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Chi non fa… non falla
di Enrico Oriani
"Chi sbaglia paga!" è una frase che tutti abbiamo sentito e detto migliaia di volte e, sicuramente, concettualmente non fa una grinza. Difatti il problema non è il concetto, sacrosanto, ma l’entità del "costo" da far pagare e le conseguenze derivanti dall’avvenuto pagamento. Giustamente una società democratica deve informare i propri cittadini su quali siano le conseguenze punitive per chi non rispetti le regole determinate e, successivamente deve applicarle, garantendo la più assoluta correttezza nell’esprimere il proprio giudizio. È chiaro come le ragioni che possano spingere a commettere un reato siano le più svariate; è altrettanto giusto, quindi, che nel giudizio si tenga conto di tali differenze, così da determinare pene diverse per reati analoghi. Credo che siano questi i principi giuridici che, a monte, regolano la nostra società. A valle penso ci sia un altro principio altrettanto fondamentale e cioè il recupero dell’individuo. Dando per scontato che non si può eliminare fisicamente chi, con il proprio comportamento, turbi la serenità della società commettendo dei reati, non tutti i reati prevedono comunque una detenzione a vita. Quando, espiata la pena tutta, chi ha commesso il reato tornerà libero, avrà in quel preciso momento due possibilità: tornare ad essere la persona di prima, quindi commettere nuovi reati, oppure integrarsi nella società conducendo una vita onesta. Anche un neonato capirebbe che una persona priva di insegnamenti non cambia: si è quindi pensato, giustamente, di stabilire un percorso rieducativo che prevede vari stadi di messa in prova. L’errore sta nella definizione che giuridicamente è stata data a questo percorso, ovvero: "beneficio"! Senza ombra di dubbio il detenuto che percorre la strada della rieducazione, stadio dopo stadio, ottiene dei vantaggi perché ogni passaggio corrisponde all’allentarsi della morsa del controllo e, gradualmente, alla riconquista della libertà. E’ altrettanto vero però che se la società non applica questa condizione, riducendo la rieducazione solo all’interno del carcere, non potrà mai insegnare nulla, perché la vita in carcere come esigenze e possibilità non ha niente a che fare con quella esterna; la rieducazione compiuta in carcere sarebbe quindi poco più che formale. Credo sia un luogo comune regolare la propria vita a seconda delle abitudini: chi svolge attività lavorative notturne, ad esempio, dopo un po’ di tempo, non troverà particolarmente faticoso svegliarsi e lavorare ad una certa ora della notte, perché ci avrà fatto l’abitudine. Tornando quindi al nostro discorso, penso che l’abituare le persone ad un certo tipo di vita sia rieducativo; chiaramente e giustamente tutto deve essere graduale, con l’obbiettivo però di portare la persona a vivere in quel modo senza che nemmeno se ne accorga. Sin tanto che lo stimolo per la rieducazione sarà il premio sotto forma di beneficio, è palese che il fine di ogni detenuto sarà il beneficio stesso e non la rieducazione, perché stare in carcere non piace a nessuno. Tutto dovrebbe funzionare appunto con una logica rieducativa e quello che viene definito beneficio dovrebbe essere un passaggio naturale e non un’angoscia: è assurdo fissare delle tempificazioni per poter accedere a questo o a quel beneficio, per altro tempificazioni mai rispettate specialmente se la persona incomincia ad espiare la propria pena in custodia cautelare, ed è altrettanto assurdo che a farne richiesta sia il detenuto, quando poi la decisione, per l’eventuale concessione spetta, comunque, a chi si occupa della sorveglianza. Se non è sufficiente un buon comportamento carcerario per dimostrare il proprio desiderio di reinserimento nella società come si fa a passare alla fase successiva della rieducazione? Come si può pensare che una persona, detenuta da anni in un carcere, sia in grado di trovare, appunto dal carcere, un posto di lavoro senza presentarsi fisicamente al possibile datore di lavoro? La maggior parte di dichiarazioni di disponibilità all’assunzione normalmente viene fatta da cooperative di volontariato, nate con intento filantropico per il reinserimento sociale dei detenuti, ma impossibilitate a riprodurre un ambiente lavorativo tradizionale, basato sulla competitività del proprio prodotto e quindi sulla selezione dei propri assunti. Per altro, queste cooperative non hanno a disposizione un numero illimitato di posti di lavoro da offrire e, di conseguenza, possono garantire all’assunto il lavoro solo per il periodo relativo al residuo di pena da scontare, in modo da poter accogliere poi un altro detenuto. Capita ogni tanto di sentire alla televisione di reati commessi da detenuti in permesso premio o in semilibertà oppure in affidamento sociale e, immancabilmente, lo sdegno espresso dall’opinione pubblica è immenso, diventa quasi frenetica la ricerca del Magistrato di Sorveglianza responsabile della concessione del beneficio, come se fosse complice nella commissione del reato; a lui vengono attribuite tutte le responsabilità, perché, nell’immaginario comune, non è stato in grado di valutare in modo corretto la personalità dell’individuo, nulla sapendo di quanto siano superficiali le possibilità di valutazione offerte al Magistrato. Inoltre tutto ciò fa in modo che qualsiasi Magistrato di Sorveglianza di tutta la penisola, per timore di sbagliare, blocchi o rallenti il percorso rieducativo di altri detenuti. In questi casi, l’ipocrisia espressa dalla nostra società diventa addirittura autolesionista: non offrendo occasioni per il reinserimento, si rinuncia a qualcosa di cui non trae beneficio solo il detenuto, ma anche l’intera società, dato che non avrà più bisogno di temerlo per l’eventuale commissione di nuovi reati. La conseguenza è comunque un danno sociale, - perché, prima o poi, la pena avrà termine e il rischio che nulla sia cambiato è altissimo. Insomma, come direbbe Francesco Guccini: "… chi non fa non falla!".
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