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De profundis, voci da dietro le sbarre
L'Opinione on line, 22 luglio 2004
Il primo numero de "L’opinione delle carceri" ha un titolo sui suicidi di giugno 2004, quasi 20, un record anche in un Paese con carceri da terzo mondo come è purtroppo oggi l’Italia. Tempo fa con un’infelice battuta l’attuale Guardasigilli Roberto Castelli disse che i carcerati non potevano pretendere un albergo a cinque stelle. Ci permettiamo di replicargli: a cinque magari no, ma a tre, un alberghetto lindo e pulito con stanze capienti per due o quattro persone e non per dieci o dodici come a Poggioreale, quello sì che si può pretendere signor ministro. L’idea di aprire una finestra sul carcerario a L’opinione girava da anni. Forse una mano a deciderci ce l’ha data anche il meritorio programma di Riccardo Arena, Radiocarcere, che ogni martedì alle 21 va in onda dalle frequenze di Radio Radicale. Così è nata L’opinione delle carceri, appunto. Diversa da quella radiofonica, ovviamente, visto che il mezzo è il messaggio. Ma con uno scopo comune al programma condotto da Arena: dare voce a chi non ce l’ha mai avuta.
Dimitri Buffa
L’indipendenza non è uguale per tutti
Il carcere, si sa, non fa notizia. La regola soffre eccezioni solo per motivi straordinari. È questo il caso del 41 bis che fece registrare uno dei pochissimi casi d’accordo bipartisan tra maggioranza ed opposizione. Alla fine del 2002, il regime del "carcere duro" venne, infatti, stabilizzato: non più norma eccezionale prorogata d’anno in anno bensì regime stabile di carcerazione speciale per i mafiosi. A quell’epoca, sfidando l’impopolarità, solo in pochi rammentarono i rilievi della Commissione Europea per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Disumani, ma le loro voci furono coperte dal coro sempre numeroso di chi ritiene che i diritti umani siano una merce esotica, che si apprezza all’estero ma non ha mercato interno. Con la nuova legge, a far da - presunto - contrappeso alla "stabilizzazione", venne rafforzato il potere di controllo da parte dei Tribunali di Sorveglianza. Tale passaggio fu enfatizzato dai sostenitori della riforma, che spiegarono come questa novità avrebbe impedito gli abusi e, soprattutto, avrebbe evitato che il regime del carcere speciale fosse prorogato automaticamente al singolo detenuto, senza accertare la permanenza dei presupposti d’applicabilità nel corso del tempo. In sostanza le "anime belle del 41 bis dichiararono orgogliosi che la nuova normativa era comunque più garantista (sic!) della precedente e rigettarono con sdegno l’ipotesi, avanzata da qualche malpensante, secondo la quale si stavano creando due circuiti carcerari e che, una volta entrato in quello della detenzione speciale, per un detenuto sarebbe stato praticamente impossibile uscirne. A costoro, ma anche a chi in questo Paese vuole avere una idea precisa dei rapporti tra politica e giustizia, si può consigliare di leggere la bozza di relazione predisposta in seno alla Commissione Antimafia. Commentando i primi due anni di applicazione della legge, ed in particolare il fatto che in 72 casi (cioè meno del 10% del totale) i Tribunali di Sorveglianza hanno revocato il regime a persone ritenute non più collegate con il crimine organizzato, nella relazione si stigmatizza che da parte del Ministro di Giustizia non vi sia stato "un allarme tempestivo in ordine a questo trend negativo", si invoca "l’attivazione delle iniziative politiche ed istituzionali necessarie per dispiegare ogni energia nel contenimento del fenomeno" e, per concludere, di fronte a "questo grave fenomeno" si "rileva con preoccupazione la condotta di molte Procure Generali che non hanno proceduto alla impugnazione". In sostanza la Commissione non solo entra nel merito delle singole decisioni dei giudici, per delegittimarle, tanto per usare un termine caro ai magistrati antimafia, ma dimostra in concreto che la tanto decantata giurisdizionalizzazione del regime va bene solo fin quando i magistrati mantengono la carcerazione speciale, se revocano devono essere censurati dall’Esecutivo. La cosa più divertente, se il termine può essere usato in questo contesto, è che l’estensore della bozza di relazione è un parlamentare dell’opposizione ex magistrato. Due categorie in una, verrebbe da dire, entrambe particolarmente attive nel difendere l’indipendenza dell’ordine giudiziario quando si parla della separazione delle carriere e che dell’intangibilità delle sentenze da parte del potere politico hanno fatto una, sacrosanta, ragione di vita. La coerenza, come è noto, in politica è merce rara: ma tanto quando si parla del carcere non se ne accorge nessuno.
