Oltre il Muro

 

Oltre il Muro n° 3 - 2003

 

Il Comune di Trento per le carceri e i carcerati

Nuovo impegno della città verso il carcere

Terrore ed orrore, di don Vittorio Cristalli

Opinioni a ruota libera di un detenuto

Tutti i nodi vengono al pettine

Diritto di replica: aria condizionata

Intervista all’educatore della Casa Circondariale di Trento

Il Giudice di Pace Penale per i reati di minore allarme sociale

News, a cura di Silvia Sandri

Il Comune di Trento per le carceri e i carcerati

 

Riteniamo opportuno segnalare. anche agli effetti di una partecipazione democratica. gli impegni che la Commissione Politiche Sociali del Comune di Trento ha suggerito al Consiglio in materia di carceri e carcerati perché su questi si attivino il Sindaco e la Giunta.

 

Premessi gli agganci allo Statuto del Comune e al Protocollo d’Intesa tra il Ministero di Giustizia e la Provincia Autonoma di Trento, questi gli impegni:

ad attivarsi concretamente presso il Presidente della Provincia Autonoma di Trento affinché sia reso operativo il Protocollo d’intesa tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Provincia Autonoma di Trento del 12 novembre 1993, chiedendo che, al compimento del decimo anno dalla sua sottoscrizione, si proceda ad una verifica e ad una valutazione delle iniziative intraprese, si rinnovi l’impegno ad una ampia diffusione dei contenuti e delle direttive generali in esso contenute e sia ridata visibilità operativa alla Commissione Provinciale per i problemi della devianza e della criminalità ed in particolare il gruppo di lavoro come definito nel punto H, comma 2, del citato Protocollo.

a promuovere un rapporto di collaborazione stabile con l’Amministrazione Penitenziaria, nell’assoluto rispetto delle reciproche competenze, perché sia possibile svolgere l’opera di osservazione e trattamento dei detenuti tenendo in considerazione l’esercizio dei diritti di cittadinanza e le opportunità di partecipazione alla vita civile delle persone private della libertà personale rinforzando il rapporto e la collaborazione con i servizi esterni al carcere e la cittadinanza.

a promuovere in ambito locale, con la regia dell’Amministrazione Comunale, un Tavolo permanente di raccordo e di lavoro per il reinserimento sociale dei detenuti che raccolga

l’esperienza e costruisca una rete operativa efficace tra i vari attori coinvolti (Amministrazione Penitenziaria, Magistratura di Sorveglianza, Amministrazione Locale, Enti e Cooperative sociali e Volontariato) delle attività già in essere appoggiando e sostenendo il carcere nella sua dimensione di servizio sociale, con particolare attenzione per gli inserimenti lavorativi dei detenuti.

ad attivarsi per dare continuità progèttuale alla formazione e al reinserimento al lavoro dei detenuti, promovendo il legame all’interno del carcere con le attività produttive che si svolgono nel territorio, stimolando il coinvolgimento di categorie e imprese su progetti garantiti dall’Ente Locale, diffondendo, di concerto con la Provincia e la Regione le informazioni per l’applicazione della legge Smuraglia e i progetti di inserimento nei lavori di pubblica utilità

a promuovere, in collaborazione con l’Azienda Sanitaria Locale, un monitoraggio delle condizioni di salute nel carcere con particolare attenzione alle tossicodipendenze e alle patologie correlate all’infezione da HIV, affinché il carcere non svolga funzione di contenimento di quelle situazioni che meglio potrebbero essere affrontate in una dimensione di comunità, nonché alla tutela della salute dei cittadini stranieri, in ottemperanza a quanto previsto dalla legge.

a promuovere percorsi di educazione à1la legalità, con particolare attenzione alle dimensioni interculturali, per tutta la cittadinanza, sintonizzandone anzitutto la metodologia e gli interventi con i percorsi già in essere di educazione civica e di prevenzione del bullismo nelle scuole.

ad inserire a bilancio uno specifico fondo per le attività presso la Casa Circondariale, da cui attingete anche le risorse per gli eventuali interventi a sostegno dei detenuti che per difficoltà economica non possono acquistare quei beni di prima necessità per l’igiene personale o per lo studio, che già non debbano essere garantiti dall’Amministrazione penitenziaria, operando attraverso una valutazione specifica dei singoli casi di bisogno, coinvolgendo accanto agli operatori dell’Amministrazione penitenziaria e agli operatori dei servizi sociali, le realtà del volontariato.

a promuovere, in collaborazione e coordinamento con la Magistratura di Sorveglianza, la Provincia Autonoma di Trento, i Difensore civico, il Comune di Rovereto, l’istituzione del Garante dei diritti di cittadinanza delle persone private della libertà personale residenti o dimoranti nel territorio della Provincia Autonoma di Trento.

Impegna infine il Sindaco e la Giunta a farsi parte attiva presso il Governo e presso la Provincia Autonoma di Trento, affinché, per le reciproche competenze, sia data piena attuazione a quanto previsto nella legge 193/2000 sul lavoro nelle carceri, nel D.lvo 230/99 sulla sanità penitenziaria, nel D.P.R. n. 230 del 30/06/2000 "Nuovo regolamento di esecuzione", nella legge 8 marzo 2001 n. 40 sulle detenute madri, norme e leggi dirette ad umanizzare le condizioni di detenzione e la qualità della vita nelle carceri, che sono ad oggi purtroppo ancora per buona parte inattuate.

 

Nuovo impegno della città verso il carcere

 

Il carcere appartiene alle città eppure è da esse nettamente separato, non solo al di là delle sbarre, ma al di là di un mondo (quello fuori) che spesso si illude di ottenere sicurezza usando il carcere come un contenitore di problemi sociali complessi. Basti pensare che negli ultimi 25 anni è triplicata in Italia la popolazione detenuta (100 detenuti su 100.000 abitanti). E c’è da sperare che non si rincorrano gli USA (800 su 100.000 ab.) dove si incomincia a parlare di "incarcerazione di massa".

In realtà, anziché essere la soluzione dei problemi, il carcere è oggi un problema in sé ed è quindi urgente prenderne coscienza a tutti i livelli. Sarebbe conveniente ripensare il sistema carcerario ripartendo dal senso di quel tempo e di quel luogo in cui si sconta un errore fatto.

