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Sosta Forzata, giornale della Casa Circondariale di Piacenza (numero pubblicato nel mese di giugno 2006)
Redazione Blob
Una redazione che non è mai la stessa: ieri c’erano Massimiliano, Nando e Nasser, poi Wahid, Mohamed e Silvio; oggi Enrico, Claudio, Tarik, Amhed, Ervin, Bledi, Ioannis e BouBou con la loro aria da studenti non ancora "fuori corso" …stabili al loro posto: Satilmis il Turco, Mario il musicista, Giovanni il pirata, Sebastiano. E naturalmente tutti gli altri che sarebbe troppo lungo citare. Tutti importanti, tutti preziosi. Una redazione vivace, che discute e, ogni tanto, scrive. Quando il vento è favorevole, quando va di lusso. Una redazione da motivare, una redazione da cui imparare, una redazione a cui voler bene, una redazione da… "mettersi le mani nei capelli". Fermiamo ancora una volta qualche immagine di questo annuale work in progress. Oggi si fanno le prove di intervista. Tutti giornalisti, tranne Enrico e Bledar impegnati a rispondere alle domande dei compagni. Si ricostruiscono tracce di vita in parallelo: dalla Sicilia all’Albania. Enrico dice che il ricordo più bello dell’infanzia sono i giochi in paese con gli amici, in libertà. Bledar parla della nascita del fratello più piccolo a cui è tuttora legatissimo. Il lavoro procede con una certa scioltezza. Con il reato cercavo i soldi in fretta - dice il giovane albanese. Quello che volevo io, non ve lo dico.- risponde Enrico. Ervin di Durazzo chiede: - Ma cosa cercavi esattamente nei soldi? La belle cose o piuttosto una certa sicurezza? E avanti, ancora, tra qualche sosta e un po’ di confusione. A un certo punto Bledar racconta che, quando lo hanno arrestato, in realtà aveva già cambiato vita. Una zoomata sul gruppo: il dubbio disegna sguardi perplessi. Ci fermiamo: - Allora, gli credete o no? - La maggioranza è molto scettica; qualcuno motiva che: - …Insomma, si dice sempre così, ma non è mica tanto facile avere la forza di fare sacrifici, di rinunciare ai lussi…- Su tutti, la voce di Tarik: - Scusate, ma se noi per primi non crediamo a noi stessi, come potranno crederci gli altri? Già, ma che bella domanda!
Un altro anno di lavoro, in cui non sono mancate delusioni, fatica e dubbi. Un altro anno che ci ha regalato momenti bellissimi di incontro oltre le sbarre e oltre i pregiudizi. E una redazione "da mettersi le mani nei capelli" ma soprattutto da ringraziare tanto e con tutto il cuore.
Carla Chiappini
Buone vacanze
Siamo già alla fine di aprile e tra poco più di un mese finirà la scuola, il corso di giornalismo e quei pochi ma apprezzati incontri coi volontari. Se fossimo bambini saremmo felici perché questo significherebbe avere tre mesi di vacanza. Ma, siccome non lo siamo, la cosa ci rattrista un po’. Ci verranno a mancare quelle poche ma grandi occasioni che, in qualche modo, ci tengono legati all’esterno di queste mura e, quindi, alla vita. Grazie a tutto questo, al mattino scivoliamo fuori dai nostri problemi, lasciandoli sotto le lenzuola e, quando facciamo ritorno, spesso ritroviamo quei letti spensierati. Non voglio rattristarvi ma solo augurarvi una serena vacanza. Però vi chiedo un favore: se per caso incontrate qualcuno interessato a offrire del lavoro ai cittadini provvisori di questa struttura, potreste dirgli che siamo a disposizione e che sarebbe cosa buona per questa piccola società e per quella fuori.
Amhed
Redazione: le quote rosa
In collaborazione con il corso di lingua italiana organizzato presso la sezione femminile dal CTP "Italo Calvino" diretto dal professor Rino Curtoni Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere se necessario ri-possedere, la storia del nostro vissuto…L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé.
Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano Adelphi, 1986
Donne e ragazze. Alcune ancora bambine; altre portano pesanti segni degli anni e della fatica. Da Italia, Marocco, Brasile, Olanda, Russia, Romania…Tutte molto sveglie, attente. Sosta Forzata finalmente può contare sulle sue "quote rosa", una redazione mista che non si incontra mai. Sì perché in carcere tra i tanti "divieti di incontro" - tra detenuti comuni, ad esempio, e detenuti in "alta sicurezza" oppure tra detenuti comuni e "protetti", il divieto d’incontro per eccellenza è quello tra uomini e donne. Sezioni lontane e, per le attività "trattamentali", si va direttamente nel corridoio del femminile dove si affacciano le celle. Qualche incrocio negli spazi destinati ai colloqui è sufficiente a far nascere amori e fantasie. Ad alimentare il sentimento ci pensano le lettere; per percorrere qualche metro proibito, le missive partono e tornano dagli uffici postali. Qui dentro anche questo ha un senso. Le donne che abbiamo incontrato quest’anno ci sono piaciute, ci hanno incuriosito, ci hanno commosso e divertito. Le storie che pubblichiamo sono state raccolte da Pinuccia, la maestra, che, in realtà è laureata in lettere ma qui dentro è ormai per tutti, "la maestra". Noi le abbiamo trascritte e, in qualche caso, anche un po’ "tagliate" ma non per motivi di opportunità; solo perché le donne, si sa, hanno con le parole un rapporto molto forte. Le amano tanto, a volte anche troppo… I temi sono i più vari; la spiritualità in carcere, pensieri e porzioni di vita, buoni propositi e l’ironica vicenda di Antonella e del suo incontro ravvicinato con… Caterina.
Carla Chiappini
Il carcere
Ti ho conosciuto; non credevo che sarebbe mai successo. Mi sono trovata sola chiusa dietro le sbarre. Ho ritrovato Dio e anche tante amiche di nazionalità diverse con cui condivido una sofferenza comune. Qui dove tutto è negato, mi sono presa il permesso di pensare a tutto ciò che è successo. Ho pagato a caro prezzo uno sbaglio di cui non ho nessuna colpa. Ho passato momenti brutti fatti di dolore e di silenzio. Poi ho trovato un’altra famiglia che mi curava, mi aiutava, mi teneva sotto gli occhi come una bambina appena nata. Pian piano ho visto i raggi del sole, ho conosciuto donne e donne, non sento più la mancanza, penso a tutte le mie amiche e non voglio che nessuna stia male. Asciugo le loro lacrime, dò consigli per poter andare avanti, faccio la sorella e l’amica…continuerò così giorno per giorno fino a quando sarò fuori. Secondo le regole del mio paese, la persona che entra in galera è delinquente. Prima di questa esperienza, se sentivo che un ladro era vicino, scappavo via e non mi avvicinavo più. Adesso dormiamo insieme, facciamo la doccia insieme e tutto va bene, anzi ho fatto amicizia con queste persone. Credo che i panni sporchi si lavano, ma non diventano nuovi. Così il carcere pulisce ma non cancella le esperienze.
