L'Opinione delle carceri

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

L’Opinione on line, 26 ottobre 2004

 

Lombardia, le celle della vergogna

Hotel a cinque stelle? Ispezioni sanitarie nelle carceri lombarde

De profundis, voci da dietro le sbarre

Appello per la vita di Dominique Green

Giustizia e partito dei magistrati

Lombardia, le celle della vergogna

 

Sette detenuti dove ce ne dovrebbero stare tre, igiene scarsa, condizioni sanitarie al limite del terzo mondo. Benvenuti nelle carceri della Lombardia, il motore economico d’Italia. Da San Vittore a Opera, da Como a Brescia, da Busto Arsizio a Castiglion delle Stiviere, il Nord non da il meglio di sé quando si parla di galere. E mentre il ministro Castelli rimane appeso alla battuta sugli hotel a cinque stelle i consiglieri radicali in regione distribuiscono i primi dati sulle ispezioni svolte.

 

Hotel a cinque stelle? Ispezioni sanitarie nelle carceri lombarde

 

Per iniziativa dei tre Consiglieri regionali radicali, la Commissione III del Consiglio regionale (sanità, famiglia e affari sociali) è stata sollecitata d’urgenza a calendarizzare visite ispettive negli Istituti di detenzione lombardi per rilevare direttamente la grave situazione sanitaria, anche in relazione con gli aspetti dell'abitabilità delle celle e del sovraffollamento, per i loro riflessi sulla salute dei cittadini detenuti. Il primo Istituto da ispezionare sarebbe la Casa di Reclusione di Milano-Opera, seguito dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere (dipendente dal Ministero della sanità e non da quello della Giustizia). Le visite sono state richieste anche dai consiglieri Margherita Peroni e Antonella Maiolo di Forza Italia, Marco Tam dei Democratici di Sinistra e Giovanni Martina di Rifondazione Comunista. Grazie ai radicali presenti nel consiglio regionale della Lombardia ci saranno quindi presto visite, anzi ispezioni, sanitarie in tutti gli ospedali della regione. E questo dopo le proteste non violente delle scorse settimane. Una prima parzialissima vittoria per chi ritiene che la galera non debba essere l’anticamera del cimitero e la discarica sociale del Paese. Sostiene infatti il consigliere radicale Lucio Bertè, uno dei più attivi nel settore carceri, che bisognerebbe "audire i cittadini detenuti al loro domicilio, dato che loro non possono muoversi, e quindi constatare direttamente le intollerabili condizioni di vita nelle carceri, in violazione del diritto alla salute, che la Costituzione e la legge vogliono identico dentro e fuori dal carcere". Per Bertè "la III Commissione è anche competente per affrontare il problema dei bambini – innocenti per definizione – detenuti assieme alle madri, per proporre misure di esecuzione della pena alternative alla detenzione". "Ricordo che un anno fa ho diffidato i sindaci di Milano (per il carcere di Opera), Como (per il carcere del Bassone), Brescia (per il carcere di Canton Mombello) e Busto Arsizio – spiega Bertè in un comunicato - ad esercitare i poteri-doveri di ufficiali di governo per emettere ordinanze urgenti per risolvere le emergenze sanitarie, ovvero intervenendo direttamente in caso di inerzia sostituendosi all’amministrazione penitenziaria". "Ricordo altresì – conclude Bertè - che due settimane fa, in occasione della votazione in III Commissione del Piano regionale per la prevenzione delle infezioni, ho protestato vivamente perché tra le diverse collettività a rischio prese in considerazione, mancavano clamorosamente gli Istituti di detenzione. I radicali vogliono che la Commissione sanità e il Consiglio regionale assumano direttamente le loro responsabilità, dato che la Commissione carceri – pur voluta da noi - si è rivelata un alibi per la rimozione dei problemi dei cittadini detenuti".

