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Bunker: «La galera non redime. Alimenta crimini e criminali» Parla
lo scrittore ex detenuto che stasera partecipa al Festival
"Letterature"
Il Messaggero, 6 giugno 2002
Ci
sono persone a cui la vita sembra aver dichiarato una guerra personale, a cui
sembra aver destinato solo il peggio. Prima un’infanzia abbandonata tra
collegi e riformatori, poi un’adolescenza da strada, imbottita di risse, furti
e smercio di droga. E infine, una cella di otto metri quadrati dove smaltire una
fedina penale lunga così. Edward Bunker ha passato una bella fetta della
propria esistenza dietro le sbarre: 18 anni, per l’esattezza. Ma nemmeno oggi
mostra rimpianti per un passato diverso, né si sente in credito con la sorte:
«Anzi - dice -, la mia vita l’ho vissuta veramente, in modo pieno, ricco. Ci
sono delle cose che ho fatto di cui mi vergogno, ma quando mi guardo allo
specchio, posso essere fiero di come sono. Quel mio carattere che mi ha spinto
alla ribellione, è lo stesso che mi ha permesso di sopravvivere e di impormi». Narrare col talento di una iena
Il Manifesto, 6 giugno 2002
Al posto dell’indice dei nomi che si trova in tante autobiografie contemporanee, alla fine di Educazione di una canaglia di Edward Bunker (Einaudi «Stile libero», pp. 523, euro 14,00) ci starebbe benissimo un bell’indice dei reati commessi. il primo, se non sbaglio, arriva a pagina 25: un furto di tagliandi per benzina ai danni di una stazione di servizio Texaco in San Fernando road Los Angeles, Bunker è poco più che un bambino, ma la sua infanzia reale è ancora più spietata, violenta, ingiusta di quella immaginata da T.J. Leroy in Ingannevole è il cuore più di ogni cosa. Il crescendo dell’orrore è scandito dal cambiare dei nomi delle istituzioni che si prendono in cura il bambino deviante fin dalla più tenera età: istituti privati, case di accoglienza, centri di recupero, azienda agricola, riformatorio... Ogni fuga, ogni nuovo errore determinano un ulteriore giro di vite della macchina sadica. L’infanzia, l’adolescenza sono una semplice circostanza anagrafica, a volte un problema burocratico, niente di più. A quindici anni, Bunker ha già imparato tutto quello che c’è da imparare del mondo. È un corpo che cresce in catene, un ricettacolo di orgoglio e violenza subita e rancore. La sua identità è un fascicolo che si ingrossa di mese in mese, dentro e fuori le sbarre. È un uomo in guerra, un delinquente, un individuo destinato ad attraversare lo spazio sociale con i sensi e la capacità d’attenzione sempre all’erta, come una belva nel bosco. Predare e venire braccato sono le varianti fondamentali di questa forma di vita nuda ed istintiva. Educazione di una canaglia, uscito in America nel 2000, è un indimenticabile libro di formazione. Ci racconta diciotto anni di carcere durissimo, nelle peggiori fosse dei serpenti californiane, e un certo numero di imprese criminali compiute o tentate in libertà, quasi sempre a Los Angeles. Ma è anche il resoconto di una vocazione alla letteratura che è lentissima ma implacabile, e finisce, dopo sei romanzi rifiutati, per offrire a Bunker un’alternativa, una concreta biforcazione del sentiero. Fin da giovane, nei momenti in cui la sua vita era appesa a un filo, la lettura lo ha allontanato dalla follia e dalla disperazione. Libri come Il vagabondo delle stelle di London, letti sul materasso lercio di una cella di isolamento, più che una «via di fuga» sono stati una potente forza centripeta, un generatore di equilibrio, l’ultimo residuo collante di un’identità sfracellata. La lettura e poi la scrittura sono vie d’accesso a quella solitudine che, insegna Dostoevskij, è fra i beni più preziosi e rari nella condizione del prigioniero. Con applicazione inflessibile, il delinquente si trasforma in scrittore. È l’unica metamorfosI davvero possibile, spiega più volte Bunker, autore di delitti che cova in sé, lungo un percorso interminabile, un autore di romanzi. Qui forse sta il punto cruciale, il più ricco di significato, di questo lungo racconto autobiografico. Perché