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Idee Libere Periodico della Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano Anno III - numero 13, ottobre - novembre 2004
di Senio Sensi Lavori e valori: sembra solo un anagramma di una parola, molto usata, ma è di più. Intanto al lavoro è dedicato il primo articolo della nostra Costituzione, cosa questa che sta a significare che in esso sta il valore fondamentale del nostro Paese. "L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro" e questo assunto dovrebbe riguardare tutti, cosa questa che non sempre avviene. Del lavoro in quanto valore se n’è interessata, da sempre, l’economia con Adamo Smith, ma anche la psicologia, la sociologia, la dottrina sociale della Chiesa. Ciascuna scienza, o filosofia, inquadra il lavoro in un ambito settoriale che non sempre analizza completamente il rapporto profondo che esiste tra lavoro e uomo (o donna) che lo svolge. È l’insieme delle discipline che fornisce un quadro esaustivo del valore del lavoro e questo avviene solo se si pone al centro colui (o colei) che tale lavoro svolge. I sociologi, poi, hanno analizzato, e mai definito, il valore intrinseco del lavoro, cioè il costo, per l’impresario, di ciascuna unità operativa e – per contro – l’equo guadagno per il lavoratore. Ma in questa sede ci interessa meno… L’acquisizione di un lavoro gratificante è l’obiettivo primo dell’individuo, è il seme su cui si fonda la creazione della famiglia, è l’inserimento a pieno titolo nella società, è la garanzia di continuità del modello di sviluppo esistente in ciascun paese, è il granello di sabbia che ciascuno porta alla costruzione di un mondo migliore. Il potersi dedicare ad un lavoro è quindi già di per sé un valore e comporta, come logica conseguenza, l’affermazione di altri valori. Questo per tutte le persone libere; figuriamoci per chi è momentaneamente recluso. Nello "speciale" che abbiamo realizzato in questo numero di Idee Libere si esprimono, sul tema, alcuni reclusi e non c’è dubbio che per ciascuno di loro, ma anche per tutti coloro che vivono ristretti, uno dei bisogni primari sia proprio quello di potersi dedicare ad un’attività lavorativa. Per distogliere la mente dalla noia; per abituarsi ai ritmi della vita in libertà quando avranno scontato la loro pena; per poter essere utile a se stessi e agli altri. "Un lavoro, qualunque esso sia", è quasi una implorazione che abbiamo raccolto tra le mura del carcere. Ora se i nostri politici cesseranno di versare fiumi di parole (e basta) con le quali ciclicamente – più o meno tutti – si accorgono che esiste "il problema carceri" e si dedicheranno alla ricerca di risorse economiche per consentire, anche ai reclusi, la realizzazione di un dettato costituzionale rendendo, anche, possibile l’espiazione della pena come momento rieducativo, avranno fatto niente altro che il proprio dovere. Ma la cosa principale che manca, in questa come in altre direzioni, è la volontà e questo è un valore che non molti possiedono. (sommario)
di Pietro Accardi Come previsto dal nuovo ordinamento penitenziario, il lavoro è uno degli strumenti fondamentali per il percorso rieducativo di ogni singolo detenuto. Purtroppo è di dominio pubblico che i detenuti "lavoranti" sono una minima parte dell’"universo carcere", anche perché è impensabile che le istituzioni possano garantire un lavoro a tutti i reclusi considerando che anche qui esiste dalle piaghe perenni della società: la disoccupazione. Comunque dopo questa breve premessa, cercherò di esporre l’enorme valore che assume qualsiasi lavoro interno. Innanzitutto difficilmente si riesce ad avere un lavoro a tempo determinato sia perché nessuno di noi può ritenersi residente o domiciliato in qualsiasi istituto detentivo per svariati motivi, ma, soprattutto perché, giustamente, si opta per lavori stagionali in modo che si possa accontentare una maggior parte della popolazione detenuta. Per chi fortunatamente non è mai stato "ospite" delle patrie galere, può apparire paradossale ma per vivere in modo dignitoso in galera bisogna avere anche una pur minima disponibilità economica, assente in molti detenuti. Quindi lavorando alcuni mesi all’anno si riesce a provvedere alle proprie esigenze e con molta parsimonia si può