Fatna
Sono tornata a essere me stessa
C’è stato un tempo in cui ho creduto di aver compiuto un grave "omicidio"; avevo ammazzato una parte di me senza prendere alcuna condanna. Invece nelle difficoltà del trascorrere dei giorni ho riconosciuto dentro di me una persona che non ha paura di niente. Questa persona ha cambiato la tristezza con un sorriso, la malattia con il movimento, l’ignoranza con gli impegni scolastici, il materialismo con il non chiedere nulla e farcela lo stesso; la mancanza d’amore con una preghiera che dura molto tempo. Mi basta pronunciare una parola e sento che siamo due; io e Dio che mi ascolta, mi accarezza, mi dà la forza, una forza che mi fa affrontare tutti i problemi senza paura. Oggi, domani e dopodomani sono uguali per me. Non vedo la differenza, non vivo per il tempo ma vivo per fare felici i miei. Vedrò la felicità nei loro occhi, sarò felice e dimostrerò che sono riuscita "davvero" a cancellare la debolezza. La vita guarda i fatti delle persone, non il tempo che hanno trascorso. E questa è la grande sfida tra l’uomo e la vita; tra l’uomo e la debolezza, tra l’uomo e il tempo e, soprattutto, tra l’uomo e se stesso.
Fatna
La storia di Liliana
La storia di Liliana bisognerebbe sentirla raccontare da lei e osservare le espressioni del suo viso, i sorrisi e gli occhi lucidi. E vedere la mano di Maria che si allunga a carezzare la sua, per sostenerla quando il racconto si fa troppo difficile. Lei che aveva una piccola azienda in Romania, un giorno sente raccontare la storia di un uomo italiano che è rimasto vedovo con un figlio ancora piccolo. Biondo, fragile e molto triste. L’uomo cerca una donna che possa aiutarlo a crescerli. Lei che vede alcune fotografie e s’innamora del bambino e pensa di partire. Lui che vuole vederla in fotografia; lei che risponde: - A cosa serve una mia foto, quello che ci vuole per amare un bambino non si può vedere in fotografia! Lei che chiude l’azienda e parte.
Il racconto
Senza amore la vita è solitudine, tristezza, sofferenza. Anche se pensi di essere felice, la vita è vuota. Vive veramente solo chi ama. L’amore non è solo ricevere ma anche dare. Tempo fa, nell’agosto del 2002 mi apparve in una foto il viso di un bambino, i suoi occhi azzurri riflettevano lacrime. Ho capito subito che aveva bisogno di amore e così, dopo qualche mese, sono partita. Ero timorosa di quello che avrei trovato una volta arrivata qui anche perché non sapevo una parola d’italiano. Il 14 gennaio 2003 verso le sei di sera ho conosciuto di persona il bambino che mi guardava dalla foto: Andrea, piccolo e molto magro, capelli biondi e lisci e, solo attraverso gli occhi blu, belli e chiari era possibile intuire le emozioni e i suoi stati d’animo. Fu amore a prima vista. Mi ha chiesto se ero io l’amica di suo padre. In quel momento ho capito che era una situazione piuttosto difficile da gestire per me che non riuscivo quasi a capirlo. Con l’aiuto di un amico comune che mi aiutava a comprendere quello che si diceva intorno a me, ho capito che il papà di Andrea cercava una compagna per ricostruirsi una famiglia. Ero spaventata più che mai nel trovarmi in una casa che, anche se era bella, era piena di ricordi della moglie morta cinque anni prima. Dove posavo gli occhi, c’erano le sue foto. Una donna bella, bionda, alta; tutto il contrario di come sono io. In quel momento ho pensato che non potevo essere la persona che lui cercava, però, allo stesso tempo, guardavo Andrea e capivo che dovevo restare, almeno per provare a conoscerlo. Mi sono legata subito ad Andrea anche se lui si mostrava un po’ scontroso nei miei confronti. Ho cominciato a leggergli fiabe, anche se non capivo niente di quello che leggevo, ma vedevo che lui era contento di sentirmi leggere e questo lo facevo tutte le sere prima di dormire. Una sera stavo leggendo una favola che parlava di una stella; Andrea mi ha preso per mano e mi ha portato davanti alla finestra dicendomi una frase che non scorderò più: - Vedi, la mia mamma è fra le stelle in cielo. Ti ha mandato lei per curarmi e per essere la mia mamma? Prima di conoscere me, il piccolo Andrea non conosceva il significato della parola mamma e io, con il mio amore, gli ho fatto capire che "mamma" non è solo una parola. L’arresto del padre di Andrea e di Liliana interrompe tragicamente la storia. Andrea è affidato dal Tribunale dei Minori a una famiglia che si occupa di lui. Liliana non lo ha mai più visto e in carcere si tormenta nel dolore e nella nostalgia. Riportiamo qui alcuni pensieri che ci ha consegnato. Per amore, solo per amore sono arrivata in carcere perché la giustizia umana non è in grado di entrare nel cuore e nella mente degli uomini. La giustizia si basa sul principio della punizione e la persona che ha commesso un reato deve essere condannata a una pena. La pena principale è il carcere. Il carcere è una struttura anti-umana; togliendo la libertà fisica - ed è già una grande sofferenza - comporta altre sofferenze; psichiche, fisiche, affettive e sanitarie… Non è facile vivere nella condizione di detenuto. I rapporti personali sono difficili e la serenità è una conquista impossibile. La detenzione ti cambia profondamente. A volte non mi riconosco più, i dubbi mi assalgono e arrivo persino a dubitare di amare me stessa veramente. Cerco di non giudicare e di fare in modo che, al posto del giudizio, ci sia la critica costruttiva. Posso dire, dalla mia esperienza, che per non giudicare, è necessario amare e perdonare. Quante volte avrei voluto dare il massimo giudizio negativo su mio marito (il papà di Andrea poi ha deciso di sposare Liliana) che, suo malgrado e per le traversie dolorose della sua vita, è divenuto l’artefice della mia carcerazione e del dolore della nostra famiglia. Aveva questo diritto? Riuscire a non giudicare e perdonare vuol dire amare gli altri veramente e, ancor più di se stessi. Nell’amore si trova il perdono e in questo momento della vita ho capito che anche nel dolore possiamo dare un senso alla nostra esistenza. Ma ogni giorno che passa mi sento più triste, infelice e incapace di poter mantenere la promessa fatta ad Andrea. Il bambino si trova in provincia di Pavia e io qui, in via delle Novate, a Piacenza. Sulle mie spalle pesa una condanna per un reato che non ho mai commesso… Nonostante tutto, devo mantenere la promessa fatta tempo fa ad Andrea che adesso si sente tradito e ha ragione. Penso che, prima o poi arriverà il giorno in cui riuscirò a spiegarti tutto. Perdonami, Andrea, perdonami… se puoi.