la letteratura non «redime», in questa prospettiva, né ruota minimamente sul tema del «pentimento». Il passaggio dal crimine alla scrittura rappresenta un nuovo patto con il mondo solo attraverso quella strettissima cruna dell’ago che è la salvaguardia dell’integrità del carattere. Assioma che innerva di sé tutta intera questa Educazione di una canaglia («felon» nell’originale) e che viene esplicitamente ribadito al momento di tirare le somme, concludendo: «I tratti del mio carattere che mi hanno fatto combattere il mondo sono gli stessi che mi hanno permesso di farmi valere». Il primo libro pubblicato da Bunker, Come una bestia feroce, del 1973, secondo James Ellroy è il «più bel libro mai scritto sul tema della rapina a mano armata". Scegliendo la via della crime story, Bunker può ovviamente adottare un invidiabile punto di visione interna alla materia, rafforzato dall’uso, credibilissimo, della prima persona. Nel 1977, con Animal Factory, Bunker si dedica alla "sua" prigione, San Quentin, mentre nel successivo Little Boy Blue (1981) si parla delle disavventure di un ragazzino di undici anni, che è in sostanza lo stesso che ritroveremo nell’autobiografia. Ma anche in Cane mangia cane, la bellissima pulp fiction del 1997, le tessere del mosaico sono tutte autentiche, e dove manca l’esperienza diretta suppliscono le migliaia di storie ascoltate in carcere. Esile è lo schermo distanziante della fiction, dunque, ed esile il confine che la divide dalla confessione in prima persona. Come in I miei luoghi oscuri di Ellroy, semmai, altro splendido affresco dell’underworld di Los Angeles e incalzante racconto della vocazione alla letteratura di un reietto, diventa via via chiaro che si scrive, a un determinato grado di autenticità, solo ciò di cui si può, effettivamente, scrivere -perché lo si è scontato sulla propria pelle e nella trama dei propri giorni. Così è anche per quel genere di scrittura "da duri" (hard boiled o pulp o poliziesca che la si voglia definire) che in apparenza sembrerebbe un pura opzione retorica, una scelta "di genere" con marcate finalità commerciali. Ellroy e Bunker, invece, per motivi opposti e complementari, hanno abitato la scena del delitto molto prima di concepire la sua possibile traduzione in argomento di scrittura. Sono entrambi immersi, insomma, conficcati nella loro materia: Ellroy perché vittima di un delitto insoluto (l’omicidio della madre, ritrovata nel 1954 sul ciglio di una strada di El Monte), Bunker perché la vita di un ladro e rapinatore, se non è esattamente un romanzo, del romanzo possiede più di una prerogativa: la feroce dialettica del progetto e dell’imprevisto, la ferrea necessità di rimanere fedele a un "ruolo" o a un "personaggio", una perpetua sfida ai limiti del verosimile. Rispetto al potere strutturante del romanzo, nell’Educazione di una canaglia si può maggiormente apprezzare un’esperienza che si rivela nel naturale disordine della memoria. E si respira un’aria di Novecento, in queste pagine: di Colonia Penale, di utopia negativa, di Kolyma. È la precisione dei dettagli a fornire una strategia vincente nella rappresentazione della tremenda uniformità della vita in carcere. Abitudini, modi di dire, odori: come quello di carne di manzo e cipolle e caffè forte che sale dalle celle di due condannati a morte di San Quentin, che "non avrebbero avuto il tempo di digerirli e di cacarli prima di essere loro stessi carne fredda". E ancora, l’odore dei corpi sudati, pigiati nelle gabbie durante i trasferimenti o le interminabili pratiche di incarcerazione, l’odore della carne umana straziata dai coltelli artigianali dei detenuti. Il posto più improbabile al mondo per incontrare questo Salamov californiano, probabilmente, è la terrazza-ristorante di un albergo elegante nel cuore di Roma. È facile, d’altra parte, riconoscere Bunker, per chiunque lo ha visto recitare Mr Blue nelle Iene di Quentin Tarantino. Sulla soglia dei settant’anni, è un uomo cordiale e disponibile. Ha degli incredibili occhi azzurri, vivacissimi, e fuma sigarette senza filtro.