Valerio Spinarelli, segretario dell’Unione delle Camere penali
Un 41 bis segreto per Pazienza
Da lunedì scorso Francesco Pazienza, detenuto considerato "antipatico" per definizione, ha iniziato uno sciopero della fame presso il carcere di Livorno, dove è ristretto, per la difesa dei suoi diritti. In un paese civile e democratico chiunque, anche se condannato con sentenza definitiva (quanto giusta, nel caso di Pazienza, non è chiaro), non dovrebbe perdere la possibilità di godere degli stessi diritti di tutti gli altri detenuti, anche se "antipatico". Ma l’Italia, si sa, non è un paese normale. Dal 2000 il dott. Pazienza è sottoposto, per discrezionale disposizione ministeriale, a uno dei cosiddetti regimi detentivi "differenziati", denominato burocraticamente E.I.V.. (elevato indice di vigilanza). Tale regime teoricamente - a differenza di regimi speciali di detenzione ben più noti (ad esempio il cosiddetto 41 bis) - non dovrebbe comportare alcuna limitazione per l’accesso a tutti quei benefici previsti dalla legge in caso di comprovata buona condotta e di recupero (semilibertà; lavoro esterno; permessi temporanei; affidamento ai servizi sociali). I regolamenti (non le leggi) prevedono l’applicabilità dell’E.I.V. sulla base di criteri impressionanti per genericità (in cui potrebbe rientrare chiunque), prevedendolo persino per "soggetti di interesse dell’opinione pubblica". In un documento relativo a Pazienza, lo scorso anno, il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) esclude formalmente, nero su bianco, che il regime detentivo in questione precluda al detenuto i benefici previsti dalle leggi dello Stato. La stessa affermazione è contenuta in una decisione della Corte di Cassazione, secondo cui il regime EIV non incide sui diritti soggettivi dei detenuti e non è perciò impugnabile davanti al Tribunale di Sorveglianza né davanti alla Cassazione stessa (impugnazione prevista, invece, per il "41 bis"). Tutti sanno, naturalmente, che ciò non è vero, nel senso che non si è mai visto un detenuto "classificato" EIV che, pur in presenza dei requisiti di legge (recupero sociale, buona condotta comprovata etc.), sia stato ammesso ai benefici penitenziari. Una decisione del magistrato di sorveglianza di Livorno ha dato atto che la condotta del detenuto è inappuntabile e lineare, ma che il permesso non può concedersi a causa dell’applicazione, nei suoi confronti, del regime EIV… Chiunque può desumere come il Ministero abbia mentito, e menta quotidianamente, in ordine alla irrilevanza dell’EIV per essere ammessi ai benefici carcerari. Il Pazienza ha allora chiesto al Ministro la propria "declassificazione" , affermando di non aver fatto nulla, dal 2000 in poi (e anche prima), per meritare l’EIV e segnalando che tutte le relazioni carcerarie sono positive: ma il Ministero, trascorso ormai un mese e mezzo, non risponde e non fornisce alcuna notizia ai difensori. La morale di questa storia è chiara: il Ministero ha nelle mani uno strumento simile al 41 bis (un 41 bis segreto…) che può bloccare di fatto, in modo del tutto arbitrario, la concessione dei benefici penitenziari a qualunque detenuto, con la differenza che mentre per il 41 bis (almeno teoricamente) è possibile chiedere il controllo di un Tribunale, per regimi come l’E.I.V. nessun ricorso e rimedio è permesso, se non richiedere la cosiddetta declassificazione allo stesso Ministero. E intanto dal Ministero non arriva nessun segnale e nessuna decisione. Questa è l’Italia, Signori.