Liliana
Io e… Caterina
Sono stata arrestata in piena estate, il 27 luglio 2005 in un famoso ristorante della riviera romagnola, intorno all’una del mattino, fra lo sconcerto di tutti i commensali. Era una notte umida e caldissima, una di quelle notti in cui dovrebbe piovere e non piove. Era il genere di notti che le streghe scelgono per cogliere la più rigogliosa erba dei "sepolcri" per le loro scope. Fui portata al carcere di Forlì; era una vecchia prigione ricavata nella Rocca di Caterina Sforza, l’indomita! Ero sconvolta! Avevo smesso di ragionare! L’agente di turno, una giovane ragazza, comprese il mio panico e fu gentilissima. Sapeva chi ero. Per molti anni ero stata il legale di un famoso imprenditore ravennate, morto suicida a Milano. Cercò di mettermi a mio agio ma io non ascoltavo più, proprio non connettevo. La conversazione che ebbe inizio fu la più spaventosa della mia vita. E dire che sapevo benissimo che "a domanda risponde…" era la prima formuletta imparata ma prima andava in un modo, poi nell’altro… poi in tutte le direzioni, come una fila di fuochi d’artificio. All’improvviso mi resi conto che la mia corsa era finita. Angosce, paure, speranze: il carcere avrebbe posto fine a tutto in un attimo. Il terrore che mi aveva pervaso alla vista dei carabinieri - sette tutti per me - cedette il posto a una misteriosa serenità. Avevo trovato la soluzione: "un gesto definitivo" da attuarsi alla prima occasione. Intorno alle 3,30 fui accompagnata in una piccola cella dove dormivano altre cinque detenute. Mi sdraiai sul letto e feci un grande sforzo per ordinare sentimenti e pensieri. Invano. Alla fine cominciai a piangere facendo ben attenzione a non svegliare nessuno. Odiavo quei vecchi manieri di cui la Romagna era ricca. E la Rocca di Caterina Sforza, situata quasi al centro della mia città, non faceva eccezione! Ogni giorno per recarmi in studio, allungavo la strada per non passarvi davanti. Conoscevo bene la storia di Caterina Sforza e quella notte mi pareva addirittura di avvertirne la presenza fisica. Ero stanca e stressata, chiusi gli occhi …e fui svegliata da uno strano rumore metallico. Qualcuno aprì con fragore la "mia"cella; era l’agente di custodia! Ero prigioniera, prigioniera di Caterina. Molto tempo è passato da quella notte, sette mesi. Tante cose sono cambiate, soprattutto dopo il mio trasferimento a Piacenza, dovuto a motivi di sicurezza dopo una grave aggressione subita ad opera di una detenuta inviata, in seguito, all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Oggi le mie fratture sono ricomposte. Sono guarita! E con il fisico anche l’anima…
Antonella Ripalta Scalzulli
La meglio gioventù… dai 20 ai 30: dieci anni di galera
Ma che significa "liberare"? Se io libero, in un deserto, un uomo che non sente nulla, che vale la sua libertà? La libertà si determina quando è di "qualcuno" che va "verso un dato luogo". Liberare costui significherebbe insegnargli ad aver sete e indicargli la strada verso un pozzo. Soltanto allora si proporrebbe a quell’uomo modi di essere che non mancherebbero più di senso…
Antoine de Saint-Exupéry
Non ha ancora trent’anni. È un giovane uomo abbronzato, tatuato, asciutto. Si sta avvicinando al termine di una decennale carcerazione fatta di troppi giorni di isolamento; quasi un anno e mezzo, in un carcere di massima sicurezza. Racconta la sua esperienza; il grande dolore resta intuibile sullo sfondo. Forse non trova parole adeguate, sicuramente non cerca pietà. Lascia, però, aperta una domanda, una domanda seria che dovrebbe inquietare noi cittadini che finanziamo il "servizio - carcere" senza minimamente preoccuparci di verificarne la qualità: ma il carcere, questo carcere è realmente in grado di rieducare le persone, di renderle migliori?
Carla Chiappini
Apro gli occhi. Il mio sguardo cade sul muro di fronte alla branda. Il colore è sull’arancione. Saranno le sei di mattina. Due minuti per ammirare questa sfumatura bellissima che avvisa dell’arrivo dell’estate. Peccato che il riflesso sul muro è sporcato dalla proiezione delle sbarre. No. L’immagine non è limpida come fuori. Qui siamo in carcere. Il profumo dell’estate non si sente; anch’esso è sporcato dall’odore del cemento delle "arie". Non si sente nessun rumore di vita normale, di persone che si godono questa splendida alba passeggiando per le strade per recarsi a fare una buona colazione con cornetti caldi e cappuccino. Guadagno il controllo delle mie idee, decido di alzarmi. Dò uno sguardo fuori per assicurarmi che, nonostante la mia situazione, oggi sia una bella giornata. Anche se priva di vita. Mi faccio un caffè e, intanto, sento i rumori delle chiavi dell’agente. Che bel risveglio! Sicuramente avrei voluto essere per strada. Sentire il rumore di una macchina che passa, il buongiorno di una persona sconosciuta… avrei voluto sentire il profumo delle creme abbronzanti. I bei sorrisi di qualche ragazza. Ma niente. Tolgo la mano dalla fronte e mi ritrovo qui in carcere. È tutta un’utopia. Sono anni che non sento l’odore del mare, le risate delle persone in spiaggia. Il mio cuore si frantuma in tanti pezzi. Ma io non mollo. Ci saranno altri anni per sentire il profumo vero dell’estate e per raccogliere pezzo per pezzo il mio cuore e guardare la vita colorata di arancione, magari stando in riva al mare.
Enrico
Quale recupero?
