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Sosta Forzata, giornale della Casa Circondariale di Piacenza (numero pubblicato nel mese di aprile 2007)
Quando…
Quando entro in carcere non sento più i cancelli che sbattono alle mie spalle. Non mi danno nessuna sensazione; segnano un ritmo ormai familiare. Quando entro in carcere, quello che non smette mai di stupirmi è la totale assenza di bellezza. Credo che la prigione sia in assoluto il posto più privo di bellezza che abbia mai conosciuto. Nemmeno l’ospedale che pure è un luogo di dolore e sofferenza è così tanto brutto. A tratti si trovano fiori, colori, a volte bambini o giovani molto belli e le infermiere sono attraenti, femminili nei loro camici bianchi. In carcere il colore dominante è un non-colore: grigio chiaro, scuro, sporco in tutte le gradazioni. Non esistono fiori, né profumi; persino il campo di calcio è più brullo di quanto si possa immaginare. Non c’è musica, solo rumori. Non esistono oggetti belli di nessun tipo. Le persone molto spesso gridano anche quando vorrebbero parlare. Le porte non si chiudono ma sbattono e l’atmosfera è pesante. Quando entro in carcere mi domando sempre come si possa pensare di rendere le persone migliori tenendole chiuse in un posto così brutto, perfettamente brutto. Perfettamente grigio e triste. Quando in redazione vedo i ragazzi ridere, mi commuovo e penso che gli esseri umani hanno risorse straordinarie. Quando ho visto Enrico, il mio carissimo Enrico composto e immobile nel letto di ferro in una stanzetta buia nello scantinato del Fatebenefratelli, ho pensato che sembrava ancora chiuso in cella. Poi ho capito che non soffriva più, che gli volevo bene e che mi sarebbe mancato molto. A casa ho cercato di ritrovare tutto quello che mi ha lasciato, l’ultimo racconto scritto di corsa per aiutarmi - avevo paura di non riuscire a chiudere il giornale - e poi l’intervista bellissima con Elisa, nella casa di sua sorella. Mi è venuta in mente la vecchia automobile piena di peli di cane e il mio cappotto nero stravolto e impelacchiato. Mi sembra di ricordare che a Enrico veniva un po’ da ridere. L’ultima pagina di questo numero è dedicata a lui perché se la merita perché è stato uno dei redattori migliori che ha avuto il nostro giornale e il più fedele nel sostenerlo anche da fuori. Quando ho letto il racconto di Cretu Milei, ragazzo di Bucarest, ho pensato che fosse importante pubblicarlo perché - me lo ha scritto a mano con la sua calligrafia elegante la maestra Pinuccia - ha ragione Tiziano Terzani "Se non c’è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, che ne lascia traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti". E forse ci sarebbe meno vergogna ma anche meno consapevolezza. Quando penso che questa Giunta Comunale sta finendo il suo mandato e non ha ancora fatto la nomina del Garante dopo averlo promesso troppe volte, mi sento infuriata. Carla Chiappini In questo numero di Sosta Forzata abbiamo pensato, scherzato e scritto sulla parola "quando" ma, forse, i "quando" più drammatici e assillanti restano ancora sospesi nell’aria. Quando arriverà il dentista? Quando potrò avere la visita specialistica di cui ho bisogno? Quando riuscirò a fare qualche lavoro per non restare in ozio e guadagnare qualcosa? Quando le persone fuori capiranno che il carcere contiene persone e non reati? Quando ci sarà rispetto tra noi? Quando la "rieducazione" prevista dalla nostra Costituzione sarà la vera priorità dell’Amministrazione Penitenziaria? Quando e ancora quando… quando, quando, quando
Porzioni di carcere
Sono solo frammenti. Prudenti aperture su una realtà che nasconde problemi molto grandi e, perlopiù, irrisolti. Le carceri di questi anni sono le carceri degli stranieri, della malattia mentale, dei tossicodipendenti, dell’autolesionismo, dei corpi tagliati, dei sedativi. Del lasciarsi andare, della rabbia trattenuta, del sospetto reciproco. Le persone detenute non si fidano di nessuno e, forse, hanno pure ragione. Qualche giorno fa un ragazzo straniero che parla molto poco italiano mi ha detto che rifiuta sistematicamente la "terapia" perché non vuole diventare "zombie"; frequenta la scuola e viene in redazione ma non va mai all’aria e nemmeno sfrutta le due ore di saletta. È molto teso, non regge le grida dei compagni, gli danno fastidio anche le risate: - Non capisco, cosa c’è da ridere qui dentro? - Poco il rispetto tra le diverse etnie; in realtà gli stessi detenuti non si sopportano. Il carcere visto da dentro è tormento e alienazione. E se fuori da destra a sinistra transitando per il centro, si insiste sulla "certezza della pena"; da dentro si è assolutamente certi di tanta, troppa pena, intesa come sofferenza, come privazione, noia, fastidio, convivenza forzata tra individui molto diversi per lingua, cultura, abitudini, età. Praticamente possiamo affermare con Sartre "l’enfer c’est les autres", cioè l’inferno sono gli altri; l’inferno è l’impossibilità di comunicare. Questa è la prigione più pesante; la comunicazione interrotta, il pensiero bloccato. E non si muove nulla; pochissime le idee. Il carcere è ancora lo stesso, anche dopo l’indulto.
La pena per definizione è penosa
Ma la penosità non deve essere il fine della pena. Molti miei colleghi purtroppo non lo capiscono. L’obiettivo è mettere il detenuto nelle condizioni di non nuocere alla collettività. Si ritorna al punto di partenza: la cruciale importanza del trattamento e del reinserimento. È su questo versante che si misura l’efficacia di un sistema penale. Anche se il nostro ordinamento prevede il trattamento del detenuto, nei fatti il carcere tende a troncare il dialogo con le persone. Chi si trova a subire una pena non riesce a comprenderne il senso. Tant’è che uno degli effetti ordinari che produce la detenzione è il vittimismo. Da provocatore del danno, la persona si concepisce come vittima della società. È ovvio che quando i detenuti dicono "io non c’entro" mentono, ma dietro questa bugia si cela il reale auto convincimento di essere innocenti; è un guaio: la pena produce innocenza e quindi il detenuto non riconosce la necessità di un percorso di reinserimento.