Renato Borzone, Avvocato
Angiolo Marroni: "Non mollerò mai la lotta per i detenuti"
Nell’ottobre scorso la Regione Lazio ha varato una legge innovativa, che prevede un "garante per i detenuti", una specie di difensore civico ma con poteri ben precisi. Il Lazio ha scelto il suo garante nel febbraio di quest’anno. Con il voto di tutti i gruppi sia di maggioranza sia di opposizioni, e con l’approvazione esplicita di Storace, è stato nominato il diessino Angiolo Marroni. Consigliere regionale per 20 anni, assessore al bilancio nelle ultime due legislature uliviste, Marroni e la moglie, Leda Colombini vanno in carcere tutti i sabati da circa venti anni, come "volontari". Tutto si potrà dire di Marroni, tranne che non sia esperto della materia che andrà a trattare. L’opinione intervistò Marroni poco dopo la sua nomina. Dopo cinque mesi, gli chiediamo come stanno andando le cose.
Signor Garante come procede il suo nuovo lavoro? Non procede affatto. Nel senso che non siamo riusciti a fare nemmeno il primo passo: il Ministero della Giustizia non ha stabilito le norme per regolare il mio accesso nelle carceri della regione.
Non dovrebbe essere un grosso problema per lei, che entra in carcere da venti anni… Temo di avere peccato di ingenuità… quando fu scritta la legge, fui proprio io a insistere perché fossero messi alcuni paletti: l’ufficio del garante, che opererà adesso sotto un governo di centrodestra, ma opererà in futuro anche sotto altri governi, doveva essere al di fuori delle dispute politiche, nessuno doveva essere tentato di utilizzarlo per prendere voti o trarne profitto professionale… quindi indicammo alcuni precisi "conflitti di interessi": non potevano essere nominati né politici in carica, né giornalisti, né avvocati. Ne consegue che per fare il "Garante" io abbia dato le dimissioni da consigliere regionale. Credevo che l’unico problema fosse il ritrovarmi con lo stipendio dimezzato, e invece adesso il ministero di giustizia, da diversi mesi, sostiene che poiché non sono più un consigliere regionale, non ho più diritto di entrare in carcere per effettuare delle ispezioni.
Ricordiamo ai nostri lettori che la legge italiana prevede che i deputati nazionali, quelli regionali possono entrare in carcere in qualsiasi momento, senza preavviso, al fine di verificare le condizioni igienico - sanitarie, o eventuali stati di tensione o violenza… Esatto… io per venti hanno ho avuto questa prerogativa, ne ho fatto ampio ed equilibrato uso, e adesso all’improvviso l’ho persa. Mi viene detto che è stato il ministro Castelli in persona ad avocare a sé la pratica… da mesi la procedura è ferma. L’ultima proposta che il ministero ha fatto al Garante è quello di dargli le prerogative dei "volontari", ossia entrare in certi giorni, in determinate fasce orarie, con accesso solo ad alcuni settori del carcere e non ad altri, incontrare alcuni detenuti e non altri, e comunque solo alla presenza degli agenti di polizia penitenziaria.
Immagino che sia difficile raccogliere lamentele o testimonianze di eventuali irregolarità se il detenuto deve parlare alla presenza degli agenti… Guardi, ne ho parlato nei giorni scorsi anche con il sottosegretario Giuseppe Valentino, che prima dell’incarico di governo era uno stimato avvocato penalista, e certamente conosce i problemi dei carceri… purtroppo non c’è niente da fare, nessuno mi risponde.
