"De l'optimisme", di Adriano Sofri

 

Casi editoriali: esce in Francia un saggio di Sofri

 

L'espresso, 20 dicembre 2001

 

Con un titolo un po’ sorprendente, "De l’optimisme", esce in Francia un piccolo libro di Adriano Sofri (edizioni Manuscrit.com). Si tratta di una lettera-saggio che fu inviata un anno fa al responsabile de L’Auberge d’Europe, un centro culturale che ha sede nel castello di Femey, dove Voltaire trascorse gli ultimi 18 anni della sua vita. Sofri era il relatore non presente a un convegno affollato di intellettuali e dedicato proprio a lui e al suo caso giudiziario. Il libro che si apre con annotazioni personali, diventa via via una seducente riflessione sui limiti della commozione umana alla prova della distanza nello spazio e nel tempo. Attraversando il tema, insieme a Leopardi, Voltaire, Diderot e Pascal, Sofri si affaccia infine sui nostri anni e riflette sulle ideologie tramontate, sui conflitti e sulla globalizzazione. Ecco l’incipit del libro. 

Caro Herve Loichemol, dopo aver tanto rinviato, le scrivo, appena prima che i termini scadano. Potrei provare a scusarmi del ritardo. Dopotutto, si capisce una certa soggezione in un prigioniero invitato a castello: e un castello che non è un luogo libero fra altri, ma un luogo designato dall’origine all’isolamento della libertà, un’antiprigione. In realtà ho preso da un po’, come si prende, una malattia di stagione, una forte renitenza alla scrittura. Niente di nobile e romantico. Del resto io non abito una segreta mia, ma uno sgabuzzino, benché infimo, dotato di televisione, neon bianco, del basilico in un fondo di bottiglia di plastica fra le grate (il faut cultiver notre jardin), e un computer portatile sul tavolino d’ordinanza. Non è la migliore delle sistemazioni possibili, ma senz’altro neanche la peggiore.

Abito così da più di cinque anni, e nel primo anno vennero a trovarmi per un’ora, con una speciale autorizzazione, alcune decine di amiche e amici di Sarajevo. Erano vecchi e giovani, donne e bambini, un intero pullman, e può immaginare con quale agitazione. Dunque dovetti escogitare qualche parola a esordio che sciogliesse la tensione.

A Sarajevo durante l’assedio c’era una frase così ricorrente da aver quasi sostituito i saluti. Diceva: "Nema vada, nema plin, nema struje", non c’è acqua, non c’è gas, non c’è luce. "Nema nista", non c’è niente. Dissi: "Qui si Sta bene, ima vada, ima plin, irna struje». C’è tutto. Si misero a ridere, benché non smettessero di piangere: e fu una bellissima ora. Questa relatività delle disgrazie, che è forse la vera eredità del Novecento, vieta ogni concessione alla prigione romantica, al vittimismo e perfino alla sua elegante dissimulazione.

C’è una tal ressa di vittime che, al paragone, si può solo tacere, o scherzare sul proprio incidente. E quanto all’indelicato pregiudizio sulla galera propizia alla letteratura e alla libertà interiore eccetera, è solo imbarazzante, una volta che non si scriva più su un muro col proprio sangue e le proprie feci, né col dito intirizzito su un vetro imbiancato dal gelo, ma su un comune computer. Più banalmente, la mia repulsione per la scrittura è colpa mia: me la sono cercata.

Sa quel fiero pensiero di Voltaire, che anticipa il gioco di parole sui filosofi delle Tesi su Feuerbach: "Jean-Jacques scrive solo per scrivere, invece io scrivo per agire". Io scrivo, invece di vivere (...).

Io rabbrividisco a sentir evocare, al mio proposito, il nome di Dreyfus. Non è solo la differenza - che differenza! - fra il giaciglio all’isola del Diavolo e una meschina cella con la televisione e il basilico a far accantonare ogni confronto. Dreyfus è questione di patriottismo contro nazionalismo, di onore militare contro fellonia militarista, di tolleranza contro antisemitismo: cose che mancano in vicende come la mia, se non per qualche minuscola parodia.

Inoltre, Dreyfus entrò del tutto inconsapevolmente, oltre che incolpevolmente, nel suo caso, e ci passò attraverso suo malgrado, benché dignitosamente, fino alla fine. Io ci sono entrato incolpevolmente, ma per effetto, a una distanza grottesca, di consapevoli scelte politiche e umane; ciò che ha informato anche, per una specie di necessità, il mio modo di passarci attraverso, senza poterne accettare compromessi.

Non per intransigenza di carattere, ma per la fedeltà tanto più impegnativa che si deve alle idee cui ci si votò anche quando si è preso commiato da loro, e tanto più quando impegnarono, con la propria, la parola solidale di tanti altri. Essere fedeli a se stessi come si è stati: ecco una necessità insieme urgente e sciocca. Di cui non c’è bisogno, ma che, una volta imposta, non si può eludere.

 

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