Il mio nome è Enrico. Sono detenuto da qualche anno per diversi reati e oggi, alla soglia dei miei 30 anni, sono arrivato a frequentare per la prima volta un corso di giornalismo. Il mio impatto è stato un po’ di confusione in quanto i presenti avevano 1000 pensieri da esprimere su poche domande fatte da chi conduce questo corso. Si è parlato, ovviamente, dei vari problemi che ci sono nei diversi istituti ma non voglio soffermarmi su questo punto. Voglio più che altro portare la mia testimonianza di vita vissuta tra queste mura in questi anni senza fare distinzione di istituti, dicendo dove si sta meglio o dove si sta male. Spero che con il mio piccolo contributo, qualche coscienza si smuova. Noi molto spesso siamo dimenticati dalle persone che sono fuori ma, soprattutto, siamo dimenticati, per non dire abbandonati a noi stessi proprio qui, all’interno delle carceri. Chi sta fuori non conosce le realtà che si vivono all’interno di questo mondo. Loro chiedono solamente giustizia e si rallegrano alle notizie riguardanti gli arresti di spacciatori, rapinatori, truffatori e altri. Ma non si chiedono cosa succede all’interno di questi istituti, cosa si fa per il "recupero" della persona, per il suo futuro, per il suo reinserimento nella società? Credo che non li sfiori neanche una domanda come questa. All’interno è lo stesso. Tu sei un numero e tale sarai fino a quando avrai scontato la tua pena. Ma dopo? Questo me lo chiedo anch’io. In tempi precedenti al mio arresto ero un ragazzo molto ribelle e le autorità hanno pensato di fermarmi con un mandato di cattura. Questa era la loro soluzione. Il carcere mi ha accolto, mi ha perquisito, mi ha immatricolato e, infine, mi ha chiuso in una cella per tutto il tempo della mia condanna. Il carcere ha rafforzato rabbia e ribellione. Oltre a questo non ha fatto niente. Infatti, col passare del tempo, la mia testa ha incominciato a immagazzinare il prodotto di questo abbandono. Mi sono specializzato in reati fino allora sconosciuti, ho imparato a raggirare le leggi, ho imparato a sopportare il dolore, la sofferenza e ho imparato a non sentire più il bisogno di quell’aiuto che magari avrebbe potuto "rieducarmi". A cosa serve il carcere? A niente. Serve solo a rafforzare quella tua indole, quella tua rabbia, quella ribellione che fin da giovane avevo dentro. Si può dire che oggi sono un ragazzo superficiale, non per mio volere ma per volere delle istituzioni. Potrei tradurre le umiliazioni, i mesi passati in isolamento con una sola parola: cattiveria. La mia cattiveria è cresciuta, le mie ambizioni di piccolo criminale sono cresciute. Il mio "io" è diventato un vero pericolo per la società e questo grazie al magnifico funzionamento degli istituti di pena. Cosa si può fare per evitare che altre migliaia di persone diventino come me? Beh, questa è una bella domanda a cui le istituzioni non sanno dare una risposta. Ci sono decine, centinaia di testi che parlano di "recupero", di "reinserimento", ci sono migliaia di persone che dovrebbero lavorare per questo obiettivo all’interno delle carceri. Ma questo non avviene. Il carcere bisogna viverlo. Chi ci dà questa possibilità qui dentro? Nessuno perché nessuno ti chiama, nessuno vuole sentire i tuoi problemi. Il carcere visto da fuori è solo un’immagine, un’idea ma il carcere, per capirlo, bisogna viverlo e a volte farsi male con esso. Perché il carcere non recupera la persona ma la danneggia ancora di più. Questa è la realtà, questa è la vita carceraria. Non puoi farci niente, fino a quando chi comanda non si deciderà a fare qualcosa per salvare quella parte di persone che hanno voglia di vivere serene con le loro famiglie e i loro cari.
E.M.
Seicento giorni circa di isolamento
L’isolamento è rieducativo? Io sono un ragazzo giovane che ha avuto "l’opportunità" di conoscere l’isolamento. Il mio isolamento è stato molto prolungato; si parla di mesi e non di giorni. Ricordo quando mi hanno accompagnato al 5° reparto, il reparto destinato a questa funzione. Dopo le varie visite fatte "ad occhio" dal dottore, mi hanno dato il parere positivo per affrontare questo fermo totale del tempo. Sono arrivato alla cella n. 3, il corridoio era pieno di telecamere e il box dell’agente pieno di monitor. Aprono la cella, "prego si accomodi", dietro di me si è sentita chiudere la porta e poi il blindato; dallo spioncino la voce dell’agente mi diceva: - Tra poco le faremo avere la sua roba. Passò qualche ora; nel frattempo avevo visionato la cella. C’erano tavolo e sgabello in ferro, fissati al pavimento, armadio in ferro aperto, sempre fissato al muro. La branda, singola, anch’essa fissata al pavimento. Televisore niente, non c’era. Il bagno tutto in ferro e naturalmente telecamera in entrambe le "stanze". L’unico confort era la doccia per non darti l’opportunità di uscire dalla cella se non per un’ora d’aria, la visita medica quotidiana e l’unico colloquio del mese. Eravamo in quattro in cella: io, la branda, lo sgabello e il tavolino Ecco aprirsi il blindato: - Qui c’è la sua roba -, un sacchettino con due magliette, due paia di mutande, due paia di calze, un paio di ciabatte e un paio di scarpe. Scusi, e il resto? Il resto è nel box, quando ha bisogno di qualcosa, faccia la richiesta per parlare con l’ispettore. Bene, mi fa avere una "domandina" e una penna per favore? Sì, certo. Faccia la domandina per avere la penna e tutto il necessario per scrivere. Va bene, grazie. Con un sorriso mi viene chiuso il blindato. Eravamo in quattro in cella: io, la branda, lo sgabello e il tavolino. Subito faccio amicizia con la branda. La testa cominciava a macinare pensieri. Era un continuo pensare. Il mattino dopo arriva l’agente per la colazione, chiedo di chiamarmi un ispettore. Con un cenno mi dice di sì. Buongiorno, ispettore. Buongiorno. Mi può spiegare la mia situazione? Certo. Allora lei ha un’ora d’aria al giorno, non può avere il televisore, non può avere oggetti in cella, tranne il necessario per scrivere. Alla sera verrà chiamato per la visita medica e può avere un colloquio al mese con i suoi familiari. Scusi, per il televisore? Bè quello non può averlo come non può avere il fornello, il pentolame e la caffettiera. Ma, mi scusi, se voglio farmi un caffè? Al mattino lo dice all’agente di servizio e le verrà consegnato il fornello con caffettiera e caffè per dieci minuti soltanto e alla sera, dopo aver mangiato, lo potrà riavere di nuovo per la stessa durata di tempo. Va bene, ho capito; per l’aria come siete organizzati? Per l’aria ha gli stessi orari, ridotti, ma i soliti: se vuole andare al mattino dalle 9,00 alle 10,00, se vuole andare al pomeriggio dalle 13,00 alle 14,00. Bene, vorrei andare all’aria adesso, si può? Certo, adesso la faccio aprire.
