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IdeeLibere Periodico d’informazione della Casa di Reclusione “Ranza” di San Gimignano - Siena
Anno I - N° 1 ottobre - novembre 2002
Riprende la pubblicazione del Periodico di Ranza con una nuova veste grafica, rubriche, e tante altre novità
Inizia una nuova esperienza informativa a cura di una redazione formata da detenuti che, per alcuni mesi, hanno partecipato ad un corso di giornalismo tenuto dal giornalista pubblicista Dr. Senio Sensi che dirige questo "foglio". Forze fresche e preparate, ansiose di parlare ad un pubblico vasto e desiderose di farsi leggere. IdeeLibere nasce anche grazie alla esperienza - durata un bel po’ - che abbiamo fatto con "L’Informatutto", un periodico a diffusione interna che si era guadagnato un suo spazio per merito della volontaria Vittoria Cogliandro e degli altri volontari della Misericordia di Siena, cui va il nostro sentito grazie. Non ci sono motivi nascosti nella cessazione della precedente "testata": c’era la necessita di una attenta riflessione sulla strada percorsa e su quella, nuova, che volevamo iniziare; c’era il bisogno di migliorare la veste grafica – al passo con i tempi – e di rivolgersi ad un pubblico più vasto; c’era la volontà di allargare il numero dei collaboratori esterni e di porsi obbiettivi più ambiziosi. Da queste considerazioni nasce IdeeLibere, grazie all’aiuto convinto della Direzione, nelle persone soprattutto del Dr. Luigi D’Onofrio, direttore della Casa di Reclusione di Ranza e della Dott.ssa Amelia Ciompi, direttore dell’area pedagogica. Contiamo sull’apporto di idee, di esperienze, di suggerimenti di coloro che vivono la nostra esperienza, ma anche di personalità del mondo giornalistico, di giudici, politici, amministratori. Insomma di quanti sono interessati all’"universo detenzione" i cui bisogni crescono in maniera esponenziale, sia in riferimento all’aumentato numero di detenuti (raddoppiato in pochi anni), sia in riferimento alle loro condizioni di vita ed a quelle di coloro che operano all’interno. Condizioni che, al di là delle promesse e dei programmi sempre disattesi, meritano ormai un impegno serio da parte di chi ha la responsabilità di un settore così delicato che, ad ogni momento, rischia di esplodere. La nostra rivista, che con gli aiuti – anche economici – promessi ha speranze fondate di crescita, vuole rappresentare un momento di dibattito e vuole sensibilizzare una opinione pubblica più vasta sui tanti problemi che affliggono il nostro mondo. Non un insieme di doglianze e lamentela ma invece una voce propositiva e costruttiva. Questo è il nostro impegno. Enzo Falorni
Da qualche tempo nel nostro Paese si sono verificati fatti di inaudita violenza, che mi hanno fatto riflettere, non poco, sul mancato rispetto dei diritti umani; mi riferisco alle spedizioni punitive avvenute sia in piazza (vedi Napoli e Genova) che in carcere (vedi Sassari). Mi soffermerò su quest’ultimo aspetto della questione perché anch’io sono un detenuto e questo mi ha permesso di sentire il racconto di tanti miei compagni che hanno subito questo genere di violenza. Questi fatti hanno portato alla luce ciò che accade spesso nelle carceri. La conferma l’abbiamo avuta dall’ennesimo rapporto dell’associa-zione "Antigone" sullo stato di detenzione in Italia, da dove emerge che ci stiamo avviando verso una legittimazione della tortura, per il semplice fatto che i numerosi procedimenti penali sono tutt’ora irrisolti. Credo sia arrivato il momento di introdurre nel codice penale il reato di tortura poiché in Italia, si verificano cose inammissibili, che in un qualunque paese democratico sono ritenute inaccettabili. L’Italia è stata richiamata più volte da organismi internazionali perché colmi questa lacuna. La nostra classe politica, pur avendo recepito la necessità di adeguare il nostro ordinamento giuridico e valutando le varie proposte di legge presentate in Parlamento, che non vengono discusse perché non sono così importanti da consentire direttamente in commissione la corsia preferenziale. È chiaro che la perseguibilità di questa pratica che definirei disgustosa e che lede la dignità delle persone e più ancora dello Stato, non può essere affidata alla querela di parte. Le vittime -nel caso si tratti di detenuti- sono spesso condizionate da fattori esterni, come ritorsioni e altre pratiche a cui vengono continuamente sottoposti. Il divieto di tortura è un principio elementare di tutte le norme internazionali: si spera che l’Italia, patria del diritto, velocemente si adegui.