Il garante dei detenuti non riesce a garantire nemmeno se stesso? Il garante dei detenuti del Lazio conosceva le mille reticenze che da sempre circondano il pianeta carcere, il garante dei detenuti si rende anche conto che attualmente il governo vive un po’ alla giornata ed ha ben altre priorità, ma il garante dei detenuti non si arrenderà facilmente…
Francesca Mambro
Carcerati e istituzioni: vanno in onda le proteste
Come le è venuta l’idea di "Radio Carcere"? Vuoi la verità? Bene, l’idea di Radio Carcere, che covavo da un po’, è stata espressa la prima volta in un bar di via della Pace a Roma. Eravamo in tre: Fabio Lattanzi, Salvatore Ferraro ed io appena usciti, se pur con ruoli diversi, dal famigerato processaccio brutto dell’Università. Mi ero da poco avvicinato all’ambiente di Radio Radicale e descrivevo che bel mondo di possibilità fosse quello. Ad un certo punto, nel localaccio affollato e fumoso, pronunciai la parola magica e l’idea che vi era dietro. Passa un po’ di tempo e un bel giorno, busso alla porta del direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, ci presentiamo, tre parole forse quattro, poi ancora la parola magica , lui sorride, cosa rara a quell’ ora, ci salutiamo. Dopo pochi giorni un nuovo incontro con Bordin, questa volta non mi fa neanche aprire bocca . Il 7 maggio 2002, la prima puntata di "Radio Carcere". L’informazione sulla giustizia penale e il carcere non era più occasionale, fatta sullo scandalo di un arresto o su un processo eccellente, ma assumeva una dimensione di regolarità e di costanza.
Questa esperienza ha cambiato la sua vita? Direi di si, guadagno di meno ma sorrido di più, vuoi mettere!
Che difficoltà e ostacoli ha posto il ministero della Giustizia? Sia a via Arenula che al Dap, Radio Carcere si è conquistata una notevole credibilità e un qualificato ascolto. Nota dolente la questione sulla Cassa delle Ammende, ovvero gli 80 milioni di euro che per legge sono destinati alle persone detenute povere e alle loro famiglie. I Radicali e Radio Carcere hanno fatto una campagna informativa che ha avuto come esito l’approvazione di un regolamento che stabilisce come si possono avere questi fondi. Mesi fa ho fatto richiesta al direttore del Dap, il dott. Tinebra, per avere copia di tale regolamento ma non ho ricevuto nessuna risposta.
Quali sono le principali preoccupazioni dei detenuti e dei loro familiari? Essere liberi è ovviamente la prima preoccupazione. Il carcere, rumorosissimo luogo, esprime oggi la sua illegalità nel silenzio. Non mi riferisco al silenzio ambientale ma a quello delle istituzioni. Non solo l’essere detenuti ma l’essere detenuti e non ricevere risposte, questa è la pena in più per chi sta in galera, questa è la lacerante ferita di quel diritto che è anche di chi in galera non ci sta. Magistrati di Sorveglianza che non rispondono alle istanze, persone detenute a 600 km dalla propria famiglia a cui il Ministero non dice nulla, cure mediche che non arrivano mai, educatori che sono fantasmi. Questa è l’ applicazione concreta dell’art. 27, secondo comma, della Costituzione. Ci sarebbe da chiedersi la Costituzione di chi?
Dimitri Buffa
Enna: uomini, donne e topi
Viviana che è detenuta nel carcere di Enna: "Scrivo per fare sapere come noi detenute del carcere di Enna siamo costrette a vivere. Prima di tutto abbiamo problemi coi topi. Infatti quando io e le mie compagne di sventura andiamo in cortile per l’ora d’aria siamo costrette a convivere con topi sia grandi che piccoli. Pensa che un giorno ne ho visto uno tanto grande che sembrava un coniglio. Non vorrei che una mattina mi sveglio in sua compagnia. Poi ti faccio presente che quando piove, nelle celle del carcere di Enna non si può stare. Infatti le celle si allagano tanto che sembriamo tutte di essere in una piscina comunale.Credimi è terribile! Vai in bagno e l’acqua ti cade in testa, i muri e il tetto della cella trasudano acqua ed è tutto gonfio e dobbiamo stare attente che non ci cada un pezzo di soffitto addosso. La muffa è ovunque e tutte noi ci sentiamo le ossa fradice".