Libero di non fare niente
Vado all’aria senza mai uscire da quel reparto; possibilità di incontrare qualcuno non c’era. Ecco l’aria; grande quanto la cella, metà coperta da un muro di cemento; come essere sotto un balcone; nell’altra metà potevi guardare il cielo attraverso una rete. Naturalmente la telecamera fissata di fronte all’aria. Il mio pensiero cominciava a elaborare un modo per adeguarmi a quella situazione. Niente da fare. L’unica soluzione era fare ginnastica e scrivere. Passavo il tempo facendo flessioni e addominali. Scrivevo a tutti quelli che mi venivano in mente. Quando finivo di fare una di queste cose, iniziavo nuovamente a fare l’altra. Tenevo la media di 5/6 docce al giorno. L’occorrente per lavare la cella mi veniva dato una volta al giorno e davanti all’agente lavavi e riconsegnavi il materiale.
Ero libero. Ero libero di non fare niente, quello sì.
Arriva il giorno del colloquio. Agente, dovrei fare il colloquio, devo farmi la barba. Adesso le porto le lamette e il sapone, ma faccia veloce! Va bene. La barba la facevi con l’agente che ti guardava a vista, appena finito riconsegnavi tutto. È pronto per il colloquio? Sì sono pronto. Aspetti che arriva l’ufficio-comando.
La gabbia dei colloqui
Ogni volta che facevo il colloquio mi accompagnavano un ispettore e due agenti; prima di uscire dal reparto, venivano chiusi i lavoranti dei corridoi in qualsiasi stanza, chiudevano le finestre del corridoio che davano sulle "arie" delle varie sezioni; quando arrivavo ai colloqui c’erano solo agenti. Prego si accomodi per la perquisizione. Dopo essere stato perquisito, facevano il passaggio di consegna, l’ispettore e i due agenti andavano via e venivo preso in consegna dagli agenti dei colloqui, non c’era da aspettare in nessuna stanza, venivo portato subito nel reparto dei colloqui degli isolati, venivo chiuso in una specie di gabbia di uno spazio complessivo non superiore a 2,50 di lunghezza e 1,50 di larghezza. Erano stanze una accanto all’altra così non potevi parlare con gli altri isolati. Il colloquio durava un’ora, non di più. Avevi il divisore tra te e i familiari ed eri sempre monitorato dalle telecamere e dall’agente dal suo box.
Ormai in isolamento stavo bene
Questo è durato per mesi. Cosa hanno risolto? Niente. Anzi! Uscito dall’isolamento mi sentivo infastidito dagli altri detenuti, dai rumori, dai discorsi. Non sopportavo le altre presenze. E lì incominciavano i problemi. Ogni giorno c’era una discussione. Mi rendevo conto che non provavo nessuna pietà. Fino a quando, un giorno, in un litigio, stavo quasi per uccidere una persona tra calci e pugni. Mi hanno portato nuovamente in isolamento e l’altro detenuto all’ospedale. Questa volta non sapevo quanto avrei dovuto starci perché non si sapevano le condizioni dell’altra persona. Sapevo che rischiavo una custodia cautelare per tentato omicidio ma l’idea non mi spaventava e poi in isolamento stavo bene. Ci rimasi per altri 55 giorni e poi eccomi qua dove mi trovo oggi.
Come un animale
Io sono del parere che certi isolamenti sono distruttivi per la persona. Ti fanno diventare più rabbioso, non ti fanno sentire la sofferenza, la solitudine, ti riducono come un animale che reagisce solo d’impulso. Credo che certe privazioni siano contro la costituzione e al di fuori di ogni regola umana. Poi si parla di recupero.
E.M.
Tre metri sotto il cielo, storie di vita e storie di galera
Fin dall’inizio ho imparato che attraverso un piccolo episodio racconti una grande storia perché la storia raccontata attraverso un’esperienza personale, attraverso il piccolo aneddoto della vita di un uomo, di un villaggio può spiegare molto di più. Tiziano Terzani sul giornalismo al figlio Folco nel libro "La fine è il mio inizio"
Racconto la mia storia
Mi chiamo Kristo Armand, ho 31 anni e sono albanese di Valona. Questo che voglio dire è che voglio raccontare la mia storia; come è cominciata e come è finita. Lo so che qualcuno forse non ci crederà, ma, sapete, quello che vi sto per raccontare è la verità e ha poca importanza se mi credete o no; ormai è andata così.
La guerra civile nel mio paese
Era l’estate, il 5 luglio 1997*, faceva caldo, molto caldo, quel giorno non lo dimenticherò mai, finché avrò vita. In Albania c’era la guerra perché tutti avevamo perso i soldi, le bande giravano per le strade sparando in aria; in poche parole avevamo paura, paura da tutte le parti. Non c’era futuro, non avevamo niente, nemmeno la speranza di un lavoro per magiare. In famiglia eravamo otto persone; padre, madre, due sorelle e quattro fratelli, così sono stato costretto a prendere la strada dell’emigrante come tutti ma - come dicevo prima - non avevo soldi per venire in Italia. Così quel giorno ho incontrato un mio amico, aveva la mia età e lui mi ha detto: - Se vuoi andare in Italia, non c’è problema, andiamo insieme. E così è stato. Però per venire qui senza pagare i soldi, dovevo trasportare una borsa con 40 chili di marijuana. Convinto di questa stupida iniziativa, sono saltato sul gommone.
In trenta su un gommone
Era notte, il cielo era pieno di stelle, la vista era chiara e siamo partiti. Sul gommone eravamo 30 persone; qualcuno era "corriere" come me, qualcuno aveva la sua roba e qualcun altro aveva dato i soldi per venire in Italia. Così è cominciato il viaggio in direzione Italia, un posto pieno di speranza per quelli che venivano per lavorare e per uscire dalla povertà che li aveva circondati per anni. Però non è andata bene, almeno per noi che eravamo sul gommone. Abbiamo navigato per un’ora e mezzo, infine ci siamo avvicinati alle coste italiane per sbarcare. Nel momento in cui abbiamo cominciato a scendere, loro, i finanzieri, che ci aspettavano lungo la costa, nascosti nei loro nascondigli, hanno cominciato a urlare: - Fermi, fermi, bastardi - e poi sparavano per aria bam - bam - bam, ma a noi i loro spari non ci mettevano paura perché le nostre orecchie erano abituate con gli spari delle armi. E così siamo saliti sul gommone e ci hanno lasciati andare, per il momento; poi, appena abbiamo lasciato le luci e non si vedeva più niente, loro ci seguivano in silenzio. Erano sei motovedette della guardia di finanza e, dopo aver acceso i fari, hanno cominciato l’inseguimento in mare aperto, un mare calmo, una notte meravigliosa, una notte calma ma che ti faceva paura, mi credete? Non trovo parole per spiegarla ma sembrava un film d’azione… se lo portavano al Festival di Cannes vinceva di sicuro!
