si prevedeva tale possibilità, senza ulteriori specificazioni così che secondo alcuni la scorta costituiva "condizione obbligatoria per l’accesso al posto di lavoro ". (53) In proposito Di Gennaro, Bonomo e Breda sostengono che, nel citato articolo, "la previsione secondo cui i lavoratori possono essere scortati, indicava la facoltà concessa all’Amministrazione di realizzare questo movimento all’esterno del carcere, non certo di concretare una diversa ipotesi corrispondente all’espressione ma possono anche andare a lavorare da soli, di cui non è traccia nel contesto dell’articolo" e attribuiscono proprio al fatto che la scorta, nella legislazione del ‘75, sia stata ritenuta necessaria una delle cause per cui "la possibilità di lavorare all’esterno è stata ridimensionata a livello applicativo ". (54) Bernardi, però, ha un parere discorde, vale a dire ritiene che "nell’ambito del potere di scelta concessa all’amministrazione ai sensi dell’art. 21 comma 2 (versione originale), la prassi instauratasi prevedeva un uso quantomeno limitato della scorta". (55) Monteleone si mostra dello stesso avviso, in quanto notifica che dall’entrata in vigore del nuovo ordinamento penitenziario "in una sola ipotesi risulta che sia stata disposta l’ammissione al lavoro all’esterno con la scorta (nel comune di Pallano nel 1985) e ciò non solo per le evidenti ed intuibili difficoltà di garantire tale servizio stante la scarsa disponibilità di agenti di custodia (art. 46 , 4° comma, reg.) ma anche perché, opportunamente, tale modalità di lavoro si ritiene utile e realizzabile solo in favore dei soggetti sufficientemente responsabili che danno le necessarie garanzie di rispettare le dettagliate e puntuali prescrizioni contenute nel programma che regola i loro movimenti all’esterno dell’istituto penitenziario ". (56) Marchetti evidenzia che la nuova versione dell’art. 21 comma 2 " si limita quindi a ratificare quanto già verificatosi nella prassi, stabilendo che la scorta costituisce un’eccezione da attuarsi solo nel caso in cui si renda necessaria per motivi di sicurezza " (57) e Bernardi, dal canto suo, specifica che " presenta anche il merito di riportare chiarezza nella materia, in quanto la precedente infelice formulazione legale aveva creato taluni problemi interpretativi di non facile soluzione ". (58) Circa i citati motivi di sicurezza, Marchetti chiarifica che " riguardano le esigenze di tutela dell’interessato e non il pericolo di fuga di costui ". (59) Se infatti sussistesse pericolo di fuga, secondo l’Autrice, in base al principio della non affidabilità del detenuto, non si potrebbe disporne l’ammissione al lavoro all’esterno. L’Autrice sostiene, inoltre, che , sempre nell’ottica di una maggior assimilazione al lavoro libero attuata con la l. 663/86, va collocata la parziale modifica dell’art. 21 riguardante il controllo da parte dell’Istituto nei confronti del detenuto ammesso al lavoro all’esterno. E’ dello stesso parere Bernardi, il quale sottolinea che, se in base al nuovo terzo comma dell’art. 21 ord. penit. il lavoro presso imprese private deve svolgersi ancora " sotto il diretto controllo della direzione dell’istituto a cui il detenuto o l’internato è assegnato " (come previsto nella versione originaria del secondo comma dell’art. 21 ord. penit.), la direzione può, tuttavia, avvalersi per il controllo non soltanto del personale dipendente, bensì anche del servizio sociale. In siffatta maniera, per Bernardi, " il controllo può assumere indubbiamente un carattere meno poliziesco e nell’ambito del doppio controllo emergente in precedenza dal combinato disposto dagli artt. 21, 2° comma ord. penit. (controllo sul lavoratore) e 46 ultimo comma reg. esecuz. [ ‘76 ] (controllo a favore del lavoratore) il fuoco dell’attenzione sembrerebbe spostarsi su questo secondo tipo di controllo ". (60) Bernardi vede in ciò un armonico accordo con l’appena citata scelta legislativa che esclude normalmente la scorta di accompagnamento per i detenuti che lavorano all’esterno, " configurandosi così un complessivo, generale affievolimento dei sistemi di vigilanza sul detenuto lavoratore " (61), in accordo con quanto recita il comma 16 dell’art. 46 reg. esec.: " i controlli effettuati non riguardano soltanto la verifica circa l’osservanza delle prescrizioni da parte del detenuto, ma anche, e soprattutto, che il lavoro si svolga nel rispetto dei diritti e della dignità del lavoratore detenuto ". Analogamente anche Ciccotti e Pittau, in merito al controllo che la direzione dell’istituto effettua nei casi di lavoro presso imprese private, ribadiscono che " non si tratta unicamente di verificare le prestazioni fornite dai reclusi, ma anche di tutelare i loro diritti ". (62) Se, invece, il lavoro all’esterno si svolge presso imprese pubbliche, Marchetti afferma che " si dà per scontato il rispetto dei diritti e della dignità del detenuto lavoratore" (63) e, pertanto, risulterebbe superflua una verifica in tal senso. Precisa che, in effetti, in tal caso, sono previsti solo interventi di controllo effettuati dai responsabili delle imprese stesse, con specifico riferimento ai comportamenti dei detenuti. Ciccotti e Pittau, in proposito, affermano che l’assenza di una previsione di forma di controllo si basa " presumibilmente sulla motivazione che tali aziende (pubbliche) assicurano per loro natura un corretto svolgimento del lavoro ". (64) Per quanto riguarda, infine, il collocamento e la natura del rapporto di lavoro, nel caso di lavoro all’esterno, rimando all’art. 20, che è stato trattato nella seconda parte del presente lavoro, limitandomi ad aggiungere alcune riflessioni di Ciccotti e Pittau, i quali si soffermano sulle difficoltà relative alle procedure di collocamento circa le quali il Ministero di Grazia e Giustizia ritiene che, per i detenuti e gli internati ammessi al lavoro all’esterno, non sia necessaria l’iscrizione alle liste provinciali di collocamento. Il Ministero del Lavoro, in merito, configura un’ipotesi particolare di accesso al lavoro, in quanto la direzione penitenziaria può svolgere il proprio compito in piena autonomia (ad eccezione di quanti intendono beneficiare della semilibertà , per i quali è necessaria l’iscrizione alle liste di collocamento). Gli Autori ricordano, però, che spesso sono gli stessi interessati (mediante familiari ed amici) che si fanno carico del reperimento del posto di lavoro e non si mostrano contrari a tale prassi, sostenendo che " la collaborazione della società libera e degli stessi detenuti e dei loro familiari per il reperimento di posti rimane auspicabile, fatto naturalmente salvo l’avallo del direttore d’istituto e del magistrato di sorveglianza ". (65) Gli Autori, del resto, palesano che, secondo la vigente normativa, non è escluso che il datore di lavoro possa essere un familiare del detenuto stesso, ma, in tal caso, sottolineano che necessita una particolare attenzione al soddisfacimento delle esigenze del trattamento rieducativo. In merito, Giuffrida segnala che " spesso il reperimento di un lavoro formalmente in regola da parte di un condannato, non corrisponde ad una valida occasione di inserimento lavorativo, ed ancor meno ad un definitivo impegno che trascenda il tempo della pena ". (66) L’autrice sostiene, infatti, che tante volte il condannato e/o la sua famiglia, per essere in grado di reperire un posto di lavoro, ricorrono