Dice l’art. 27 della nostra Costituzione che "le pene devono tendere alle rieducazione del condannato". Oggi la parola "rieducazione" saprebbe riempirsi di misure alternative, di percorsi di formazione, di lavoro, di reinserimento, di recupero responsabile del proprio ruolo dentro la società.

Le persone escono prima o poi dal carcere e sarebbe quindi vantaggioso per tutti se- invece di aver sperimentato negli istituti di pena rancore e violenza, che producono altro rancore e altra violenza e di conseguenza un elevato numero di ricarcerazione (al 70% in Italia) - i detenuti potessero avere gli strumenti per ricominciare la propria vita e divenire così costruttori di legalità e di sicurezza sociale.

Ma a monte dovremmo chiederci innanzitutto quali sono le cause di una crescita così elevata di carcerazioni. Sicuramente, come ho appena detto, si usa del carcere per risolvere problemi di tossicodipendenze, di emarginazione psichiatrica e clandestinità che richiederebbero misure politiche in altri settori quali le politiche sociali, sanitarie, di immigrazione ecc. Ma non è ancora la risposta di fondo al fenomeno di una illegalità che esprime un disagio sociale e relazionale e che interessa in modo preoccupante molti giovani. Occorre dunque migliorare il contesto sociale e la qualità delle relazioni, dare attenzione alle nuove generazioni, curare la loro formazione, prevenire, in una parola costruire città nelle quali si viva bene.

Tutti, più volte nel corso della nostra vita, sbagliamo. Può capitare a tutti di compiere grandi errori e di dover pagare. Il carcere dovrebbe essere come lo schiaffo di chi vuole il nostro bene e ci porta bruscamente nella realtà, a scoprire che possiamo darci una scrollata e tirarci su. Il carcere dovrebbe credere nel valore insito in ogni persona. Purtroppo oggi il carcere è rutto meno che questo. Potrà essere anche diverso dai sotterranei delle città antiche, potrà essere anche una costruzione d’avanguardia, ma è ancora oggi altrettanto "buio" e altrettanto "gelido".

Sapremo, prima o poi, attuare quel concetto, sancito dalla nostra Costituzione, della finalità rieducativa della pena? Sapremo convertire la punizione spesso vendicativa in un atteggiamento duplice di fermezza verso l’errore e di comprensione per chi ha sbagliato, ma ha la possibilità ed il diritto di ripartire di nuovo?

Sapremo trasformare una detenzione passiva in una attiva, primo passo per essere riaccolti e per sentire che la società ha bisogno di me, del "mio lavoro"? Sapremo costruire il nuovo carcere di Trento non solo efficiente e sicuro, ma luogo in cui ricostruire nuove relazioni sociali? Molte questioni appartengono al Governo o al Parlamento, come il quadro di riferimento legislativo, il problema del sovraffollamento delle carceri, la loro costruzione, le misure sanitarie, la formazione delle guardie carcerarie, e così via. Altre misure invece richiedono un impegno locale e quindi chiamano in causa anche la nostra città. Un segnale significativo è l’attenzione vorrei dire "speciale" che la Commissione Politiche sociali ha per il carcere tanto da impegnare prossimamente tutto il Consiglio Comunale in tale direzione. Al lavoro della Giunta, e mio in particolare, spetta mettere in atto le indicazioni che ci verranno dal Consiglio Comunale ed attuare percorsi culturali e sociali, affinché il ricorso al carcere diventi meno frequente; promuovere la "cittadinanza attiva" all’interno delle carceri perché la permanenza in carcere non coincida con l’abbandono; istituire la figura del Garante per i diritti dei detenuti e, soprattutto, fare in modo che si realizzi, per quanto possibile, un vero "reinserimento", che deve iniziare dentro il carcere e attuarsi nel momento più delicato del ritorno alla vita sociale, affinché sia favorita una piena integrazione sia lavorativa che abitativa.

Occorre un nuovo impegno che per quanto riguarda le mie responsabilità si rafforza anche con quest’articolo. Ma non possiamo stare ad aspettare le condizioni migliori di un domani. Oggi abbiamo bisogno di vivere il carcere come speranza.

Mi sono ricordata di quanto scriveva Ho Chi Minh dalla prigione: "Basta un profumo/di rosa/smarrito in un carcere/ perché nel cuore/ del carcerato/urlino tutte le ingiustizie/del mondo". Basta un profumo di rosa. Sì, nonostante le sbarre, nonostante la "violenza fredda" che pervade ogni carcere, nonostante il frustrante lavoro di carcerieri, nonostante l’impotenza che ci pervade quando tentiamo di cambiare le cose.

Nonostante ciò, basta il profumo di una rosa per risvegliare in noi la capacità di sentirsi vicini agli altri, di amare e di soffrire con loro. Nessuno, infatti, ci può togliere la libertà di donare qualcosa di noi stessi. Nessuno può imprigionare l’intimo di noi stessi. Siamo quindi liberi di lasciarci penetrare da un gesto vero di qualcuno che crede in noi. Siamo liberi di prendere noi per primi l"iniziativa di relazioni nuove. Questo vale più di ogni altra libertà. L’augurio, quindi, che oso fare a voi e a me per il Natale, festa per eccellenza del dono, è che possiamo sperimentare anche in piccolissime cose quotidiane il dono reciproco. Dentro il carcere. Tra il carcere e il fuori. Auguri anche di un 2004 nuovo. Un augurio particolare a chi è straniero in carcere. Alle guardie carcerarie che hanno la famiglia lontana. Possiate, nonostante tutto, sentirvi a Trento in una città amica che vuole essere, almeno temporaneamente, anche la vostra città.

 

Terrore ed orrore, di don Vittorio Cristalli

 

All’indomani dell’attacco kamikaze alle torri gemelle, in cui hanno perso la vita più di tremila persone innocenti, una parola, ripescata dal periodo caldo della rivoluzione francese, ha cominciato a tenere campo nelle strategie militari e ha fatto irruzione nel vocabolario mediatico: terrore. E sul terrorismo si è soffermata con uno specifico capitolo la "dottrina Bush". Quella dottrina, che ponendosi sullo stesso piano, anche se contrapposto, dei kamikaze, ha colpito la "guerra infinità", diventata poi "libertà duratura" da perseguire combattendo contro tutti i covi del terrorismo e contro gli "Stati canaglia" che lo ospitano e lo sovvenzionano. I terroristi poi vi vengono considerati come mostri, non-uomini e pertanto non meritevoli nemmeno del trattamento previsto dalla Convenzione di Ginevra per i "combattenti".