 

De profundis, voci da dietro le sbarre

 

Chi non vuole recuperare Marco Medda, e perché

 

Esimi signori, con questa mia missiva annuncio che ho iniziato uno sciopero di tipo gandhiano astenendomi dall’assumere qualsivoglia forma di nutrimento. Tale mio gesto non è diretto a ottenere alcunché né tantomeno contro persone o istituzioni statali in particolare. È un atto di rinnovamento della mia vita, sperando di spontaneamente provocare qualche coscienza a riflettere sul destino di una persona, che nel momento in cui ha deciso di voltare definitivamente pagina con un passato vicino e lontano, si è preferito riportarlo nel girone infernale di coloro che non possono che rimanere dei dannati. Dopo avere incontrato un gruppo di diligenti operatori penitenziari in quel di San Vittore che mi hanno indotto a voltare la pagina della mia travagliatissima vita sono stato improvvisamente trasferito a Monza e successivamente a Livorno. Ciò ha determinato il riapparire nella mia sofferta personalità di vecchi fantasmi non potendo neppure più incontrare la donna che ho sposato, e che quindi si suppone che ami, perché anche lei priva della libertà è rimasta a Milano. Tutto quello che avevo costruito o che avevo iniziato a costruire nel carcere di San Vittore tutto svanito, volatilizzato. La pittura, gli affetti personali, gli interessi intellettuali che valenti operatori penitenziari milanesi erano riusciti a fare attecchire nella mia anima sono stati tutti improvvisamente e volutamente sradicati. Perché, perché? Mi chiedo e vi chiedo! Allorché "qualcuno", manzoniano innominato, ha pensato che il celeberrimo recupero sociale del condannato previsto dall’art. 27 della nostra Costituzione non poteva e non doveva realizzarsi anche per Marco Medda tutto e più di tutto sì è sprigionato in un crescendo di asserzioni spesso oniriche e francamente vaneggianti. Sono stato addirittura accusato di pianificare una fìlmica evasione con elicotteri mai esistiti se non nella fervida fantasia di chi si è letteralmente inventata questa sceneggiatura hollywoodiana! Ciò sarebbe accaduto nell’istituto milanese di Opera. Cionostante ho ancora reagito positivamente ed una volta trasferito a San Vittore, ove ho trascorso quattro anni in regime "normale", il nuovo Marco Medda era giunto alla vigilia di concessione del cosiddetto art. 21 con lavoro esterno già pronto, il matrimonio e il sogno di una vita che avrebbe potuto approdare a una sembianza di normalità, poi, improvvisamente, senza apparente motivo, nuovamente la mannaia! Perché? Perché? E’ molto chiedere che quel nuovo Marco Medda sorto o risorto nel carcere di San Vittore possa, novella Fenice, risorgere ancora? Non sarebbe questa una innegabile soddisfazione proprio per il "sistema" che dimostrerebbe come si possa "recuperare" un "irrecuperabile" come me che tale viene erroneamente giudicato? Parafrasando uno dei padri fondatori di questa patria il mio è un grido di dolore che si leva da una sola parte d’Italia: il reparto E.I.V, del carcere di Livorno. Grazie per la vostra paziente attenzione e sono pronto a fornire ogni spiegazione, e documentarla, anche ad ispettori ministeriali. Non si abbia paura di Marco Medda perché tutto ciò che è accaduto dopo il 13 luglio 2003 è solo l’espressione di una disperazione esistenziale e reazione a una negazione di una giustizia spicciola fatta di piccole cose cui anche un detenuto ha diritto! E mi permetto di evocare come "testimone" di quanto evoco il sig. provveditore della Lombardia Felice Bocchino.

 

Marco Medda – Livorno

 

Appello per la vita di Dominique Green, di Francesca Mambro

 

