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I ragazzi delle batterie
Il Manifesto, 18 marzo 2004
"Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta" dello studioso Emilio Quadrelli. Un’appassionante ricerca etnografica sulla malavita urbana degli anni Settanta che considera le rapine un gesto di ribellione alla società legale e alla gerarchie all’interno dell’universo criminale. E sul successivo incontro e alleanza in carcere con i militanti della lotta armata Augusta Molinari. Nell’ottobre 1977 avviene una delle più clamorose evasioni della storia carceraria italiana. Un gruppo di rapinatori genovesi, che nel gergo malavitoso era chiamato "batteria", libera un noto bandito, Cesare Chiti, con un’azione tanto spettacolare da apparire suicida. I quattro della "batteria", approfittando della traduzione di Chiti in un supercarcere, bloccano l’entrata dell’autostrada e assaltano la scorta. Un agente resta mortalmente ferito e successivamente Chiti e i componenti della "batteria" verranno condannati all’ergastolo. A quasi trent’anni di distanza, uno dei componenti della "batteria", nel ricordare l’episodio, così ne sintetizza le motivazioni: "Cesare ce lo siamo andati a prendere perché ci sembrava normale farlo. Non abbiamo pensato alle conseguenze, d’altra parte non l’abbiamo mai fatto". L’apparente banalizzazione di un gesto così gravido di conseguenze, oltre che per chi lo aveva subito, anche per chi lo aveva messo in atto, altro non è che l’espressione di una concezione della vita, ma sarebbe meglio dire di una visione del mondo, che dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, accomuna rapinatori, banditi e guerriglieri. Un settore minoritario, ma non irrilevante, della società italiana dell’epoca attua, in forme e con finalità diverse, una guerra permanente contro la società che ha il carattere di una sfida contro il potere. Dove la dimensione esistenziale diventa il primato dell’agire, sia che si individui il nemico negli "sbirri", sia che si ipotizzi un attacco al dominio del capitale. Come per i "bravi ragazzi" delle "batterie", anche per settori della lotta armata, si tratta di "andare ai resti", cioè di mettere in gioco la propria vita per non arrendersi a quella che viene percepita come una sostanziale non modificabilità della società in cui si vive. Nel gergo delle nuove bande di rapinatori che si formano alla fine degli anni Sessanta "andare ai resti" è forse una scelta meno tragica di quelle dei guerriglieri. Almeno questo è quello emerge dal lavoro di Emilio Quadrelli (Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi, pp. 334, € 17,50), un’indagine etnografica che a partire dalla storia, ma soprattutto dalle "voci" di rapinatori e banditi degli anni Settanta, presenta un quadro delle trasformazioni in atto del modello di sviluppo economico e sociale dell’Italia del tempo. Le biografie dei "ragazzi delle batterie" ci raccontano storie dove è appare labile il confine tra classi lavoratrici e classi pericolose. E dove il rifiuto dello sfruttamento della fabbrica fordista si accompagna spesso ad un desiderio di scontro, ma soprattutto di sfida, contro il potere nelle sue diverse manifestazioni. Chi diventa rapinatore spesso ha lavorato in fabbrica o ha avuto con il mondo della fabbrica un rapporto di contiguità culturale e politica. Soprattutto nel caso delle "batterie" genovesi, l’origine proletaria di quelli che venivano definiti con ironica simpatia "bravi ragazzi" ha rappresentato un dato culturale decisivo nel determinare i comportamenti e la vita stessa delle bande. A differenza dei vecchi malavitosi che miravano a difendere i propri traffici e ad evitare nei limiti del possibile scontri con le forze dell’ordine, i ragazzi delle "batterie" sono più interessati a dimostrare la loro "forza" che ad accumulare ricchezza. Per loro ciò che conta è umiliare il "nemico", cioè gli "sbirri". Proprio per questo, godono, soprattutto nei quartieri operai, di forme non dichiarate di solidarietà. Seppure la maggior parte dei ragazzi delle "batterie" si tenga lontana dalla politica, appare evidente, dalle storie raccolte da Quadrelli, come non sia poi così labile il filo che unisce la loro rabbia contro il mondo alle nuove forme di lotta che maturano dentro la fabbrica. Banditi, rapinatori e guerriglieri riescono negli anni Settanta a mantenere un clima di belligeranza sociale perché si muovono in un paese dove i processi di modernizzazione economica sono più lenti che in altre aree industrialmente avanzate e dove esiste una centralità della classe operaia che si è sedimentata anche come egemonia politica e culturale. Non a caso è dentro il carcere che emerge l’impatto sociale e politico che la comunità dei "barbari" ha avuto in quegli anni. Come una parte dei guerriglieri, i ragazzi delle "batterie" considerano il carcere un luogo impossibile, dal quale non si può che evadere. A partire da metà degli anni Settanta, muta la composizione sociale delle carceri e l’evasione è uno strumento di lotta. Che collega il carcere con la società, o meglio fa entrare la società dentro il carcere. Perché è la biografia che chi entra porta in carcere a mettere in crisi il sistema carcerario. Le clamorose evasioni di quegli anni sono ricostruite, nel bel lavoro di Quadrelli, dall’interno e nelle loro diverse fasi. Fino a quelle delle carceri speciali, culminate nella "battaglia dell’Asinara". L’ultimo esempio dell’esistenza in carcere, in quegli anni, di una comunità di "barbari" ancora in grado di trovare nella guerra permanente contro il potere istituzionale una forza di coesione e di azione. Quello che accadrà dopo, in carcere è fuori è un’altra storia. Quella del tempo presente, dove il disciplinamento e la riduzione a fenomeno patologico del conflitto sociale sembra ormai essere diventato parte del senso comune del vivere quotidiano.
