Intervista a Sebastiano Ardita

     

Sebastiano Ardita (Dap): "Puntiamo ai detenuti-lavoratori"

 

La Sicilia, 24 febbraio 2003


"La nostra attenzione è rivolta alla fascia medio-bassa dei detenuti, che costituisce la maggior parte della popolazione penitenziaria. E questo perché puntiamo al recupero e al reinserimento effettivo del detenuto, in modo da evitare innanzi tutto la recidiva. Di conseguenza tendiamo a organizzare corsi di specializzazione che offrano maggiori possibilità di trovare un lavoro una volta lasciato il carcere.

Ma al contempo cerchiamo di far lavorare lo stesso detenuto in carcere impegnandolo in attività regolarmente retribuite e che ne sviluppino le capacità per un più facile reinserimento nella società". È quanto afferma Sebastiano Ardita, ex sostituto procuratore della Repubblica di Catania, dal 24 dicembre del 2001 direttore dell'Ufficio dei detenuti e del trattamento del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. C'è già qualche risultato?
"Abbiamo ottenuto un incremento globale di circa il 20 per cento dell'attività lavorativa in carcere. All'interno di questa voce, scorporata da altre, il lavoro prestato a ditte esterne al carcere, il lavoro "vero" e più qualificante, è aumentato del 30 per cento. Attualmente sono circa 2.200 i detenuti che lavorano alle dipendenze di aziende esterne direttamente o tramite cooperative sociali. Questo è il settore su cui puntiamo.

Comprendiamo benissimo che il detenuto non può realizzarsi facendo lo "scopino" o il "lavorante" in carcere. Ha bisogno di svolgere un'attività che sia formativa sul piano professionale e che abbia una proiezione esterna come inizio di un cammino che potrà proseguire una volta lasciato il carcere". Quindi si volterà pagina?
"Sì, è chiaro. Il detenuto avrà comunque imparato un lavoro qualificante e la possibilità di non tornare a delinquere. Se lo farà, la responsabilità sarà frutto di una sua scelta".
E l'attività di formazione nelle carceri di quanto è aumentata? "Del 40 per cento rispetto al 2001. È un settore a cui stiamo dedicando un'attenzione specifica. Da un lato, c'è l'esigenza attuale di combattere l'ozio; dall'altro, l'esigenza in prospettiva del recupero che passa attraverso l'insegnamento di un mestiere.

Quest'ultimo è un obiettivo a lungo termine che però il Dap sta portando avanti utilizzando la cosiddetta "legge Smuraglia", una nuova normativa che incentiva l'acquisizione di manodopera tra i detenuti consentendo all'imprenditore una serie di vantaggi fiscali e previdenziali".
Quante sono le aziende che vi hanno fatto ricorso? "Poche, finora. Quando sono arrivato al Dap, mi hanno detto che per affrontare il problema del lavoro dei detenuti c'era la legge Smuraglia.

Ho cercato di capire perché non funzionava e ho scoperto che la norma giaceva tra le burocrazie ministeriali, in attesa di essere tradotta in strumento operativo attraverso i cosiddetti regolamenti attuativi, ma anche che nessuno muoveva un dito. Quindi ho convocato diverse riunioni finché, lo scorso settembre, la situazione non si è sbloccata. Da allora la "Smuraglia" è finalmente operativa.

I dati relativi al 2001-2002 sui detenuti-lavoratori rappresentano l'avvio di questa strategia. Nel 2003 i numeri saliranno. Purtroppo la "Smuraglia" ha un handicap: il budget, che attualmente è di 4 milioni di euro, prefissato anno per anno dal governo, su sgravi fiscali e previdenziali. Di conseguenza, se vorremo ottenere buoni risultati in futuro, il budget non solo dovrà essere rinnovato, ma anche aumentato".

 

 

 

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