Alessandro Margara magistrato, ora presidente della Fondazione Michelucci Firenze, 5 novembre 2005 su "Vita" Il testo completo dell’intervista può essere consultato sul sito www.ildue.it
Quando stavo nel vecchio carcere
Torno indietro nel tempo; la struttura ove ero rinchiuso era in centro, a lato di piazza Duomo in Via del Consiglio. Già il nome della via è tutto un programma: di fronte alla casa circondariale c’è ancora oggi il tribunale. A quei tempi gli agenti erano vestiti con abiti militari dell’esercito;la vecchia struttura era un ex convento con condizioni igieniche pessime: bocche di lupo,finestre di legno - fortunato chi le aveva-, scarafaggi, pantegane ecc…Le celle erano composte da 3 a 9 detenuti, letti a castello con reti a molla e materassi distrutti; per tenere tirate le reti si adoperavano legacci ricavati dalle lenzuola e magliette di cotone per dormire più comodi anziché a barca. Ore d’aria dalle 9 alle 11 pomeriggio 13-15 d’inverno, d’estate un’ ora in più. La maggioranza della popolazione si riuniva in cortile per passeggiare, giocare a pallone, sedersi su panchine in cemento per scambiare le proprie idee. Chi giocava a carte, ping pong o a calcetto. Tutto questo avveniva in un’area di poche decine di metri per lato,ammassati come sardine. Bastava una spinta, un’occhiata per far scoppiare la rissa e guai se non si partecipava. Un modo come un altro per scaricare lo stress, la maggior parte delle volte erano motivi futili, invece per le situazione più gravi e più serie vi erano i capi gruppo. A quei tempi nelle carceri erano settentrionali e meridionali, gli extracomunitari erano rari. Quando c’era qualche fermento si prendeva la persona o le persone coinvolte con le buone; si affrontavano le situazioni. Se non capivano, prima venivano "ritoccati" dai propri compagni per poi finire alla controparte. Rispetto reciproco, nella massa c’è sempre la mela marcia. La cosa più bella era la doccia in cella. Detenuti che provenivano da altre strutture si meravigliavano: - Siete fortunati ad avere la doccia in cella con acqua bollente 24 ore su 24.- Il vitto era pietoso, passava con i pentoloni. Ai colloqui chi riceveva il pacco poteva avere qualunque cosa: sigarette, vitto crudo, vitto cotto, dolciumi fatti in casa, bibite ecc… Queste strutture nuove sono, per dire, più igieniche, il vitto è migliorato - passa col carrello - ma l’ambiente non è familiare, essendoci molte etnie: hanno diviso in 6 sezioni e ogni sezione ha la propria aria; non si parla, se non coi propri compagni di sezione. Le docce sono a orario, tempo, e in corridoio. Il pacco colloquio è uno spreco di euro da parte dei parenti, tanto non passa quasi nulla. Così i detenuti che hanno fondi sono costretti a fare la spesa all’interno. Come rimpiango la vecchia struttura. E come me ci sono altri detenuti. Se, poi, dovessimo interpellare anche gli anziani della parte opposta, gli agenti, sarebbero d’accordo con me. Siamo passati dalla padella nella brace.
Marino
Marino ha conosciuto il carcere la prima volta intorno ai vent’anni, ora ne ha cinquanta; è entrato e uscito tante di quelle volte che ha perso il conto. Ci spiega che anni fa la galera era più accettabile per il fatto che c’erano rapporti più umani tra le persone detenute e anche con gli agenti.
Quando alle "Novate" c’era la squadra di calcio
Dopo un anno e sei mesi di restrizione ero diventato allenatore della "Globus", squadra calcistica della Casa Circondariale di Piacenza formata in prevalenza da ragazzi stranieri, nigeriani, marocchini, slavi e italiani. Tutti davano il meglio di sé in allenamento e ancor più durante le partite di campionato che si disputavano con squadre amatoriali esterne e anche il resto della popolazione carceraria poteva partecipare a turno agli allenamenti e, alla domenica, faceva il tifo per noi. Mi rammarico che tutto questo non esista più perché, a mio avviso, il calcio, la competizione, la disciplina sportiva e tutto il resto erano molto determinanti ai fini dell’educazione di quei ragazzi. A tale scopo auspico che in tutte le carceri italiane vengano promosse più attività sportive per evitare che le persone vivano nell’ozio.
Enzo
Sugli effetti positivi del calcio, tutta la redazione è assolutamente d’accordo. Il campo è importante perché ci si sfoga, perché si sente l’odore dell’erba, perché lo sguardo si allarga e non sbatte contro i muri di cemento, perché c’è il colore verde, perché non si pensa a niente, perché si scarica la tensione…
Quando in carcere si lavora
Io volevo parlare un po’ per il lavoro, per la vita che viviamo qui dentro. Ormai sono passati 15 mesi; ho frequentato la terza media poi mi hanno dato un lavoro in cucina. Prima facevo il lavapiatti e adesso sono aiuto-cuoco; sono stato fortunato a trovare questo lavoro. Mi alzo la mattina alle 6.30, alle 7 scendo a lavorare. Mi trovo bene con i miei compagni di lavoro, siamo in cinque, ci aiutiamo tra di noi, siamo una bella squadra, scherziamo l’uno con l’altro, scambiamo battute e così passa la giornata. A mezzogiorno ci sediamo a mangiare insieme; dopo mangiato apriamo la nostra discussione per il lavoro, com’è andata la giornata, i difetti del lavoro che dobbiamo recuperare e, alla fine, sentiamo le scuse che ognuno di noi inventa. Però è bello lavorare, mi piace, mi sento felice; durante il lavoro mi dimentico tutto. Poi c’è un’altra cosa cioè che quando finisco la giornata vado in cella e dico con me stesso: "Oggi ho guadagnato qualcosa". Ma io non voglio essere ipocrita perché nel carcere nessuno può essere felice ma, a vedere da un certo punto di vista, ci sono momenti in cui noi siamo felici. Per esempio quando parlo al telefono con mia madre, nelle lettere che ricevo da mia moglie. Però questa felicità dura poco. La stessa cosa succede anche con il lavoro; nei giorni che sono di riposo sono infelice, triste e comincio a pensare alla mia famiglia, penso per uscire, penso di tutte le cose che ho lasciato a metà e che voglio recuperare con il tempo. È così che i giorni di riposo diventano pesanti per me e aspetto con ansia il giorno dopo per andare a lavorare e dimenticare le cose che mi fanno star male e trovare quella poca e breve felicità di cui di cui non solo io, ma tutti abbiamo bisogno e vi auguro che a ognuno di voi sia data la possibilità di lavorare perché lavorare vuol dire essere libero.