Mr Bunker, a parte una breve appendice, Educazione di una canaglia termina il suo racconto al momento della pubblicazione, dopo tanti rifiuti, del primo romanzo, "Come una bestia feroce". Siamo nel 1973, e gli anni della prigione stanno per finire. Leggendo queste memorie, ci si rende conto dell’importanza che può rivestire, in un destino personale, una vocazione cosi prepotente alla scrittura…
Sì, certo, ma di fatto è l’unica cosa che la società mi ha permesso di fare! E in prigione, il tempo non mancava di certo. In una società cattolica, come la vostra, esiste sempre la dimensione del pentimento, del perdono, della redenzione. In una cultura fondamentalmente calvinista come quella da cui vengo, le cose sono molto diverse. Non avevo, realmente, altre possibilità: o scrivere, o continuare ad essere un criminale. L’unica cosa che non avrei immaginato, è di doverci mettere diciassette anni e sei libri (i primi cinque rimasti inediti) per arrivare al successo. Ma io sono una persona molto determinata, non mollo la presa. Voglio sempre migliorarmi.
Mi ha colpito molto, leggendo questa autobiografia, la somiglianza che c’è tra l’Edward Bunker reale e la tipica figura di "eroe" dei suoi romanzi, a partire da Max Dembo, il rapinatore ed ex galeotto di "Come una bestia feroce". In entrambi i casi, si tratta di persone di provenienza piccolo borghese, e non proletaria. Persone che rimangono diverse dagli altri: più intelligenti e anche più malinconiche, istruite, decisamente superiori, da ogni punto di vista, ai loro stessi compagni di banda.
È vero: però, devo dire che sia l’uomo reale che i personaggi narrativi non sfruttano a loro vantaggio questa specie di «superiorità», e meno che mai la sbattono in faccia ai loro compagni lo mi sono sempre messo al livello dei miei complici, e mi sono comportato esattamente come loro. Certo, anche loro lo sapevano, erano consapevoli che avevo qualche carta di più da giocare. Avevo un livello di istruzione senza dubbio superiore alla media dei delinquenti californiani, e soprattutto, ero un grande esperto di diritto! Ero proprio l’avvocato della galera, quello che conosce la legge. Anche riguardo all’estrazione sociale: una volta ho conosciuto un tipo che mi ha raccontato che il suo primo ricordo era sua madre che cercava di annegarlo nella vasca... beh, io ho avuto origini migliori. Le persone che, nei romanzi, si accompagnano ai miei eroi invece sono pura feccia. E come mi rispecchio nell’eroe, così anche loro sono scritti a partire da modelli reali e circostanze ben precise. Perché io ho l’immaginazione scarsa e la memoria molto forte. Do una forma a cose e fatti che ho visto o di cui ho sentito, ma è raro che inventi qualcosa. La quota di verità di Cane mangia cane, per esempio, è del novanta per cento. È vero il fatto del cadavere nel congelatore, è vera la sparatoria finale sull’autostrada, è vera l’uccisione di Mad Dog. Tutti i personaggi importanti e molti dei secondari di quel libro sono reali, e sono tutti morti.
"Educazione di una canaglia" è un vero libro di guerra: da una parte l’individuo "sociopatico", e dall’altra, tutta la società, rappresentata dalle sue istituzioni repressive. E questa guerra viene dichiarata quando l’individuo è ancora un bambino, costretto a subire una tremenda sproporzione tra l’entità della colpa e la pena comminata. Sta qui l’origine delle ostilità?