Francesco Cascone
Il Carcere duro a proposito di 41 bis
Studiando diritto, ho imparato, che lo Stato deve tenere conto di un possibile recupero del condannato. In altri termini, si dovrebbe comportare come un buon padre di famiglia, che correggendo il suo figliolo, anche con un forte rimprovero, per la manchevolezza effettuata, è pronto a perdonarlo una volta compreso che la punizione ha portato all’effetto voluto. L’azione penale di uno stato forte non deve essere coercitiva e afflittiva, ma deve tendere al recupero di tutti i soggetti detenuti e non solo a qualche categoria. E’ storia di questi giorni, della polemica che ormai dura da decenni, sul famoso e alquanto sconosciuto, ai non addetti ai lavori 41 BIS,
carcere duro
A prescindere, che io non conosco, nonostante abbia vissuto circa dieci anni nelle patrie galere una forma di detenzione morbida, non comprendo come il vietare le basilari norme affettive possa aiutare un condannato a percorrere quel percorso trattamentale d’introspezione e valutazione critica sul suo operato, che dovrebbe portarlo a diventare in futuro un uomo diverso dal precedente. Si tende ad isolare questa categoria di detenuti definendoli a priori irrecuperabili e questo mi pare fuori d’ogni logica giuridica e morale. Certo è più facile considerare queste persone rifiuti della società e isolarli il più possibile, per farli dimenticare e dimenticarsi di loro. Ma la giustizia non può essere questa, finché ci potrà essere la speranza di recupero, anche per un solo condannato di questo tipo di reati, si dovrà adoperarsi perché ciò avvenga. Siamo stati per moltissimi anni la culla del diritto mondiale e i nostri codici erano presi ad esempio da altri stati, fin quando non abbiamo copiato quanto di peggio vi è nel sistema penale e penitenziario americano; non resta che applicare la pena di morte, poiché quella virtuale un po’ esiste, con l’applicazione di questo regime che tiene poco conto della persona restituendo violenza alla violenza e non considerando che le norme in uno stato di diritto le applicano le istituzioni preposte, ma nel nome del popolo italiano.
Antonio Morabito
Avrò avuto più o meno 16 anni quando la sera, con la moto, mi recavo da Guardavalle Superiore a Guardavalle Marina. La distanza tra questi due frazioni è di circa 5 chilometri. Siamo in riva al mare, cosicché nel periodo estivo è pieno di turismo e c’è vita, specie sul lungomare dove un via vai di gente passeggia avanti e indietro. Non meno gente passeggia sulla spiaggia, dove, fra l’altro, ci sono due "Lidi" con annessa discoteca aperta fino alle ore piccole del mattino. Ci sono anche tre campeggi, uno Internazionale. Lascio immaginare: scambiavo la notte con il giorno, e il giorno, a volte, quando non andavo a lavoro, facevo notte. Un giorno, al ritorno, mi sono fermato in una piccola azienda di famiglia in campagna, dato che avevo fatto le ore piccole, e, non volevo sentire i miei genitori brontolare. Appena ho fermato la moto, ho sentito dei lunghi muggiti provenire dal recinto del bestiame poco distante dalla casa. Mi avvicino al cancello del recinto e noto, sdraiata per terra, una mucca che si stava sforzando per far nascere il suo vitellino. Era il suo primo parto, e aveva bisogno dell’aiuto di un veterinario; infatti non riusciva a partorire. Ho deciso di dare il mio contributo; così ho preso una corda e, con questa, ho cercato di prendere i piedi del vitellino e legarglieli per aiutare la madre, mentre spingeva per farlo uscire fuori. Purtroppo, non ci sono riuscito. Ho anche provato con le mani, cercando sempre di tirare fuori il vitellino, ma sono stati dei tentativi inutili, anche perché, le mani, mi scivolavano il quel liquido che fuoriusciva dalla mucca. Quando una mucca partorisce, i piedi del vitellino sono i primi che spuntano fuori, poi, il davanti contemporaneamente alla testa. In questo parto, però, le cose si facevano difficili, perché quando stavano per uscire i piedi del vitellino, la parte superiore compresa la testa, non andava né avanti né indietro, e la mamma dopo tanti sforzi, non aveva più la forza necessaria per partorire. A quel punto ho capito che si stava perdendo del tempo prezioso e chiamare il veterinario era troppo tardi, quindi ho cercato, ancora, di fare da me. La prima idea che mi è venuta a mente, è stato di prendere il trattore e avvicinarmi alla mucca; ho agganciato la corda che teneva legato i piedi del vitellino al trattore stesso, poi, quando vedevo che la mucca dava delle piccole spinte per partorire, l’aiutavo avanzando - a colpetti - col trattore. Alla fine con questo simultaneo aiuto, la mucca ha partorito. Poi, con degli stracci ho asciugato il vitellino finché la sua mamma non si è alzata ed ha cominciato, lei, a leccarlo ed asciugarlo. Tutto ciò è stato per me una esperienza straordinaria quanto inattesa. Sono stati anni in cui è accresciuto in me il desiderio di studiare da veterinario e intraprendere questa professione che mi avrebbe permesso di curare e stare vicino agli animali … miei amici.