anche mandare qualcosa ai propri famigliari. Sembra poco, ma per noi essere autosufficienti economicamente e magari poter aiutare i nostri famigliari, ci fa sentire vivi nel vero senso letterale della parola. Oltre ai punti appena analizzati, durante il percorso detentivo, grazie alle varie attività lavorative preposte, si può anche imparare modestamente un mestiere che può essere utilizzato all’esterno; come nel caso dei sarti, dei cuochi, dei giardinieri, dei fabbri, ecc. Lavorare in carcere è molto costruttivo e… in quanto ti permette di impiegare l’enorme quantità di tempo a disposizione, impari un mestiere e psicologicamente ti aiuta a non pensare alle miriade di problemi che affliggono ogni singolo detenuto. È appagante poter mettere a disposizione dei propri compagni le proprie qualità lavorative e ti rende gratificato dalla fatica che comporta. Purtroppo come quasi tutto nel contesto rimane affine a se stesso, nel senso che difficilmente le istituzioni ti consentono di riproporre il tutto all’esterno, poiché non esistono almeno per il momento, aziende, società, società statali che assumono detenuti durante e dopo il periodo di carcerazione. È scontato che la maggior parte dei detenuti non ha le possibilità economiche di poter realizzare con le proprie forze un ristorante o un stabilimento tessile, per cui alla fine della pena espiata ti ritrovi solo con una qualifica professionale acquisita. A questo proposito vorrei riproporre al Ministro Castelli che invece di costruire nuove carceri impieghi il capitolo per costruire strutture collaterali che aiutino il detenuto a reinserirsi in società, avendo almeno una certa occupazione che gli garantisca una modesta disponibilità economica. Realmente hanno legiferato alcune leggi in merito, nel senso che tutte le imprese che assumevano detenuti vengano stimolate con sgravi fiscali cospicui, ma la diffidenza e la paura regnano sovrane tra la popolazione, per cui nell’era della tv digitale non si riesce a trovare una adeguata soluzione a questo problema, che affligge almeno 50.000 esseri umani. Spero che in breve tempo coloro di competenza si rendano conto dell’enorme necessità e che le coscienze dei "regolari" vengano rimosse dal buon senso, altrimenti si rischia un fallimento totale da tutte le parti; ma soprattutto da parte delle istituzioni che investano, a loro dire, tanto per il lavoro come strumento di rieducazione per i detenuti. (sommario)
La redazione Si parla tantissimo, giustamente, del lavoro all’interno degli istituti detentivi come un mezzo principale ed efficace per la rieducazione del condannato, che inoltre impara una professione, impiega il tempo in modo costruttivo e guadagna qualcosa che gli consente di acquistare a malapena i generi di forte necessità. Questo potrebbe far pensare, erroneamente, che tutte le attività lavorative interne sono retribuite, invece, alcune sono svolte a titolo gratuito, potremmo dire di volontariato. Per esempio, i bibliotecari, i ragazzi che si occupano della manutenzione degli impianti, noi componenti della redazione di Idee Libere etc… Sinceramente questi lavori non sono meno impegnativi degli altri, anzi, sono alcuni di quelli che offrono direttamente i servizi alla popolazione detenuta, ma per carenza di capitoli non sono retribuiti, quindi vengono svolti con molta passione da alcuni detenuti. Sarei un puro ipocrita se sostenessi che non abbiamo nessun tipo di retribuzione, poiché il volontariato, l’aspetto personale, appaga molto, poiché permette d’impiegare il tempo in attività piacevoli, d’imparare anche l’utilizzo del computer, di crescere culturalmente e socialmente, confrontandoti innanzitutto con te stesso e quindi evitando di oziare e sprecare il tempo a disposizione in modo distruttivo. Per quanto ci riguarda svolgiamo il nostro lavoro all’interno della redazione con molto impegno e piacere, poiché innanzitutto è un lavoro che ci consente oltre a rapportarci tra di noi, anche con l’ambiente esterno tramite la persona encomiabile del nostro direttore esterno e grazie agli articoli che provengono da varie personalità. Come detto poc’anzi, non veniamo retribuiti economicamente, però vi posso assicurare che sotto l’aspetto personale è molto arricchente, nel senso che riuscire, alla nostra