Vite bruciate in assalti frontali
C’è un’immagine precisa che sigla e riassume il cortocircuito destinato a ingigantirsi nel decennio seguente: è l’istantanea di Pietro Cavallero, Sante Notarnicola e Adriano Rovoletto che, nel giugno 1968, intonano Figli dell’officina col pugno chiuso alzato mentre ascoltano la sentenza che li condanna per una serie di rapine, l’ultima delle quali terminata con quattro omicidi. Sin dalle prime udienze del processo era stato chiaro che i tre imputati non somigliavano affatto alla tipologia abituale di banditi e delinquenti. Non avevano rapporti con l’universo della malavita comune, più o meno organizzata. Erano un gruppo di amici tra le cui motivazioni il denaro non figurava al primo posto: il prototipo di quelle "batterie" di cui Emilio Quadrelli racconta la vicenda nel suo libro. Ex militanti del Pci delusi dal moderatismo del partito, intendevano le rapine come un gesto di ribellione. Avevano nell’armadio le magliette a strisce. Erano gli stessi ragazzi indomati che nel ‘60 avevano abbattuto il governo Tambroni e due anni dopo preso d’assedio, a Torino, la sede dell’Uil. All’epoca quasi nessuno si accorse che quello della banda Cavallero non era un caso isolato e anomalo. Pochissimi intuirono che di lì a poco le carceri si sarebbero riempite di gente dello stesso tipo, solo meno lucidamente cosciente della propria identità: ragazzi cresciuti nell’universo operaio del "triangolo industriale" ma con le radici affondate nel sud immigrato (non certo a caso le "batterie" protagoniste del libro di Quadrelli vengono da Genova), operai che spesso sommavano le rapine al lavoro in fabbrica, giovani proletari nelle cui scelte estreme si intrecciavano rabbia ribelle e desiderio di accedere a una ricchezza sociale che negli anni del dopo boom sembrava, ma non era, alla portata di tutti. All’inizio non colse la portata del cambiamento neppure la generazione di studenti che invadeva le piazze e sognava la rivoluzione. Ma i militanti della sorgente nuova sinistra erano almeno più pronti degli altri a percepire il segnale. Avevano letto Fanon, erano cresciuti con l’Autobiografia di Malcolm X. Dagli Stati uniti, con una lentezza inimmaginabile ai tempi di Internet, arrivavano voci e notizie su un’organizzazione di neri comunisti che aveva scommesso sul sottoproletariato dei ghetti e si era radicata rapidamente nei penitenziari della California. La guida del Black Panther Party, con Huey Newton imprigionato, era nelle mani di un ex detenuto politicizzatosi in galera, Eldridge Cleaver, l’autore di Soul on Ice. Un altro galeotto diventato marxista in carcere era il principale intellettuale del partito, George Jackson. Ma non era solo questione di teoria. Alla fine dei ‘60 gli studenti iniziavano a frequentare con una certa assiduità le patrie galere. Tragitti ancora rapidi, ma sufficienti a incontrare la nuova popolazione carceraria ribelle, a influenzarla e a esserne influenzati. La scintilla era pronta. L’incendio divampò a partire dall’aprile del `69, in perfetta e non casuale sincronia con la rivolta spontanea degli operai della Fiat. Il centro della protesta che esplode nella primavera del `69, poco prima dell’insurrezione operaia di Corso Traiano, non poteva che essere il carcere di Torino, le Nuove. Da quel momento la vicenda del circuito penitenziario italiano s’intreccia sempre più strettamente con quella del movimento rivoluzionario. "Lotta continua" organizza nel 1971 un gruppo di lavoro specifico, "I dannati della terra". Le proteste e le rivolte si moltiplicano, come il numero dei detenuti comuni che si politicizzano dietro le sbarre e adottano metodi di lotta, contro le guardie carcerarie ma anche contro le gerarchie malavitose, direttamente riprese dalle modalità del conflitto di fabbrica. Anche la durezza dello scontro all’esterno e all’interno delle prigioni procede di pari passo. Luca Mantini, militante fiorentino di Lc, fonda in carcere il Collettivo George Jackson, con l’obiettivo di riapplicare in Italia la pratica e la teoria delle "Pantere nere", puntando sul sottoproletariato extralegale. Da quell’esperienza nascono i Nap, la prima organizzazione armata dopo le Br. Nel febbraio del ‘74 la rivolta del carcere di Firenze si conclude con un morto e otto feriti. Tre mesi dopo, nel carcere di Alessandria, i morti saranno sette. Alla fine di ottobre dello stesso anno, Mantini verrà ucciso nel corso di un tentativo di rapina dei Nap. Quella che comincia così è un’epoca assai diversa: quella delle carceri speciali, dell’arrivo nelle prigioni di decine e decine di militanti delle formazioni armate, quella delle rivolte direttamente controllate dai militanti delle organizzazioni clandestine.
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