E si intervenne in Afghanistan dove si sapeva nascosto il capo carismatico del terrorismo islamico: leader indiscusso di Al Qaeda, l’organizzazione segreta le cui cellule sono sparse ovunque nel mondo. I talebani, ivi fatti prigionieri, furono portati a Guantanamo, nell’isola di Cuba dove appunto sono trattati come terroristi. E fu la volta dell’Iraq, dove si diceva erano stoccate armi di distruzione di massa e si supponeva un legame tra il tiranno Saddam Hussein e Bin Laden. In quest’ottica si lanciò la "guerra preventiva", concetto pure nuovissimo che non si trova nel vocabolario del diritto internazionale. Ci fu poi l’atto terroristico nell’isola di Bali e poi a Rijad, per citare i più clamorosi e orrendi. Perché atti terroristici minori da parte di kamikaze sono stati all’ordine del giorno in Palestina. Con regolare rappresaglia di risposta da parte di Israele.

Ultimamente sembra di assistere ad una parossistica esplosione, che ci tocca da vicino. Il terrorismo ha sferrato un attacco a Nassirya, dove hanno perso la vita 19 fra soldati e carabinieri italiani. A ruota sono venuti gli attacchi alle sinagoghe di Istanbul e poi al Consolato e ad una banca inglese nella stessa città, che s’affaccia sull’Europa. Anche lì morti a decine e feriti a centinaia sia tra gli ebrei che tra i musulmani. Ed è passato in secondo ordine l’Iraq, dove pure gli attacchi terroristici si succedono quotidianamente.

Tanto che l’America, quella che piange i suoi caduti, ormai più numerosi che nella guerra guerreggiata, ha coniato un nuovo nome: "horror". Orrore per definire quel misto di paura e rabbia, esecrazione e senso di impotenza, condanna e minaccia dietro l’angolo. Dal punto di vista geopolitico ci si chiede se l’Iraq si rivelerà un nuovo Vietnam, da cui gli americani hanno dovuto ritirarsi su pressione dell’opinione pubblica. E ha un bel dire Rumsfeld quando minimizza, argomentando che il numero dei soldati che cadono in Iraq è inferiore alle vittime quotidiane sulle strade americane. O il generale Mark Kimmit che, di fronte ai due militari della sua divisione sgozzati a Mossul, ha commentato: "Queste aggressioni sono insignificanti e strategicamente non potranno mai sconfiggerci". Fino a quando potremo resistere in questa alternanza di terrore ed orrore? E se la strategia del terrore fosse proprio quella di creare orrore? La domanda cruciale diventa questa: è possibile debellare il terrorismo con la guerra? O s’instaura una catena perversa e.... all’infinito?

E se vincente fosse invece la mobilitazione delle coscienze, che condanna certo il terrorismo, ma gli taglia l’erba sotto i piedi, affrontando i problemi e risolvendo le ingiustizie che possono costituire l’humus sul quale attecchisce? Non è chi non veda un"analogia con i problemi e le tematiche che hanno fatto nascere questa rivista. I reati e le aggressioni alla società e alla convivenza - che tali sono - si superano con l’oppressione e la detenzione, meglio se raffinate e dure? Oppure sono più efficaci la rieducazione e il recupero attraverso il rispetto delle persone umane, denunciando e debellando magari le ingiustizie nelle quali i reati e le aggressioni hanno trovato terreno propizio per alimentarsi? Chiedo scusa del paragone. Ma si dà il caso che le dinamiche nel micro e nel macro siano le stesse.

 

"Nessuno sembra ricordare che i diritti esistono in quanto prima sono stati assolti dei doveri." Susanna Tamaro

 

Da un semplice ritrovarci in un luogo e tempo ben precisi, cresce il bisogno di raccontare qualcosa di se. A partire da una riflessione di Susanna Tamaro: "Nessuno sembra invece ricordare che i diritti esistono in quanto prima sono stati assolti dei doveri", offriamo ai nostri pensieri, l’occasione di esprimersi attraverso lo scambio della parola, che circola tra di noi. Si rivendica il diritto di essere rispettate per quello che siamo, donne e uomini che hanno sbagliato, vissuto una vita di dipendenza, di illegalità, ma che comunque siano le circostanze che ci hanno portato alla ristrettezza, siamo persone e chiediamo di essere riconosciute come tali. Nella vita carceraria ci deve essere il rispetto del regolamento. Quando la persona detenuta conosce e rispetta le norme, solo a quel punto può "reclamare" un eventuale diritto negato. La nostra riflessione tocca un altro aspetto che è quello della coerenza. Il regolamento all’interno del carcere necessità di essere rispettato dai detenuti, ma deve essere anche applicato con coerenza e in modo equo, senza alcuna distinzione tra la popolazione ristretta. Il detenuto, come può accadere al libero cittadino, può trovarsi nella situazione di alzare la voce e a ricorrere a ogni mezzo per far rispettare i loro diritti. Questo atteggiamento, che può essere rischioso, è eticamente corretto se prima si sono assolti i doveri. Non si può mettere il tetto sulla casa se prima non si sono rispettate le norme che regolano la costruzione dell’edificio.

 

Opinioni a ruota libera di un detenuto

 

"Carcere": ecco subito una parola che alle orecchie di molte persone suona carica di timore e paura in quelle persone cosiddette oneste, le quali, non sono al corrente di come non sia la parola in se stessa a spaventare, ma bensì, le innumerevoli situazioni interne di invivibilità e di malfunzionamento carcerario. Innanzitutto mi presento: sono Stefano, attualmente detenuto presso la Casa Circondariale di Rovereto, da circa otto mesi, approdato a questo giornale tramite la conoscenza di altri detenuti, che già vi partecipavano; per dare, nel mio piccolo, un contributo che possa far conoscere quelle situazioni che invece di apportarci beneficio, aggravano la nostra vita all’interno di questa istituzione.