di Domenico Vitale
Forse sono proprio io, apparentemente restato in vita, ad essere morto, assente, chiuso nel limite temporale del ricordo e prigioniero della finzione dell’esistenza. La mia gabbia la conoscete. Corridoi senza fine, sbarre, mura alte. Lo sguardo che si perde…nessuno che ti sorride, nessuno che ti chiama, ognuno barricato nel suo doloroso silenzio. E poi le tonalità di grigio, il rumore delle chiavi, l’odore del caffè ed altro ancora. Questa è la mia gabbia! Visibile, concreta, autentica. Io appartengo al nucleo di un mondo infelice. Un nucleo che non è fatto solo di sbarre, bensì di gabbie invisibili, ancora più strette e soffocanti, che stritolano l’ambizione, la libertà, l’intelligenza. Chi di voi là fuori non si è mai sentito in gabbia? Chi può condividere la sensazione di prigionia, d’inadeguatezza e infelicità? Forse fai parte di coloro che, al lavoro come in famiglia, devono sottostare alla gente richiedente, pretendente e arrogante. Forse sei uno dei tanti adolescenti in crisi che abusano d’alcol, droghe e quant’altro in un estremo tentativo d’emancipazione, di sfida verso il mondo degli adulti. La conosco quella gabbia, sai? L’ho respirata quell’aria densa d’insicurezze, rabbia, paura e solitudine. Oppure, sfortunatamente, sei uno di quei bambini ai quali dovrebbe essere garantito il diritto all’esistenza di una vita decorosa, invece sono costretti alla miseria, all’ignoranza, se non addirittura alla guerra. Come non posso dimenticare gli anziani con la loro gran dignità nell’interpretare il tempo che inesorabile sfugge loro tra le mani. Poi ancora i malati, i poveri, gli sfigati. Ce n’é per tutti i gusti. Orari, doveri, scadenze, aspettative, immagine. Gabbie, gabbie, gabbie! E cosa ne pensate di quei pochi privilegiati che usano il potere per prendere le decisioni di tutti ? Loro ci costringono alla gabbia quasi quanto lo facciamo noi stessi, coi nostri silenzi, coi nostri timori. Le gabbie sono costruzioni mentali, sono abitudine, sudditanza, logorio. L’esistenza di queste gabbie è un dilemma che non si risolverà mai, perché ogni risposta implica la sua contraddizione. Allora io cercherò di comprendere in che modo il mio destino possa emergere dalla melma. Non mi resta che combattere (mentre sprofondo sotto il peso del presente) lottando per vincere o perdere. Mi batterò fino all’ultimo battito di cuore, finché un briciolo d’aria nei miei polmoni alimenterà quell’ultimo soffio capace di spazzar via ogni sorta di gabbia.
Lino Lupone
Il lavoro durante la detenzione è importantissimo, significa non dipendere da nessuno! Per i familiari è una tassa fissa seguire una persona detenuta; le istituzioni, che conoscono questo problema, a parole si dicono pronte ad attuare una riforma, che preveda un’occupazione continuativa per le persone internate. Purtroppo, la realtà si rispecchia nella vita quotidiana e vediamo giorno dopo giorno ridursi sia i posti di lavoro sia i salari. Molti sono i motivi per cui si dovrebbero trovare le risorse per garantire il lavoro ai detenuti. Primo, per i soliti motivi economici; e poi perché certe tipologie di lavoro possono essere di supporto per il momento in cui il detenuto avrà finito di scontare la sua pena. In questo caso, si potrebbe effettivamente parlare di una piena riduzione del soggetto detenuto. Se poi si parla di coloro che devono scontare molti anni di carcere, si rende ancora più indispensabile l'attività lavorativa per consentire loro di restare psicologicamente attivi e per dare almeno un significato alla loro vita. Inoltre il lavoro, dentro e fuori dell'istituto di pena, impone delle regole da rispettare. Questa disciplina aiuta a crescere e a dialogare con persone che altrimenti non conosceresti. La realtà purtroppo è questa: sono detenuto in questo istituto da circa sei anni ed in tutto questo tempo sono riuscito a lavorare per un totale di sei mesi e sono tra i meno fortunati. Per fortuna ho i miei familiari che mi sono vicini anche a costo di sacrifici. Il lavoro attenua la paura del domani. Il lavoro ti restituisce dignità. Il lavoro ti fa sentire ancora un uomo utile a qualcuno e a qualcosa. Il lavoro è un valore. Per tutti!
Domenico Vitale
Idee e proposte di lavoro per umanizzare il carcere, Area Pedagogica dell’istituto di Ranza - San Gimignano
Intervista alla Dott.ssa Amelia Ciompi Direttore
Da circa un anno lei è il Direttore dell’Area Pedagogica di Ranza, con l’introduzione di questa nuova figura cosa è cambiato rispetto a prima? Non so dire cosa sia cambiato rispetto a prima; nel momento in cui ho assunto servizio nell’istituto dove ho lavorato per tanti anni come educatore, mi sono prefissa l’obiettivo di avvalermi delle competenze aggiuntive connesse al nuovo ruolo per riprogettare dalla base le attività trattamentali dell’Istituto; assieme ai colleghi abbiamo quindi intensificato gli sforzi per dare nuovo impulso al trattamento interno imperniandolo essenzialmente sulla formazione e sul lavoro, che riteniamo siano i settori cardine sui quali impostare i progetti educativi finalizzati ad un reinserimento effettivo della popolazione detenuta. È ancora troppo presto per parlare di cambiamenti reali; di una verifica dei risultati potrà parlarsi soltanto nel medio periodo.