Per una volta ci allontaniamo almeno all’apparenza dai temi italiani e parliamo di Dominique Green. E’una storia che conosciamo bene perché una nostra cara amica, Barbara Bacci, dodici anni fa rispose all’appello di aiuto di un diciottenne afroamericano rinchiuso nel braccio della morte di Huntsville in Texas. Green era stato arrestato all’età di 18 anni, per l’omicidio a scopo di rapina di Andrew Lastrapes, commesso il 14 ottobre 1992. L’anno successivo era stato condannato a morte. I suoi difensori, tra cui Sheila Murphy, ex giudice dell’Illinois, sostengono che il processo sia stato viziato da pregiudizio razziale (Green, nero, ha avuto una giuria popolare composta solo da bianchi) e da assistenza legale di basso livello. Recentemente sia il capo della polizia di Houston, Harold Hurtt, sia due senatori eletti nella Harris County, la regione di Houston, avevano chiesto una sospensione di tutte le esecuzioni in attesa di fare chiarezza sul sistema di archiviazione dei reperti fisiologici nei laboratori dove la polizia effettua i test del dna. Di questi reperti, almeno 280 sono risultati etichettati in maniera sbagliata, o mal conservati. Gli stessi famigliari della vittima non credono alla colpevolezza di Dominique Green e si sono uniti all’appello di premi Nobel come Desmond Tutu, che ha incontrato Dominique e ha avuto parole di incoraggiamento per lui. Il Nobel per la pace ha preso con decisione la parola contro la pena di morte, rimarcandone l’incongruenza in un paese civile e democratico come gli Stati Uniti, e ha auspicato che non venga fatto l’imperdonabile errore di giustiziarlo. Ma nonostante i molti autorevoli appelli l’esecuzione è prevista per stanotte. A meno che non arrivi una telefonata per la sospensione della condanna a morte in attesa di rivedere il processo. In questi dieci anni Barbara Bacci, volontaria per passione e non di professione nel business del no-profit, ha scritto a Dominique quasi tutte le settimane. E’ lei, insieme a suo marito, ad aver messo in piedi un comitato Dominique Green, ad aver raccolto gli appelli di premi nobel e le adesioni da ogni parte del mondo. E’ lei che è andata a trovarlo appena riusciva a mettere da parte i soldi per il biglietto. Ha fatto la stessa cosa la settimana scorsa quando Dominique le ha chiesto di essere presente mentre chiuderà gli occhi per l’ultima volta. Oltre ad essergli amica è la sola famiglia che l’abbia seguito. Ai genitori non è mai importato di Dominique quando era vivo, tantomeno gli importa ora che sta per morire. Barbara è forte e non si è tirata indietro anche se noi, i suoi amici, sappiamo che resterà per sempre traumatizzata. Ma nonostante la scarsa attenzione sulla storia di un condannato a morte (perché il tema del giorno sono le elezioni americane) e a differenza di quello che la vita non ha fatto per Dominique Green, ci sarà lei a chiamarlo per nome e a volergli bene.

 

Giustizia e partito dei magistrati: la riforma dell’ordine giudiziario non è cosa loro

 

di Mauro Mellini

 

Gli alti lai di una corporazione che non si rassegna a perdere il proprio potere nella vita politica italiana e che pretende che le vengano fatte leggi su misura.

