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De profundis, voci da dietro le sbarre
L’Opinione on line, 9 novembre 2004
Lo Spoon River dell’isola di Santo Stefano, di Francesca Mambro
Giorni di preghiere e di ricorrenze per i defunti. C’è ancora un raccolto pellegrinaggio davanti ai cimiteri del Paese. E poi c’è un piccolo cimitero dimenticato quasi da tutti: è il cimitero dei detenuti dell’ergastolo di Santo Stefano. Sul muro del cimitero c’è una scritta "Scuola di alti pensieri/una vita di dolore/ un pugno di polvere/un’anima immortale". Isola pontina tra le più belle del Tirreno, santo Stefano era nota fin dai tempi dei romani che la scelsero per i bagni delle nobildonne adultere della famiglia Augustea, mandate in esilio nella vicina isola di Ventotene. Si tornò a parlare dell’isola di santo Stefano quando Ferdinando IV di Borbone ordinò di costruirci il carcere e ci pensarono i condannati ai lavori forzati. Inaugurato nel 1795 ebbe subito fama di luogo di tortura da dove era impossibile evadere. All’ingresso c’è una scritta dove si recita che in quelle celle venne rinchiuso l’antifascista Sandro Pertini. Ma secondo i racconti degli isolani il carcere venne usato solo agli inizi per alcuni prigionieri politici tutti gli altri restarono confinati su Ventotene e sorvegliati dai carabinieri e dalla milizia. Poi nel 1947, con la carta costituzionale nell’art.27 dove verrà definito il concetto di pena in una prospettiva di rieducazione, sarà proprio il carcere di Santo Stefano tra i primi a migliorare la vita dei condannati. Il merito della svolta va anche al direttore Perugatti che ordinerà di far lavorare i detenuti non solo nel carcere ma anche sull’isola. Nel 1965 il penitenziario e il piccolo cimitero con oltre 50 tombe venne chiuso e fino a pochi anni fa era nel più completo abbandono, razziato di tutto e lasciato in balia dei vandali- Sono rimaste solo le mura, perfino le lapidi e le croci del cimitero hanno fatto gola ai saccheggiatori. Finché un giorno a Santo Stefano è sbarcato Gennaro Matrone. Classe 1941 ha servito lo Stato come guardia carceraria iniziando proprio da quel penitenziario e da quando è andato in pensione si è messo in testa che vuole metter una croce su quelle tombe e portare le salme degli ergastolani nel cimitero di Ventotene perché abbiano una degna sepoltura. L’isola con quella costruzione di pietra grigia è un luogo desolato che Gennaro cerca di tenere in ordine e pulito. Ci vive per dieci mesi come un eremita nella casa dei coloni che vi abitavano quando il carcere era aperto. L’ha affittata chiedendo al comune di Ventotene di occuparsi dell’isola come guardiano. E anche come un lontano parente di morti di cui non si sa niente. Signor Matrone, ma come mai le è venuto in mente di occuparsi delle spoglie degli ergastolani? Perché per la maggior parte di questi detenuti la sola famiglia che avessero era Santo Stefano, carcerati e guardie. Molti venivano abbandonati al loro destino e quasi nessuno di loro aveva rapporti con la famiglia tanto che su 350 detenuti la posta in arrivo non superava le 50 lettere. Il giardiniere Michele, ad esempio, morto nell’infermeria del carcere a 94 anni, è sepolto proprio qui e ricordo che appena cominciò a circolare la voce che il carcere chiudeva al povero Michele venne un colpo tanto che avrebbe voluto essere già morto. La cella era la sua casa, l’unica che avesse mai avuto. Lui come tutti gli altri erano soli e potevano contare solo su quella strana famiglia. Mi ricordo come di quei condannati nessuno diceva di essere innocente anche se oggi con l’esperienza e la maturità so che parecchi di loro avrebbero potuto ottenere non poche attenuanti. Molti erano giovanissimi, poveri