Con il suo arrivo a Ranza l’attività scolastica è stata incrementata, quali risultati si prefigge di ottenere? L’elevazione del livello di istruzione dei detenuti della Casa di Reclusione, che hanno davanti a sé molti anni da trascorrere in espiazione di pena e da riempire con attività possibilmente utili e formative, è uno degli obiettivi fondamentali dell’area educativa. E’ in via di attuazione un progetto che prevede di localizzare a Ranza il terzo Polo Penitenziario della Toscana (dopo quello di Firenze e Pisa), d’intesa con l’Università di Siena, che consentirà di attivare nella sede penitenziaria l’intero ciclo di studi dalle elementari all’Università.
Quali iniziative sono presenti per la formazione professionale che -come noto- potrebbe favorire il reinserimento dei detenuti? È prioritaria la formazione scolastica o professionale? Molte iniziative pensate per la formazione professionale sono state studiate e saranno attivate nel 2003 proprio a seguito di una rilevazione del bisogno di formazione professionale, che, tra i due percorsi paralleli nel settore dell’istruzione - scolastica e professionale – rischiava di risultare carente rispetto all’attività di istruzione scolastica, presente con tutti i corsi da quello elementare alla scuola media superiore. Sono in fase di organizzazione due corsi per operatore informatico, il cui inizio è previsto per questi giorni e per i quali si prospettano interessanti sinergie con il progetto del Polo Universitario, mentre per il 2003 è previsto un corso di formazione per operaio elettromeccanico specificatamente studiato sulle esigenze produttive e di richiesta di occupazione proveniente dalle aziende del territorio.
Abbiamo spesso la sensazione che i nostri problemi siano recepiti ma che trovino poi ostacoli -non sappiamo a quale livello- per la loro realizzazione. Secondo lei questo corrisponde alla realtà? Senza dubbio non è facile attivare progetti che soddisfino bisogni effettivi e che richiederebbero lo stanziamento di finanziamenti ingenti da parte dell’Amministrazione dello Stato; d’altro canto la concessione di contributi finanziari da parte degli Enti locali vede concorrere le problematiche della popolazione detenuta con quelle altrettanto gravi delle altre aree dello svantaggio sociale; le difficoltà di realizzazione sono legate principalmente a fattori economici.
In quest’ultimi mesi, il lavoro interno, si è ulteriormente ridotto, quale è il suo pensiero per risolvere tale problema? La ristrettezza del budget finanziario previsto per il lavoro interno, ma anche la necessità di sincronizzarsi con l’evoluzione dei tempi, spinge a pensare a soluzioni diverse per allargare la possibilità di occupazione per i detenuti. Penso che potrebbe essere possibile portare all’interno le risorse economiche esistenti all’esterno e l’area educativa dell’istituto sta ipotizzando due percorsi progettuali in questo senso, uno collegato alla formazione professionale nel settore industriale, ed il secondo alla formazione settore informatico; i progetti in questione dovrebbero essere realizzati con l’intervento di alcune prestigiose istituzioni del territorio, e dovrebbero – secondo le intenzioni – avere come risultato l’offerta di occasioni di lavoro remunerato in favore della popolazione detenuta. Sono in corso contatti per la definizione delle relative intese.
Uno dei problemi di Ranza è il sovraffollamento. Ci sono misure allo studio per migliorare le condizioni di vita dei detenuti? Il problema del sovraffollamento riveste carattere di generalità ed esiste in tutti gli Istituti penitenziari; non rientra nella sfera di competenza del settore pedagogico del quale mi occupo. So che comunque il problema è alla massima evidenza della Direzione dell’Istituto. Anche i problemi della sorveglianza non rientrano nella mia sfera di attribuzioni. In generale posso dire che sia io che i colleghi da sempre avvertiamo l’esigenza di una cooperazione più stretta con la Polizia Penitenziaria, all’interno della quale sappiamo che esistono molte potenzialità e capacità che potrebbero essere proficuamente utilizzate nel settore trattamentale. Da alcuni mesi per iniziativa della Direzione è stata istituita una Commissione Trattamento-Sicurezza composta dal responsabile dell’area educativa e dai responsabili delle Unità operative della Polizia Penitenziaria con lo scopo di istituire un raccordo tra due aree fondamentali per la vita dell’Istituto e tentare di armonizzare, anche attraverso la programmazione in comune delle attività destinate ai detenuti, le due istanze – spesso tra loro incoerenti – dell’Istituzione.
