Giornalismo dal carcere

 

 

Il lavoro, la recidiva, il sovraffollamento

un confronto con l’Amministrazione penitenziaria

a colloquio con il dottor Giovanni Tamburino, a cura di Chiara Marcozzi e Iris Festi

 

Oltre il muro n° 1 - 2002

 

I problemi che assillano il mondo penitenziario sono tanti e gravosi. Per analizzare come l’Amministrazione Penitenziaria intende affrontarli e cercare di risolverli abbiamo chiesto un confronto al dottor Tamburino, Direttore dell’Ufficio Studi, Ricerche e Rapporti Internazionali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

Qual è lo sforzo attuato dall’Amministrazione penitenziaria per favorire il diritto al lavoro alla popolazione detenuta, fuori e dentro gli istituti di pena?

 

Monza, Milano Opera, Padova, ma anche Augusta, anche Gorgona. Ecco un elenco - molto parziale - di istituti penitenziari in cui il tasso di detenuti lavoratori è uguale o superiore a quello della Germania. Alla Gorgona lavorano, in azienda agricola, nella itticoltura, nella produzione di uva, vino olio, latticini, erbe aromatiche, miele, etc., quasi il 100% dei detenuti. A Monza quasi l’80% è impiegato in una serie di attività artigianali, industriali, copisteria, legatoria, etc. Tra i prodotti persino una rassegna stampa, venduta ed apprezzata anche all’esterno del carcere. Le iniziative non mancano e l’Amministrazione penitenziaria continua a stimolare. Recentemente ha affidato un incarico a un imprenditore esperto di cooperazione, per rilanciare le lavorazioni dentro e fuori dalle mura.

Tuttavia non si fa tutto ciò che si dovrebbe fare. Sotto due punti di vista. Anzitutto occorre rivedere, a mio parere, la misura del compenso, oggi fissata dalla legge in due terzi di quanto previsto per i lavoratori esterni. Questa regola sarebbe valida in un contesto di piena occupazione. Non lo è quando ostacola l’offerta di lavoro. La situazione dell’Italia è complessa. È illusorio che senza un adeguato incentivo vi siano imprese che ricorrono alla manodopera del carcere. Bisogna chiedersi se è preferibile mantenere fermo il principio della retribuzione non inferiore ai due terzi di quella normale, o sia preferibile far lavorare più persone seppure pagate meno. La scelta di molti paesi europei è in questo secondo senso, ad esempio in Germania.

La soluzione più equilibrata consisterebbe nell’ammettere un elemento di flessibilità, certamente controllata e limitata per legge, tale da consentire una maggiore competitività del lavoro carcerario. Ma è una scelta, questa, che incontra parecchie opposizioni, non soltanto di natura ideologica. Un secondo motivo di insoddisfazione per ciò che si fa per il lavoro in carcere, consiste nel fatto che manca una vera organizzazione imprenditoriale rivolta alla ricerca delle occasioni di lavoro, alla pubblicità dei prodotti, alla valorizzazione delle attitudini dei detenuti, al calcolo di economicità delle lavorazioni.

Sono contrario allo sfruttamento del detenuto, che è una persona carica di bisogni suoi e della famiglia. Ma credo che un lavoro produttivo sia molto importante per riconquistare dignità, collocazione sociale, riconoscimento della propria identità. Inoltre, la possibilità di risarcire le vittime dei reati costituisce un mezzo non secondario per rigenerare quel tessuto relazionale che il delitto ha strappato.

 

Come l’Istituzione Penitenziaria si confronta e si relaziona con gli Enti territoriali allo scopo di prevenire il fenomeno della recidiva?

 

Il contrasto della recidiva viene attuato dall’Amministrazione penitenziaria attraverso le attività che, con un brutto termine, si chiamano "trattamentali". Il "trattamento" del condannato serve a reinserirlo nella società. Tuttavia sulla recidiva vi è un po’ di reticenza. Si sente la carenza di studi accurati ed aggiornati sulla recidiva post carceraria. Rimane in ombra la misurazione degli effetti differenti che hanno le pene di lunga durata rispetto a quelle brevi e le sanzioni alternative al carcere rispetto alla sanzione detentiva classica.

Credo che si dovrebbe eliminare ogni ambiguità sul fatto che lo scopo primario di ogni attività dell’Amministrazione penitenziaria deve consistere nella riduzione della recidiva. Direi, anzi, che questo scopo è l’unico che legittima l’intervento sulle persone che espiano una pena. Infatti se si spiega che il condannato espii una pena, l’unica ragione che giustifica il trattamento del condannato è la prospettiva di ridurre la recidiva.