Siamo alle solite. Quando sta per andare in porto una qualche riforma, una legge riguardante la Giustizia che non sia stata patrocinata, invocata dai magistrati, dalla loro Associazione o dalle sue "correnti" prevalenti, alte si levano le grida di dolore o di sdegno dei magistrati medesimi e di quelli che, pur essendo magistrati (o non essendolo più), ben potrebbero, anzi, dovrebbero dirsi appartenenti al partito dei magistrati. Un partito che, appunto, non è composto di tutti i magistrati (come certi "partiti dei lavoratori") e che, al pari anche in ciò di tali partiti di sovietica memoria, non raccoglie tutti i lavoratori. Semmai, impedisce che quanti non sono accolti nelle sue file, altrimenti si esprimano. Assieme alle grida di dolore e di sdegno, agli starnazzamenti ed alle minacce di cui sopra, si levano puntualmente anche autorevoli ed accorate invocazioni alla prudenza, alla concordia, ad evitare scontri frontali, a trovare soluzioni concordate, "condivise", umanismi etc., etc., etc. Possiamo dire che sono proprio queste ultime esortazioni a rappresentare l’aspetto viscido ed equivoco della vicenda ed, allo stesso tempo, a consentire, meglio di ogni altra cosa, di capire quale sia la vera origine del marasma della giustizia e quello delle istituzioni che attorno a quello si sviluppa ed, a quanto pare, si aggrava anziché sedarsi. L’arroganza della magistratura, la sua rivendicazione di "sovranità", non solo nell’amministrazione della giustizia, ma in tutto ciò che, comunque, ha a che vedere con la giustizia ed anche per ciò che riguarda le leggi che la giustizia dovrebbe applicare e quelle che della giustizia regolano la struttura, le modalità, i limiti e le responsabilità, non può essere compressa, valutata e contenuta, ove non si voglia tener conto del "golpe" intervenuto (ed ancora oggi, per più versi, in atto) nel nostro Paese che della giustizia ha fatto il suo strumento, il suo perno e la sua giustificazione. Giustizia, ovviamente, come struttura e non come concetto ed ideale, se non nella sua degenerazione pangiurisdizionalista e giustizialista. Allo stesso tempo, questi atteggiamenti, questa arroganza, l’esistenza indubbia di un autentico "partito dei magistrati" sono anche una spiegazione del golpe, di come esso si sia potuto realizzare ed avere successo e di come tuttora esso incombe sulla vita politica italiana. Certo che ad affiancarsi nelle grida di sdegno e di dolore dei magistrati ed a supportare, più o meno apertamente, le loro minacce, ma anche a levare quelle esortazioni alla comprensione, alla concordia, all’unanimità, sono i beneficiari del golpe, più o meno facilmente individuabili come tali ed addirittura più o meno coscienti di esserlo. Ed è pure certo che il golpe, il suo successo, la sua copertura, la mancata eliminazione delle condizioni che lo hanno reso e rendono possibile (e che, al contempo, hanno reso e rendono possibile altre e forse più gravi e durature sciagure per la nostra gente) hanno potuto e possono contare, soprattutto, su quegli atteggiamenti "buonisti", "prudenti", "disponibili", "dialoganti", mediatori e, soprattutto, attendisti. Questi atteggiamenti rivelano tutta la loro strumentalità e pericolosità ponendosi con maggiore evidenza ed insistenza quanto più l’arroganza del fondamentalismo giudiziario giustizialista prorompe e si fa minaccioso. Così, la "mediazione" si trasforma in un "valore aggiunto" dell’eversione, nel perno delle sue manovre, nella base delle leve per le sue effrazioni dell’ordine istituzionale. Certo è che ammettere che ogni riforma della giustizia s’abbia da fare con l’"autorizzazione", se non su mandato, dei magistrati (di quelli che guidano la demagogia della corporazione) è, di per sé, atteggiamento eversivo, prima ancora che sciagurata premessa d’una qualsiasi soluzione dei complessi problemi che oramai si aggrovigliano in questo campo. La riforma oggi in cantiere non è certo il meglio che si potesse fare. E’, anzi, pressoché il peggio, visto che il peggio è non fare nulla. Essa è, del resto, già fortemente condizionata dall’intento di non esprimersi chiaramente in modalità, nome, principi che dispiacciano troppo ai magistrati. Col risultato di dispiacer loro quanto basta per irritarli, mobilitarli, compattarli, di far loro balenare desideri di rivalsa e di ribellione. Ed, allo stesso tempo, andando in porto, essa non darà né nell’immediato né a medio o lungo termine, quei risultati che soli potrebbero domare la rivolta e ristabilire condizioni accettabili. Sembra che la classe politica, quel che di essa è rimasto e per quanto essa abbia un minimo di coesione e di intenti che la identifichino e la rendano degna di tale nome e funzione, non abbia compreso che la questione della posizione e funzione della giurisdizione, la sua pretesa di costituirsi in "potere" e di atteggiarsi rispetto alle altre istituzioni è problema centrale delle prospettive di vita democratica e di libertà nel nostro Paese, così come è problema non secondario altrove. Noi vorremmo dire, dunque, che la Giustizia (con la g maiuscola) è "cosa nostra", nel senso più altro, nobile in cui un popolo, nella sua interezza, può rivendicare l’appartenenza di una istituzione, di una funzione dello Stato in cui si vive. Ma, ad usare una tale espressione, oltre che a dire, tutto sommato e con riferimento a dati soverchianti della realtà, una autentica bugia, rischieremmo, addirittura, di essere accusati di mafia o, magari, che so, di vilipendio delle istituzioni, tanto poco è divenuto evidente e comprensibile il concetto. Ma diremo con forza, e pretenderemo che chiunque abbia responsabilità di legislatore o di alto o supremo moderatore della vita delle Istituzioni e dello Stato non lo dimentichi, che la Giustizia non è "cosa loro", di una corporazione o di una frazione di essa. Non è certo pretendere troppo.

 

Pagina a cura di Dimitri Buffa Scrivete a: L’opinione, rubrica "L’opinione delle carceri", via del Corso 117 – 00186 Roma - E mail redazione@opinione.itbuffa@opinione.it

 

 

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