Cosa ne pensa del nuovo strumento informativo (IdeeLibere) che potrà avere diffusione anche all’esterno? L’esigenza di evoluzione e di crescita del settore pedagogico ha investito anche l’ex notiziario interno Informatutto, che si vuole adeguare al bisogno, molto sentito dai reclusi, di comunicare davvero con l’esterno, consentendo la pubblicazione e la diffusione di un periodico fuori dal carcere. Da tempo i detenuti più impegnati nelle attività trattamentali chiedevano di poter far sentire la propria voce al di fuori del ristretto ambito carcerario uscendo dalla precarietà che caratterizzava il vecchio notiziario ed IdeeLibere rappresenta in questo senso la vittoria in una piccola battaglia.
Potrà il nostro periodico contribuire ad una migliore conoscenza del pianeta carcere al di fuori della mura? Il migliore augurio per l’avvenire che si può rivolgere al giornale che nasce ora è proprio quello di contribuire ad una migliore conoscenza di tutto ciò che si trova in carcere e di tutti coloro che vi vivono o vi lavorano; non amo espressioni come "mondo penitenziario" o "pianeta carcere" che presuppongono una diversità di ambiente o di persone tra l’interno e l’esterno; negli istituti vive una umanità che pure fa parte del mondo esterno e che ha solo storie particolari alle spalle che ha vissuto e può raccontare.
Francesco Cascone
L’ "Informatutto" si emancipa Da foglio di informazione interna, con l’obiettivo di sviluppare nella Casa di Reclusione di Ranza una fluida ed utile comunicazione ad esclusivo uso dei detenuti, a foglio esterno, aperto a qualsiasi lettore. Una crescita molto meditata, questa. Un’esigenza, sorta dalla necessità di uscire dal ristretto ambiente interno, per assumere il ruolo di veicolo valido per un confronto costruttivo con la società e con quanti sono interessati alle vicende e problematiche delle carceri.
"IdeeLibere" costituirà innanzitutto lo strumento del dialogo che si svilupperà anche all’esterno e del confronto diretto con una fascia più ampia di lettori che possano non solo ampliare la conoscenza e gli orizzonti di questo complesso mondo, ma anche contribuire al miglioramento delle condizioni del detenuto. Il ruolo che questa voce di Ranza è chiamata ad assumere nell’ambito della stampa penitenziaria non sarà facile se sarà percorso un itinerario che si discosterà dall’ovvio e dal ripetitivo; il nuovo giornale assumerà una connotazione che lo caratterizzerà per la specificità dei contenuti e per l’orientamento verso segmenti di particolare interesse e di utilità, offrendo ai lettori-utenti più di un servizio in relazione ai bisogni che il giornale stesso potrà monitorare e vagliare. In un momento storico, in cui la stampa carceraria si sta diffondendo a macchia d’olio, si rende utile offrire un’informazione specializzata che si leghi sempre più alla specificità delle questioni e dei problemi che assillano la popolazione detenuta. Si renderà utile fornire orientamenti circa le opportunità esistenti (una sorta di guida per l’inserimento nel mondo dell’occupazione) e notizie che facilitino il percorso di rientro in società e che siano in grado di dare adeguate risposte a molte domande.
"IdeeLibere" saprà assumere il ruolo di protagonista di un deciso rinnovamento che non dovrà limitarsi al solo cambiamento formale e di redazione e dovrà porsi tra i principali obiettivi il superamento del cliché del bollettino carcerario o, peggio, del foglio delle autocommiserazioni e della doglianza fine a se stessa, o dell’enfatizzazione delle belle iniziative rivolte a gruppi sparuti di destinatari, mentre la realtà in cui vive la quasi totalità dei detenuti è notoriamente diversa. Il periodico contribuirà, attraverso un linguaggio di facile comprensione a chiarire aspetti giuridici che interessino effettivamente larghe fasce di ristretti; medierà con equilibrio l’interno con l’esterno; avanzerà proposte che possano trovare una pratica soluzione; darà più voce al detenuto per aiutarlo a superare l’isolamento dalla società. Sono, questi, soltanto alcuni degli aspetti e delle motivazioni che legheranno il nuovo giornale ai lettori e che grazie al forte sostegno del volontariato assumeranno una connotazione a più voci, che sapranno esprimere chiarezza e qualità d’informazione. Il nuovo giornale darà ampio spazio alle potenzialità espressive dei detenuti, attraverso una redazione, sensibile ed aperta, che si avvarrà di collaboratori interni ed esterni. Buon lavoro.