Vengo adesso a descrivere alcuni dei molteplici problemi che esistono all’interno di queste strutture, dannosi per quella che viene chiamata rieducazione della persona. Per prima cosa la restrizione dell’orario di convivenza nelle aree comuni; l’essere tutti insieme per circa sei ore giornaliere, scaglionate in tre fasi, dopodiché, il rientro e la chiusura in cella con altri 2-3 compagni, penso sia insufficiente a giudicare se il detenuto in questione abbia raggiunto il grado di socializzazione necessario e richiesto dalla Magistratura per affrontare la società esterna. A questo punto qualcuna si chiederà: "com’è possibile tenere insieme 100-200 detenuti (a secondo della capienza degli istituti penitenziari) per 10 ore consecutive senza che succedano risse o altro?".

Io ritengo che un lavoro giornaliero e continuativo, impegnerebbe la mente ed il fisico, per cui molte delle strane idee che alcuni detenuti mettono in atto, non apparirebbero neanche lontanamente all’orizzonte dei loro pensieri, e che questo lavoro, anche minimamente retribuito, permetterebbe a gran patte di questi il rientro nella società con qualche piccolo risparmio; ciò eviterebbe il ripetersi di altri molteplici reati per procurarsi il necessario alla sopravvivenza, in attesa di poter trovare un’occupazione.

Vorrei ancora aggiungere che questo tipo di soluzione aprirebbe le porte del carcere a molte persone che, scontando la pena inflittagli per il reato commesso, tornerebbero alla libertà avendo compreso ciò che significa lavorare per avere il necessario alla vita; una parte dei soldini risparmiati, potrebbe essere usufruito per il pagamento delle spese di detenzione, che ogni detenuto si vede addebitate a fine pena, le quali aggiungono un’ulteriore peso alla già precaria situazione. Passo adesso ad un problema gravissimo all’ordine del giorno, visto che i mass-media ne stanno parlando oramai da mesi: "il sovraffollamento".

Purtroppo ci sono strutture inadatte ad accogliere e dare alla persona detenuta il minimo di spazio e vivibilità necessari. L’essere detenuti, nel migliore dei casi, in una cella di 12 mq. in 3 persone comporta il più delle volte attriti e nervosismi che con il passare inesorabile del tempo possono sfociare, anche per futili motivi, in litigi furibondi con le conseguenze che tutti immaginano. Questo disagio non solo porta problemi alla vita giornaliera, ma opprime tutti i detenuti, obbligandoli a dover sopportare abitudini e modi di vita di altri nella stessa situazione, dovendo subire questa forzata e stretta convivenza in silenzio, con rassegnazione e l’obbligato fastidio che logicamente crea questa situazione.

L’ordinamento penitenziario prevede pene alternative al carcere: purtroppo rare volte applicate per la lentezza dell’apparato giudiziario e alla cronica mancanza di fondi. Molti detenuti che potrebbero fruire di questi benefici sono costretti a restare ristretti; vorrei portare come esempio l’affidamento ai servizi sociali, il quale potrebbe essere una delle soluzioni a questa grave ed insostenibile situazione. Sono anche fermamente convinto che vedere personaggi politici o di successo, spesso indagati e condannati, ma mai incarcerati, sia, per il popolo detenuto, non solo fonte di rabbia, ma anche offensivo: se fossero persone comuni, colpevoli degli stessi reati, non continuerebbero a condurre la vita di sempre al pari loro. Una frase ben conosciuta recita: "La legge è uguale per tutti... ma non tutti sono uguali per la legge!". Purtroppo, infatti, un buon portafogli permette di avere spesso, come difensore di fiducia, uno dei re del foro e ciò permette alla sentenza applicata un’altra misura, a differenza dell’avere come avvocato, benché bravo, un legale di minor spicco.

I molteplici problemi del carcere possono avere una soluzione, per quanto difficile, purché ci sia la volontà di trovarla e metterla in opera.

 

Tutti i nodi vengono al pettine

 

Sono una nomade. Tempo fa, dopo essere stata scarcerata non mi sono sentita libera Sono madre: è bellissimo ma nello tempo è duro e faticoso soprattutto perché ho quattro figli e un marito che vuole avere sempre ragione e mille diritti, con le conseguenze che potete immaginare.

Noi sopportiamo questo per i nostri figli, anche se ritengo che anche noi donne abbiamo tanti diritti. A volte mi ribello perché sono stufa di dare, dare e mai ricevere. Vorrei realizzare anch’io qualcosa per la mia famiglia. Un giorno ho parlato di questo con mio marito: abbiamo trovato un accordo e abbiamo fatto tanti progetti per i nostri figli e per noi. Desideravamo aprire una piccola attività, per permettere i bimbi di frequentare la scuola. lo e mio marito volevamo dare una vita migliore della nostra ai nostri figli, una vita onesta, non come la mia, vissuta sempre rubando. Ricordo che abbiamo programmato così per una settimana, ed è stata la settimana più bella della mia via, finche non mi sono ritrovata in galera, arrestata per un definitivo di quattro anni per vecchi reati. È vero: tutti i nodi vengono al pettine!

 

Diritto di replica: aria condizionata

 

La mia esperienza in carcere, mi ha portato a verificare come abbiamo solo doveri mentre i diritti spesso ci sono negati. Il motivo è sempre lo stesso: mancanza di personale. Ma se proprio vogliamo sottilizzare. non sono problemi nostri! Se chiediamo spiegazioni. qualcuno sempre risponde: non dipende da me. Noi lo sappiamo, ma con i diretti responsabili purtroppo non riusciamo mai a comunicare e quando ci riusciamo. L’argomento purtroppo è sempre un altro (spesso per qualche consiglio disciplinare… durante il quale è sempre difficile dire la tua per le inevitabili conseguenze in termini di rapporti disciplinari). Noi capiamo che il personale è poco, tanto che anche se sarebbe nostro diritto andare all’aria, quando è presente un solo agente non ci lamentiamo, perché comprendiamo che la sicurezza non potrebbe essere garantita. Siamo comunque sempre vincolate dalle ferie e dalle malattie degli agenti, e se la situazione si protrae, spesso questo ci pesa. Abbiamo chiesto di poterci confrontare su questo problema con chi ne è competente, ma ancora non abbiamo visto nessuno.

 

Intervista all’educatore della Casa Circondariale di Trento

 

Redazione: Chi non ha diritto alle misure alternative per la preclusione del reato?