età con tutti gli annessi e connessi della reclusione, a scrivere un articolo chiaro e leggibile, da molte soddisfazioni. Mentre componevo questo scritto, riflettevo su alcune dichiarazioni rilasciate dagli organi istituzionali, dopo la protesta di Regina Coeli, che proponevano di vendere le vecchie strutture carcerarie in modo da investire i soldi recuperati nella costruzioni di nuove carceri alle periferie delle città e di privatizzare alcuni settori lavorativi interni tipo: la cucina, la lavanderia etc… Ignorantemente mi chiedo: dove andrebbero a lavorare i detenuti? Forse li assumerebbe la ditta appaltatrice? Non nascondo che ho molti dubbi in merito, però ho una certezza!! Per noi lavoranti "volontari" non ci dovrebbero essere cambiamenti, anche perché il nostro corrispettivo economico è equivalente a zero, per cui siamo immuni dall’evoluzione "commerciale". Dal carcere, dunque, possiamo continuare a svolgere un lavoro piacevole, che ci appaga tantissimo personalmente. In merito, colgo l’occasione per informare la popolazione detenuta che a breve si effettuerà una selezione per ampliare ulteriormente la redazione di Idee Libere, per cui coloro che sono interessati possono inviare la richiesta presso la direzione del carcere e degli scritti in redazione in modo che il responsabile esterno possa fare un’accurata selezione, senza alcun pregiudizio. Grazie . (sommario)
di Ndreja Ferdi Per noi detenuti passare il tempo fuori cella impegnati a far qualcosa è molto importante. La maggior parte di noi passa le giornate a non far niente (ma non per propria scelta), tranne qualche attività sportiva per proprio conto, come correre all’ora d’aria, o a giocare al pallone nel campo sportivo il giorno che tocca alla nostra sezione o a farsi qualche partita a carte. Solo una piccola parte di noi frequenta qualche corso, va a scuola, partecipa alla attività teatrale o lavora un paio di volte all’anno (in quanto siamo in tanti e non c’è lavoro per tutti, e quel poco lavoro che c’è si fa a rotazione). Per di più nelle carceri d’Italia per quasi la metà ci sono detenuti stranieri, i quali oltre ad avere gli stessi problemi dei detenuti Italiani (sotto elencati), ne hanno qualcuno in più: come il problema di avere le famiglie molto lontane, con parenti e amici che non vedono da tanto, troppo tempo. E poi la nostalgia del proprio paese, della lingua madre, degli aiuti famigliari: visivi, affettivi ed economici e del diverso trattamento che riceviamo al momento che siamo nei termini per i benefici: permesso, affidamento e semiliberta. Così che per noi la carcerazione diventa ancora più pesante di quanto non lo sia già. Come avrete gia capito, per noi detenuti, per i nostri bisogni quotidiani, per la nostra salute, abbiamo bisogno di un po’ di cose, che per noi sono fondamentali. Noi abbiamo la necessita di telefonare a casa, di corrispondere tramite posta con i nostri cari, di avere lo stretto necessario per condire il mangiare (che l’istituzione ci porta), avere lo shampoo e il sapone per lavarsi, avere i detersivi per lavare i piatti, i panni e la cella dove viviamo, ecc. ecc. La direzione ci aiuta come può, gli assistenti volontari anche, ma siamo in tanti ad avere bisogno d’aiuto e loro non ce la fanno ad aiutare tutti noi. Per questo e per altri motivi, secondo il mio modesto parere, ci sarebbe bisogno di trovare il modo di farci lavorare tutti e con lavori permanenti, come altri paesi dell’Unione Europea sono riusciti a fare. In questo modo noi, invece di chiedere un aiuto ai nostri familiari (e in qualche caso "raro" diventare un peso per loro), possiamo provvedere da soli al nostro mantenimento e dare viceversa una mano ai nostri cari, mandando i nostri risparmi. Sarebbe anche il modo giusto per il nostro recupero e inserimento nella società, una volta scontato la pena, in quanto la maggior parte di noi si trova in carcere, perché non c’èra la voglia di lavorare e si cercava il guadagno facile. In questo senso il carcere sarebbe servito a migliorare. Se ci fosse la possibilità di poter lavorare con un lavoro duraturo, allora oltre ad aiutarci a mantenerci da soli, sarebbe anche il modo giusto per metterci in testa certi valori e la possibilità di recuperarci come uomini e cittadini, in modo che in futuro non si commettano più gli stessi errori. (sommario)