e in maggioranza analfabeti L’ergastolo gli era stato inflitto per omicidi commessi all’interno della famiglia, o per vendetta o per liti di vicinato. Per lo più provenivano dal centro sud calabresi sardi siciliani. Ogni detenuto se conosceva un lavoro poteva svolgerlo: falegnami, tessitori, calzolai, spazzolai, intelaiatori, elettricisti, fabbri, sarti, fornai, cuochi, ma anche contadini misero su una vera e propria azienda agricola autosufficiente. Venivano prodotti anche 600 quintali di legumi e 500 barili di vino con quello che si coltivava su Santo Stefano. Tanto che l’isola di Ventotene se ne serviva ammortizzando i periodi di magra dell’isola. Il direttore premiò il loro lavoro proiezioni di film oppure le partite di calcio nel campo sportivo e con la bella stagione li autorizzava a fare il bagno in un approdo dell’isola chiamato Vasca Giulia. Questo luogo e le persone che vi ho conosciuto sono state una parte importante della mia vita… Scusi, ma chi glielo fa fare ad aggirarsi da solo in un cimitero di ergastolani, lei che è andato in pensione con una serie di lodi per come ha prestato servizio nello Stato Italiano? So di aver fatto sempre il mio dovere. Non ho mai maltrattato o fatto rapporti ed io a mia volta non ne ho mai avuti. Per quello che ho potuto ho aiutato dei poveri cristi. Oggi sono un pensionato con i figli imprenditori ben sistemati e mia moglie che ha molta pazienza per quella che a tanti pare una stranezza. A me sembra un dovere dare degna sepoltura a persone che ho conosciuto e che per i loro errori hanno pagato in tutti i sensi. Ricordo perfettamente che i soldi guadagnati da questi detenuti in 30 40 anche 50 anni di carcere erano delle cifre notevoli per l’epoca e che alla loro morte andavano nella Cassa delle Ammende. Girare sull’isola, curare i sentieri, tener pulito il cimitero e raccontare ai turisti la vita che c’è stata, è un modo per mantenere una promessa. Ho promesso un fiore e un cero per ogni tomba. Quest’anno per il 2 novembre aspettavo il sindaco perché dopo tanti anni le tombe sono riconoscibili. Ho tolto la terra, i sassi,le erbe selvatiche che le nascondevano. E da solo ho detto il rosario in mezzo a loro.
Un malato di Aids perseguitato dalla burocrazia giudiziaria
Roma Rebibbia 25-10-2004 Reparto G 12 1° piano Sezione B cella numero 3
Signor Ill.mo Dimitri, sono Madaio Angelo, un detenuto malato di Aids conclamato, con epatite C. Piastropenico e chissà quale altre patologie in atto. Non le scrivo dalla infermeria di Rebibbia, ma bensì da un reparto dove sono tutti lavoranti meno che io. Ciò non lo capisco. Residente a Roma, in via Dandolo n. 10 presso la comunità Sant’Egidio tossicodipendente. Fuori, usavo, assumevo solo il farmaco "metadone". Riconosciuto invalido civile al cento per cento dalla Asl della 1° circoscrizione di Roma, il dott. Tucci che lavora all’Inps di via Ambaradam, mi stava facendo il conteggio dei soldi. Perché come forse sapete ogni tre anni devo fare la revisione. Così è stato, la commissione fu fatta, perché anche se loro mi hanno di nuovo ridato la pensione, e se non ricordo male per altri cinque anni mi è stata bloccata. Per cui dal primo gennaio 2004 dovrei prendere gli arretrati. Benissimo. Il 18 giugno 2004 mi telefonano i carabinieri di Roma Prati, la Nunzio Clementi; Angelo, c’è una notifica per te, puoi passare? Io stavo tranquillissimo, anche perché come sempre facevo l’istanza per la sospensione a causa malattia, e così insieme alla mia convivente, Gennaioli Stefania, mi sono recato in caserma. Signor Dimitri, può immaginarsi quando ho saputo che c’era un ordine di esecuzione, mandato di arresto di un cumulo di pena di tre anni, nove mesi, ventitré giorni. Non