Il carcere in Italia
Dopo tre ore d’inseguimento in mare, ci hanno arrestati e ci hanno portato in galera a Brindisi. Eccomi qui in galera, per la prima volta. Era troppo dura per me, non lo conoscevo questo piccolo mondo perduto e dimenticato in un angolo oscuro, neanche nei miei sogni ci credevo. Avevo sentito la parola "Inferno" ma non sapevo cosa voleva dire, lì ho trovato la risposta, lì ho trovato molte risposte a cose che non conoscevo e ho fatto una promessa: - se, per caso, esco di qui non metto mai più piede in questa strada maledetta. E così è stato, ho mantenuto la mia promessa.
Ritorno a casa
Dopo otto mesi e mezzo di galera vengo scarcerato il 17 marzo del 1998 e torno nel mio paese. A casa mi stavano aspettando tutti; le mie sorelle, i miei fratelli. Mia madre ha cominciato a piangere e poi mio padre che mi diceva: - Figlio mio, ormai è finita, l’importante è che stai bene, che sei vivo, sei qui in mezzo a noi; non ci pensare, prendila come un brutto sogno. C’è voluto poco tempo e ho trovato un lavoro; facevo il camionista e andavo avanti così, poi mi sono sposato. Nel 1999 mi sono sposato, la mia vita era cambiata, quegli otto mesi e mezzo di galera mi avevano fatto capire tante cose per la mia vita e così mi sono messo nella strada giusta. Dopo un anno di matrimonio è nato mio figlio, si chiama Samuel, è un bel bambino; io non ci credevo e dicevo : - sono diventato padre, sono diventato padre - ero contento e felice, quel figlio meraviglioso era la ricchezza che aveva bussato alla mia porta. E così andavo avanti con un po’ di difficoltà economica perché lavoravo e non potevo riempire lo stomaco.
Di nuovo in Italia
Gli anni passavano, il bambino cresceva, l’economia era a pezzi, così un giorno mi sono messo a discutere con mia moglie per venire in Italia per fare una vita tranquilla e per il futuro di nostro figlio. I genitori di mia moglie erano già qui in Italia e loro mi hanno aiutato con i soldi per venire in Italia. Ho comprato il visto Schengen** e insieme con mia moglie e mio figlio siamo arrivati qui. Come gira la vita; nel ‘97 ero venuto in Italia da solo e, adesso, dopo nove anni, con la mia famiglia. Ci siamo sistemati a casa dei suoi genitori, lì ho trovato un lavoro, facevo il muratore, era un lavoro provvisorio, non prometteva granché; con un po’ di pazienza ho trovato un lavoro fisso in una cascina. Ero felice, per me significava e dicevo: - adesso che ho un lavoro fisso, i miei problemi sono finiti.
Dopo nove anni di vita regolare
Il padrone di lavoro era un gentiluomo e mi ha detto: - Ti faccio io i documenti. Io pensavo che andava tutto liscio come l’olio ma mi sbagliavo di grosso; non sapevo che la vecchia ferita era ancora aperta e come facevo a saperlo se non avevo nessuna coscienza di come queste cose funzionano. I carabinieri mi hanno fermato in strada per una verificazione e, per mia disgrazia, è uscito "un definitivo" (condanna definitiva che Kristo ha preso in contumacia) di cinque anni. Mi sono messo a piangere come un bambino; questa notizia mi è caduta addosso come una bomba e ha distrutto la mia anima. E adesso mi trovo di nuovo qui, in questo inferno che avevo già incontrato e dimenticato; adesso è più duro per me perché non sono solo, ho una moglie e un figlio e, per loro, è ancora più pesante. È per questo che spesso mi chiedo perché in tutti questi nove anni non ho fatto altro che lavorare, ho creato una famiglia; perché la Giustizia non vede queste cose che ho fatto in questi anni senza l’aiuto di nessuno! Ma da quello che vedo io, alla giustizia italiana non interessano le persone che cambiano; come me ce ne sono tanti che soffrono ma spero che un giorno le cose cambieranno per tutti. Finalmente ce l’ho fatta! Perché è la prima volta nella mia vita che racconto la mia storia, mi sento bene e avevo bisogno di essere ascoltato da altri. Credetemi, è come se mi fossi tolto un grande peso dalle spalle. Tutti abbiamo una storia e, se volete la mia opinione, raccontate anche voi la vostra. Ne vale la pena.
Kristo Armand
*Albania 1997: un movimento insurrezionale destabilizza il Paese. Le elezioni vengono vinte dall’opposizione socialista, guidata da Fatos Nano. Rexhep Meidani prende il posto di S. Berisha alla presidenza della Repubblica. **Il Visto Schengen permette la circolazione sul territorio degli Stati aderenti alla Convenzione nei termini e limiti indicati sul visto stesso.
Io e mio padre
Spesso diamo la colpa agli altri per le condizioni in cui viviamo e questo non è giusto. È l’ora di prendere la nostra responsabilità e di pentirsi di quello che abbiamo fatto, di cercare di accettare la realtà. Sì, certo che le condizioni economiche o i genitori o la posizione sociale hanno una parte importante, ma certo questo non significa che la colpa è loro.
Ho guadagnato i soldi e ho perso me stesso
Se io sono finito in carcere non è assolutamente colpa dei miei, al contrario è stata una scelta per realizzare i miei sogni, usando la strada sbagliata. Mi ricordo ancora il giorno in cui ho deciso di lasciare il Marocco e di venire in Italia; tutto questo è stato contro la volontà dei miei perché loro sapevano che la mia partenza non era regolare (ndr. Tarik è uscito dal suo paese senza passaporto perché costava troppo farlo). Hanno fatto di tutto per farmi cambiare idea, ma, ormai, era deciso. Mi ricordo le lacrime negli occhi di mio padre, per la prima volta, quando ha perso la speranza di farmi cambiare idea. Allora mi ha detto: - Ricordati, figlio mio, di fare il bene e di attaccarti alle persone per bene e di essere sempre a contatto con Dio nei momenti belli, così lui ti sta vicino nei momenti difficili e cerca sempre di guadagnare l’amore delle persone col tuo comportamento. Sono state queste le parole di mio padre. Quando sono arrivato in Italia, ho trovato la gente che faceva la corsa contro il tempo e cercavano di superarlo. E io che ero lì, senza lavoro senza documenti, senza un posto dove stare. Così ho fatto il primo passo sbagliato che era contro la mia educazione e i miei principi e così ho perso la mia vera personalità. Ho guadagnato dei soldi, sì. Ma ho perso me stesso.