Dr. Luigi D’Onofrio
Se un gentiluomo è una persona d’animo gentile e al tempo stesso un vero uomo, allora mio nonno Edoardo meritava questo titolo. Nonno Edoardo sapeva d’essere brusco quando voleva; ma con chi meritava gentilezza d’animo, specialmente con le donne, con i bambini e con i cani, era la persona più gentile mai conosciuta. Ed è proprio di nonno Edoardo e del nostro cane Giove che voglio parlarvi. Tanti anni fa, in cui ero piccolo, un canino venne a vivere con noi e, nonno Edoardo, ne fece subito il suo cane. Fu amore a prima vista. Il nonno ci sapeva fare con i cani, ed ogni volta che il nonno partiva per lavoro, Giove voleva andare con lui. Allora nonno Edoardo diceva: "Aspettami Giove. Tornerò. La prossima volta ti porterò con me". A volte, il nonno, stava via per una settimana. Ma Giove aspettava tranquillamente. Sapeva quel che voleva dire "prossima volta", perché nonno Edoardo manteneva sempre quella promessa. Al suo ritorno, infatti, diceva: "Bene, Giove, mi hai aspettato, è vero? Vieni allora. Questa è "la prossima volta!" e se n’andavano a fare una lunga passeggiata per i campi. Giove viveva per queste passeggiate con nonno Edoardo. Ogni sera, quando il nonno era a casa, Giove dopo cena andava di sopra, portava giù le pantofole di nonno Edoardo e gliele posava sul pavimento davanti alla poltrona. Si accucciava lì col muso sul piede d’Edoardo fino l’ora di andare a letto. Poi, nonno Edoardo, dopo pochi mesi l’aver passato il suo 86° compleanno, cadde gravemente ammalato. "Il mio cuore non ce la fa più" disse: è questione di pochi giorni, poi me ne andrò sul serio. Non me ne rammarico, mi sono goduto la vita, Enzo". Il suo ultimo giorno, nonno Edoardo mi disse: "Il cane sentirà la mia mancanza. Lascialo venire qua da me". Giove entrò, guardò il nonno con gli occhi ansiosi. "Aspettami, Giove, disse il nonno. Tornerò e la prossima volta ti porterò con me!". Il nonno era stato per me un grande amico e maestro. Anche il perderlo, mi dicevo, non era un prezzo troppo alto da pagare per quel che avevo avuto. Da principio ne soffrivo molto perché, il nonno, come detto, era stato straordinario. Ero però un ragazzino e, i ragazzini, fanno presto a consolarsi. E Giove? Ebbene, il nonno gli aveva detto: "Aspettami, Giove" così il cane aspettava di buon animo. Il nonno, è vero, questa volta stava via più del solito, ma manteneva sempre la promessa che faceva al cane. Poi, Giove, aveva le pantofole di nonno Edoardo nella sua cuccia in cucina. Passarono cinque anni. Una sera io e mamma Rina, eravamo in salotto; studiavo e la mamma rammendava un paio di miei pantaloni. D’un tratto, sul pavimento, accanto alla poltrona, la vecchia coda di Giove cominciò a fare: "Tump, tump, tump!" si sa che i cani sentono le cose che noi non possiamo udire; tendemmo l’orecchio, ma non un passo risuonava nella strada. "tump, tump, tump!" di nuovo. Poi, il vecchio Giove, si alzò con un certo sforzo, carico d’anni com’era, e uscì dalla stanza. Un minuto dopo rientrò con le pantofole di nonno Edoardo, le mise davanti alla sua vecchia poltrona, vi posò sopra il muso, e immediatamente così ricadde nel sonno. Forse fu la fiamma dei ricordi, nel vedere le pantofole del nonno al loro vecchio posto, a darmi questa sensazione, ma tutta la stanza sembrò pervasa dal calore della bontà. "Nonno Edoardo era l’uomo più buono che abbia mai conosciuto" disse mamma Rina. Poi, con dolcezza, aggiunse: "andiamo a dormire. Non disturbiamo Giove, lasciamolo stare dov’è per stanotte". Al mattino dopo il cane era lì, come l’avevamo lasciato: il capo fra le zampe, il muso sulle pantofole. Ma nell’istante stesso in cui lo vedemmo, qualcosa ci disse che Giove aveva finito d’aspettare. Dinanzi a se, attraverso una distesa sterminata, allietata dalla presenza del nonno, Giove aveva visto, e viveva, una eterna, gioiosa corsa per i campi celesti.