Kristo Armand
Kristo è stato per circa un anno in cucina e questo è uno dei lavori più ambiti perché prevede un impegno di otto ore giornaliere e, quindi, permette alle persone detenute di guadagnare qualcosa in più. In carcere oggi lavora il 10% della popolazione ristretta e le paghe dell’amministrazione penitenziaria sono veramente "fuori mercato".
Quando scrivo a Samuel, il mio bambino
Caro mio figlio,come stai? In salute? La giornata come te la passi? A scuola come vai? Spero che tu stia bene e che questa lettera ti trova bene. Ieri ho ricevuto la tua lettera e mi ha fatto felice, sai perché? Perché nella lettera mi hai detto che a scuola prendi sempre ottimo e poi mi facevi gli auguri per il mio compleanno. Grazie figlio mio, vai avanti così, ti voglio bene, lo sai che mi manchi tanto? Mi manchi un mondo, mi manchi da morire. Quanto vorrei averti vicino a me e parlarti per farti capire cosa vuol dire essere padre e per dirti di quanto ti voglio bene e che senza di te ogni cosa in questo mondo non ha senso. Figlio mio mi ricordo sempre l’ultimo colloquio che abbiamo avuto a dicembre; era sabato e tu ti sei seduto vicino a me e mi guardavi negli occhi con un sorriso e poi mi hai detto: "Papà Babbo Natale mi ha fatto un regalo molto prezioso" e io incuriosito da questo regalo ti ho chiesto di raccontarmi. Poi tu sorridendo come fanno i bambini mi hai risposto: "Papà il regalo che ho avuto da Babbo Natale è che io in questo momento sto qui con te tra le tue braccia" sono rimasto colpito da queste parole sai? Non me lo aspettavo che tu dicessi tante parole belle e così dolcissime, piene di speranza e di vita. Penso a quella frase sempre, ogni giorno che mi alzo da letto e vado a lavoro; la penso ogni minuto della mia vita, penso a te che così piccolo dici grandi parole. La stessa cosa è anche per me; lo so figlio mio che io ti manco e che tu là fuori soffri più di me che sono qui dentro ma ti devi fare coraggio; tu adesso sei cresciuto, sei diventato grande, tu devi studiare figlio mio perché la scuola è una cosa preziosa e un domani tu avrai un mestiere e diventerai qualcuno. Tante cose ho da dirti,ma quel giorno non è lontano,e allora noi parleremo da padre a figlio. Ciao figlio mio,ti voglio bene. Tanti baci e abbracci da tuo padre.
Kristo Armand
Samuel viene a trovare il suo papà ogni due mesi circa e parla al telefono con lui ogni settimana; frequenta la scuola italiana, ha imparato bene la nostra lingua, gli piace leggere. È un bravo bambino.
Quando sono felice e… quando no
La felicità qui in galera è poca e quasi non c’è. La mia felicità qui è quando mi vengono a trovare i miei fratelli o cugini. Sono felice quando li vedo perché così mi fanno sapere come stanno i miei genitori e i miei nipoti. Non vedo mia mamma da quasi cinque anni. E i nipoti non ho avuto il piacere di conoscerli e prima di scendere per il colloquio sto col cuore in mano - o come dite voi in Italia "in ansia" - e spero che loro mi portino buone notizie per tutti. E loro mi domandano: "Come stai?" Io rispondo: "Così così" perché vorrei che quelle ore passassero parlando di altre cose. Anche se sto male dentro non posso esprimermi perché non voglio che loro soffrano di più. In carcere nessuno sta bene ma loro lo sanno e mi danno coraggio e mi dicono : "Dai che anche questo periodo passerà". E poi sono felice anche quando mi scrive la mia "cucciola" una donna che mi sta vicino in questi momenti brutti della mia vita. E io la ringrazio con tutto il mio cuore. Quando loro vanno via mi intristisco e salgo su in sezione. È brutto anche quando loro non possono venire. Io aspetto con ansia che qualcuno mi venga ad aprire. Ma quando passano le ore di colloquio e nessuno mi chiama mi sento proprio male. Perché? Pensi: "Cosa sarà successo?" Ve lo giuro quello è il momento in cui non riesco a passare la giornata perché mi sembra un mese. Perché non li puoi chiamare subito per sapere perché non sono venuti. Per il traffico per lavoro o per qualche altro motivo che io non voglio neanche immaginare. Signore e signori queste sono la felicità e l’infelicità per me in questo carcere e spero che qualcuno prima di fare qualcosa ci pensi mille volte perché quando sei dentro sei fregato.
Lavderim Driza
Driza non vede la sua mamma dal 2001 perché non è mai venuta in Italia; da novembre, per fortuna, incontra il suo papà viene a trovarlo ogni quindici giorni
Quando penso alla mia vita
Io fino a oggi ho percorso 33 anni di strada e durante il tragitto ho sostato solo nei tunnel di qualche reato di poca importanza, tranne l’ultimo. Oggi sto pagando il supplemento con il carcere e il rimorso dentro di me!! Riflettendo ho capito molte cose,e sono riuscito a giudicare più correttamente persone che prima giudicavo in modo errato…io stesso ho dato molti dispiaceri alla mia famiglia ma in essa ho sempre trovato un punto in cui ristorarmi!! Non sono fiero di ciò che ho fatto ma il mio desiderio è di pagare per tutto questo e ricominciare il percorso della mia vita con una strada nuova e piena d’amore con la mia donna e bambini che sono il perno della mia vita. Ecco è difficile crederci ma purtroppo è così, l’autostrada della vita continua; spero che il mio casello d’uscita sia ancora lontano, accompagnato da tanta gioia e felicità e soprattutto tantissimo amore verso la mia famiglia e il prossimo. Sono stato anche fortunato: ho incontrato una donna che mi ha capito e che oggi è mia moglie; lei mi sta dando una mano e mi guida piano piano, insegnandomi a capire e apprendere cosa siano l’amore e l’onestà. Sarà dura ma i problemi diventano più piccoli e più facili se sono divisi in due. Il percorso della vita è bello e pieno di soddisfazione,ma di molte insidie, è difficile resistere all’attrazione del denaro facile;non sempre noi umani siamo disponibili a fare dei sacrifici che sono quelli che ci danno soddisfazione. Bisognerebbe imparare da piccoli ma non dai consigli altrui, bensì dai buoni esempi. La mia grande sofferenza in carcere è anche il pensiero dei miei familiari che fuori devono subire l’ignoranza delle persone sempre pronte a offendere la loro dignità per colpa mia; questo pensiero mi carica di rabbia. Pochi sanno capire e dare un aiuto morale alla famiglia dei detenuti.