ad " espedienti spesso ai margini della legalità, laddove non si cada in situazioni totalmente fittizie o ancor peggio nel cercare soluzioni nell’ambito della criminalità organizzata ". (67) Giuffrida sottolinea che l’esperienza ha messo in luce casi di datori di lavoro compulsati dai familiari del detenuto affinché lo stesso venisse assunto, ma anche casi di datori di lavoro che ricevono un quantum per dichiararsi disponibili all’assunzione o che sono pagati dai soggetti in misura alternativa, senza che i medesimi ricevano alcuna paga. L’Autrice sostiene che l’elenco potrebbe allungarsi con esempi sui lavori in proprio legittimati con sospette aperture di partita I.V.A, su "quei lavori – certamente veri – ma rientranti nella sfera del lavoro nero (raccatta cartoni o ferri usati, posteggiatori, ambulanti…) inammissibili però per mancanza dei requisiti formali ". (68) Ad essi Giuffrida aggiunge i casi di assistenti sociali che per abilità individuali riescono ad ottenere disponibilità lavorative in situazioni non chiare e poco professionali. L’Autrice, pertanto, avanza come ipotesi da sviluppare quella della creazione di "Agenzie di mediazione impiego condannati ", come già avviene in altri Paesi (Usa, Francia - Lione). Spiega che gli operatori di tali agenzie funzionano da mediatori fra le imprese che abbiano disponibili posti di lavoro e il condannato ammesso (o in attesa di esserlo) ad una misura alternativa e che tali agenzie, inoltre, hanno come riferimento il Centro di Servizio Sociale, da un lato e la Magistratura di Sorveglianza, dall’altro. Osservazioni a parte sono riservate, da Ciccotti e Pittau, al lavoro a domicilio (regolato dalla legge 18 dicembre 1979, successivamente modificata dalla legge 1980 n. 858), da cui, in sintesi, sono formulate le successive considerazioni. Viene ritenuto lavoratore a domicilio chiunque svolga un lavoro, con vincoli di subordinazione, nel proprio domicilio, retribuito da uno o più imprenditori, mediante materiale e attrezzature propri. Al lavoratore a domicilio si applicano le norme vigenti per i lavoratori subordinati in materia di assicurazioni sociali e di assegni familiari, mentre, per quanto riguarda la retribuzione, il Ministero del lavoro stabilisce tabelle di retribuzione convenzionali. Il lavoro a domicilio può essere esteso ai detenuti, in quanto compatibile con lo stato di detenzione. Facendo il punto della situazione, alla luce delle novità introdotte con la normativa del 2000, in materia di lavoro carcerario all’esterno, Romano sostiene che " la novità più evidente introdotta dalla L. 193 sembrerebbe essere la possibilità di ottenere sgravi fiscali non meglio identificati….. da parte di altri soggetti imprenditoriali, oltre alle imprese sociali, che assumano lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni ". (69) Quanto al Regolamento 230, l’Autore sottolinea che agli artt. 48 e 54 esso " disciplina il lavoro all’esterno e il lavoro in semilibertà, richiamando espressamente l’applicazione dei diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla misura privativa della libertà ". (70) Dall’Autore sono, evidenziate, inoltre, due ultime novità. La prima è desunta dall’art. 5 comma 2 della l. 193 , il quale recita: " Agli effetti della presente legge, per la costituzione e lo svolgimento di rapporti di lavoro, nonché per l’assunzione della qualità di socio nelle cooperative sociali di cui alla legge 1991, n. 381 , non si applicano le incapacità derivanti da condanne penali o civili ". La seconda è rilevata dagli artt. 1 (laddove modificando l’art. 4 della 381, si introduce il comma 3-bis) e 3 (laddove sono coinvolte le imprese che assumono detenuti) in base ai quali si applicano gli sgravi fiscali e le agevolazioni indicate anche nei sei mesi successivi allo stato di detenzione. Per L’Autore, " la ratio ispiratrice di questo disposto è molto condivisibile e reifica lo spirito di sacrificio che ha sempre guidato l’operatività delle imprese sociali autenticamente vocate al reinserimento sociale dei soggetti condannati " (71) . A giudizio dello stesso, però," il lasso di tempo individuato dal legislatore appare del tutto insufficiente per fornire una continuità processuale ai percorsi di inserimento iniziati attraverso il lavoro inframurario, extramurario o attraverso le misure alternative alla detenzione " e " forse bisognerà pensare ad un successivo, ulteriore intervento normativo che sistemi questo inadeguato elemento temporale ". (72) L’Autore riflette, poi, sul lavoro dei condannati nelle cooperative, da lui considerato " lo strumento elettivo di offerta lavorativa per i detenuti ", in quanto in esse tutto quello che è richiesto al condannato – non solo, quindi, limitatamente alla dimensione lavorativa – per il medesimo " diventa formativo nel momento in cui è assunto all’interno di un progetto personalizzato e sottoposto a verifica periodica ". (73) In tale progetto – ricorda sempre Romano – far acquisire professionalità significa anche incentivare la capacità relazionale della persona condannata, poiché" sovente l’incapacità comunicativa è elemento altamente criminogenico ". (74) Ed ancora aggiunge: "Non deve spaventare il rischio di recidiva: assai di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l’incapacità a comunicare e relazionare con la persona condannata; se ciò dovesse accadere, ogni lavoro offerto, seppur positivo ed appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l’uscita dal carcere e il prossimo rientro ". (75) Nonostante tutti gli sforzi legislativi in funzione di un potenziamento del lavoro carcerario, Patellaro sostiene che " il lavoro dei detenuti è un miraggio ". (76) A conferma, sottolinea che solo il 24% di loro, infatti, riesce a svolgere un’attività che li sottrae all’ozio forzato: 909 esercitano attività produttive, mentre 9124 si occupano dei servizi e dei lavori domestici. Solo 1667 detenuti, invece, lavorano all’esterno su un totale di 50000 persone: 48190 uomini e 1960 donne, 20000 presenze in più dell’effettiva capienza degli istituti. Sono, inoltre, circa 21000 i detenuti in attesa di giudizio e 1500 i semiliberi. (77) Dai dati emerge un quadro sconfortante che ha indotto associazioni di volontariato a cercare e creare occasioni di lavoro per i carcerati. Per meglio capire ed affrontare tale situazione, Romano e Zappa hanno condotto uno studio su un campione di imprenditori bresciani in " prospettiva valutativa e propositiva delle opportunità occupazionali che essi possono offrire a persone sottoposte ad esecuzioni della pena, sia detentiva che nelle forme alternative ". (78) Gli Autori sottolineano che il territorio in cui sono presenti le realtà imprenditoriali considerate, con le sue 104000 imprese (precisamente 103756) colloca Brescia al sesto posto nella graduatoria nazionale, con un tasso di disoccupazione inferiore sia a quello regionale che a quello nazionale, per cui " è evidente come una realtà così ricca dal punto di vista imprenditoriale richieda una presenza di forza- lavoro altrettanto corposa". (79) Il campione intervistato è composto da 80 imprenditori appartenenti, con adeguata dimensione proporzionale, alle diverse associazioni di categoria. La lettura delle risposte date nei questionari ha permesso agli Autori di osservare che " la situazione pur non connotandosi come sfavorevole allo sviluppo di relazioni