Sì, io ho sentito in giovanissima età questa specie di dichiarazione di guerra reciproca. Non riuscivo nemmeno a capire, all’ingresso di questa serie senza fine di cause ed effetti, cosa realmente mi stava capitando. Sono passato dall’oggi al domani dalla condizione di figlio unico di un padre anziano e di una madre giovane, viziato e coccolato, a quella dell’ospite di una specie di riformatorio, di una casa per adozioni indirette. E lì è iniziato tutto, perché gli altri dieci - dodici ragazzini rubavano, e io, che non sapevo ancora cosa fosse rubare, mi sono adeguato. Ho iniziato a scappare e ad essere riacciuffato. Con la loro repressione sempre crescente, hanno determinato una vera e propria escalation di questa guerra nascente. E io, sempre più ribelle, ho risposto colpo su colpo.
Certo, guardata dall’Europa, la giustizia penale americana lascia sbalorditi per la sua ferocia. Una stima recente parla di una popolazione carceraria americana intorno ai due milioni di persone. Anche alcune norme, come la regola dei "three strikes", per cui al terzo reato, indipendentemente dalla gravità, si prendono dai venticinque anni all’ergastolo, mi sembra una cosa che ripugna alla coscienza. Insomma, l’epoca della "tolleranza zero" sembra aver aperto un insensato "fronte interno" nella società americana…
Non so come le cose vengono giudicate qui in Europa, quello che so per certo è che le cose sono molto cambiate, e in peggio, anche rispetto a quando ero io ad essere dentro. È esplosa una violenza inaudita per le strade, e tutto l’approccio al problema della criminalità si è fatto più repressivo. Questo riguarda soprattutto la popolazione nera. Quando ho iniziato a conoscere la galera, figurati, la percentuale dei detenuti bianchi era di gran lunga prevalente, anche rispetto ai messicani. Tutto è cambiato con le rivolte dei ghetti, con i fatti di Watts. Su trenta milioni di californiani, centocinquantamila sono in carcere.
In un capitolo finale dell’Educazione di una canaglia viene descritta proprio questa fase di svolta, agli inizi degli anni Settanta. Le grandi prigioni diventano teatro di una guerra di razze perpetua…
La guerra certo c’è ancora, e per fronteggiarla le autorità hanno solo l’arma della segregazione, della separazione. Ci sono almeno due prigioni di massima sicurezza in California, concepite perché la gente non si possa nemmeno vedere. Oppure prigioni trasformate per intero in bracci della morte!
James Ellroy (assieme a William Styron) è uno degli scrittori che ti ha più sostenuto. Tra l’altro, mi sembra che per molti versi (a parte il grande scenario di Los Angeles) "I miei luoghi oscuri", la tua autobiografia, sia un libro affine all’Educazione di una canaglia". Che ne pensi dei suoi libri?
È proprio James che ha fatto la mia fortuna qui in Europa! È stato lui ad insistere perché mi traducessero in Francia, dove mi conoscono più che in America, in pratica lui mi ha letto per caso, in una biblioteca pubblica, quando era ancora un vagabondo, un senzatetto. Io lo ammiro molto, anche se tra me e lui c’è una differenza sostanziale: lui inventa tutto, io non invento niente! A volte mi dà qualche difficoltà il suo linguaggio troppo spezzato, ma lui è uno che riesce sempre a stupire, a migliorare.
Un’ultima curiosità. Tra i tanti scrittori che racconti di aver letto in prigione, c’è anche un nome che stupirà i lettori italiani, quello di Alberto Moravia. Che ci hai trovato nei suoi libri?
Credo che il primo che ho letto sia stato Il conformista. Mi ha colpito per la sua forza di indagine interiore, per la capacità di calarsi nella psicologia dei personaggi. Per me, era e rimane un grande scrittore, anche se l’ho letto almeno trent’anni fa. Ma se mi chiede quali scrittori mi hanno influenzato, gliene potrei citare dieci questa settimana e altri dieci la prossima.
Intervista di Emanuele Trevi per Il Manifesto Educazione di una canaglia
Il Mattino, 6 giugno 2002
Nella sua autobiografia, Mr. Bunker, sembra esserci una tesi di fondo: la letteratura può salvare gli uomini.
Ed è arrivato il successo. Con il successo, i grandi guadagni. Una bella storia, la sua…
Cosa pensa della pena di morte?
Parliamo di letteratura. Quali fra gli scrittori americani di oggi stima maggiormente?
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