Franco Puliatti
Francesco deve scontare una lunga condanna; ha una giovane moglie e due bellissimi bambini che, ogni quattro mesi, affrontano un viaggio in treno di circa quindici ore per venirlo a trovare. Fortunatamente possono contare sull’appartamento che la Caritas mette a disposizione dei familiari lontani.
Porzioni di libertà
Quando esco per la prima uscita dopo quattro anni
Oggi non è un giorno come gli altri, è un giorno speciale. Un rumore secco, metallico, poi il diabolico meccanismo si avvia, si mette in movimento e subito per me succede qualcosa di unico e importante: il portone minaccioso di cui per quattro anni ho avuto soggezione, lentamente si apre, sembra, anzi, illuminarsi per lasciar passare me, per permettermi di uscire. Sono libero di andare, finalmente. È un momento magico, speciale. Il mio cuore ancora non ci crede ma tutto questo accade. Si apre dolcemente, come un sipario rumoroso, su un pallido verde pianeggiante e uno splendido sole che mi accoglie e mi colpisce negli occhi come un "benvenuto". Un vero inno ai colori della vita, ai suoni e al calore.
Questa è la vita
Mi affaccio alla vita e resto così; sopraffatto e incantato. Mi colpisce ogni cosa, ogni silenzio, ogni rumore. In me un sentimento di distacco, di mancanza, anche, delle cose che ho perduto. Un velo di nostalgia. Per molto tempo ho conservato ricordi che, ormai, si sono trasformati in un unico ricordo sempre più sbiadito e adesso, questo spazio che mi sta davanti, pieno di tutto, che racchiude insieme quello che si vede e che non si vede, mi appare incredibilmente più bello, immensamente più grande: questa è la vita e, a questo pensiero , dentro di me risponde una quiete che confonde, che mi fa sentire bene. Ma perché quando guardi un cielo così non pensi mai a niente di brutto?
La libertà
Forse perché la libertà è la sola forza che tutti abbiamo in comune, un’attrazione magnetica, irresistibile - come potrebbe esserlo solo la forza di gravità - che quando la raggiungi ti fa sentire subito meglio, regala nuove energie. Anche se un brivido mi percorre quando penso che la libertà è proprio il contrario di un dono ricevuto; va conquistata e, come la vita, va rispettata. Per un momento chiudo gli occhi, non so decidere quale emozione seguire; così faccio un respiro più forte. Mi sembra da troppo tempo di non avere più respirato; un’aria, un male dentro che ha solo bisogno di uscire, scomparire: è ora che se ne vada, che si allontani da me!
La reclusione
Com’è lontano quel nervosismo, quell’ansia, quella stanchezza di non sapere ogni giorno qualcosa, in un frullatore emotivo continuo che non conosce tregua. L’unico rifugio è la tristezza e la tristezza cancella le buone maniere. A un certo punto si smette di essere arrabbiati con gli altri, si comincia ad arrabbiarsi con se stessi. Com’è magico questo saziarsi di aria e di felicità e poter guardare da libero l’orizzonte, spingersi più in là, dove si vuole. Com’è diverso, semplice e strano accorgersi che tutto questo è vero. L’erba intorno mi porta ai profumi della terra e i raggi di sole moltiplicano mille volte l’effetto di questa magnifica giornata. Verrebbe da dire che non esistono difficoltà tali da non essere superate, ma in ogni salvezza ci si salva da soli: bisogna volerlo! Troppo spesso siamo noi a creare nuove barriere, forse perché qualcosa un tempo pareva attrarci. È un enorme equivoco! Una suggestione sbagliata! I reati si possono paragonare a una droga: creano solo dipendenza, perenni mancanze, alla lunga nessuna soluzione. Solo disperazione! I reati si possono paragonare a una droga: creano solo dipendenza, perenni mancanze, alla lunga nessuna soluzione. Solo disperazione!
La vita: unico patrimonio
La nostra vita, l’unico patrimonio di cui disponiamo, dovremmo veramente difenderla coi denti, non buttarla via! Troppi di noi vivono in un sogno, in un sonno, anzi, incapaci di vedere oltre quello che vogliono vedere. Anche io ho il senso di colpa di non aver saputo vivere, ma ho deciso di voltare pagina, so che posso farlo. Questo mistero è chiuso in me. Bisogna imparare a volersi bene. Penso che dovunque in certi momenti ci sono altri come me, pronti a riconoscere che, per amare stessi, bisogna conoscersi in profondità; scoprire anche le cose nascoste, quelle difficili da accettare. Ciò che siamo è il risultato dei nostri sforzi. In me la voglia di capire e di distruggermi hanno avuto la stessa forza, la medesima intensità. Ho imparato che quando tutto andava male, io peggioravo le cose. Non voglio più permettere che il mio domani sia il risultato di un oroscopo impazzito. Non potrei più farlo. Mi sembra quasi di appartenere a un altro tempo, un diverso strato della realtà, lontano anni luce da quello che sento di essere.
Sono troppi i "non scelti"
Però questo momento delicato, quanto vorrei farlo durare, l’incantesimo di questo nuovo sentire; potessi trasportarne un po’, estenderlo a qualcuno qui dentro, anche solo per un breve momento. Saprebbero capirmi, odierebbero di meno, saprebbero apprezzarlo perché è davvero tanta la voglia di toccare la vita, troppa la mancanza dietro di me. Sono troppi i semi-dimenticati, i non scelti, quelli che restano sempre soli senza niente, che finiscono per usare le parole come assi - a chi lo cala più alto - quando l’ira si impadronisce di ogni momento fino a diventare la bussola di ogni sentimento, di ogni riferimento. Una persona rinchiusa, insicura e abbandonata non potrà mai donare tranquillità perché non la possiede; né la rassegnazione è mai stata alleata del cambiamento.
Adesso vorrei solo allontanarmi
Adesso, però, vorrei soltanto allontanarmi, camminare in questo silenzio, su questa nuova strada, in questa vita che sapevo che c’era, in questa ebbrezza da intossicazione di felicità. Ma ho come un capogiro, al di là del quale i miei movimenti sembrano non miei. Uno ad uno i passi amplificati come battiti di cuore generano strani vortici sulla ghiaia - e chissà poi se è ghiaia davvero - su cui non so appoggiarmi. Sarà solo suggestione, ma, di sicuro, so che non intendo più voltarmi, non oso più farlo. Temo quasi che, girandomi, qualcuno possa ancora richiamarmi. Sarebbe come cadere, o peggio, sentirsi annegare. Meglio andare.