interattive tra il mondo imprenditoriale bresciano e quello penitenziario necessita indubbiamente di alcuni interventi migliorativi ". (80) Secondo gli Autori, il primo intervento potrebbe essere quello di favorire una maggior conoscenza dell’ambiente carcerario da parte degli imprenditori, in accordo con l’orientamento manifestato dal legislatore nel nuovo regolamento penitenziario (D. Lgs. 230/2000), anche mediante visite all’interno del carcere da parte dei rappresentanti delle associazioni di categoria e dei sindacati. Un secondo intervento potrebbe essere costituito da " un costante monitoraggio dei flussi di accesso della popolazione penitenziaria al mercato del lavoro…….Ciò consentirebbe infatti l’eventuale gestione dei percorsi di reinserimento lavorativo in tempo reale, con la possibilità di inserire i necessari interventi correttivi alle esigenze del singolo caso ". (81) Un terzo passo, infine, per gli Autori, spetta al legislatore, in quanto ritengono necessario che vengano emanati i decreti previsti dall’art. 4 della legge, perché diversamente " le pure illuminate e opportune disposizioni previste dagli artt. 2 e 3 rischiano di rimanere lettera morta per carenza di interesse specifico all’applicazione da parte degli intenditori". (82) Gli Autori concludono " affermando che le porte del carcere, dopo secoli stanno iniziando ad aprirsi verso la società esterna. Adesso ognuno deve fare la propria parte affinché tale apertura sia il primo passo per riportare l’istituzione carceraria dentro quel territorio cui appartiene ". (83) Come ultimo contributo alle tante considerazioni di vario genere fin qui riportate sull’argomento del lavoro carcerario, traccio una sintesi dell’intervento attuato da Benesperi nel Convegno Nazionale "Formazione lavoro dentro e fuori dal carcere", tenutosi a Firenze il 13-14 giugno 1997. Sebbene " Carcere e lavoro" sia stato titolo di vari Convegni e Seminari, Benesperi sente il bisogno " di ritornare su questo tema e di richiamare a confronto diverse realtà ", (84) per i seguenti motivi:
L’Autore interpreta come "segnale profondamente negativo " il ridursi di forme di lavoro inframurario ed avanza perplessità sul fatto che "anche rispetto ad una serie di prodotti per le necessità carcerarie, non sia studiata la possibilità di sviluppare occasioni di impresa, ma sempre più ci si rivolga alle commesse esterne". (88) Egualmente si preoccupa per il fatto che manca un ufficio che " nell’ambito dell’amministrazione penitenziaria si occupi operativamente del lavoro, che sviluppi studio, promuova attività lavorative, valorizzi le risorse soggettive delle persone detenute, ricerchi concerto per un piano del lavoro con le Regioni, gli Enti locali, le associazioni produttive, i sindacati ". (89) All’Autore la quota riservata alla formazione professionale del personale penitenziario sembra irrisoria, se confrontata con le nuove esigenze di una innovazione della pena. Benesperi evidenzia le carenze di progettualità nei confronti delle fasce più deboli della popolazione detenuta, soprattutto della popolazione femminile, per le quali sono stati non doverosamente considerati i corsi professionali, nei riguardi dei detenuti stranieri e dei tossicodipendenti. Ricorda, però, che nei Protocolli d’intesa fra Regioni e Amministrazione Penitenziaria, ultimamente, parti importanti sono state riservate alla formazione professionale ed all’avviamento al lavoro dei detenuti ed ex detenuti in attività socialmente utili, con risultati migliori quando c’è stata la collaborazione fra Regioni, Enti locali, Amministrazione penitenziaria, Magistratura di sorveglianza e Volontariato. L’Autore definisce, inoltre, " strategico " il tema della territorialità in rapporto all’esecuzione della pena, il che richiede "un maggior carico di responsabilità per le autonomie locali ". (91) E non tralascia neppure il grave problema attuale della disoccupazione, a causa del quale "parlare di lavoro dentro il carcere e per gli ex detenuti a qualcuno può apparire fuori luogo ", convinto, però, " che il lavoro e la formazione professionale orientata allo sviluppo delle risorse umane, siano strumenti irrinunciabili per dare un significato vero all’azione di recupero e reinserimento sociale da assicurare ai detenuti ed ex detenuti nell’interesse generale del benessere della comunità ". (92)
L’attività lavorativa nelle misure alternative alla detenzione
Se il lavoro resta, pur sempre, un cardine del trattamento carcerario, non si possono, però, in merito, non considerare le cosiddette misure alternative alla detenzione. Il Comitato dei Ministri, in virtù dell’art. 15-bis Statuto del Consiglio d’Europa "raccomanda ai Governi degli Stati membri di ispirarsi nella legislazione e nella pratica ai principi contenuti nel testo delle Regole Europee sulle sanzioni e misure alternative alla detenzione ". (93) Con le regole 44-45 del Capitolo VII richiama al coinvolgimento ed alla partecipazione della comunità: " Si devono diffondere informazioni appropriate sulla natura ed il contenuto delle sanzioni e delle misure alternative, nonché sulle modalità della loro esecuzione, affinché l’opinione pubblica, in particolare i singoli individui, le organizzazioni e i servizi pubblici e privati che si occupano dell’esecuzione di tali sanzioni e misure, possano comprenderne i fondamenti e considerarle come delle risposte adeguate e credibili ai comportamenti criminali " (regola 44); "Le autorità incaricate dell’esecuzione delle sanzioni e delle misure alternative devono attuare il loro intervento ricorrendo a tutte le risorse utili esistenti nella comunità esterna, allo scopo di procurarsi i mezzi adatti per rispondere alle necessità dei rei e sostenere i loro diritti. A tale scopo si dovrà egualmente ricorrere il più possibile alla partecipazione di organizzazioni e di singoli individui della comunità esterna ". (Regola 45) Con le Regole 89-90 del Capitolo XI offre modalità di ricerca e di valutazione circa il funzionamento delle sanzioni e delle misure alternative alla detenzione: "La ricerca sulle sanzioni e sulle misure alternative alla detenzione deve essere incoraggiata. Tali sanzioni e misure dovrebbero essere valutate con regolarità" (regola 89); "La valutazione delle sanzioni e delle misure alternative alla detenzione dovrebbe comportare, senza comunque limitarsi a ciò, l’accertamento della misura in cui il loro utilizzo:
Maccora, sull’argomento, sostiene che, negli ultimi anni, nel campo dell’esecuzione penale, ci sono stati numerosi interventi della Corte Costituzionale e del legislatore e che l’analisi delle norme riformatrici ha messo in luce "settori di inadeguatezza ed insufficienza della normativa rispetto alle esigenze della collettività ". (94) Da ciò, secondo Maccora, è sorta l’esigenza di una rielaborazione dell’intero sistema sanzionatorio per evitare che, da un lato, "l’unica sanzione fosse quella detentiva, preoccupati soprattutto del sovraffollamento penitenziario ", mentre, dall’altro lato, si è voluto evitare che "attraverso la logica premiale fosse favorita la criminalità organizzata, con la conseguenza di privilegiare le misure alternative nella logica utilitaristica del do ut des , con la costruzione del binomio collaborazione-premio ". (95) Il principio della flessibilità della pena, per l’Autore, però, assolve solo apparentemente la finalità rieducativa della pena (ex art. 27 Costit.). Secondo il medesimo, infatti, le misure alternative vengono utilizzate " per fronteggiare esigenze di vita di volta in volta diverse ". (96) Porta come esempio quanto avvenuto negli anni 91/92 quando da un lato, per ostacolare la criminalità organizzata, si è inasprito l’accesso ai benefici e dall’altro si è ritornati alla pura premialità con i collaboratori con la giustizia; oggi, invece, esigenza impellente è quella di "sfollare gli istituti penitenziari con delle modifiche che potrebbero costituire anche un condono mascherato ". (97) La legge 165 del 1998 s’inserisce dunque , per l’Autore, in un quadro problematico "modificando alcuni elementi specifici dell’affidamento, semilibertà e detenzione domiciliare, nonché l’accesso alle misure stesse "senza tuttavia mutare, anzi aumentando "quella situazione di incertezza e di imprevedibilità della pena detentiva che nell’ultimo decennio ha dominato le osservazioni della dottrina ". (98) L’Autore pone l’accento sul fatto che la riforma interessa soprattutto le pene medio brevi, per le quali non viene richiesta la detenzione in un istituto di pena, dal momento che la finalità rieducativa della pena può essere esplicata mediante una misura alternativa. Precisa che "per tali condannati l’accesso alle misure alternative deve avvenire senza l’ingresso in carcere ". (99) Il fatto, però, che la normativa precedente concedesse la sospensione dell’esecuzione della pena solo se fosse stata presentata istanza di misura alternativa prima dell’emissione o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione, non ha favorito , per Maccora, l’accesso alle misure alternative per i reati collegati ad una devianza marginale ed ha favorito la possibilità di evitare la detenzione " per coloro che hanno possibilità e condizioni economiche, sociali e culturali superiori alla media". (100) Maccora fa notare che questi ultimi possono essere definiti " forti (colletti bianchi, autori di reati finanziari, corruzione e concussione) ed iperintegrati rispetto ai quali quindi il concetto di rieducazione e di reinserimento sociale non può essere inteso in modo convenzionale, dato che gli autori dei reati non provengono da un contesto di emarginazione socio-economica ". (101) Nonostante le "ombre" evidenziate da Maccora, Fassone , in favore delle misure alternative, proponendo il rilancio della finalità rieducativa della pena, voluta dalla Costituzione, auspica inoltre "il potenziamento delle pene non detentive già esistenti e la creazione di nuove, quali le prestazioni di pubblica utilità, gli arresti di fine settimana o del tempo libero, le sezioni interdittive o incapacitive , la detenzione domiciliare ". (102) Dichiara che, tuttavia, soltanto poche delle accennate intenzioni si sono avverate e presenta, come la più significativa, la riforma della legge 27 maggio 1998 n. 165 di iniziativa parlamentare, con la qual è stato reso possibile accedere direttamente dallo stato di libertà alle misure alternative, in caso di pena non superiore ai tre anni ed inoltre è anche aumentata la possibilità di applicazione alla detenzione domiciliare. Per Fassone diventa indispensabile costruire misure extra-murarie che "evitino il degrado della custodia intramurale, ma abbiano un valore anche afflittivo". E continua: "Le misure alternative in concreto praticabili attengono a due ambiti fondamentali: la riduzione della libertà, in misura minore della segregazione carceraria (non facere), l’imposizione di prestazioni positive (facere)". (103) Facendo un inventario delle misure alternative, l’Autore nomina: il probation (o libertà assistita) che, correttamente strutturato, "costruisce il primo architrave di una terza via tra l’indulgenzialismo e la segregazione " (104); la semilibertà, gli arresti di fine settimana o del tempo libero, che comportano, però, gravi problemi di controllo da parte delle forze di polizia e per i quali, " se si vorrà approdare ad una effettiva de-carcerizzazione senza lassismi, si dovrà affrontare il delicato tema del controllo elettronico a distanza " (105); le prestazioni di pubblica utilità. Si tratta, per Fassone, di dover "dare vita a circuiti differenziati, a seconda del livello di pericolosità e di recidiva, costruendo comunità carcerarie veramente aperte e con personale complementare in diverso reciproco rapporto (prevalenza della funzione custodiale ove ciò occorra, ma prevalenza della funzione educativa negli altri istituti) ". (106) Di Gennaro, Bonomo e Breda avvalorano le tesi precedenti, sottolineando che gli organismi internazionali che si occupano della materia in modo specifico e i numerosi Paesi che ci hanno preceduto sulla strada delle misure alternative hanno " maturato il convincimento che perseguire in maniera indifferenziata, con il pesante, costoso e rigido apparato della reazione punitivo-detentiva, una congerie di comportamenti, che vanno dai delitti più gravi e allarmanti alle condotte solo marginalmente devianti, si risolve in una sostanziale ingiustizia distributiva e in un palese danno sociale ". (107) Gli Autori, in riferimento al Capo VI della legge 26/7/75, cioè quello dedicato alle misure alternative, definiscono tali in modo stretto: l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà e la detenzione domiciliare. Ritengono, però, giustificata l’inclusione in tale sezione anche della disciplina delle licenze, della liberazione anticipata e delle modalità di esecuzione della libertà vigilata - " in considerazione del fatto che esse comportano la permanenza del soggetto nell’ambiente libero" (108) -, nonché della remissione del debito, anche se non è caratterizzata dall’elemento della libertà che accomuna gli altri istituti, ma "con riferimento alla concezione seguita dal legislatore, e che traspare in particolare dalla lettera dell’art. 57, secondo la quale sia le misure alternative che la remissione del debito rappresentano dei benefici ". (109) Gli Autori fanno ancora presente che tale concezione unitaria è chiaramente espressa dalla rubrica dell’art, 57, mentre nel testo del medesimo articolo vien fatta distinzione fra trattamento e benefici . A parere degli Autori si potrebbe, pertanto, essere indotti a pensare che non tutti gli Istituti considerati al Capo VI ord. penit. siano concettualmente riuniti dalla comune caratteristica di " beneficio ", tanto più che tale espressione nel testo ricorre solamente nei confronti della semilibertà e della liberazione anticipata, mentre, per quanto riguarda l’affidamento in prova, l’art. 57 parla di trattamento. Gli Autori concludono, però, che poiché anche "l’affidamento in prova è stato previsto come conseguente a un provvedimento adottabile dopo che l’esecuzione detentiva ha avuto inizio, ne risulta la sua riconducibilità al concetto unitario di beneficio, il che non contrasta con la considerazione che il suo contenuto, come del resto quello della semilibertà, rappresenti sostanzialmente un trattamento alternativo ". (110) Nei confronti dei profili distintivi, della natura giuridica e dei rapporti di compatibilità tra i vari Istituti in questione, Presutti, circa l’affidamento in prova, che " rappresenta la più caratteristica tra le alternative previste dall’ordinamento penitenziario, essendo l’unica misura che consente una immediata e, sia pure con i controlli previsti, completa restituzione del condannato