Non ho più sentito mio padre
Stavo molto attento al comportamento con i miei genitori, soprattutto quando si trattava di soldi ma, intanto, mio padre si stava insospettendo di me e chiedeva continuamente spiegazioni sui miei guadagni; io trovavo le risposte ma lui diceva: - Senti Tarik, sono 24 anni che ti faccio mangiare un cibo pulito; non farmi mangiare il cibo dei tuoi soldi sporchi alla mia età. Quando ha saputo tutto, non hai mai più accettato un soldo e ha deciso di non parlare più con me; quindi alla colpa dei genitori io credo poco perché nessun padre vuole che un figlio rovini la propria vita. Ora il mio desiderio è che, un giorno, mio padre riuscirà a perdonarmi; solo così riuscirò a perdonare me stesso del male che ho fatto a me e alla mia famiglia.
Boumazed Tarik
Lavorare in carcere
Piacenza, Festa della Liberazione - non la mia, però. Mi trovo in galera da circa due anni; in galera ho trascorso due natali, due pasque e questa molto probabilmente sarà la mia terza estate. Ho partecipato attivamente alle iniziative che generalmente vengono organizzate negli istituti di pena; qui alle Novate ho frequentato il corso di alfabetizzazione al computer, mi sono iscritto al I° anno di Istituto Agrario e ho fatto parte della redazione giornalistica fino a quando non sono stato chiamato dalla Cooperativa Futura che offre lavoro interno ai detenuti e ho potuto cominciare a lavorare. Questo ha cambiato radicalmente la mia vita in carcere in quanto, fino a prima di avere il lavoro, ricevevo soldi molto raramente da fuori e, quindi, essendo io un fumatore, potevo solo comperarmi del tabacco e sperare che mi durasse almeno fino ad arrivare al prossimo vaglia che mi veniva spedito da qualcuno che - fuori - si ricordasse di me. Ora, invece, fumo le sigarette, mi preparo da mangiare in cella, mi faccio passare qualche sfizio e sto pagando, un po’ alla volta, anche l’avvocato che mi difende.
Il lavoro alla "Futura"
Il mio lavoro consiste nell’inserire in computer i dati delle ricette mediche; si comincia alle nove di mattina fino circa a mezzogiorno e poi dalle 13,00 fino alle 16,30. Questo contribuisce a far passare più velocemente le giornate, fumo di meno perché sono anche meno teso e non mi prende l’angoscia che mi assaliva letteralmente prima, quando non lavoravo. E certe volte posso dire di essere anche sereno; tutto questo fino a domenica e nei giorni festivi quando spunta puntuale quella angosciosa voglia di libertà che comincia ad avvolgermi e prende il sopravvento. Ho trentasei anni e questa è la mia prima carcerazione e, se è vero che il carcere è una penosa sofferenza almeno per quelli che in galera non c’erano mai stati prima, è altrettanto vero che il lavoro allevia molto questa condizione. È anche vero che non posso negare di aver conosciuto qui dentro anche persone intelligenti sia tra i miei compagni che tra coloro che interagiscono coi detenuti. Alcune di queste persone mi hanno aiutato sia ad uscire dalla depressione - che all’inizio era molto forte - sia a darmi una mano concreta per cercare di uscire di qui. Ora sto cercando di poter ottenere un qualche beneficio, avendo scontato già metà della pena e spero di uscire il più presto possibile.
Bob
Redazione: chiusa per ferie
E così siamo arrivati al termine del nostro corso di giornalismo; chiude per vacanze. Vorrei scrivere"evviva!", ma non ci riesco, peccato. Dico "peccato!" perché so che mi mancherà perché è stata una piccola conquista e una piacevole scoperta; una boccata d’aria diversa, una zona franca dove incontrarsi e poter dire qualcosa liberamente, anche solo poche parole o niente; qualcun altro da ascoltare e qualcosa in cui sperare, un saluto o semplicemente un pretesto per porsi delle domande e per ragionare. Con i nostri delitti, con le nostre differenze e con le nostre perplessità. E ci siamo arrivati numerosi, serenamente, con serietà. È stato un vero privilegio, una bella opportunità da tutti apprezzata, veramente. Mi ha colpito lo slancio, l’entusiasmo e persino l’allegria che si respira nei nostri dibattiti. La partecipazione e la spontaneità di tutti, dove anche un semplice "buongiorno" vuole finalmente dire "buongiorno", senza fingere di aver dimenticato il significato. Scrivere, dialogare ci ha coinvolto molto, ha prodotto aspettative e simpatie, ha offerto spunti e nuova solidarietà; ha gettato ponti per quanti, in nome di un risentimento che si oppone alla ragione, si sentono assediati o meglio dimenticati, in uno smarrimento che verrebbe solo smarrirsi sempre più e non conosce pace. E, se non si può mentire sull’assenza di ciò che è una vita vera, l’isolamento, le tensioni, il modo in cui tutto questo ci trasforma, vorrei ancora ricordare che siamo persone che piangono e sperano, ragionano e sorridono, si commuovono e pregano, amano e sbagliano come molti. E magari alcuni cadranno ancora, ma se ognuno è diverso da tutti, non può esserci alcun fatto nella vita da cui non possiamo migliorare o trarre una buona lezione per ripartire. Oggi la comunicazione rigorosamente autentica e precisa delle nostre testimonianze ha arricchito un po’ tutti, una piccola grande libertà; la nostra voce, la nostra sensibilità, curiosi di scoprire fino a che potremmo spingerci. Per me è stato comunqque bello e utile partecipare. Spesso si sente dire che non ne vale la pena, che non meritiamo niente ma non è vero, non è così, non sarebbe giusto. Per questo oggi vorrei aggiungere qualche parola per quanti sono presenti in mezzo a noi e di cui nessuno parla. Persone che per missione o spirito di carità sono presenti giorno dopo giorno con gesti di coraggio quotidiano, senza chiedere niente, sopportando qualcosa di ognuno di noi e portandosi, magari, a casa una sensazione o un ricordo di ciascuno. A loro, un grazie particolare, doveroso, sentito con la certezza che sapremo ricordare.