c’erano parole. Arrivo a Rebibbia, come di solito il dottore visita i nuovi aggiunti. Maledetto quel giorno che mi sono presentato per quello che sono. Dottore, gli dissi, sono un malato cronico di Aids e ho bisogno di essere curato e prendere puntualmente la terapia che prendevo allo Spallanzani III divisione dalla dottoressa Giuseppina Linizzi. Sinceramente funzionava, vivevo. Era tutto sotto controllo. Carica virale, Tc4, piastropenia, epatite C. Niente, è iniziato dal giorno 18-06-04 il vero inferno. Non ho idea del perché. Eppure ho spiegato bene agli operatori di Rebibbia, sia all’equipe sanitaria sia a quello degli assistenti agenti, ispettori ecc.. Per loro è stato indifferente. Evidentemente un malato in carcere non è importante. Mi sbattono in una cella al reparto G11 con sette persone. Io stavo a pezzi, malissimo, scalavo il metadone, ho avuto la possibilità di parlare con la psichiatra e il dottore del G11 e l’infettivologo esponendo il mio problema sanitario. Loro mi dissero: "abbi pazienza, all’infermeria Rebibbia G14 malattie infettive non ci sono posti, però puoi occupare la cella n. 13 da solo, infatti è una cella singola. Niente, così è stato! Non ricordo esattamente il giorno. Anzi una sera mi sono sentito malissimo, ho chiesto per due ore consecutive l’intervento di un dottore o di un infermiere. Non ci sono stati versi! Allora ho preso tutti i miei indumenti e ciò che avevo in cella, l’ho messo fuori, anzi avevano chiuso il blindato in pieno luglio e l’ho appoggiato all’entrata della cella dal di dentro. Ho pulito come potevo la cella, mi sono messo dentro l’armadietto e ho fatto silenzio dopo aver perso tutte le forze fisiche sperando nell’intervento del dottore. Ad un tratto sento le chiavi aprire la mia cella n. 13, vengo chiamato entrano quattro, cinque o sei guardie (sorveglianza) noi detenuti la chiamiamo squadretta, vestiti con camici verdi, guanti e manganelli. Beh, mi hanno pestato di botte, stavo facendo anche lo sciopero della fame e della sete, mi creda, il percorso dal G11 cella n. 3 piano terra fino al G6. Dal dottore mi hanno gonfiato, spaccandomi la protesi con i manganelli mi hanno picchiato sia sulle ossa della gamba destra che sinistra. In testa ricevevo pugni, in faccia schiaffi, mi tiravano i capelli. Ricordo l’infermiere che diceva no, non così forte. Finalmente mi portarono dal dottore; premetto che stavo anche sulla barella. Finalmente il dottore ordina, in due secondi, una puntura e mi risveglio al G6 legato mani e piedi, nudo, solo con le mutandine in una cella liscia senza nemmeno il materasso; non ricordo quanti giorni sono stato segregato. Sta di fatto che mi hanno fatto urinare addosso, senza mangiare e bere. Ogni tanto un bicchiere d’acqua. Saranno stati oltre 15 giorni. Finalmente arriva a vedermi un signore in borghese che non so chi fosse, e un agente che conosco bene dell’infermeria G14. Mi fanno fare una doccia, che sollievo, ma non mi rimandano in reparto. Mi promettono che se faccio il bravo due o tre giorni e lascerò la cella liscia. Nel frattempo ordinarono di slegarmi; pensate mi avevano legato così forte che il sangue faceva fatica a circolare, infatti la mano destra, il ditone, per esattezza, il pollice destro s’era ingrossato e si era formato tutto sangue o pus che in seguito il chirurgo ha dovuto incidermi. Rimasi ancora per sicuramente altri 7 o 8 giorni in quella cella. Continuavano a torturarmi psicologicamente e perfino un agente mi diede un pugno al petto così forte che da allora faccio fatica nella respirazione. Finalmente arriva il giorno che mi riportano al reparto G11 cella 13. Dopo tutto quello non c’è stato verso di andare in infermeria, continuavo a soffrire, ma capii