alla vita sociale ", esclude " qualsiasi coincidenza o interferenza con la semilibertà ". (111) In particolare l’Autrice sottolinea l’autonomia dei relativi presupposti: per la semilibertà bastano la valutazione dei progressi compiuti dal condannato in fase del trattamento e le condizioni di un graduale reinserimento nella società. Il fatto poi che il rientro quotidiano del semilibero in carcere consenta la continuità del controllo, concede che ci si possa "accontentare di un margine di incertezza sull’affidabilità del condannato " . (112) Al contrario, nell’affidamento in prova è richiesta "una valutazione della personalità del condannato che induca a ritenere che la misura non solo contribuisca alla rieducazione , ma anche assicura la prevenzione del rischio di recidiva ". (113) Palazzo obietta che " i criteri per l’applicazione della semilibertà ab initio non possono essere che gli stessi di quelli per la concessione per l’affidamento ". Aggiunge che "da un punto di vista sostanziale e sistematico, la omogeneità funzionale fra le due misure e il maggior rigore contenutistico della semilibertà rispetto all’affidamento sembrerebbero rendere del tutto naturale la possibilità di applicare anticipatamente la semilibertà una volta che, realizzati i presupposti e seguita la procedura di cui rispettivamente ai commi 3 e 4 dell’art. 47, il condannato non appaia meritevole del maggior beneficio ". (114) E così, anche in merito ai rapporti di progressione tra semilibertà e affidamento in prova nell’area delle pene fino a tre anni, Palazzo li definisce "rapporti che complessivamente sembrano ispirati alla massima flessibilità ".(115) Vale a dire che, nell’ipotesi in cui sia stato concesso inizialmente l’affidamento in prova, poi revocato, all’Autore non sembrerebbe dubbia la possibilità di regredire subito alla semilibertà e nell’ipotesi inversa, in cui sia stata concessa per prima la semilibertà, allo stesso pare altrettanto scontata la progressione verso l’affidamento in prova, in qualunque momento successivo. Per Presutti, pertanto, " il giudizio negativo sulla concedibilità dell’affidamento in prova, non può essere trasferito semplicemente al regime alternativo della detenzione, qual è la semilibertà". (116) Anche Di Gennaro, Bonomo e Breda evidenziano la diversità di profilo fra i due istituti, definendo il regime di semilibertà "più che una alternativa alla detenzione, una speciale modalità di esecuzione di essa. Infatti, lo stato detentivo continua a permanere anche se giornalmente intervallato da contatti con l’ambiente esterno". (117) E proprio dal momento che "la semilibertà è, come si è detto, una modalità di esecuzione e non una vera misura alternativa, si comprende perché la responsabilità del trattamento resti affidata al direttore (art. 92 reg.) con cui il centro di servizio sociale collabora per quanto attiene alla vigilanza e all’assistenza del soggetto nell’ambiente libero (art. 81) ". (118) Resta indubbio, comunque, che "la semilibertà, almeno quella prevista per le pene medie e lunghe, ha indubbia valenza rieducativa a favore del condannato: in particolare, quando si tratti di pene lunghe, è evidente la sua funzione di preparazione del condannato alla riconquista della libertà piena ". (119) Sempre in tema di compatibilità fra le varie misure, Presutti afferma che non può essere concesso il beneficio della liberazione anticipata a chi gode dell’affidamento in prova, poiché verrebbe ad essere annullata la partecipazione all’opera di rieducazione richiesta dall’art. 54 ord. penit. per il condannato che si trovi in stato di detenzione, mentre "pur costituendo a tutti gli effetti espiazione della pena, l’affidamento in prova non è equiparabile nel suo complesso alla detenzione ". (120) Coppetta definisce anomala la collocazione della liberazione anticipata tra le misure alternative alla detenzione in quanto "la riduzione di una pena, limitandosi ad anticipare il fine-pena, non è una misura alternativa, nemmeno considerando questa categoria nell’accezione più lata, inclusiva cioè di ogni modalità attenuata d’esecuzione della pena detentiva "(121), ma riconosce comune, con le misure alternative la finalità risocializzante. Canepa e Merlo, infatti, definiscono la liberazione anticipata "una misura incentivante ", specificando che la finalità di un più efficace reinserimento nella società, prospettata nella legge 354/75, è andata assumendo una posizione consequenziale al beneficio della riduzione della pena. "E’ ovvio, infatti, che attraverso una congrua riduzione della pena detentiva in corso di esecuzione, il condannato viene ad ottenere una corrispondente anticipazione del ripristino dello stato di libertà e, correlativamente, fruisce di uno strumento di più efficace reinserimento ". (122) Canepa e Merlo, comunque, se anche valorizzano la liberazione anticipata come " un potente strumento per indirizzare i detenuti a fruire delle opportunità loro offerte dal trattamento ed anche dall’osservazione penitenziaria", evidenziano che "la liberazione anticipata offre anche un rilevante strumento per il governo disciplinare degli istituti penitenziari, dal momento che la partecipazione all’opera di rieducazione non può non esprimersi, in via principale, nell’osservanza delle norme poste a presidio della corretta convivenza penitenziaria ". (123) Anche nei confronti della compatibilità fra l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare, infine, Presutti evidenzia come criterio guida "il principio secondo il quale, qualora ricorrano le condizioni per l’applicazione di due o più misure alternative, il giudice deve applicare quella meno afflittiva per il condannato ". (124) Così se il condannato in regime di detenzione domiciliare può successivamente essere ammesso all’affidamento in prova, l’Autrice esclude, invece, in caso di affidamento in prova, la concessione della detenzione domiciliare "rilevando che la detenzione domiciliare rappresenta una misura sott’ordinata rispetto all’affidamento in prova". (125) Presutti aggiunge che la detenzione domiciliare "sebbene inserita nel Capo VI, tra le misure alternative, non può certo ricondursi ad esse, rappresentando invece una modalità alternativa di esecuzione della pena ". (126) Per l’Autrice, prova di ciò è " l’assenza di qualunque contenuto risocializzante e di qualunque momento rieducativo " ed inoltre anche le finalità perseguite dall’Istituto sono "essenzialmente assistenziali e umanitarie, in quanto l’istituto mira appunto a tutelare determinate situazioni, sostituendo la detenzione in carcere con un’altra in luogo meno afflittivo ". (127) L’Autrice ricorda ancora che, in sede di lavori parlamentari, la misura è stata definita strumento di deflazione carceraria ; a suo parere , " la detenzione domiciliare non sembra comunque il mezzo più adatto per risolvere il problema del sovraffollamento e della gestione delle carceri ". (128) Riprendendo il raffronto fra affidamento in prova e regime di semilibertà, Presutti evidenzia come la funzione delle prescrizioni relative al trattamento, nell’una e nell’altra misura, sia diversa. Tale funzione, infatti, nella semilibertà non è "come per l’affidamento in prova, quella di dare contenuto al trattamento, tarandone le valenze rieducative sulle esigenze del condannato, bensì, semplicemente, quella di rendere praticabile il regime di semilibertà, regolamentandone le condizioni di esecuzione ". E continua: "Il contenuto rieducativo della misura in esame si realizza, infatti, attraverso lo svolgimento di attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale, come stabilito dalla norma dell’art. 48 co. 1 ord. penit. ".