di Francesco Seminerio È passato un anno "stessa spiaggia stesso mare", nel senso che nessuno si è posto il problema di come vivono la stagione estiva gli abitanti del pianeta carcere. È assolutamente indecoroso che si spendano tante parole in favore degli animali che, incivilmente sono abbandonati, quando gli organi istituzionali abbandonano al loro triste ed afoso destino i detenuti. Il primo agosto 2003 veniva approvato l’indultino, che a parere dei legislatori doveva servire a diminuire il sovraffollamento nelle carceri. È assodato che questa legge ha dato risultati insoddisfacenti per diversi motivi. Innanzitutto è una legge che è applicata solo su richiesta del condannato che deve scontare una pena o un residuo pena di due anni. Questo naturalmente solo ipoteticamente, nel senso che se ne può fare richiesta quando il condannato, appunto, deve scontare i due anni, quindi dopo si avvia tutto un processo burocratico che non termina nei migliori dei casi prima di 3/4 mesi; quindi alla fine mancano da scontare non 24 mesi ma, bensì 20/21 mesi. Tutto quest’iter farraginoso non è affatto anomalo, poiché invece oltre alla mole di lavoro che hanno i magistrati di Sorveglianza, hanno aggiunto quest’altro incarico, quando poteva applicarlo in automatico, sempre su richiesta del condannato, la Procura. Dalle ultime notizie riportate dai media in un anno, i detenuti che hanno beneficiato del "decreto svuota carceri" sono non più di 5600, cifra assolutamente insoddisfacente! Queste mie riflessioni sono supportate dalle dichiarazioni di notevoli personalità del ministero di Giustizia, che hanno dovuto accettare che i problemi del carcere sono aumentati, invece, di diminuire. Come se non bastasse dall’ultima finanziaria, sono stati tagliati capitoli per le carceri italiane, quindi si sta percorrendo la strada verso l’oblio totale. È assolutamente incivile considerare i detenuti come numeri, quindi alla fine se una legge non ha il successo preventivato, o, si vive in pochi metri quadrati in 7/8 persone in piena estate, non ha nessun’importanza. Se qualcuno pensa che queste parole sono dettate dalla rabbia repressa, non si sbaglia affatto!!! Basta, basta, con queste emarginazioni, siamo esseri umani in tutti i sensi, stiamo pagando con dignità il nostro debito con lo Stato e pretendiamo di essere rispettati come previsto dalla Costituzione. È totalmente invivibile il carcere sovraffollato in estate, ed invece di litigare in Parlamento, o legiferare leggi in merito al piercing per i minori, si pensi anche a coloro che nel 2004 vivono in totale abbandono dello Stato che li ha condannati. Sicuramente questo è l’unico modo utile per non rieducare il detenuto e renderlo sempre più simile ad un animale ferito e rabbioso. Il dottor Sebastiano Ardita, il magistrato del DAP che dirige l’ufficio trattamentale per i detenuti, in un’intervista sul Corriere della Sera ha detto queste testuali parole: "In Italia la funzione penale è esercitata a tappeto. E i benefici di legge non funzionano per i poveracci, le nostre carceri sono piene di gente povera che sconta reati banali". Sinceramente queste parole si commentano da sole! Vi posso assicurare che come UOMO detenuto, mi sento tremendamente umiliato e spero che qualcuno si sensibilizzi a quest’enorme problema che affligge e rende rabbiosi 56000 detenuti. Almeno speroooo… (sommario)
di Salvatore Sottile Come sempre, allo scoccare delle sei in punto, apro gli occhi. Mi è sempre piaciuto veder nascere l’alba, sentire quell’aria fresca che ti tocca il viso l’ho sempre preferita all’acqua gelata, già, è proprio l’alba. Mi affaccio alla finestra e lascio che i miei occhi carpiscano, in lungo e in largo, i movimenti di ogni cosa che la natura offre. Gli uccelli, a volte soavi nel loro cinguettio, a volte chiassosi perché è la vita che pulsa nel loro cuore manifestando nell’aria tutta la loro libertà. Continuo a scrutare con i miei occhi pieni di voglia l’immenso che ho dinanzi a me, livide colline mi scolpiscono un panorama meraviglioso. Tra i campi di grano ed alberi verdi si perdono meravigliosamente i miei pensieri. Un leggero vento fresco si abbraccia alla mia pelle ma non riesce a frenare la mia memoria