che era inutile far valere i miei diritti. Finalmente mi mandarono al reparto G12. Mi promisero che avrei occupato una cella con la tazza del cesso e da solo. Bugie. Mi misero al reparto G12 1° piano sempre insieme agli altri detenuti, io sono purtroppo molto preciso su queste cose, appena entrai in cella con gli occupanti di quella cella gli spiegai il mio problema. Mi dissero, non prendertela a male, ma noi siamo padri di figli e giustamente tu vai curato. Non devi stare qui, ti devono portare in infermeria, ma non vedi che tremi, che vomiti sangue. E’ vero, vomitavo sangue e avevo sempre tremori e altri sintomi della malattia. Chiamai l’ispettore, spiegai il fatto, niente mi rimisero in una altra cella da solo, al reparto G12, piano terra cella otto o nove. Questa è una sezione dove stanno i cosiddetti "pazzi". In questa sezione ne ho passati di tutti i colori. Solo, abbandonato, umiliato. Perché? Perché sono un malato cronico di Aids C3. Sarò stato all’incirca due mesi e qualche settimana. Ho cercato di parlare col prete, col direttore; niente, nessuno mi voleva. L’aria la facevo nei cubicoli, ma non sono un G16 Bis, né un mafioso, né un camorrista. Ho tentato di spiegarlo a tutti. Oggi mi è rimasta la speranza della penna. Per questo vi chiedo aiuto e grazie a Gioia, assistente volontaria ho potuto ricevere il suo indirizzo. Distinti saluti Signor Dimitri
Madaio Angelo
N.B. Il 24-11-04 mi hanno fissato la Camera di consiglio; Tribunale Sorveglianza di Roma ore 9,00. Magistrato Longo…. La miseria è una offesa al padre Creatore chiedo scusa, ho paura, ma "oso".
Morire di galera: dossier ottobre 2004
La lista dei "morti di carcere" si allunga inesorabilmente: lo scorso mese si sono registrati 5 casi di detenuti morti per suicidio e 2 per malattia. Le "storie" raccolte dall’informatissimo e scrupoloso sito internet Ristretti Orizzonti dall’inizio dell’anno sono ormai 80. Tra essi i suicidi sono ormai a quota 45. Una bella vergogna per un Paese secondo la cui Costituzione la pena serve a migliorare chi la sconta e a reinserirlo nella società.
Assistenza sanitaria disastrata: 2 ottobre 2004, Carcere di Pisa Detenuta italiana, di 30 anni, muore nella sua branda durante la notte. Le compagne di cella se ne accorgono solo al mattino, quando ogni soccorso è inutile. Il corpo non presenta segni di violenza, la causa del decesso sarebbe un infarto cardiaco (Indymedia, 5 ottobre 2004).
Suicidio: 4 ottobre 2004, Milano Francesco Mercuriali, 65 anni, ex primario dell’Ospedale "Niguarda" di Milano, si uccide piantandosi un coltello nel cuore. Era agli arresti domiciliari da 5 giorni, accusato di corruzione e turbativa d’asta. Il primo interrogatorio di Mercuriali, di fronte al Gip Luisa Verga, era fissato proprio per il giorno nel quale si è ucciso, senza lasciare alcuna lettera. I difensori, tuttavia, non hanno nulla da eccepire sul comportamento di magistrati e inquirenti. Dichiarano che l’ex primario era gravemente malato (un tumore al cervello) e riconducono alla malattia, più che all’imminente interrogatorio, le cause del suicidio. I magistrati non sapevano del tumore (Il Manifesto, 5 ottobre 2004).
Suicidio: 5 ottobre 2004, Carcere di Pisa Alessandro M., 41 anni, si uccide impiccandosi in cella. Ad accorgersi di quanto era avvenuto sono state le guardie, ma ogni tentativo di rianimare l’uomo è stato vano. La tragedia si è consumata in pochi minuti. L’uomo, che aveva chiesto di stare in cella da solo, ha eluso la sorveglianza delle guardie e si è impiccato usando delle lenzuola annodate fra loro. Una esistenza difficile, straziata dalla dipendenza dalla droga, che lo aveva visto spesso recluso al Don Bosco sempre per episodi della stessa natura.