Educatore: Non è ammesso a permessi premio, lavoro all’esterno e misure alternative chi è stato condannato per i reati previsti come ostativi dall’art. 4 bis: 416 bis c. p. (associazione mafiosa), 630 c.p. (sequestro di persona estorsivo), 74 1. stup. (associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti), taluni gravi reati in tema di pedofilia e riduzione in schiavitù. La concessione è ammessa se è espressamente riconosciuta la qualità di collaboratore di giustizia o se, all’interno di un cumulo di più condanne, è già stata espiata la parte imputabile al reato preclusivo.

Altre ostatività, questa volta "a tempo", sono previste dall’art. 58 quater (divieto di concessione di benefici per 3 anni da un’evasione o da revoca per fatto colpevole di altro beneficio) e dall’art 30 ter (divieto di concessione di permessi premio per 2 anni in caso di commissione di reato non colposo durante l’espiazione della pena). I termini per l’ottenimento dei vari benefici sono differenti: si possono chiedere i permessi premio ad un quarto della pena e la semilibertà alla metà, ma tali termini sono aumentati rispettivamente alla metà e ai due terzi per l’altra categoria dei reati prevista dall’art. 4 bis (omicidio, rapina, estorsione, ecc.), per i quali è in ogni caso prescritto il parere del Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica.

 

Redazione: Come viene recepita, in questo carcere, la normativa relativa alle misure alternative alla detenzione per i detenuti extracomunitari provvisti o sprovvisti di permesso di soggiorno?

Educatore: Nell’ord. penit. non esiste alcuna norma specifica sugli stranieri. Il principio generale della l. 354/75, anche dopo le modifiche introdotte con la cd. Gozzini dell’86 e con la cd. Simeone dell’98, è quello dell’uniforme applicazione dei principi del trattamento intra ed extramurario, a tutti i detenuti che ne hanno i requisiti soggettivi e oggettivi. Vero è che la cd. l. Bossi-Fini, fissa per gli stranieri che commettono reati alcune regole chiare e assai rigide:

espulsione dello straniero, privo di valido permesso di soggiorno, già nella sentenza di condanna o comunque durante l’esecuzione di pene sotto i due anni anche residui;

divieto di rilascio del permesso di soggiorno per lo straniero autore di reati di media gravità;

tendenziale non rinnovo del permesso di soggiorno al termine della condanna; questa previsione, seppur non considerata in termini di automatismo, si configura come una probabile evenienza per lo straniero autore di reati non lievissimi.

Dunque, in assenza di punti fermi sulla concedibilità allo straniero detenuto di benefici extramurari, ma vigente una normativa sull’immigrazione che considera preminente la logica del controllo sociale mediante rimpatrio rispetto a quella del trattamento rieducativo, lo staff trentino in questi anni ha valutato le situazioni caso per caso seguendo orientativamente queste ampie direttrici:

lo straniero in regola col permesso di soggiorno è di massima parificato al cittadino residente, è seguito dai servizi e l’osservazione intramuraria cercherà di cogliere bisogni e prospettive di reinserimento al pari di qualsiasi altro detenuto italiano;

lo straniero non identificato, cioè privo di documento di identità o con più identità dichiarate o addirittura denunciato per false generalità o per inottemperanza di un provvedimento di espulsione, viene seguito solo con interventi di trattamento intramurari: si ritiene che la totale impossibilità di conoscenza in cui ci si imbatte, che impedisce causa non identificazione la stessa espulsione, precluda adeguate garanzie di buon andamento di un beneficio esterno;

la più ampia categoria degli identificati ma privi del permesso di soggiorno, o con questo scaduto in carcere, è la cd. zona grigia, in cui davvero non sembrano esistere indicatori precisi. Di massima, è più facile lavorare sui detenuti con permesso di soggiorno scaduto ma teoricamente rinnovabile, perché l’allestimento di un buon progetto di reinserimento potrebbe in ipotesi favorirne appunto un futuro rinnovo, mentre per i primi è immanente il rischio dell’espulsione, il che toglie gran parte della motivazione a costruire progetti a termine.

 

Redazione: E per gli stranieri tossicodipendenti?

Educatore: Le modalità con cui un detenuto tossico o alcoldipendente è seguito dal relativo Servizio dipendono dal tipo di convenzione che questo ha stipulato con l’Ente Locale di riferimento. Nella Provincia di Trento Ser.t. e Alcologia sono convenzionati, e dunque ottengono rimborsi per i soli interventi effettuati su persone residenti in Trentino, cioè per cittadini italiani trentini o per stranieri che ottenuto il permesso di soggiorno hanno poi fissato la loro residenza in provincia. Ogni altra situazione viene dichiarata da detti servizi come estranea alle competenze loro riconosciute. In altre Regioni, i Ser.T. accettano di rilasciare certificazioni di tossicodipendenza di detenuti in istituti di quel territorio anche non residenti se questi le utilizzano per accedere a comunità autofinanziate, cioè senza oneri, ma in Trentino questo non capita.

 

Redazione: Noi verifichiamo un ritardo nelle risposte per la concessione della liberazione anticipata. A che cosa si deve imputare?

Educatore: Detto che dal gennaio 2002 la competenza a tale concessione è passata dal Tribunale al Magistrato di Sorveglianza, è possibile che il fatto che detto beneficio può essere chiesto oggi anche dagli affidati al servizio sociale sui periodi di misura alternativa aumenti molto il carico di lavoro della Sorveglianza.

 

Redazione: I semestri vengono analizzati singolarmente o globalmente? Può accadere che un detenuto non abbia ad es. nessun rapporto per due semestri e un rapporto nel terzo semestre: se i tre semestri vengono analizzati globalmente, questo comporta la non concessione dei giorni di liberazione anticipata, laddove la situazione cambia se essi vengono analizzati singolarmente. Dunque, un ritardo nelle risposte per la concessione del beneficio e una valutazione globale danneggiano i detenuti.

Educatore: Questa domanda dovrebbe essere rivolta al Magistrato di Sorveglianza, per poterne ricevere una risposta maggiormente qualificata. Da quanto so, esistono due orientamenti difformi, l’uno che prevede la considerazione dei singoli semestri e l’altro che ammette una valutazione più globale della detenzione. Bisogna però tenere presente che il beneficio in questione è concedibile non per "buona condotta" ma in presenza di prove certe di "partecipazione all’opera di rieducazione". Può dunque accadere che un detenuto non sia incorso in alcun rapporto disciplinare ma che al contempo non abbia fatto alcun colloquio o alcuna attività trattamentale tale da potersi ravvisare la "partecipazione" di cui sopra.