Il mio Amore mi aspetta
E in questo frullato di sensazioni sento che tutte le mie emozioni stanno per riunirsi in una sola, la più attesa, la più importante: il mio Amore è qui, la vedo, mi aspetta. Ma questo Amore devo scriverlo con la lettera maiuscola, una parola importante che richiede fede e certezza; mentre io non so ancora come sarà un futuro con un uomo metà me stesso e metà come sono diventato. Penso che l’amore per qualcuno è veramente sapere quello che fai e farlo bene. Sapere quello che non devi fare e non farlo. E ammettere se non ci riesci; parlare chiaro. E questo è anche capacità di stupire. Non temere di lasciarsi aiutare. Amare qualcuno è quando le nostre scelte non vengono vissute mai come una rinuncia.
In questi anni una sola visitatrice
Non potrò mai dimenticare l’orgoglio tranquillo, l’ostinazione con cui lei mi ha aspettato, come nei grandi amori. Comincia da un dolore, vive di assenze ma finisce per trionfare. In questi anni ho avuto una visitatrice soltanto. Tutto il resto, deserto totale. Aspettavo Lei come si aspetta una speranza e ogni volta in quello sguardo trovavo tutte le risposte che speravo di trovare. Adesso è qui: nonostante tutto mi sento davvero fortunato. L’abbraccio tanto atteso è un magico incantesimo dove non occorrono parole, in cui ogni istante è più di quello che è. Due lacrime soltanto, di gioia, però, e un enorme calore. In alto un cielo che sembra dipinto, uno splendido sole, per me davvero una giornata speciale.
Mario Visintin
Mario è un uomo di cinquanta anni che ha conosciuto tanto carcere. La prima volta è stato arrestato ancora ragazzo sui banchi di scuola. È ricco di talento; ama la musica, lavora il legno, sa scrivere e disegnare molto bene. Compone canzoni. In questi quattro anni di detenzione non ha mai potuto suonare la "sua" chitarra. Ha un figlio di dodici anni che non vede dal momento dell’arresto; ha scritto tante lettere che non hanno mai avuto risposta. Questo perché la mamma del ragazzino non ha buoni rapporti con la nuova compagna. Nel lavoro di redazione è stato prezioso per la sua intelligenza, l’equilibrio e la buona scrittura. Ha sperato mille volte in un permesso premio, ma la prima attesissima uscita è arrivata a due mesi dal fine - pena. È stanco ma ricco di risorse; ormai ha finito. Con tutto il cuore gli auguriamo "buona strada".
"Figli con genitori in carcere"
Un convegno a Milano organizzato lo scorso febbraio dall’associazione "Bambini senza sbarre" è occasione per riflettere su un dato preoccupante: a livello europeo una recente ricerca ha accertato che il 30% dei figli di genitori detenuti incontra, nella propria vita, il carcere. Dai numeri alle domande; come si possono aiutare le persone ristrette a mantenere il proprio ruolo genitoriale? Come sostenere all’esterno i loro bambini? Il Comitato Europeo per i bambini di genitori incarcerati - Eurochips - European Committee for Children of Imprisoned Parents, di cui fa parte "Bambini senza Sbarre" propone alcuni punti irrinunciabili.
Miglioramento dell’accoglienza nelle carceri: Prevedere in tutti i luoghi di detenzione degli spazi adatti ai bambini. In caso di assenza di un membro della famiglia, prevedere che il bambino sia accompagnato da persone competenti, professioniste o volontarie.
Miglioramento della comunicazione tra il bambino ed il suo genitore: Prendere in considerazione le circostanze aggravanti come i problemi economici, le rotture e i dissapori familiari o l’incarcerazione di entrambi i genitori. Agevolare i contatti telefonici o qualsiasi altro mezzo di comunicazione in grado di rimediare ad un impossibile incontro fisico con il proprio figlio; in modo particolare per gli extracomunitari.
Dare ai genitori la possibilità di esercitare la loro autorità e le loro responsabilità: Prendere in considerazione la responsabilità del genitore dal momento del arresto ed in ogni momento della procedura penale. Ogni qual volta sarà possibile e compatibile con la pena irrogata fare uso di provvedimenti e misure applicate all’esterno del carcere per mantenere i legami familiari.
Migliorare la competenza dei professionisti: Incoraggiare l’integrazione, nell’ambito della formazione iniziale e continua del personale penitenziario, dei problemi relativi all’infanzia. Favorire il mantenimento dei legami fra il bambino e il suo ambito familiare. Promuovere programmi miranti a pianificare e preparare le separazioni e il ricongiungimento.
Proposta di carta dei diritti dei bambini che hanno i genitori in carcere
L’associazione italiana "Bambini senza Sbarre" presenta, a sua volta una Carta dei Diritti che, richiamando alcuni articoli essenziali della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia del 1989, chiede il riconoscimento di quattro punti irrinunciabili.
Articolo 3 convenzione Onu: "In tutte le decisioni… l’interesse superiore del fanciullo deve essere preminente".
Articolo 9 convenzione Onu: "Il diritto del fanciullo separato dal genitore di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo".
Articolo 12 convenzione Onu: "L’opinione del bambino deve essere debitamente presa in considerazione tenendo conto della sua età e del suo grado di maturità".
La Carta dei Diritti del bambino figlio di genitore detenuto richiede di riconoscere che: È un gruppo numeroso È un gruppo vulnerabile Ha bisogno di sapere perché È importante tutelarlo
Su questo tema così delicato e difficile ci pare opportuno rinviare all’esperienza personale di Enrico. Per ulteriori informazioni è possibile consultare il sito www.bambinisenzasbarre.org.
Quando… è difficile trovare le parole
"Alcuni si strappano le parole dalle viscere, altri le tirano fuori dalla tasca del soprabito" Charles Pèguy
Cretu in carcere non ha soprabito; quindi, non può tirare fuori le sue parole doloranti e stentate da nessuna tasca. Ha solo diciannove anni, arriva dalla Romania, ha finito da poco la sua pena. Non sappiamo più nulla di lui. Solo che ha usato il suo italiano scarno per raccontare questa storia o meglio queste tante storie perché voleva che sapessimo. I fogli manoscritti me li ha consegnati la maestra; ho chiesto se desiderava fosse rispettato l’anonimato ma lui ha preferito che uscissero così, con nome e cognome. Queste "cose macabre" come le ha "titolate" lui non necessitano commenti; abbiamo lasciato le ripetizioni e anche la forma è stata rispettata, se non per qualche errore che rendeva difficile la comprensione del pezzo. Non sono storie di carcere, ma solo storie di ragazzi che spesso arrivano in carcere dove, naturalmente, non risolvono i loro problemi. E spesso tutto ricomincia da capo.