Circa le relazioni con gli Enti territoriali, a proposito del contenimento della recidiva, mi sembra che la situazione non sia delle migliori, perché il contenimento della recidiva è rimesso oggi, da noi, sostanzialmente agli interventi di polizia. Non c’è una cultura della misurazione della recidiva, dell’analisi delle sue cause. Non c’è sperimentazione diretta a ridurre la recidiva. Non sorprende, allora, che le attività di prevenzione siano ancora embrionali e primitive.

 

I mass media offrono spesso una visione distorta della realtà carceraria; che contributo porta l’Amministrazione Penitenziaria per un’informazione corretta e consapevole?

 

Da un paio d’anni l’Amministrazione ha identificato la tematica della corretta informazione e ha preso un’importante iniziativa diretta a favorirla varando una rivista mensile, "Le due Città", che viene diffusa a tutto il personale, ma anche fuori dell’Amministrazione. Chiunque può abbonarsi e molti soggetti istituzionali la ricevono. In questo modo L’Amministrazione ha dimostrato di comprendere l’importanza della diffusione della tematica penitenziaria, superando un pesante ritardo. Credo che a partire da questa iniziativa si possa ipotizzare una rete di riferimenti e collegamenti capace di diffondere informazione corretta ed attenzione per un settore tradizionalmente lasciato ai margini.

 

Quali sono le risposte messe in atto dall’Amministrazione penitenziaria al problema della crescita della popolazione detenuta, tenendo presente anche le richieste da parte dell’opinione pubblica che esige maggior sicurezza sociale?

 

L’Amministrazione penitenziaria ha una strana caratteristica: non dipende in nessun modo da lei la dimensione, la qualità, l’assiduità e la permanenza della sua "clientela". Tutte queste dimensioni dipendono dalle leggi, dalla polizia, dalla magistratura. Il DAP si limita a ricevere coloro che altri gli inviano e non può mai esporre il cartello di "tutto esaurito", come pure talvolta occorrerebbe fare.

Alla richiesta di maggior sicurezza da parte dell’opinione pubblica, richiesta questa della cui legittimità peraltro nessuno può dubitare, incide sulla risposta del sistema penale e, in ultima analisi, si riflette sulla dimensione dell’universo penitenziario. Vi sono certamente le misure alternative che funzionano anche da "calmiere" rispetto al numero dei detenuti. Ma anche l’ampiezza della concessione delle misure alternative non dipende in nessun modo dall’Amministrazione penitenziaria. In definitiva l’Amministrazione penitenziaria ha un unico strumento per fare fronte al sovraffollamento: la costruzione di nuove carceri. Ma anche questo strumento dipende da compatibilità di bilancio e da scelte politiche. Nel frattempo viviamo, in talune realtà, come Milano, la disperante drammaticità di una situazione da terzo mondo, con detenuti ammassati in condizioni indegne. E non esiste, praticamente, carcere italiano in cui la presenza non superi del 30, 40, 50% la capienza regolamentare. In questo momento il tasso di affollamento degli istituti italiani è il più alto d’Europa, se si eccettua qualche paese dell’Est.

 

Quali sono stati gli impegni assunti e gli ostacoli di collaborazione tra il D.A.P. e il Volontariato?

 

I rapporti dell’Amministrazione penitenziaria con il volontariato hanno visto un grande sviluppo nel periodo appena trascorso. L’8 giugno 1999 vi è stata la sottoscrizione del protocollo che vede il volontariato riconosciuto dal Ministero come interlocutore imprescindibile nelle iniziative di formazione, assistenza, progettazione, reinserimento. Il volontariato italiano, che ha straordinarie tradizioni storiche e grande sviluppo, rappresenta una ricchezza per l’universo carcerario grazie all’impegno di migliaia di persone, specie giovani, che donano tempo e intelligenza a una realtà estremamente difficile.

Direi che il rapporto con il volontariato è stato collocato sul binario giusto, per merito anche delle organizzazioni che hanno trovato la capacità di federarsi per meglio lavorare insieme, superando atteggiamenti concorrenziali o comunque non coordinati. Rimangono problemi, inutile negarlo. Si vorrebbe maggiore preparazione e minore estemporaneità. Talora in chi accede al carcere manca un atteggiamento di attenzione, di maturità, di lucidità critica.

Il metodo che si è inaugurato, di consultazioni e formazione collegata, se non anche comune, potrà dare buoni frutti purché entrambi gli interlocutori si muovono con lealtà reciproca e rispetto dei ruoli.

Detenuti lavoranti nella Casa Circondariale di Rovereto (mese di marzo 2002)

 

 

Totale detenuti presenti in sezione maschile

70

Totale detenuti lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria

9 dei quali:

 

4 lavoranti addetti alle pulizie (posti assegnati a rotazione)

 

4 lavoranti addetti al servizio cucina;

 

1 lavorante addetto ai conti correnti.

 

 

Totale detenute presenti in sezione femminile

20

 

 

Totale detenute lavoranti alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria

1 lavorante addetta alle pulizie (posto assegnato a rotazione)

 

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