Padre di una bambina di 4 anni, avrebbe voluto vederla più spesso, nonostante sia i familiari che gli operatori sociali che lo seguivano cercassero di spiegargli i motivi di opportunità che sconsigliavano le visite della bambina al Don Bosco. Negli ultimi tempi l’uomo era particolarmente depresso e per questo ancora più attentamente seguito. Ma le attenzioni non sono bastate. MartedÏ sembrava tranquillo, ma, appena le guardie si sono allontanate ha messo in atto il suo piano con le lenzuola, evidentemente preparate durante la notte. La salma è stata composta all’istituto di medicina legale per l’autopsia, mentre sul suicidio è stata aperta un’inchiesta coordinata dal Pm Aldo Mantovani. I funerali si terranno non appena la salma sarà restituita, a spese dell’amministrazione comunale. Ad organizzare la cerimonia saranno gli operatori del carcere (Il Tirreno, 7 ottobre 2004).
Il 5 ottobre al carcere don Bosco di Pisa si è tolto la vita Alessandro, livornese. Alessandro aveva già tentato il suicidio l’8 agosto scorso, ma i suoi compagni se ne erano accorti ed erano riusciti ad impedirlo. Quella notte fu lasciato in cella completamente nudo, solo con il materasso e null’altro. Alessandro era stato giudicato incompatibile con il sistema carcerario ed era invalido al 100%. Doveva essere fuori dalla galera ma non trovavano nessuno (o forse non lo volevano trovare?) che fosse disposto ad accoglierlo in affidamento. Perché Alessandro non era ricoverato al Centro Clinico del don Bosco, visto che era invalido al 100%? Alessandro è morto 2 ore dopo dal suo tragico gesto: perché nessuno l’ha portato al Pronto Soccorso? (Indymedia, 8 ottobre 2004). Alessandro ha lasciato 48 euro, di Adriano Sofri.
Martedì mattina c’è stato un improvviso subbuglio, medici agenti e infermieri che correvano. Uno si è impiccato, Alessandro M., un uomo di 41 anni, pisano, l’hanno soccorso freneticamente, ma non ce l’hanno fatta. Uno che era entrato e uscito, era stato operaio metalmeccanico, una sequela di reati legati alla tossicodipendenza, questa volta era più disperato, si era separato da sua moglie, aveva una bambina, non sopportava che gli fosse stata tolta, né che, nonostante il tribunale avesse stabilito che potesse vederla una volta alla settimana, non gliela portassero.
Gli stavano dietro, qui dentro, gli avevano parlato anche questa mattina. Ha ingannato tutti, forse anche se stesso. Impiccarsi a un lenzuolo alle 11 di mattina è una cosa che non si fa. Non ha lasciato lettere: deve aver pensato che fosse superfluo. Forse contava di scriverne una e spedirla. Ha lasciato 48 euro, 12,08 li aveva impiegati per l’ultima spesa, che gli sarebbe arrivata domani. La copio, qualcosa vorrà dire. Francobolli per lettere, 1. Buste bianche, 1. Nutella, grammi 54, zucchero, un pacco, 2 scatole di tonno, Alfa con filtro, 3 pacchetti, 1 bomboletta di gas (Panorama, 11 ottobre 2004).
Suicidio: 13 ottobre 2004, Carcere di Bergamo Detenuto italiano, di 50 anni, si uccide impiccandosi. L’uomo, che divideva la cella con un altro detenuto, poco prima delle 23 avrebbe detto al compagno che andava al bagno, posto all’interno della stessa cella. Dopo diversi minuti di attesa, non vedendolo tornare, l’altro detenuto si è allarmato ed è andato a controllare facendo cosÏ la macabra scoperta: il cinquantenne si era impiccato, pare utilizzando delle lenzuola annodate. Subito è scattato l’allarme, ma i soccorsi sono stati inutili.
L’uomo era in carcere per scontare una condanna a 10 anni per abusi sessuali nei confronti della figlia, quando questa era minorenne. Era stata proprio lei a denunciare il fatto. Il padre era stato allontanato dalla famiglia e rinchiuso in carcere il 17 luglio, dopo un processo in direttissima per violazione di domicilio e minacce. Il 29 settembre la condanna per abusi sessuali. Quel giorno davanti ai giudici l’uomo aveva detto: "Ho sbagliato, chiedo perdono alla mia famiglia". E la famiglia, dopo la condanna, aveva manifestato la propria disponibilità a riaccogliere il congiunto (L’Eco di Bergamo, 15 ottobre 2004).