che corre alle scampagnate fatte con la famiglia, bambini felici che rincorrono un pallone disteso su un prato a fissare il cielo, aspettando invano che passi una nuvola. Quante cose vedo alla finestra della mia stanza non volgo lo sguardo dietro di me; conosco a memoria la realtà di ciò che mi circonda, continuo a guardare avanti e lascio che i miei occhi e la mia mente si impadroniscano ancora di quello spazio immenso che ogni mattina presto cerco di scoprire. Mi perdo in quella irreale realtà lasciando che la mia anima viva ciò che il mio corpo non può e non importa se ciò durerà quanto un solo respiro. L’ alba muore, ma rinasce e con essa anche io rinasco; è il gioco della vita ed io ci sono dentro. Una rondine vola davanti a me: tra il suo sbattere d’ali corre la mia libertà ed anche io volo, lontano, fuori da uno spazio opprimente senza colore né calore via, via, lontano… L’alba sta svanendo, i raggi del sole fanno capolino, ma le mie mani sono ancora fredde. Conosco la causa: non c’è nulla che possa scaldare le fredde sbarre di ferro che ornano la mia finestra. Già, la finestra di una cella. (sommario)
Sembra un paradosso, un controsenso: possibile che nell’era del benessere sempre più diffuso, la gente abbia più paure di quante ne avesse quando non sapeva cosa mettere in tavola?
di Enzo Falorni È venuto il momento di misurare il benessere di una nazione non solo col PIL (Prodotto Interno Lordo) o con la produzione industriale. A questi due tradizionali parametri ne vanno aggiunti altri, come il tasso di alfabetizzazione, le aspettative di vita dei cittadini e le percezioni che essi hanno di essere o meno felici. I Paesi industrializzati tutti indistintamente, sono grandi divoratori di tranquillanti, il tasso di alcolismo ha raggiunto livelli di guardia, i suicidi aumentano di anno in anno. Il benessere diffuso sembra non garantire la felicità. Eppure il diritto alla felicità, che gli americani hanno addirittura inserito nella loro costituzione dovrebbe essere un punto cardinale. Studiosi di sociologia e psicologia stanno analizzando da anni questo malessere che sembra essersi impossessato delle civiltà occidentali e quasi tutti concordano nell’affermare che è la mancanza di certezze, materiali e morali, che fa ammalare le persone di ansia. Sembrerebbe un paradosso, un controsenso: Possibile che nell’era del benessere sempre più diffuso la gente abbia più paure di quante ne avesse quando non sapeva cosa mettere in tavola? A ben pensarci non è poi così strano. In genere il cibo non manca, è vero, come non mancano case confortevoli e tanti elettrodomestici che allevano la fatica fisica. Ma è diffusissima la coscienza che basta un nulla per mandare all’aria la vita ordinata di ogni giorno. Un incidente, la perdita del lavoro, sono vere tragedie per la maggior parte delle famiglie. Le ricerche di mercato dicono che il 40 per cento delle famiglie riesce ancora a risparmiare, anche se in misura minore rispetto al passato, un 30 per cento arriva a fine mese alla pari: né risparmi né debiti. Solo un 30 per cento fa debiti. Ora se prendiamo in considerazione il secondo gruppo è facile intuire come si senta a rischio. Ce la fa, ma sa che da un momento all’altro potrebbe non farcela più, il suo benessere è precario. Il terzo gruppo è chiaro che accumula stress, anche perché, dice sempre il ricercatore, mentre il mutuo non viene percepito come debito, ma come risparmio, perché in caso di necessità c’è sempre una casa, sia pure non interamente pagata, da offrire come garanzia, le rate dell’auto, che può sfasciarsi da un momento all’altro prima ancora di essere pagata interamente, pesano molto, per non parlare dei prestiti per cure varie specialistiche. Se poi il debito viene contratto per far fronte alle spese di riscaldamento o se si vive nel timore che ti stacchino il telefono perché non hai saldato la bolletta, si finisce per non dormire più e si fa ricorso ai tranquillanti. Forse più che di felicità sarebbe qui il caso di parlare di serenità, di tranquillità. La paura del domani è logorante e assorbe tutte le energie, impedendo a troppe persone di progettare, creare, e perché no, di sognare. Quando invece ce ne sarebbe tanto bisogno per portare un poco di equilibrio nelle nostre vite