Del pari, può verificarsi il caso di una buona condotta per un paio di semestri seguita da un grave episodio di turbativa odi trasgressione nel terzo (ad esempio, un’evasione): in tal caso, ritengono i giudici che la buona condotta fosse un fatto solo strumentale all’ottenimento del beneficio, e che ancora una volta non sia ravvisabile quella "partecipazione" di cui sopra.

 

Redazione: È però indubbio che i rapporti hanno un ruolo fondamentale, e che il loro peso è decisamente superiore alla valutazione relativa alla partecipazione all’opera rieducativa. Quali linee guida vengono adottate in questo carcere per l’apertura dell’osservazione per i detenuti che diventano definitivi?

Educatore: Tutti i detenuti definitivi sono, per legge, in osservazione. Questa consiste nell’offerta dei professionisti coinvolti (psicologi, assistenti sociali, medico, ecc.) di una rilevazione dei bisogni della persona e nella proposta di un programma per porvi rimedio, per darvi efficace risposta.

Per regolamento, l’osservazione dura da un minimo di un mese ad un massimo di nove, anche se poi vi sono dei criteri fattuali che ne possono determinare un’accelerazione un’udienza fissata per cui relazionare con tempestività, un’impellenza di carattere familiare o lavorativo - o, per contro, un rallentamento: si pensi alla difficoltà di far giungere un’indagine socio familiare da altre Regioni d’Italia o, addirittura, i problemi che crea l’utenza extracomunitaria priva di riferimenti contattabili.

 

Redazione: A Trento, su una popolazione di circa 120 detenuti, uno solo va in permesso. Non è un dato troppo basso?

Educatore: Se oggi in carcere si vedono meno benefici rispetto ad una volta, non è perché si sono in qualche modo irrigidite le maglie del sistema ma, più semplicemente, perché i benefici concedibili sono stati già concessi in altro momento, e cioè prima e fuori dall’esecuzione carceraria. Tutti gli affidamenti che non si vedono più "dal" carcere sono già stati concessi "da fuori" il carcere, e molti dei nostri attuali semiliberi hanno ottenuto la misura alternativa non a metà espiazione ma da prima della carcerazione, quale risposta subordinata ad un affidamento rifiutato. Il carcere tende sempre di più a configurarsi come contenitore di coloro che, offerti di avanzare una proposta credibile per evitarlo, non vi sono proprio riusciti: i recidivi, i clandestini, sicuramente i più disagiati. È andata così anche con l’indultino: sono usciti quelli che magari non avevano un lavoro ma almeno un domicilio, sono restati i revocati, gli stranieri irregolari, i privi perfino di una dimora verificabile.

 

Redazione: Ma i permessi premio vengono dati solo per avere rapporti con la famiglia? E chi non ha casa o famiglia? E i permessi collettivi?

Educatore: I permessi premio sono soprattutto importanti occasioni di contatto con la famiglia, con possibili datori di lavoro, con esperienze terapeutiche o riabilitative. È inevitabile, non bellissimo ma inevitabile, che in istituti pieni di persone senza casa e senza risorse occupazionali proprie vengano concessi pochi benefici espressamente ideati sul presupposto del riferimento alloggiativo, affettivo o lavorativo. La grande modificazione dell’utenza penitenziaria di cui abbiamo detto ha dato nuovo impulso ai permessi accompagnati nelle cooperative sociali in cerca di occupazione, mentre i permessi collettivi non hanno avuto negli anni il buon esito che ci aspettavamo.

 

Redazione: Secondo lei all’esterno del carcere c’è una maggiore o minore attenzione ai problemi del carcere?

Educatore: È mia impressione che la sensibilità complessiva verso il carcere sia progressivamente scemata col cambiare della sua utenza, che da trentina, da locale diventava sempre più straniera, e cioè in qualche modo "corpo estraneo" rispetto al territorio. Nelle strutture ministeriali, nella letteratura, nei numeri dell’esecuzione penale assume sempre più rilevanza la cd. area penale esterna, che è l’insieme dei tanti, tantissimi che scontano una pena in misura alternativa senza essere passati dal carcere. Sul carcere, che si configura sempre più come nicchia del problema-devianza che tante risposte ha trovato prima e fuori da questo, operano sempre più solamente agenti specifici e dedicati, come le cooperative sociali, i servizi per le tossicodipendenze, le agenzie per gli stranieri.

 

Alcune osservazioni della redazione

 

L’art. 27 della Costituzione parla di finalità rieducative della pena. Tale principio è valido solo per i cittadini italiani e per quanti hanno titolo di permanenza in Italia? Oppure ha, invece, una portata generale? Non prevale troppo spesso la logica dell’espulsione su quella del reinserimento, anche per chi si trova in quella fascia cosiddetta grigia, secondo la definizione dell’educatore? E quindi non vi è troppo frequentemente la rinuncia a costruire un progetto di misure alternative per i detenuti extracomunitari, anche se nel nostro sistema attuale nulla lo vieta e nella Legge Bossi- Fini l’espulsione non è un automatismo? Non è in discussione la necessità di valutare ogni singolo caso, ma il non considerare necessario un percorso rieducativo per una parte, per altro sempre più consistente, di detenuti. Sicuramente nelle carceri italiane l’utenza si è profondamente modificata in questi ultimi anni, soprattutto con la presenza rilevante di detenuti stranieri; sicuramente molti di essi hanno il permesso di soggiorno scaduto o non sono identificabili e quindi, di fatto, con pochissime o nulle possibilità di godere di permessi premio, sicuramente molti sono recidivi; sicuramente esistono diversi casi di disagio. Ma, detto questo, una sola persona in permesso premio, su una popolazione di 120 detenuti, continua a sembrarci troppo poco.

Nel caso di permessi collettivi, come di quelli individuali, ci sono stati e ci saranno dei fallimenti. Questo è un rischio ineliminabile. Ma la percentuale di fallimenti resta decisamente bassa. Alcuni di noi hanno beneficiato di permessi collettivi o ne hanno esperienza indiretta perché provenienti da realtà nelle quali essi vengono concessi. Non hanno memoria di un fallimento globale di quest’esperienza o di esiti particolarmente negativi. Questo potrebbe essere accaduto a Trento.