Padova: carceri del nord e sanità disastrata
Sergio dal carcere di Padova: "Carlo, che è in cella con me, ha un tumore allo stomaco, tanto grande che gli deforma l’addome. E per curarlo gli danno solo una pastiglietta che periodicamente gli viene sospesa e non si capisce bene il perché, forse pensano che il tumore se ne sia andato. Comunque sta di fatto che Carlo deve stare per giorni senza pasticca, subendo sofferenze atroci e senza poter defecare come ogni essere umano avrebbe bisogno. Ma non basta! Carlo soffre anche con la gola e tossisce in continuazione, sia di giorno che di notte. E indovinate cosa gli danno per calmarlo? La miracolosa pasticca ovviamente. Qui nel carcere di Padova poter essere visitati dal responsabile sanitario è un miracolo, ci vogliono minimo tre domandine e soprattutto molta fortuna! Io stesso due mesi e venti giorni fa ho chiesto di essere visitato e di poter acquistare una pomata e ancora nessuno mi ha risposto. Per fortuna che siamo al Nord Italia, posto evoluto ed emancipato".
Foggia: nessun giudice di sorveglianza vuole andarci
Angelo dal carcere di Foggia: "...qui a Foggia la situazione della magistratura di sorveglianza è drammatica e in realtà non si capisce chi sia il magistrato di sorveglianza in quanto il posto è vacante e, vista l’enorme quantità di lavoro che c’è da fare, nessun giudice ci vuole andare. Per quanto riguarda il carcere di Foggia dovete sapere che questo istituto, che ospita 540 detenuti ma ne potrebbe contenere 350, ha numerosi problemi. Problemi che si potrebbero risolvere se molti detenuti potessero ottenere al liberazione anticipata. Pensate che io sono in carcere da tre anni per una pena complessiva di sei anni. Il mio non è un reato ostativo e pur avendo fatto richiesta di liberazione anticipata dal marzo del 2003 ad oggi non ho avuto ancora una risposta dal magistrato di sorveglianza. Durante la mia detenzione mi sono comportato sempre bene ma allora perché non mi rispondono neanche alle mie richieste di benefici previsti dalla legge?
Roma: trasferte giudiziarie stile Auschwitz
Gennaro dal carcere Rebibbia di Roma: "...qualche mese fa, per seguire dei processi, mi hanno trasferito dal carcere Rebibbia di Roma a quello Poggioreale di Napoli. Racconto questo viaggio per farti capire come noi detenuti veniamo trattai peggio degli animali. Il mio viaggio Rebibbia - Poggioreale inizia alle 5 e mezza di mattina, quando mi trovo nell’ufficio matricola di Rebibbia. Sono rimasto nell’ufficio matricola fino alle 7 e 30. Poi mi hanno messo le manette rigide, quelle con le quali non puoi neanche muovere le braccia, e mi hanno portato fino alla stazione. Arrivato alla stazione di Roma mi hanno fatto salire su un piccolo treno in uso alla polizia penitenziaria e appena saliti sul treno mi hanno rinchiuso in una specie di celletta tanto squallida che non riesco neanche a trovare le parole giuste per descrivertela. È più una gabbia che una cella. Le pareti sono di metallo con solo due piccoli buchi per far passare l’aria. In questa gabbia ci fanno stare in 4 detenuti, quando ce lo spazio appena sufficiente per due persone. Ci chiudono in questa gabbia e ci lasciano con le manette per tutto il viaggio. Siamo arrivati a Napoli dopo 6 ore di calvario e Ti assicuro che quando sono sceso dal treno il mio pensiero è andato ai miei compagni detenuti che sono rimasti su quel treno e che dovevano arrivare fino in Calabria. Alla fine sono arrivato nella cella di Poggioreale alle 23.00, ovvero 14 ore dopo che ero partito da Rebibbia".
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