vissute troppo di fretta. Uno Stato moderno per potersi definire realmente tale deve inserire fra gli indicatori dello sviluppo e come ricchezza potenziale del Paese "quel che ciascuna persona può realmente essere e fare", e mettere in moto tutti quei meccanismi che le consentono di realizzarsi. Non è un’utopia, o meglio, potrebbe non esserlo più se i politici ascoltassero gli economisti - sociologi, che ormai sempre più numerosi si stanno schierando su questo fronte. Ridere, amare, godere della natura, tornare a socializzare con gli abitanti della stessa via, dello stesso quartiere, come si faceva una volta, quando si viveva in paese o in piccole città a misura d’uomo, dove tutti conoscevano tutti e alla sera ci si trovava in piazza a scambiare quattro chiacchiere e l’uno sapeva delle difficoltà dell’altro e se si poteva lo si aiutava o altrimenti ci si consolava paragonandole con le proprie. Non si tratta di rimpiangere un passato che evidentemente non può tornare e che comunque aveva le sue pene, ma di recuperarne la parte buona e adattarla al presente per migliorarlo. L’economista e la filosofia stanno dicendo ai governanti di mettere in campo le riforme giuste, quelle che danno veramente a tutti uguali opportunità e di creare ombrelli che riparino i più deboli se non dalla pioggia almeno dagli acquazzoni, ma dicono anche che il resto può essere fatto da ciascuno di noi, purché ce ne sia data l’opportunità, convinti che si lavorerebbe addirittura con maggior entusiasmo se si sapesse che l’impegno di ciascuno non contribuirà solo ad innalzare il PIL, ma soprattutto la qualità della nostra vita. (sommario)
di T. M. Il mio ricordo di quei giorni "bui", e il dolce sapore che si espandeva su tutto il mio palato, e, sì, era come una caramella che più ne mangi e più ne vorresti, dove solo con il tempo scopri gli effetti di quel "dolce" che in realtà è "veleno", perché lui s’insinua nel tuo corpo inebriandolo a tal punto, che si impossessa della tua mente distruggendo ogni tua volontà, pensiero e ti porta ad essere un automa. Lo scopo suo è proprio quello di renderti senza pensiero. Uno solo te ne resta: le ore in cui il dolce "veleno" ti viene a far visita e, il tempo, i tuoi pensieri, sono rivolti a quelle distinte ore in cui speri che passino veloci, ma allo stesso tempo, speri che durino il più a lungo possibile. Più i giorni passano, più il dolce "veleno" si impadronisce di te e ti fa arrivare a quel punto che è quasi impossibile farne a meno. Poi, quasi per caso, conobbi lui, sì proprio lui, il famoso "fratello Lupo" cioè fra Beppe Prioli. La mia "luce": proprio così. Proprio lui, il frate pellegrino dei penitenziari d’Italia, l’amico dei "lupi", cioè dei detenuti e non solo. Sì, se io non avessi conosciuto il "Beppe" e tutta le sua bontà, la sua forza di spirito e volontà che sa ammagliarti, coinvolgerti, che ti fa partecipe di un disegno di carità, bontà, altruismo e volontà avrei perduto la speranza e la forza per combattere: sì, combattere è il termine appropriato, perché da quando il Beppe mi ha trasferito la sua forza, io sono riuscito a vincere un male che credevo ormai facesse parte di me per sempre. Per mia fortuna non è andata così, i mali che noi possiamo sconfiggere, con la volontà, sono tanti: basta volerlo. Oggi sono un altro: più saggio, più riflessivo e, soprattutto, più responsabile. Però sono consapevole che la mia strada è ancora lunga e piena di ostacoli, ma non per questo mi farò sconfiggere. Lottare e arrivare al traguardo prefissomi, sarà la mia ragione di vita. Il Beppe… è proprio un "Lupo Grigio". Lui ha saputo indicarmi il cammino e lo ha fatto con una delicata, morbida e dolce carezza, che così piccola ha saputo e sa darmi tanta forza. Sì, lei è la mia bambina, la vera luce dei miei occhi, la mia forza. Così uscii dal "Buio" e ritrovai la Luce. Grazie a fra Beppe e a tutta la Fraternità, che ancor oggi mi segue. Grazie! (sommario)
Un obiettivo da raggiungere, una previsione altamente positiva