(129) Presutti sottolinea che l’accostamento delle attività lavorative ed istruttive a quelle comunque utili al reinserimento sociale , "rende puramente indicativa l’elencazione delle occasioni per le quali la misura è ammissibile, pur valendo a sottolineare la loro indispensabile finalizzazione alla rieducazione " e anche che "le attività risocializzative non devono necessariamente consistere nello svolgimento di una attività lavorativa ". (130) Dello stesso avviso sono Di Gennaro, Bonomo e Breda, che ritengono che il legislatore "abbia voluto evitare che, per motivi indipendenti dalla volontà del soggetto, quale, per esempio, la carenza di posti di lavoro, l’ammissione al regime sia negata a persone che, comunque, ne avrebbero potuto trarre beneficio ". (131) Palazzo, però, sostiene che "l’attuale formula legislativa….non è naturalmente in grado di modificare i termini della questione relativa alla presunta necessità che il condannato possa contare su una sistemazione lavorativa, per poter fruire della semilibertà ". E continua : " Solitamente viene instaurato un inammissibile automatismo tra mancanza del posto di lavoro e diniego della semilibertà, dimenticando così che il lavoro è solo una delle condizioni favorenti il reinserimento e che è la legge stessa - nell’art. 48 comma 1° - a prendere in considerazione attività anche non lavorative " . (132) Volendo tracciare delle considerazioni conclusive sulle misure alternative, Palazzo si sente autorizzato a sostenere che "delle tre misure alternative, la semilibertà è quella che esce dalla riforma dell’86 certamente meno profondamente trasformata delle altre, ma forse con una disciplina tecnicamente più organica e maggiormente rispondente alle esigenze della funzione socialpreventiva ". (133) L’Autore ritiene degno di rilievo l’intervento riformatore che ha portato all’eliminazione della preclusione all’accesso alla semilibertà per l’ergastolano e non ha alcun dubbio che ciò "abbia rimosso un limite del tutto innaturale, dando alla semilibertà quella flessibilità che è coerente con la sua natura di strumento del trattamento progressivo ". (134) Sostiene altresì che la possibilità di applicazione anticipata rispetto alla semilibertà per le pene brevi è perfettamente coerente "con la finalità di evitare al condannato qualunque contatto carcerario " e che "la più incisiva innovazione della semilibertà ab initio per le pene fino a tre anni, pur nascendo da un’esigenza un poco geometricamente razionalistica di coordinamento con l’affidamento in prova, non si sottrae ad un’interpretazione capace di recuperarne una significativa funzione parallela e alternativa a quella dell’affidamento ". (135) Palazzo aggiunge che l’intervento legislativo relativo al biennio 91-92 "si risolve essenzialmente nella ricomparsa dei reati ostativi " ma non gli pare che le modifiche " abbiano stravolto la fisionomia che la semilibertà è venuta assumendo nel corso della sua evoluzione legislativa ". (136) Più severo è, invece, il giudizio dell’Autore nei confronti della norma dell’art. 13 d. l. 8 giugno 1992 n. 306, da Palazzo definita di portata dirompente . Con essa, infatti, viene disposto, nei confronti di tutte le misure alternative e senza distinzioni in base al titolo criminoso, che a quanti ammessi a speciale programma di protezione, a seguito della collaborazione prestata con la giustizia, le misure stesse possono essere applicate "anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui agli articoli 21, 30-ter, 47, 47-ter e 5° (ord. penit.) ".(137) L’Autore fa notare che se la disposizione fosse riferita a tutti i limiti di pena previsti in materia di semilibertà, si avrebbe come risultato: "una totale disarticolazione dei complessi e delicati equilibri e rapporti fra le varie forme di semilibertà: anticipata per le pene brevi, ab initio per le pene medie, con espiazione di metà o due terzi delle pene lunghe. La semilibertà diverrebbe in tale ipotesi un indifferenziato strumento sostitutivo della pena detentiva, in chiave di mero beneficio incentivante la collaborazione con la giustizia ".(138) Palazzo evidenzia ancora altri aspetti negativi e cioè: il perdurare dei difetti di coordinamento con la liberazione condizionale "sia per quanto riguarda la successione cronologica dei due istituti…..sia per quanto riguarda l’assenza di un ragionevole termine finale alla durata dell’esperimento in semilibertà ". (139) Segnala, poi, che un ulteriore difetto di coordinamento si rileva nei confronti dell’affidamento in prova, allorché la durata della pena sia inferiore ad un mese e di regola non si utilizza l’affidamento, ma la misura minore della semilibertà. Ciò, per Palazzo, contrasta "sia col principio – affermato dalla riforma dell’86 - della normale concorrenza degli ambiti applicativi delle due misure, sia con la logica che non vorrebbe esclusa la misura maggiore proprio per le pene più lievi ".(140) Per ultimo Palazzo accenna alle carenze circa i principi della pena detentiva come ultima ratio e della finalità rieducativa della sanzione penale. Secondo l’Autore, tali carenze si evidenziano maggiormente "nella problematica coesistenza delle misure alternative con le sanzioni sostitutive e con la sospensione condizionale " ed anche nell’ambito " strettamente connesso dei presupposti e dei criteri discrezionali di applicazione ". (141) Anche Presutti è severa nella formulazione di un primo bilancio sulla riformata disciplina dell’affidamento in prova e delinea " la stessa problematica presente ed un incerto futuro " per "un progressivo snaturarsi della misura che mette in dubbio l’opportunità della sua stessa sopravvivenza ". (142) Tutto dipenderà, secondo l’autrice, dalle scelte future del sistema penitenziario, vale a dire che la vitalità della misura sarà condizionata dal superamento delle scelte restrittive, frutto della nuova emergenza, in favore di una logica risocializzativa. Cesaris, infine, nei confronti della detenzione domiciliare, evidenzia che in tale Istituto c’è "assenza di qualsiasi contenuto risocializzante o rieducativo…..manca altresì qualsiasi riferimento esplicito alla finalità della misura come invece è dato trovare nella disciplina dell’affidamento in prova e della semilibertà ". (143) A conferma, l’Autrice si rifà al testo legislativo da cui emerge che la prima misura è concessa, infatti, in base al fatto che "contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati " (art. 47 comma 2 ord. penit.), la seconda in base "ai progressi compiuti nel corso del trattamento, quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società " (art. 50 comma 4 ord. penit.), anche se, in proposito Chiozza G. e Chiozza M. sostengono che "la semilibertà sta perdendo terreno sul piano del trattamento rieducativo programmato, in quanto tende ad assumere il significato di una qualsivoglia sistemazione lavorativa atta a sostenere le esigenze economiche del detenuto e della sua famiglia piuttosto che quelle di risocializzazione, in mancanza di possibilità lavorative interne ". (144) Gli Autori aggiungono, inoltre, che " anche l’affidamento