Mario Visentin
Comune di Bologna Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Appello al ministro della giustizia sen. Clemente Mastella sull’emergenza carcere
I dati sono ormai tristemente noti: il numero delle persone detenute in custodia cautelare e in esecuzione pena supera le sessantamila presenze (all’incirca il 55 % sono detenuti definitivi e il 45% sono in attesa della definizione del giudizio). Altrettanto conosciuta è la composizione della popolazione carceraria, caratterizzata in gran parte da situazioni di disagio e di emarginazione, a volte aggravate da scelte politiche e legislative che hanno esasperato la consistenza dei problemi : il 27 % rappresenta, per difetto, l’area della tossicodipendenza, il 30% quella della immigrazione oltre ad una percentuale all’incirca del 10% rappresentata da altre situazioni di disagio (psichico, legato all’alcoolismo, ecc.). Questi dati, citati anche da Alessandro Margara, già giudice di Sorveglianza e direttore generale degli istituti di prevenzione e pena, in una recente e migliorativa proposta di modica dell’ordinamento penitenziario (e quindi in totale controtendenza rispetto alla recenti proposte legislative), fanno ritenere che oltre almeno due terzi della popolazione carceraria si collochi in una fascia di disagio socioeconomico e psichico. Si tratta in prevalenza quindi di detenzione a sfondo sociale, alla quale da tempo si risponde senza un progetto complessivo capace di ridurre sensibilmente il numero di coloro che ne fanno parte: il passaggio da uno stato sociale ad uno stato penale nei confronti della marginalità si sostanzia anche per il venire meno di una rete di protezioni e strumenti capace di prevenire e poi di riassorbire fenomeni di devianza. Il sovraffollamento viene da tempo denunciato come l’effetto più evidente dei numeri sopra citati, e tale da determinare condizioni di vita intollerabili per la riduzione di spazi vitali, in un contesto già fortemente compromesso quanto a rispetto e tutela della integrità psicofisica della persona detenuta Le condizioni di sovraffollamento sono state definite come maltrattamenti dal Comitato europeo contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti: la privazione della libertà personale non può impedire la capacità di spostamento all’interno dell’istituto, o ancor prima nell’ambito della cella, negando in radice la possibilità di una vita dignitosa e comportando danni psicofisici alle persone. La attuale situazione rischia di peggiorare ulteriormente per effetto della l. 251/2005 (ex-Cirielli) che, nell’introdurre la nuova disciplina in materia di recidiva, prevede l’inasprimento del trattamento sanzionatorio e di riduzione delle possibilità di accesso alle misure alternative delineando uno scenario di "tolleranza zero" nei confronti di quella detenzione sociale di cui si è detto, e a questo si aggiunge anche il non infondato timore di un aumento di provvedimenti restrittivi per effetto della nuova legge in materia di stupefacenti (n. 49/2006), laddove equipara le droghe leggere a quelle pesanti, aumentando le pene previste per le prime (e sia pure riducendo quelle per le seconde). Il non lontano provvedimento (l. n. 207/2003) di sospensione condizionata della pena (cd. indultino), che aveva il condivisibile scopo di superare le difficoltà relative all’approvazione di un provvedimento di amnistia e indulto, non ha sortito, e non poteva essere diversamente, l’effetto desiderato di incidere in modo significativo sul sovraffollamento del carcere. Come è noto il tanto auspicato provvedimento clemenziale di amnistia e indulto, che non viene più emanato dal 1990, è stato condizionato, nella passata legislatura, almeno in apparenza, dalla difficoltà di raggiungere la maggioranza richiesta dalla Carta Costituzionale ex art. 79 (due terzi), ma soprattutto dal contrasto sui reati che dovevano essere estinti in conseguenza del provvedimento di amnistia, con particolare riferimento alla soglia della pena edittale (4 anni nelle proposte del centrosinistra e 5 anni come pena massima nei progetti del centrodestra, per far ricomprendere anche la corruzione per un atto di ufficio). Ma non è allo stato possibile attendere oltre. E’ indubbio che l’emanazione di un provvedimento di indulto comporta necessariamente una riduzione delle presenze in carcere, e trattasi di un provvedimento non più rinviabile, a cui deve accompagnarsi (o seguire nella peggiore delle ipotesi) un provvedimento di amnistia che riduca il carico giudiziario e ponga fine a quelle vicende processuali comunque destinate alla prescrizione. Certo una politica di riduzione del sovraffollamento carcerario richiederà altri strumenti e ne siamo per primi consapevoli, ma l’insufficienza di un provvedimento di clemenza a risolvere la crescente carcerizzazione non è più un alibi accettabile. La riduzione dell’area della detenzione sociale va di certo perseguita attraverso scelte di politica legislativa che non abbiano di mira, contro ogni evidenza, obiettivi di tipo ideologico e, si auspica, attraverso una complessiva riforma del codice penale e di tutta l’area degli illeciti penali nonché attraverso il recupero di quegli strumenti. È di tutta evidenza obbligato l’intervento relativo alla revisione della normativa in tema di immigrazione sia per quanto riguarda i presupposti per l’ingresso sul territorio nazionale, sia per quanto riguarda, con riferimento al tema del carcere, le fattispecie penali. Inoltre occorre che i cittadini detenuti e gli internati abbiano pari diritto ai cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione efficaci ed appropriate sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute nel Piano sanitario nazionale, nei piani regionali e in quelli locali applicando pienamente il D.L./vo 22 giugno 1999 n. 230. Ma le riforme hanno tempi che le attuali condizioni di vita all’interno del carcere non possono più tollerare e questo bisogna ribadirlo con assoluta chiarezza.
Bologna, 13 giugno 2006
Avv. Angiolo Marroni - Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio Avv. Desi Bruno - Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna Dott.ssa Maria Pia Brunato - Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Torino Dott. Franco Corleone - Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze Dott. Mario Fappini - Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Brescia
A sostegno di quanto affermato pubblichiamo, nella lingua francese in cui è stata redatta, la "raccomandazione" della commissione del Comitato Europeo di Prevenzione della Tortura allo Stato Italiano dopo la visita ai tre penitenziari di Civitavecchia, Verona e Parma compiuta nel periodo dal 21 novembre al 3 dicembre 2004, quando la situazione era, comunque, meno pesante.
Le Cpt recommande que les autorités italiennes poursuivent vigoureusement l’adoption et la mise en oeuvre d’une stratégie cohérente destinée à combattre le surpeuplement carcéral, à la lumière de la Recommandation R (99) 22 du Comité des Ministres du Conseil de l’Europe concernant le surpeuplement carcéral des prisons et l’inflation carcérale, ainsi que de la Recommandation R (2003) 22 concernant la libération conditionnelle. Il Rapporto porta la firma di Silvia Casale, Présidente del Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o Trattamenti inumani e degradanti.
La redazione di sosta forzata sostiene con forza la domanda di amnistia e indulto che sale dalle carceri italiane, dalle persone recluse, dagli operatori, dai volontari e da quanti in qualche modo sono coinvolti nelle grandi difficoltà legate al sovraffollamento ormai insopportabile.
Scrivere a: "Sosta Forzata" presso Svep, via Capra 14 29100 Piacenza Associazione di Volontariato "Oltre il muro" presso Svep, via Capra, 14 29100 Piacenza Il giornale "Sosta Forzata" è pubblicato grazie a un finanziamento del Coge su un progetto dal titolo "Il carcere nel cuore della città" presentato da Svep per il 2005 - 2006
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