Cose macabre
Bucarest stazione del Nord; sono le cinque del mattino già si vedono le prime teste uscire dalle fognature.
La prova della colla
Sembrano vecchi all’inizio ma piano piano che ti avvicini ti rendi conto che non è affatto così e ti viene la pelle d’oca quando vedi che hanno meno di 13 anni. È oltre ogni immaginazione pensare che è possibile trovare un posto dove ci sono più di 5000 ragazzini e ragazzine che vivono da soli senza genitori, senza qualcuno che dà educazione e organizzati con le proprie leggi. Ma per essere accettati nelle fognature dagli altri devono superare la prova del sacchetto con la colla. All’inizio sembra una cazzata però con il passare del tempo diventano dipendenti da questa droga tanto che, per procurarla, devono chiedere delle elemosine o rubare. Fino a qualche tempo fa. Adesso hanno iniziato anche a prostituirsi. Arrivano pedofili da tutta Europa che prendono i ragazzini con i soldi o li drogano e li portano in albergo dove alla reception lasciano la mancia perché il albergatore non parli di quello che vede o che sente. Tedeschi, italiani, norvegesi e altri ancora arrivano ad ogni fine settimana in aereo o in macchina per trasformarsi in macabri mostri. La maggior parte sono malati dell’AIDS e come giudici condannano questi piccoli innocenti a una morte terribile e ancora a sopportare di fare sesso con uomini che potrebbero essere i loro padri. Queste cose fanno tanta paura solo a pensarle, ma quelli che le vivono sulla propria pelle? Qualcuno si chiede come mai non si prendono delle misure!? Ve lo dico io, quando vengono presi e messi nelle case di cura e per educazione i bambini scappano via e tornano alla vita di prima. Magari qualcuno pensa che li trattano male. No, nessuno li tratta male ma la mancanza di colla fa che rinunciano a tutto e tornano di nuovo a fare gli "aurolacii". Con il tempo che crescono vengono marginalizzati e a nessuno non ci importa più. Così anche se riescono a smettere con la "droga" finiscono in galera per furti o rapine perché nessuno non li dà un lavoro né un piccolo sostegno niente di niente e così che devono affrontare la vera vita cioè il lato più difficile da fare i conti con la quotidianità . L’elemosine non possono più chiedere perché non offre nessuno niente . Una volta che entrano in prigione imparano il codice della mala vita e tutti i trucchi che sanno i galeotti più vecchi per far loro la vita più facile. Qualcuno riesce a uscire da questo giro, ma la maggior parte fa ritorno in carcere dove si ammalano e muoiono prima del previsto. Questi sono più fortunati. Invece ci sono bambini che hanno 12/13 anni che finiscono nelle mani della pedofilia. La cosa più brutta di questa faccenda e che quasi tutti i pedofili hanno l’AIDS. E condannano a morire da giovani centinaia di ragazzini, come stavo dicendo prima a ogni fine settimana la mia capitale si trova piena di mostri da tutta l’Europa, una volta entrati fanno del più peggio male mai assistito. Poi di domenica sera i mostri tornano a casa loro dove abbracciano i loro figli e le loro moglie senza che questi ultimi penserebbero a cosa sono capaci i loro padri, a cose orribili anche da pensare. E così i bambini fantasma (li chiamano fantasma perché tutti li vedono ma nessuno li capisce) cosi questi bimbi muoiono ammalati nelle fognature sotto terra sui tubi d’acqua calda con il sacchetto di colla in mano. Nessuno li piange perché in più dei casi non riesce la polizia a trovare i loro familiari e cosi con un prete e un testimone li seppelliscono sottoterra dove sono dimenticati in fretta e nessuno non fa più caso a ricordarci , e quando dico nessuno mi riferisco anche ai loro amici o compagni come si possono definire i loro compagni di colla. Qualche volta vengono ricordati da quelli che la colla la vendono ai bambini! A volte la polizia chiude i canali e loro non posso più scendere sotto terra e cosi trovano rifugio sotto scale dei palazzi ai ultimi piani. La doccia la fanno solo di estate nei laghi. Qualcuno è più fortunato e si trova sottoterra quando si trova sotto terra si rompe un tubo d’acqua calda e così o riescono ad uscire, o la maggior parte dei casi essendo sotto terra ai 2/3 metri e essendo drogati muoiono annegati. Queste cose succedono raramente ma succedono. Anni fa nella stazione Nord potevano entrare tutti i fantasmi attraversavano i binari senza che si assicurassero che non passi nessun treno e così se per caso arrivava qualche treno essendo sotto il effetto della colla non lo sentivano o sognavano che lo possono fermare facendo la magia! E così entravano sotto le ruote, però non avevano paura e consideravano la stazione come casa loro. I motivi per quale sono stati buttati fuori dalla stazione non è quello che cadevano sui binari e venivano schiacciati dalle ruote dei treni, ma quello che tutti rubavano dai treni che arrivavano. C’era gente che dormiva e veniva derubata di tutti i bagagli spesso anche dalle scarpe. Una volta un cinese che arrivava da Vienna e stato derubato dalla sua valigia con 100.000 dollari e da quel momento sono stati buttati fuori. Subito dopo hanno messo dei vigili a tutte le entrate per evitare che facessero ancora dei danni. Così trovarono rifugio sotto il ponte Grant e in una stazione piccola e cosi continuavano la loro vita con i pidocchi che li mangiavano insieme a tutte le altre malattie. È una storia molto triste e sembra che non è vera, ma purtroppo questa storia e più che vera e reale e continua ogni giorno che passa. La "cosa" non riguarda solo Bucarest, ma tutto il paese. Ormai la gente si è abituata con loro a vederli e cosi non fanno paura ma fa paura a pensare in che condizioni vivono. Per me questa e la classe più bassa della società e non lo so se riuscirà mai a qualcuno a inserirli nella società . Questa e la realtà ignorata e spesso tenuta nascosta dai politici e loro non si chiedono mai se quelli 10 ragazzi che hanno visti oggi al semaforo domani sono ancora vivi!? O saranno già passati alla storia? Se questa storia finirà non lo sapremo mai.
By Cretu Milei
Quello che i cittadini dovrebbero sapere ma che sicuramente non sanno.