in prova al servizio sociale e la liberazione condizionale non sono esenti da riserve sulla loro specifica funzione risocializzante nel contesto della realtà esterna per limiti legislativi ed esecutivi ". (145) Chiozza G. e Chiozza M , nonostante i limiti indicati, rilevano che "le misure alternative rappresentano comunque la più favorevole possibilità d’incontro con la realtà esterna, non importando soverchiamente se la loro connessione sia talvolta imposta da prevalenti esigenze economico-lavorative e se favoriscono un atteggiamento, d’altronde comprensibile, opportunistico da parte del detenuto ". (146) Cesaris ricorda, inoltre, che, a differenza delle due citate misure alternative (come del resto per tutte le misure risocializzanti), per la detenzione domiciliare non vi è alcun requisito soggettivo specifico, anche se "l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata può testimoniare assenza di pericolosità, così come la collaborazione ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit. assume un rilievo particolarmente significativo nel percorso del recupero del detenuto ". (147) Il fatto, poi, che non sia prevista alcuna valutazione in chiave risocializzante del comportamento del sottoposto a tale misura, per Cesaris sta proprio ad indicare che il soggetto "non è sottoposto ad alcun trattamento rieducativo " e che "il legislatore ha costruito la detenzione domiciliare come modalità alternativa di esecuzione della pena detentiva senza attribuirle alcuna valenza risocializzante o rieducativa;….anche se la sottrazione del condannato agli effetti deleteri dell’ambiente carcerario può quanto meno registrare al suo attivo la circostanza di risultare di per sé non desocializzante ". (148) L’Autrice conclude con una nota critica circa il fatto che la detenzione domiciliare sia "stata ritenuta nel recente provvedimento legislativo uno strumento di deflazione della popolazione carceraria ". (149) Cesaris è del parere che il grave problema della gestione delle carceri non sia certamente risolvibile con una misura di questo tipo, che, per l’Autrice, "persegue finalità essenzialmente umanitarie ed assistenziali " e che rientra quindi nei "palliativi che certo possono servire a diminuire le tensioni negli istituti penitenziari, ma non risolvono il problema " (150), come non è risolto neppure con il ricorso al regime della semilibertà, che prevede l’assegnazione del semilibero in "appositi istituti o in apposite sezioni autonome di istituti ordinari ". (art. 48 comma 2 ord. Penit.) In tale misura, Presutti intravede una soluzione rispondente "ad una esigenza di sicurezza istituzionale " (151) nella opportuna separazione fra detenuti che vivono in carcere da quelli che fruiscono di una quotidiana esperienza all’esterno. In proposito, Di Gennaro, Bonomo e Breda sostengono che nella semilibertà "il regime è tale da rendere superflue e certo controindicate le strutture edilizie imposte dalla necessità degli usuali controlli negli istituti ordinari " e che, poiché il regolamento prevede che le sezioni di semilibertà possono essere ubicate in edifici di abitazione civile "non è da escludersi che limitati gruppi di soggetti possano abitare, senza attirare l’attenzione dei vicini, in un appartamento di un qualsiasi edificio ". (152) Anche per Palazzo, in relazione ad un crescente utilizzo della semilibertà, la prospettiva della differenziazione degli istituti appare particolarmente raccomandabile . Per l’Autore, l’utilizzo di un istituto a sezioni distaccate per i semiliberi porterebbe ad un duplice vantaggio: da un lato si risparmierebbe " quell’aggravio organizzativo che si rende necessario quando in uno stesso istituto sono ospitate categorie di detenuti che pongono esigenze di controllo così diverse come sono i detenuti ordinari e quelli in semilibertà " e dall’altro, in un istituto in cui fossero ospitati solo dei semiliberi, le esigenze di controllo " tendono a ridursi alla sola verifica sul puntuale rispetto degli orari di rientro: compito questo che può essere assolto avvalendosi di personale non particolarmente numeroso e non necessariamente dotato di specifica qualificazione ". (153) Zappa, però, nutre profondi dubbi sulla possibilità , allo stato attuale, di una proficua attuazione della misura in questione e denuncia che, proprio nel settore della semilibertà, " si devono registrare le più vistose negatività ". (154) Stima "la constatata presenza di revoche della semilibertà in percentuale non allarmante, ma certo non trascurabile " e la attribuisce "a mancanza di attenzione da parte di tutti nei confronti dei semiliberi abbandonati a se stessi e costretti ad autogestirsi ". (155) Da una ricerca sulla semilibertà nella Casa di Brescia, ha raccolto dati che evidenziano come il numero delle revoche della semilibertà, nel Distretto di Brescia, sia raddoppiato nel secondo semestre del 1986. Alla ricerca di motivazioni in merito, l’Autore fa presente che la sezione per semiliberi "appare per ubicazione e consistenza, un presupposto indispensabile per un corretto e razionale funzionamento del sistema ", ma lamenta che "ben poco o nulla, invece, si è fatto fino ad oggi, a dodici anni dalla riforma penitenziaria del 1975, che pur ha voluto l’istituto della semilibertà ". (156) Sostiene che, in particolare, non è ancora stata decisa la realizzazione o meno di un sistema penitenziario a custodia attenuata, ove possano essere comprese le sezioni per semilibertà e tutte le Case Mandamentali distribuite, in modo adeguato, in Italia. Evidenzia, invece, come i semiliberi siano generalmente tenuti a vivere in piccoli spazi rimediati all’interno delle Case, ove non sia possibile svolgere quelle attività socializzanti che andrebbero curate nel modo più attento . Segnala, come motivo di speranza in un cambiamento, la convenzione stipulata il 20 febbraio 1987 tra il Ministero e la Regione Emilia Romagna che indica " quale obiettivo meritevole di perseguimento ubicare le sezioni di semilibertà al di fuori della cerchia muraria del carcere " (art. b/4). L’Autore ricorda che, per la verità, tale possibilità era stata prevista dall’art. 92 ult. comma Regolamento Generale del 1976, ma che "ben rare sono state le possibilità di concreta attuazione, anche per i vari ostacoli frapposti dai privati e dagli Enti Locali". (157) . L’Autore non manca poi dal sottolineare gli spazi vuoti a livello organizzativo-funzionale, per mancanza di personale per un’assistenza completa ai semiliberi: "Per molti versi il semilibero è posto in condizioni di vita peggiori del detenuto ordinario ed è – comunque - non solo meno custodito, ma paradossalmente anche meno seguito, aiutato, controllato ". (158) Zappa si riferisce alla tesi - vicina alla concezione medicale del delitto e della pena - per cui la semilibertà " deve essere considerata quale periodo di convalescenza conseguente ad una malattia, periodo in cui sono necessarie cure, controlli, aiuti particolari ", vale a dire che "la semilibertà starebbe al carcere come la convalescenza in night - hospital starebbe al ricovero ospedaliero ", ma per concludere che, nella situazione attuale, "tutto sommato, si sta meglio durante il ricovero che durante la convalescenza ". (159) Per Zappa, risultano fondamentali l’analisi ed il confronto tra le attività dei condannati per identificare le difficoltà dagli stessi incontrate, onde