di Salvatore Ragusa Giornalmente il nostro primo pensiero va a quando riacquisteremo la libertà, anche se lontana. A quella porta così vicina, ma anche così lontana, che ci separa dal mondo esterno. Va da sé che il secondo pensiero corre all’attesa della risposta alla nostra richiesta di concessione del permesso. Forse almeno soltanto per spazzare il nostro tempo sempre uguale, sempre grigio, scandito dalla monotonia giornaliera, in particolare quando riteniamo di essere meritevoli di ottenere un premio conquistato e non si ottiene. Dopo un congruo periodo di detenzione, il detenuto viene posto dinanzi alle proprie responsabilità, messo nelle condizioni di ribadire le proprie scelte ed evidenzia anche i propri bisogni da soddisfare per "costruire", per ottenere un nuovo luogo e spazio sociale con i permessi premio. Essi sono il primo contatto che si riprende con l’ambiente esterno, che consentono di costruire un legame che a sua volta facilita la costruzione di un programma avviandolo a soluzioni concrete attraverso di essi. Consentono inoltre di risolvere i problemi dell’affettività che è il cardine della vita per ogni persona, creando le condizioni favorevoli risocializzanti ed hanno una grande influenza psicologica e morale. Avviata la questione della legittimità della richiesta del beneficio invocato (maturazione dei termini per proporla) va esaminato il merito della domanda avendo solo ed esclusivamente riguardo alla condotta tenuta durante tutto il periodo dell’espiazione. Nessun elemento esterno può introdursi al fine di esprimere un giudizio che la legge non richiede, ma esclude, come il residuo pena molto lungo, che è vizio di motivazione, che male si spiega con la possibilità di accedere ai permessi che viene data agli ergastolani dopo aver scontato dieci anni di pena. Sommariamente si è soliti parlare di "buona condotta", concetto elaborato dalla giurisprudenza e alla iniziale affermazione secondo la quale si sosteneva dovesse intendersi come semplice "regolarità del comportamento"; in seguito si è inteso progressivamente qualificarne il profilo in maniera più precisa e cioè con la partecipazione attiva a tutte le iniziative del programma di trattamento, manifestando costante senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale, nelle attività organizzate negli istituti, lavorative e culturali dimostrando assoluta maturità. Ai fini della concessione del permesso premio sono già bastevoli le valutazioni fatte con la concessione della liberazione anticipata, per il periodo di pena scontata. E sia comunque ben chiaro che l’ultima parola spetta al Magistrato competente, che con una valutazione globale può prendere in considerazione l’accoglimento della richiesta, applicando le regole della logica e perché no, anche un po’ di cristiana umanità (non richiesta dal codice), saprà dar voce alla "ragione ragionevole" che qui per noi si identifica nella necessità di poter coltivare rapporti affettivi con i familiari non perfettamente regolarizzabili con le telefonate settimanali e per mezzi epistolari e per un migliore reinserimento. (sommario)
Piccola storia di un esame e di una crescita in atto
di Francesco Seminerio Lo scorso maggio dopo un giro vertiginoso d’autorizzazioni e di procedure, il sottoscritto assieme ad un altro detenuto, ha sostenuto degli esami da privatista per acquisire la qualifica d’operatore della ristorazione. Sintetizzando, da anni entrambi stagionalmente lavoriamo con la mansione di cuoco presso la cucina detenuti di Ranza, quindi incentivati dalla voglia di riscatto e credendo fermamente in un futuro migliore, ma soprattutto diverso, abbiamo deciso di "legalizzare" la nostra professione, in modo da poter continuare a crescere anche professionalmente e da avere un titolo professionale da spendere in futuro nel mondo del lavoro. Sarà paradossale e, per alcuni sciocco, ma abbiamo vissuto il periodo pre-esame con molta ansia, come se da quella prova scolastica dovesse dipendere la nostra esistenza. Sinceramente posso affermare, che nonostante le condizioni in cui mi trovo e il materiale che avevo a disposizione, mi sono impegnato moltissimo assieme al mio compagno di "sventura" e d’esame. È stata una esperienza importantissima sia perché ci siamo confrontati professionalmente con persone preparatissime, ma soprattutto sotto l’aspetto umano. Il primo giorno d’esame abbiamo sostenuto la prova pratica, il secondo, la prova relazionale e il terzo la prova orale su tutte le materie. I professori sono stati di una cortesia unica e