 

Replica dell’educatore

 

Ritorno brevemente sul tema dolente dello scarso numero dei permessi premio che vengono concessi. Anche a non voler qui considerare i detenuti revocati da benefici causa infrazioni, che altri benefici non possono ottenere, o i non pochi condannati a meno di 3 anni che ottengono la più ampia libertà delle sospensioni pena o dell’indultino prima dei permessi premio, devo ribadire considerazioni già svolte. Fino al 1998 tutti i detenuti condannati entravano in carcere, fortunati e sfortunati, sposati o celibi, occupati o disoccupati; su tale massa indifferenziata l’equipe penitenziarie e magistratura di sorveglianza effettuavano il loro lavoro di conoscenza e di valutazione, e così i molti ristretti con risorse socio familiari ottenevano i benefici, mentre quelli meno avvantaggiati o meno collaboranti ne rimanevano esclusi. Dalla l. Simeone in poi tale selezione il sistema non la fa in carcere, ma prima dell’arresto.

Chi ha famiglia per andarci, chi ha lavoro per lavorare, chi ha la CT per farci un programma, in carcere non ci finisce proprio. Le decine di migliaia di soggetti in misura alternativa all’esterno in Italia sono altrettanti detenuti mancati che, se non ci fosse il meccanismo della l. 165/98, sarebbero negli stabilimenti penitenziari ad aspettare, e certo ad ottenere, permessi e misure alternative.

Per contro, oggi in carcere ci finisce chi - già valutato dalla Magistratura di Sorveglianza prima della pena - non ha i requisiti socio-familiari per evitarla, chi non aveva allora quella casa e quel lavoro necessari per commutare, da fuori, il carcere in affidamento o detenzione domiciliare, e che difficilmente ha dopo l’arresto per ottenere, da dentro, permessi premio. Il problema, insomma, non è lo scarso numero dei permessi concessi ma delle persone in possesso di un posto dove andare a trascorrerlo.

È proprio per questo che sono nati i permessi accompagnati nelle cooperative sociali in cerca di occupazione; ed è proprio per questo che la nuova attività degli operatori penitenziari non è più, come negli anni 90, quèlla di relazionare su detenuti già pronti ad andare in famiglia in permesso, ma quella di trovare riferimenti esterni a persone che ne sono prive e che dunque, da sole, non aiutate dallo staff, non hanno ne avrebbero i presupposti per ottenere il beneficio desiderato. Tale ultima attività, con tutte le difficoltà che la contraddittorietà normativa attuale comporta, viene svolta dall’equipe trentina, da ultimo, anche e soprattutto nei confronti dei detenuti stranieri con alcuni requisiti minimi di affidabilità.

Proprio mentre davanti alla Consulta è pendente una questione di legittimità costituzionale dell’espulsione dello straniero, in ipotesi - come anche la Redazione insinua - contrastante col principio rieducativo. E sempre più spesso nella grande confusione di dati e di aspettative del detenuto straniero, che cerca da un lato i nostri tentativi di intervento trattamentale - indubbiamente mirati e bilanciati caso per caso, come dice la Redazione- e li vede poi scontrarsi con contestuali, opposti provvedimenti di espulsione della Magistratura.

 

Il Giudice di Pace Penale per i reati di minore allarme sociale, di Francesco Monari

 

Il 21 e 22 novembre si è svolto a Trento presso la Facoltà di Giurisprudenza un Convegno di Studi sul tema "Contenuti e limiti della discrezionalità del Giudice di Pace in materia penale", ultimo di una serie di incontri organizzati dall’Assessorato per il Giudice di Pace della Regione T.A.A. in stretta collaborazione con la Facoltà di Giurisprudenza ed il Dipartimento di scienze giuridiche di Trento. Il Giudice di Pace Penale è stato introdotto dal D.L. 274/2000, che si instaura nel quadro delle riforme del diritto penale processuale e che ha una funzione deflativa nei confronti dell’organo giudiziario, troppo oberato di processi, e che tende a prefigurare future possibili linee di intervento penale nei confronti di reati di minore allarme sociale.

la sua competenza in materia penale prevede che egli possa giudicare per i reati di percosse (art. 581 c.p.), lesioni personali (art. 582 c.p.), lesioni personali colpose (art. 590 c.p.), omissione di soccorso (art. 593 c.p.), ingiuria (art. 594 c.p.), diffamazione (art. 595 c.p.), furti punibili a querela dell’offeso (art. 626 c.p.), sottrazioni di cose comuni (art. 627 c.p.), usurpazione (art. 631 c.p.), deviazione di acque (art. 632 c.p.), invasione di terreni o edifici (art. 633 c.p.), danneggiamento (art. 635 c.p.), introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui 8art. 636 c.p.), ingresso abusivo nel fondo altrui (art. 637,638,639 c.p.), deturpamento e imbrattamento di cose altrui (art. 639 c.p.), appropriazione di cose smarrite (art. 647 c.p.), somministrazione di bevande alcoliche a minori (art. 689, 690, 691 c.p.), atti contrari alla pubblica decenza, (art. 726 c.p.) inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori (art. 731 c.p.), e per tutti i reati punibili con pena non superiore nel massimo a quattro mesi di reclusione.

Per tali reati non sarà comunque possibile per il Giudice di Pace comminare pene detentive, ma solo pene pecuniarie che non superino i cinque milioni di lire, mentre le pene pecuniarie non pagate potranno essere convertite in lavoro sostitutivo o, anche in caso di recidiva, in permanenza domiciliare. La nuova normativa disciplinata dal D.Lgs. n. 274/2000 quindi, allargando alla competenza del Giudice di Pace anche alla materia penale chiamandolo a giudicare reati di larga diffusione, ha creato un nuovo sistema sanzionatorio e processuale diretto a delineare un volto "mite" ma "effettivo" di giustizia penale.

Proprio nelle conclusioni dei precedenti incontri si è avuto modo di sottolineare, ed emerge in effetti da questa breve esperienza applicativa dall’entrata in vigore della nuova disciplina, l’ampia discrezionalità di cui gode il Giudice di Pace nell’ambito dell’esercizio della nuova competenza., che sembra giocare un ruolo assai rilevante per il suo corretto funzionamento.