Perché le buone notizie sono notizie "deboli"? Forse perché sono più difficili da raccontare o forse più difficili da capire o forse perché bisogna essere sempre un po’ stressati e sfiduciati o magari perché è importante riempirsi la bocca, essere arrabbiati con qualcuno, scuotere la testa e chiedere sicurezza. Un po’ come sempre. In realtà questa è una grande notizia, una notizia confortante! Avevano ragione Gozzini e Margara, riformatori intelligenti quando negli anni ‘80 scrivevano una legge che prevedeva percorsi "protetti" di rientro nella società con pene esterne alternative alla detenzione! Hanno ragione i Magistrati di Sorveglianza che ci credono, le assistenti sociali e gli educatori che si impegnano nella realizzazione di progetti ben costruiti, le cooperative che aprono corsie preferenziali a chi deve ricominciare a lavorare dopo anni di inattività e ozio, il volontariato che dà supporto per trovare soluzioni abitative e per accompagnare le persone. Hanno ragione quelli che hanno coraggio e fantasia, quelli che lavorano con passione e puntiglio e poi hanno la capacità di assumere dei rischi. Accidente se hanno ragione! I dati di una ricerca sulla "recidiva" resi pubblici circa un mese fa parlano molto chiaro: i detenuti che beneficiano delle misure alternative sono molto meno recidivi. L’indagine rivela: ricade il 19% degli ammessi alle misure alternative, contro il 68% di chi è uscito dopo aver scontato la pena in stato di detenzione. Per gli addetti ai lavori non è difficile capire il senso di queste percentuali; per i profani, invece, si può tentare una semplificazione dicendo che, ove la società esterna si coinvolge in progetti di "sapiente inclusione", le soddisfazioni non mancano. Le persone sembrano trovare effettivamente soluzioni alternative al reato, si abbassa la recidiva e aumenta la sicurezza per tutti. Un po’ il contrario della sbracata teoria del "buttar via la chiave". Sempre per semplificare. I dati completi della ricerca sono reperibili sui siti dell’Associazione A Buon Diritto; del giornale Ristretti Orizzonti, dell’Agenzia Redattore Sociale.
Sosta forzata a Bologna con la Federazione Nazionale Informazione del e dal carcere
Anche quest’anno il nostro giornale ha promosso insieme a Ristretti Orizzonti e, con il prezioso sostegno dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, una densa giornata di lavoro sul tema della comunicazione dal titolo "Le parole per dirlo". La mattinata si è aperta con un confronto sull’informazione e sui mass media in cui hanno proposto alcune osservazioni Gerardo Bombonato, presidente dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia, Romagna, Daniela De Robert giornalista del Tg 2 e autrice del libro "Sembrano proprio come noi", Paolo Moresco, giornalista ed ex detenuto della redazione padovana di Ristretti, Luigi Spezia cronista di nera della redazione bolognese di Repubblica e Alessandro Margara presidente della Fondazione Michelucci. La tavola rotonda è stata coordinata da Carla Chiappini. Successivamente è stata Ornella Favero a condurre i lavori con i Garanti dei Diritti delle Persone Private della Libertà. Nell’ordine sono intervenuti: Desi Bruno, Garante del Comune di Bologna Franco Corleone, Garante del Comune di Firenze, Gianfranco Spadaccia Garante del Comune di Roma, Giorgio Bertazzini Garante della Provincia di Milano, Marco Colturato, dell’Ufficio del garante del Comune di Torino e un rappresentante dell’Ufficio del Garante della Regione Lazio. Al termine della mattinata hanno dato il loro contributo Emilio di Somma, Vicecapo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Stefano Anastasia, capo della segreteria del Sottosegretario Luigi Manconi e Nello Cesari, Provveditore dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna. A Emilio Di Somma è stato chiesto di incontrare al più presto i rappresentanti della Federazione, per definire regole, spazi, modalità di svolgimento dell’attività delle redazioni. Nel pomeriggio sono stati presentati alcuni progetti di comunicazione tra dentro e fuori. Hanno parlato: Pier Cesare Bori, docente di Filosofia Morale all’Università di Bologna che guida un’ attività didattica nel carcere "Dozza" con un gruppo di detenuti e studenti universitari; i detenuti e gli studenti del gruppo della Trasgressione di San Vittore guidati dallo psicologo Angelo Aparo e i alcuni redattori di Ristretti Orizzonti che hanno raccontato la loro esperienza di incontri nelle scuole medie e superiori. Sono state presentate anche altre esperienze di sensibilizzazione delle scuole sul carcere come quella di Lodi raccontata da Grazia Grena e di Forlì. In forte aumento la partecipazione di gruppi di persone impegnate in attività "giornalistiche" all’interno di Istituti italiani; un motivo in più per continuare a lavorare nella direzione dello scambio e della collaborazione. Della redazione di Sosta Forzata erano presenti Mario Visintin e Kristo Armand; da Piacenza sono arrivati anche Valeria Viganò Parietti presidente dell’Associazione "Oltre il muro", don Davide Maloberti direttore del Nuovo Giornale, Brunello Buonocore del Comune, il giornalista Filippo Manvuller e il volontario Enrico.
Quando voglio ricordare Enrico…
Quando voglio ricordare Enrico, cerco tra le cose che mi ha lasciato: la lunga intervista a Elisa, le lettere, gli articoli per il giornale, i racconti per il concorso di scrittura. E poi penso alle tante parole scambiate un po’ così, di corsa, nei frettolosi incontri milanesi. Diceva che coi "regolari" si annoiava troppo: - Ma sai, Carla, parlano solo di automobili, telefoni e lavoro. Negli ultimi periodi - ma né io né lui sapevamo che il tempo era quasi scaduto - ricordava spesso un amico e mi raccontava la sua storia. L’Amico era un uomo intelligente che non lo aveva tradito; aveva subito una lunga condanna scontata nel carcere di Porto Azzurro dove aveva studiato e preso una laurea in Giurisprudenza. Poi era uscito in misura alternativa e lo avevano accettato come praticante in un noto studio legale di Milano. La sua assistente sociale era convinta che questa attività non fosse abbastanza ri-educativa e lo aveva dirottato verso il commercio di caramelle. Lui si è buttato giù dalla finestra di casa. Fine della storia. Enrico era preso da questo ricordo. Era anche stanco; non aveva più voglia di niente. L’ultima carcerazione, ripeteva spesso, lo aveva sfiancato. Qualcosa di importante e prezioso lo aveva già affidato alla freschezza e alla pulizia di Elisa in una lunga intervista di cui riportiamo qualche brano. E mi chiedo, forse non sono normale totalmente? nel modo di travisare la vita? Perché io l’ho certamente travisata. Non dovevo arrivare al punto di spenderla in quel modo. Capisco che ai miei occhi la vita di una persona normale poteva essere monotona, sapere precisamente dove sarai il 28 settembre, che se non sarai in ferie allora sarai a lavoro in un determinato posto. Questo non lo accettavo.