di Enzo Falorni
Gli esiti di un convegno e l’impegno affinché quanto emerso non rimanga "lettera morta"
Un cancello, una rete, delle sbarre: un universo sociale ignoto che stimola, ed in parte impressiona, la mente di un giovane sociologo; non appena si presentò la possibilità di entrare nel carcere, con un progetto di mediazione culturale da svolgere con i detenuti extracomunitari, accettai subito. Come ricercatore universitario mi occupo da anni di processi migratori e delle dinamiche di integrazione degli immigrati e conoscere e lavorare con stranieri detenuti mi apparve una occasione per relazionarmi con "quest’altro mondo". Confrontarmi direttamente con stranieri condannati per reati commessi in Italia voleva dire entrare nella spinosa questione del rapporto tra immigrazione e criminalità. L’incontro con la comunità del carcere e il coinvolgimento nei problemi dei detenuti stranieri sono stati tali che, alla fine di questa esperienza di mediazione culturale, si è deciso, con la Direzione del Carcere, il Comune di San Gimignano e con i detenuti che avevano partecipato a questa attività di organizzare un Convegno sul tema: "Carcere e detenuti stranieri. Percorsi trattamentali e reinserimento: i rapporti con la comunità locale". Nel titolo non figura la parola "immigrazione"; il primo scopo degli organizzatori era infatti quello di sfatare l’equazione immigrazione/criminalità, usata spesso da chi non trova altre argomentazioni per negare il diritto di chi vive in povertà di rifarsi una vita migliore in un paese dove possono essere offerte opportunità, ma dove esiste anche la difficoltà di confrontarsi con la diversità e, in definitiva, dove non è difficile riconoscere una seppure latente forma di razzismo. Nel Maggio scorso, presso il teatro dei Leggeri di San Gimignano si sono incontrati esponenti di varie amministrazioni, volontari che operano nei penitenziari, politici, operatori sociali, giudici, docenti universitari per discutere delle difficoltà degli stranieri all’interno del carcere e sui possibili percorsi da intraprendere per favorire il loro reinserimento una volta saldato il conto con la giustizia. Molto seguiti ed applauditi gli interventi dei rappresentanti dei detenuti che hanno dato il loro contributo ai lavori. Non sono mancati gli spunti per una approfondita riflessione che saranno condivisi da chi si occupa di tali tematiche non appena gli atti saranno pubblicati- Si è discusso su progetti indirizzati sia a migliorare la vita "dentro" sia a favorire l’inserimento "fuori". Perché tali aperture non restino lettera morta e non ci si dimentica troppo presto di quanto detto e promesso occorrerà che tutti, compresi i detenuti, stimolino i soggetti che hanno accettato questo confronto a promuovere nuove occasioni di discussione con gli esponenti della società civile locale sulle difficoltà e sulle opportunità di reinserimento. Il carcere di San Gimignano è inserito in un contesto socio-economico tra i più floridi del paese, con una disoccupazione quasi inesistente e quindi con la difficoltà di reperire mano d’opera sia generica che specializzata. Non dovrebbe essere quindi difficile creare sinergie tra coloro che, a diverso titolo, ruotano attorno al "mondo carcere" e imprese, associazioni di categoria e sindacati. Magari attuando colloqui di orientamento con i detenuti che hanno i benefici, costruendo una banca dati delle aziende disponibili ad assumerli e creando un rapporto più stretto con il Centro per l’impiego. Se vogliamo davvero che il carcere riesca nella sua missione riabilitativa e non si limiti, come accade troppo spesso, a svolgere un ruolo punitivo occorre una collaborazione più stretta tra carcere e comunità locale. In particolare per i detenuti stranieri il carcere non può essere lasciato solo perché si troverà impreparato, come si è trovata impreparata la società che sta fuori, di fronte all’arrivo degli immigrati. L’utilizzo di mediatori culturali madrelingua può essere di grande utilità anche se, da solo, non può risolvere l’angusto paradosso dell’espulsione a fine pena; la realtà desolante che attende gli stranieri all’uscita dal carcere è l’alternativa tra il ritorno al paese d’origine o di nuovo una vita da clandestini nell’illegalità dove è facile tornare rapidamente "dentro". Il paradosso sta nel fatto che durante l’esperienza del carcere molti stranieri hanno instaurato per la prima volta un rapporto con la società italiana iniziando un percorso di integrazione: alcuni frequentano le scuole con successo, altri possono accedere ad un lavoro, ma tutto questo si interrompe alla fine della pena. Chi, da detenuto in semilibertà, riusciva a guadagnarsi onestamente da vivere, si può trovare di nuovo nell’illegalità. Durante la detenzione la società italiana investe risorse umane ed economiche nel progetto di recupero degli stranieri, come per gli altri detenuti, ma questo investimento è destinato ad andare sprecato se non viene concessa la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno, almeno quando sono presenti i requisiti fondamentali per averlo, come casa e lavoro. Altrimenti è più seria una detenzione nel paese d’origine. La possibilità di recuperare almeno una parte dei detenuti stranieri è praticabile perché nella maggioranza dei casi gli stranieri arrivano per costruirsi una vita dignitosa e pacifica e non per andare in carcere.