evitare il fallimento della prova e la conseguente revoca. Dall’accennata indagine, secondo l’autore, trarrebbero vantaggio i condannati stessi (coinvolti nella ricerca e valorizzati come soggetti e non come oggetti), gli operatori penitenziari (che vedrebbero accresciuto il loro bagaglio tecnico), i Magistrati di Sorveglianza (arricchiti in professionalità ed esperienza), tutti i cittadini ed i media (perché solo da una loro informazione corretta e completa si può pensare ad un progresso nella moderna cultura della pena). E per tale Zappa intende una pena utile e sufficiente e, da tale punto di vista, "la semilibertà appare l’istituto più adatto alla messa alla prova in regime parzialmente extra-murale di quei condannati- la grande maggioranza – che non sono, per le ragioni più varie, in grado di ottenere l’affidamento ". (160) L’Autore sostiene però, che, se anche l’applicazione della semilibertà prevede "lo studio della personalità del condannato e del suo passato, specie recente e la messa a punto di un progetto esterno, che consenta di fornire un minimo di garanzie per il reinserimento del soggetto ", (161) la fase che richiede più impegno è la successiva, ossia quella esecutiva della misura. In essa, senza che venga sospesa l’osservazione, si integra e si modifica il piano di trattamento in base alle esigenze del semilibero. Vengono richiesti, pertanto, massima professionalità e massimo impegno agli operatori che, ovviamente, sostiene Zappa, devono essere in numero adeguato. I problemi del semilibero, infatti, per l’Autore, aumentano in fase di semilibertà, rispetto a quelli tipici del recluso. Basti pensare ai problemi connessi ai mezzi di trasporto, al lavoro, al tempo libero. Ma ancor più da tener presenti sono, per Zappa, i problemi di comunicazione con il mondo esterno, che il semilibero scopre spesso a lui ostile o indifferente. Per l’Autore è importante, perciò, stabilire se "in una sezione per semiliberi sia effettiva la presenza di una azione sociale istituzionale " e precisa che " l’azione sociale deve consistere in una sequenza intenzionale di atti forniti di senso che il soggetto agente (cioè l’amministrazione) compie scegliendo tra varie possibili alternative, sulla base di un preciso e preesistente progetto, al fine di conseguire un risultato ed in presenza di una determinata e specifica situazione che è caratterizzata, nel caso in esame, dalla presenza di altri soggetti capaci a loro volta di azione e di reazione ". (162) Per questo, secondo l’autore, andrebbe particolarmente curata la comunicazione tra i semiliberi, fra i semiliberi ed il datore di lavoro, fra i semiliberi e i congiunti, fra i semiliberi e gli operatori penitenziari oltre che la magistratura di sorveglianza, tra i semiliberi e gli operatori degli Enti Locali, tra i semiliberi e gli operatori volontari, tra gli operatori di tutte le elencate categorie, tra l’amministrazione penitenziaria, la magistratura di sorveglianza, gli Enti Locali, i mass media, le forze dell’ordine, i sindacati dei datori di lavoro e dei lavoratori. Porta ad esempio il fatto che "i detenuti, attraverso i mass media, sono oggetto di un’immagine che li definisce criminali , quando criminali essi non sono sempre ". (163) Quasi obbligatoria, dopo tanti dubbi e problemi, appare la domanda che pone Pittaro: "Nel contesto di un diritto penale minimo , quali alternative ha la detenzione? ". (164) L’Autore è cosciente che si ha a che fare con una medaglia a due facce, per cui, da un lato, va cercato il minimo malessere per i devianti, ma, dall’altro lato, deve essere considerato anche il massimo benessere per i non devianti. Pittaro propone come possibile soluzione quella di "modificare il sistema sanzionatorio elevando le misure sostitutive ed alternative (per usare la terminologia attuale) al rango di pene principali (ovviamente diverse dal carcere) in riferimento a ben precise categorie di illeciti…sia pure con l’ausilio di specifiche strutture di supporto (ad es. : i servizi sociali) ". (165) Pittaro, però, aggiunge : " Ci rendiamo conto che il vento della politica (anche criminale) ora soffia esattamente in senso contrario: ci basti sperare in una futura inversione di tendenza ". (166) Sempre nei confronti della riforma operata dalla legge 27 maggio 1998 n. 165, Maccora sostiene che la sua entrata in vigore senza la previsione di adeguati supporti organizzativi, creerà ulteriori difficoltà e problemi ad un sistema penale e penitenziario ormai al tracollo. Anzitutto, per l’Autore, ci sarà un ingolfamento degli organi demandati alla sua applicazione e non si avrà quindi una risposta in tempi accettabili. Maccora sottolinea che, nei grandi distretti, i tempi di attesa dell’udienza collegiale sono già di due anni dalla data di presentazione della richiesta. In secondo luogo, per l’Autore, "la disuguaglianza sociale sarà ancora più forte tra coloro che usufruiranno del beneficio della sospensione dell’esecuzione penale ", (167) in quanto sono proprio quelli che hanno maggiormente bisogno del sostegno delle strutture esterne (CSSA - SERT - Comunità), che, attualmente già carenti, lo saranno ancora di più. Al contrario, asserisce l’Autore, "per tutti quei soggetti autori di reati gravi anche se non inseriti nella previsione dell’art. 4- bis ord. penit. (violenze sessuali, corruzione e concussione) o per i c.d. iperintegrati (colletti bianchi) l’ammissione alla misura alternativa costituirà la regola ". (168) Maccora aggiunge che, per evitare ciò, non può essere ritenuto sufficiente neppure l’aumento di 644 unità di assistenti sociali previsto dal progetto di legge. A chiarimento di quanto sostenuto, riporta alcuni dati che risalgono al primo maggio 1998 e che si riferiscono al Centro sociale di Milano, ove sono comprese in pianta organica 32 unità. Effettivamente in servizio, però, (a causa di trasferimenti, assenze per maternità, per motivi di salute, corsi di formazione per nuovi assunti) sono 14 unità, i cui interventi nell’esecuzione di misura alternativa sono stati 5196. In tale numero sono comprese le inchieste sociali dalla libertà, l’esecuzione dell’affidamento in prova e una percentuale minima di semilibertà, mentre, per motivi di scelte prioritarie, non ci sono stati interventi dell’assistente sociale negli istituti di pena e nelle detenzioni domiciliari. Maccora parla di un’analoga situazione nelle forze dell’ordine che, se anche private della competenza di servizio di traduzione di detenuti – affidato alla polizia penitenziaria – non potranno sostenere il lavoro del controllo dell’esecuzione penale alle stesse demandato, dal momento che, sia per carenza di organico, sia per la complessità degli interventi, già non sono in grado di adempiere tutte le competenze di prevenzione loro affidate. L’augurio di Maccora, allora è che "si attui una sinergia di forze idonee a creare tutti quei mezzi e strutture che rendano possibile una esecuzione penale differenziata, personale, espressione che condanna e non dimentica. Dove non dimenticare significa anche preoccuparsi di creare le condizioni affinché certi strati di disagio sociale, di emarginazione, trovino sostegno ed un aiuto, per non compiere e ricadere in atti delinquenziali ed orientare le proprie scelte ed i propri comportamenti verso modalità di vita socialmente accettabili ". (169)
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