Suicidio: 17 ottobre 2004, Carcere di San Vittore (MI) Giancarlo Valtorta, 54 anni, si impicca a una grata in una cella del reparto "infermeria" di San Vittore. Lo trovano cosÏ intorno alle 3 di notte. Il 27 aprile scorso aveva ucciso la moglie a coltellate e, dopo aver vagato per la città alcune ore, aveva confessato l’omicidio chiamando il 113. Erano scattate le ricerche e poco dopo l’uomo era stato rintracciato e arrestato dai Carabinieri. Agli investigatori aveva raccontato la vita di frustrazioni e un amore finito dalla moglie Bruna Melandri, da cui era separato da alcuni mesi. Quando la donna gli aveva detto che aveva un’altra relazione lui l’aveva ferita a morte con un coltello da caccia.
A San Vittore per un periodo era stato detenuto nelle celle riservate alle persone considerate a rischio, poi era stato spostato al quarto reparto nelle celle denominate infermeria, dove sono ospitati i detenuti che non hanno situazioni croniche di pericolo (Repubblica, 20 ottobre 2004).
Assistenza sanitaria disastrata: 30 ottobre 2004, Cagliari Giuseppe Paderi, 53 anni, muore all’Ospedale Civile "San Giovanni di Dio", dove aveva da poco ottenuto gli arresti domiciliari a causa di una grave malattia, di cui soffriva da tempo. L’uomo stava scontando una pesante condanna, per una rapina commessa a Milano. Negli anni della carcerazione, Beppe Paderi aveva messo a frutto l’indole artistica e creativa e si era scoperto pittore, allestendo anche qualche mostra personale dei suoi quadri. La malattia gli ha negato ogni ipotesi di libertà (L’Unione Sarda, 1 novembre 2004).
Suicidio: 31 ottobre 2004, Carcere di Perugia A.G., detenuta italiana di 56 anni, viene ritrovata morta in cella. Secondo indiscrezioni non ancora confermate, la donna si sarebbe uccisa, impiccandosi in un bagno. Quando è stata trovata ormai non c’era più nulla da fare. Era originaria di Salerno, ma residente a Prato, e attualmente reclusa nel carcere femminile di Perugia. Ieri mattina il cadavere di A.G. è stato trasportato all’obitorio dell’ospedale di Monteluce, dove sarà sottoposto a perizia autoptica (La Nazione, 2 ottobre 2004).
La festa del detenuto…
Quanti uomini civili saranno passati davanti ad una cella, senza mai illuminarla. Chissà se qualcuno di questi uomini avrà un giorno il coraggio di festeggiare un detenuto. Quante volte si sono riempite pagine di giornali sui problemi dei detenuti. E quante volte la società "cosiddetta civile" si è promessa di risolverli. Purtroppo quella società sta diventando sempre più attuale, sempre più plateale, dove ogni Istituzione ricerca consensi per manifestare forse solo pseudo - potere. Non esiste più l’uomo sconosciuto, ognuno deve reclamizzare e pubblicizzare il proprio prodotto. E ciò avviene anche nelle manifestazioni, "una tantum", sulle carceri. Cosicché la tragedia di un detenuto diventa la farsa di un uomo. Quanti uomini civili saranno passati davanti ad una cella, senza mai illuminarla. Chissà se qualcuno di questi uomini avrà un giorno il coraggio di festeggiare un detenuto. Il coraggio di festeggiare il detenuto è arrivato. Chiunque voglia aderire invii una e mail agli organizzatori, cioè il sito internet www.agenpress.it a: agenpp.press@tin.it o al fax 06.233222550
Pagina a cura di Dimitri Buffa Scrivete a: L’opinione, rubrica "L’opinione delle carceri", via del Corso 117 – 00186 Roma - E mail redazione@opinione.it – buffa@opinione.it
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