I contenuti ed i limiti di questa discrezionalità, i rischi e le opportunità che essa comporta, sono stati al centro del Convegno, al quale hanno preso parte organi istituzionali, studiosi e magistrati che hanno sentito l’esigenza di proseguire la riflessione e lo studio per definire i contorni, sia sotto il profilo dei limiti che sotto quello dei Contenuti, in particolare per quanto riguarda i criteri operativi che devono regolarne l’esercizio concreto.

A tale proposito è stata infarti svolta una indispensabile e attenta analisi ricognitiva delle diverse ipotesi in cui tale discrezionalità emerge, distinguendo tra momenti "fisiologici" di vera e propria discrezionalità, voluti e richiesti sia dal legislatore che dal sistema, per consentire, attraverso il prudente apprezzamento del Giudice di Pace, la necessaria individuazione applicativa e l’adeguamento ai casi concreti, da altra ipotesi di fiera elasticità o, purtroppo, imprecisione e cattiva formulazione delle norme che possono sconfinare in vere e proprie violazioni di principi fondamentali del nostro ordinamento, quali quello di legalità e del "giusto processo" in materia penale.

 

News, a cura di Silvia Sandri

 

Nel carcere di Bollate si insegna a riparare i PC

 

Esce in questi giorni il primo detenuto formato da "PcDet". È uno slovacco ed ha finito di scontare la sua pena nel carcere di Bollate (MI): Tornerà in Slovacchia dove lavorerà come tecnico riparato re di computer. È il primo detenuto a poter mettere a frutto un’esperienza acquisita nel corso di formazione professionale per tecnico riparatore, promosso all’interno del carcere dalla società "PcDet". Altri dieci detenuti hanno frequentato il corso e gli attestati di qualificazione saranno consegnati ai detenuti dal ministro di grazia e Giustizia Roberto Castelli.

"PcDet" è la società informatica nata all’interno del carcere e promuove corsi di formazione sulla riparazione di computer dimessi dalle aziende risolvendo in tal modo un problema ecologico di smaltimento dei PC dimessi e creando un"opportunità di lavoro. Le dieci persone formate andranno a costituire una squadra di operai all’interno del carcere inquadrati con il contratto dei metalmeccanici. Altre iniziative informatiche sono presenti nel carcere di Bollate come i corsi di quattro mesi per tecnici e progettisti di rete, con la collaborazione di CISCO Sistem, Fondazione Adecco per le pari opportunità. Società dell’incoraggiamento d’arti e mestieri e Fondazione Ibm Italia. Verranno insegnate materie quali la progettazione, la realizzazione e gestione delle reti complesse da docenti della Società dell’incoraggiamento d’arti e mestieri. Ai partecipanti che avranno superato con esito positivo l’esame finale del corso verrà attribuito il certificato Cisco (Cisco certificated network associate)Sarà poi la Società Adecco ad impegnarsi a trovare un posto di lavoro ai detenuti a fine pena.

 

A Sna Vittore 30 detenuti gestiscono il traffico di Info 12

 

È un nuovo progetto di lavoro per i detenuti del carcere di S. Vittore promosso dal Ministero della Giustizia e da Telecom Italia e consentirà a 30 detenuti di lavorare all’interno del carcere. Sono 20 le postazioni telefoniche alle quali verranno destinate 26 detenuti. Che lavoreranno come operatori controllati da 4 supervisori. I detenuti coinvolti lavoreranno come normali dipendenti della Telecom addetti al servizio Info 12. Telecom ha assegnato a S. Vittore una delle 76 aree in cui il servizio Infol2 ha suddiviso il territorio nazionale. Parte del traffico del servizio verrà, quindi, smistato sulle linee "aperte" all’interno del carcere. I detenuti lavoreranno dalle 8 alle 20, dal lunedì al venerdì, secondo turni programmati dalla cooperativa Out & Sider. Dettaglio importante i detenuti non potrebbero accedere a chiamate non autorizzate, secondo quanto previsto dal regolamento penitenziario, ma l’impossibilità di rintracciare l’operatore ha reso possibile installare il servizio all’interno del carcere. Info 12 funziona infatti, smistando la chiamata sul primo operatore libero sull’interno del territorio nazionale. I detenuti sono stati formati in un corso di 3 settimane per imparare a gestire e accedere alla banca dati del servizio e prendere familiarità con il sistema.

 

Il progetto "Voltapagina" nel carcere di Como

 

Carcere e volontariato si confrontano e cercano percorsi comuni attraverso la biblioteca "in rete"; è una volontà di cercare punti di incontro tra attività dei detenuti e il volontariato. Sono le proposte nate dall’incontro di Ciessevi di Como e il carcere comasco di Bassone.

Il progetto è articolato in due parti: nella prima dalla biblioteca del carcere, appena sistemata e inserita nei circuiti bibliotecari Com’aschi, sarà possibile accedere a materiali reperibili al centro di documentazione del Ciessevi. Il Centro servizi Volontariato raccoglie nella sua biblioteca oltre 1400 testi relativi al terzo settore che potranno essere condivisi con i detenuti. La seconda parte del progetto riguarda la possibilità di poter coinvolgere i detenuti nelle attività delle associazioni interne ed esterne al carcere. Un’idea nata dalla collaborazione tra volontari e detenuti nella fase di sistemazione delle biblioteca del carcere. A breve partirà inoltre la realizzazione di mini-appartamenti da assegnare ai detenuti a fine pena per la cui gestione saranno individuate delle associazioni.

 

Comunicazione fra volontari, operatori e agenti penitenziari

 

È stato siglato un protocollo d’intesa fra la regione Emilia - Romagna, il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione penitenziaria (PRAP) e la Conferenza regionale Volontariato di Giustizia il cui contenuto riguarda il miglioramento dei rapporti fra i volontari impegnati all’interno delle carceri, operatori e agenti penitenziari. Favorire le attività dei volontari della giustizia negli Istituti e rafforzarne il ruolo, sono alcuni dei contenuti del protocollo d’intesa. Molti degli spunti per i contenuti dell’intesa provengono dai partecipanti ad un corso di formazione congiunta tra volontari e operatori penitenziari che si è svolto tra il 2001 e 2003 a Parma, Bologna, Forlì. Sarà firmato il 1 dicembre e sarà l’occasione per distribuire il volume contenente il materiale prodotto dai corsisti e per presentare la successiva edizione del "percorso di confronto" tra agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari.

 

 

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