Nella tua scrittura hai notato una progressiva consapevolezza verso te stesso? Assolutamente sì. Non solo, ma anche attraverso la lettura. Lettura e scrittura ribadisco che sono complementari. La scrittura nasce dalla lettura. Leggevo, arrivando, a volte, a capire il 2%, il 3% del testo, a seconda del grado di maturazione che avevo in quel momento. Leggevo anche autori impegnativi, per esempio San Agostino, ed elaboravo quei concetti che trovavo, cercavo di elaborarli. Non è molto ma sono arrivato alla determinazione che ho fatto veramente un danno.
Nella tua scrittura hai visto un cambiamento per quanto riguarda la profondità di riflessione, da quando hai incominciato fino alla redazione di Sosta Forzata? Senz’altro sì, anche perché in redazione leggevo anche di altri, e paragonavo le situazioni sociali, paragonavo gli altri a me stesso, e ancora una volta, mi rendevo conto di essere partito con un bagaglio maggiore, e di essere, per questo motivo, ancora più colpevole. Facendo un confronto, pensavo "Ma questo ragazzino è andato rubare perché non aveva da mangiare, perché non aveva un letto, perché in famiglia non riuscivano ad apparecchiare il tavolo, a me non è successo questo". Allora con questi paragoni, davo maggiore condanna a me stesso.
Comunque ogni volta che scrivevo e mi rileggevo, era uno stimolo per andare avanti a scrivere, perché capivo che con lo scrivere potevo scrutarmi meglio. Mettendo nero su bianco e poi rileggendomi, ogni volta era un gradino in più che salivo per cercare di arrivare a capire che cosa ho combinato. Adesso non so a che punto della scala sono arrivato, non lo so ancora visto che non è finita; c’è questa speranza di poter riscattare qualche cosa, di poter riscattare tutti i disastri che ho combinato, tutte le macerie che ho lasciato dietro di me.
Stai continuando a scrivere anche adesso che non sei più detenuto? Adesso, mi sono un attimo fermato. Durante la giornata ho delle precise impellenze, dato che sono fuori dal carcere ma tutti i giorni devo firmare. Il mio progetto era andare via da Milano, ma a causa di questo obbligo non posso muovermi da qui*. Mi sento un po’ inutile adesso; andare a lavorare con mia sorella in negozio, aiutarla, non mi appaga. Prima anche se nelle "balorderie", mi inventavo qualche cosa, la facevo, la portavo a complimento e questo mi dava soddisfazione economica e mi dava stimoli. Vendere i vestiti non è per niente appagante, vedere che taglia ha il cliente non mi appaga, anche se è la normalità dato che un sacco di persone vendono vestiti per tutta la vita. A fronte delle emozioni che provavo una volta,capire la taglia di un cliente e convincerlo a comprare un vestito non è il massimo della vita, però bisogna cercare di adeguarsi.
Ti capita di rileggere più volte quello che hai scritto? Sì, mi capita, e non cambierei proprio una virgola di quello che ho scritto. Vedo che era un analisi molto lucida, anzi a volte mi stupisco e dico: ma è possibile che l’abbai scritto io? Ho messo per iscritto tutte quelle sensazioni che ritengo vere, e le leggo con piacere e mi rifletto veramente, anche perché quando scrivo generalmente cerco sempre di dire la verità, che mi sia anche sgradita ma cerco di dirla. Scrivendo parlavo a me stesso, non so a che altro tipo di auditorio pensassi, non la famiglia, non gli altri, forse volevo trasferire a qualcuno la mia esperienza, parlare dei miei errori, più o meno consciamente. Quando sei in prigione vedi delle persone che commettono tali stupidaggini che vorresti fargli capire che innanzitutto fanno del male a se stessi. Da un punto di vista di convenienza non hanno alcuna possibilità di farla franca, per cui ti spiace che la gente si distrugga la vita in questo modo.
La scrittura ti ha aiutato anche a capire il perché hai preso quella strada? Sono piccoli i gradini che uno deve fare, sono progressivi, bisogna fare un gradino alla volta per arrivare in cima, senza saltare passaggi. Se no non capisci; non hai abbastanza maturità se non hai fatto i passi precedenti Ho scritto qualcosa per rispondere alla domanda che possono fare tutti e cioè il perché ho iniziato a delinquere. Io ricordo che andavo a trovare mio padre in prigione a S. Vittore, lui era un modesto ladro, e vedevo le guardie carcerarie che aprivano e chiudevano le porte e io pensavo che fossero loro a tenere lì dentro mio papà, che fossero loro i responsabili. Allora mi nacque un senso di rivolta verso tutto ciò che era potere costituito, tutto ciò che era divisa, i vigili che vedevi passare, per esempio, polizia e carabinieri, li guardavo così, nella mia ottica di bambino. Non capivo che alla fine quello era il risultato del comportamento di mio padre, ovviamente da bambino non potevo attribuire a lui le colpe, allora avevo un senso di rifiuto verso l’ordine costituito, verso tutto ciò che aveva una divisa per me era una minaccia. Nessuno me l’ ha instillata questa logica, mio padre non parlava mai di queste cosa, mi si era creata andandolo a trovare, per cui ho acquisito questo rifiuto per la società a fronte anche della vita che avevo vissuto.
Per rispettare la verità dei fatti, Enrico, finita la pena, ha provato a stare un po’ in Spagna dove aveva una casetta sul mare. Ma non trovava pace. A Natale è stato solo un giorno, poi è tornato indietro di corsa. Telefonava più spesso. Era una persona dolorante.
Nell’ultima lettera
Nell’ultima lettera rileggo il pensiero finale: - Cara Carla, questo è tutto, o quasi. Non starò a parlarti dei bilanci che ho fatto della mia vita: lo sai quanto sono fallimentari. Ti scriverò ancora tra qualche mese e spero di darti buone notizie di me. Sappi, comunque, che ho mantenuto fede alla promessa che ti feci e non ci sono ricascato! Un caro saluto Enrico. -
Un caro saluto anche a te, mio carissimo
Carla Chiappini
"Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato con il nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato, in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo e quando la gente guarderà l’ albero o il fiore che abbiamo piantato noi saremo là. Non ha importanza quello che si fa purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’ altro che porti poi la nostra impronta...
Ray Bradbury "Fahrenheit 451"
Scrivere a: "Sosta Forzata" presso Svep, Via Capra 14 29100 Piacenza Associazione di Volontariato "Oltre il muro" presso Svep, via Capra, 14 29100 Piacenza.
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