di una disponibilità quasi inverosimile. Immediatamente ci hanno messo a nostro agio e senza alcun’esitazione ci hanno trattato da "normali" alunni che dovevano sostenere un esame per acquisire la qualifica, ignorando il luogo in cui ci trovavamo e purtroppo il nostro attuale stato. Dopo un po’ di tempo abbiamo ricevuto la notizia che l’esame era andato bene e che eravamo stati promossi. Da quel giorno respiriamo e aspiriamo un "nuovo odore celestiale" che ci stimola maggiormente a credere nel nostro riscatto e soprattutto ci ha dimostrato materialmente che almeno una parte della società non ci considera "soggetti da evitare" ma esseri umani comuni, da valutare ed apprezzare per le proprie qualità personali e nella fattispecie professionale e culturale. Questo evento potrebbe ripetersi nel prossimo futuro poiché alcuni di noi, udendo il prosieguo della prova scolastica e il comportamento lodevole degli insegnanti dell’Istituto Enriques, potrebbero tentare l’impresa impegnativa il prossimo anno e credo che questa sia una vittoria per tutti, detenuti e rappresentanti delle istituzioni; e soprattutto dimostra che facciamo parte tutti della stessa società. Concludendo è doveroso ringraziare particolarmente il preside e i professori dell’istituto alberghiero di Castelfiorentino e tutti quelli che hanno permesso ciò, poiché dopo anni di detenzione con la loro sensibilità ci hanno permesso di assaporare un gusto succulento a Ranza. Grazie! (sommario)
"Raccogliersi" e recuperare il significato di vita interiore.
di Enzo Falorni C’era una volta il Pudore. Era un’evidenza e un mistero, una virtù, una forza, una risorsa. Il pudore è un istinto di autoconservazione, di protezione contro tutto ciò che può minacciare l’intimità e la dignità dell’individuo. Non si riferisce soltanto alla sessualità, ma a quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte "discreta", "singolare", "privata", "intima" di ciascuno di noi. È insomma la sentinella della piccola fortezza interiore, del giardino segreto dove la persona è veramente se stessa. Il pudore è un tentativo di mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri. Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che vuole la pubblicizzazione del privato, perché in una società consumistica, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate. Si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, per cui, tra uomini e merci, il mondo è diventato una "mostra", un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non visitare perché comunque ci siamo dentro. Quel che vale per le merci, infatti, vale anche per gli uomini che, avendo rinunciato per le esigenze conformiste della nostra società alla loro specificità, sostituiscono l’individualità mancata con la pubblicità dell’immagine. Ciò produce una metamorfosi dell’individuo che ormai si riconosce solo nella propria immagine e perciò non cerca più se stesso, ma la costruisce. Accade però che la parola pubblicitaria, oltre ad abolire la parola segreta, quella intima, quella nascosta, relega in un angolo, dove dominano il raccoglimento e il silenzio, ma forse anche la solitudine, le parole di preghiera, le parole d’amore, le parole d’amicizia, le parole di rabbia, le parole umane. Conformismo e consumismo stanno portando a termine la loro opera, sgretolando a suon di trasmissioni televisive, confessionali laici e riviste per adolescenti che con sempre più insistenza irrompono con "indiscrezione" nella parte "discreta" dell’individuo. Questo allo scopo di completare la loro opera, non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private. Cosicché è lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, secondo quei tracciati di "spudoratezza" che vengono acclamati come espressioni di "sincerità", perché in fondo: "non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi". Le uniche cose di cui ci si vergogna finiscono per essere il dolore, la malattia, la povertà: proprio quelle che invece avrebbero bisogno di conforto, solidarietà e partecipazione affettiva. Il resto è da mostrare, esibire, pubblicizzare. Ancora meglio se si tratta di esagerazioni, irregolarità, anormalità. Dopotutto è una questione di spettacolo. (sommario)
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