Fabio Berti
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Ali Doci in cui sono elencate le proposte degli extracomunitari esposte al convegno di cui parliamo nelle pagine precedenti
Sul tema in discussione, quest’oggi, si sono dette molte parole, e io rischio di essere ripetitivo. Nella veste d’immigrato-carcerato ho poche osservazioni da fare. La condizione nella quale sono non mi permette di rivendicare molto. Sulle condizioni di vita in carcere c’è poco di cui lamentarsi. Il carcere, si sa, è un posto di privazione, eppure per gli immigrati, in special modo i clandestini, che sono quelli della fascia più debole, spesso, diventa un posto d’acquisizione. Io non elencherò niente; non vorrei essere frainteso. Tra le cose su cui siamo perplessi noi immigrati c’è la norma che stabilisce che l’immigrato che abbia subito una condanna viene espulso. Il compito degli istituti penitenziari è il recupero sociale. Sono molti gli immigrati che durante la permanenza in carcere frequentano corsi professionali, scuole di vario indirizzo e si attivano in iniziative socio-culturali. Tutto dovrebbe servire al reinserimento sociale. Ciò che non si comprende, è che, a quale scopo c’è quest’ingente spesa e questo forte impegno, da parte di persone stipendiate e non, se poi noi immigrati, che dovremmo avere la possibilità del riscatto sociale e morale, siamo espulsi…! Ritengo sia una beffa per noi, e per chi opera nel settore, perché questi svolgono un lavoro, spesso rischioso, e non vedono i risultati. A parer mio questa normativa è ingiusta. È una norma che sancisce un pregiudizio. Se chi sconta la condanna deve essere espulso, si è stabilito già in partenza che l’immigrato che abbia commesso un reato è irrecuperabile, è persona da respingere senza accertarsi se ci sia stato o non un miglioramento. Trovo l’espulsione una misura discriminatoria, perché, mentre per il detenuto italiano o comunitario in genere, il carcere deve punire, ma principalmente recuperare, per lo straniero, con l’introduzio-ne dell’espulsione, il recupero sociale passa in secondo piano e il carcere serve principalmente come punizione. Mi è stato chiesto di intervenire da quasi tutti i detenuti extracomunitari dell’istituto di Ranza su due punti. Il primo punto è la possibilità di poter usufruire dei contatti telefonici con i familiari in modo più rapido. Quando ci rivolgiamo ai nostri consolati per chiedere che ci sia spedito qualche certificato a noi utile, il più delle volte non riceviamo alcuna risposta. Del resto è chiaro: se avessero avuto pena per noi avrebbero cercato di darci una vita dignitosa nei nostri paesi. L’altro punto preoccupante è il sentire che l’Italia sta prendendo degli accordi con molti paesi che sono interessati dall'emigrazione, perché vorrebbe estradare alcune migliaia di detenuti extracomunitari, affinché scontino la condanna nei loro Paesi di provenienza. Per alcuni questo è il mezzo migliore per liberare posti letto nelle carceri. Molti di noi vengono da Paesi dove i diritti più elementari sono calpestati quotidianamente. la politica italiana è ciò che meno d’ogni altro potrei contestare. I politici italiani hanno il dovere di garantire la sicurezza ai loro concittadini, ma non credo sia questo il mezzo migliore per risolvere il problema. Se si sceglie una strada simile, che sia per libera scelta del diretto interessato. Deve essere l’immigrato a volerlo. Torneo di calcio alle "Due Torri"
Anche quest'anno, grazie alla disponibilità della direzione, degli educatori e della commissione sportiva, si è riusciti ad organizzare un torneo di calcio all'interno di questo istituto. Le adesioni da parte della popolazione detenuta, sono state numerose e senza fatica si sono riuscite a formare sei squadre dai nomi più bizzarri, che evocano quel senso di libertà, che sta molto a cuore agli ospiti forzati di questo istituto, tipo: Albatros, Falchi ecc. ecc. Con cadenza settimanale da domenica 21 luglio è iniziato il torneo, i giocatori che hanno partecipato alle partite di campionato, erano molto emozionati e cercavano di vincere questa sensazione discutendo la tattica migliore, per avere ragione dell'avversario. L'arbitro designato per gli incontri, rigorosamente compagno di sventura di questo istituto, nel ricordare le regole applicate durante il torneo, non si è esentato di raccomandare ai capitani delle squadre un comportamento sportivamente corretto. Le partite sono state agonisticamente interessanti, nessuno voleva perdere, tutti volevano raggiungere una sorta di riscatto sociale, attraverso meriti sportivi. Alla fine di ogni incontro, sia i vincitori che i vinti non avevano rimpianti della prestazione effettuata, poiché, al di là del risultato, avevano dato luogo ad un ottima performance sportiva, soprattutto senza polemiche. E' stato molto bello disputare un campionato di calcio, con l'ambizione di riuscire a conquistare un trofeo, anche se simbolico, in quanto la squadra vincitrice non viene premiata con medaglie o coppe, ma solo con un plauso, ma una volta tanto è giusto giocare per vincere moralmente qualcosa, si potrà deridere gli avversari per almeno un anno. Ripensando al torneo, mi chiedevo, come potevamo essere impropriamente definiti soggetti emarginati, quando nel nostro piccolo, eravamo riusciti a privilegiare lo spirito sportivo a quello del risultato ad ogni costo. Forse i grandi club dovrebbero un po’ ritrovare la gioia dell'avvenimento calcistico, senza pensare troppo alla quotazione in borsa, ma comprendo che questa è solo una fantastica utopia e il calcio di oggi si costruisce attorno ai Ronaldo ed a tanti milioni di euro.
Antonio Morabito
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