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Sosta Forzata, giornale della Casa Circondariale di Piacenza (numero pubblicato nel mese di giugno 2005)
A P.P. prigioniero
Regalerei un binocolo, un atlante, un altoparlante, una bussola, una canna da pesca, un portachiavi un cane, la figura di un tango, un’edizione della costituzione, diritti e doni persi dai rinchiusi
Erri De Luca
Fermo immagine
Tante immagini prima della pausa estiva che si accavallano, si completano, necessarie e contraddittorie. La sintesi in materia di carcere rischia di essere molto banale. Sia quella che pecca di bonarietà: - Poverini, chissà perché...-. Sia quella che si appella a una giustizia che tradisce attese di vendetta: - Devono pagare, pagare, pagare...- Nella semplificazione trionfa la stupidità, male pericoloso e quasi sempre impunito. Lasciamo, dunque scorrere le sequenze di questi dieci mesi di lavoro, fatiche, soddisfazioni, critiche, incomprensioni. Operando alcune inevitabili, arbitrarie scelte. A Milano, dunque, nella calura di fine maggio, Massimo Pavarini ricorda che il carcere è una "punizione corporale" innanzitutto. Il corpo soffre rinchiuso e costretto in spazi angusti. Privato di profondità, lo sguardo sbatte senza sosta contro il muro e si ammala; senza vitamine, aria luce e movimento, si ammalano anche i denti, si ingrassa o si dimagrisce esageratamente. È pura verità, ineludibile evidenza. Scrivono, le persone della nostra redazione ristretta, le piccole cose di cui quotidianamente sentono la mancanza: bicchieri di vetro, una pizza, una chiacchierata con la mamma, il telefono, le coccole di una donna, toccare i soldi, una luce per leggere di notte, l’acqua calda, un lettore Cd, qualche canale televisivo in più, l’affetto di chi mi vuole bene, un semplice bacio... A Padova Lucia Castellano, nell’affollata palestra del carcere, ammette con onestà le mancanze dell’ istituzione penitenziaria in materia di affettività. L’ordinamento del ‘75 e il Dpr del 2000 enunciano parole vuote, mai realizzate; ma non sono leggi dello Stato? Eppure, per quanto riguarda il capitolo dei "doveri" la stessa istituzione è molto esigente e punisce con rapporti, sanzioni, isolamento le persone detenute che vengono meno alle regole. Per non parlare del rischio di perdere quei preziosi giorni di liberazione anticipata che, in carcere, diventano semplicemente "i giorni". - Ti hanno dato i giorni? Ho paura di perdere i giorni...- A proposito di affettività, in redazione un detenuto racconta della sua anziana, indomita mamma, che un giorno, per fortuite circostanze, si trova a incontrare il figlio dietro il bancone col vetro divisorio: - Ma cosa hai combinato? Perché ci hanno messo qui? Possibile che sono sempre l’ultima a sapere le cose! - Le mamme. Se non ci fossero, sarebbe impossibile inventarle. I giorni non te li concedono mai. Non esiste liberazione anticipata. A Piacenza Rita Borsellino ci commuove quando parla di memoria e di perdono, del carcere, della necessità di cercare sempre l’uomo nella persona che ha sbagliato, che ha commesso reati anche gravi. Persino nel mafioso. Sembra irreale. Come Tommaso abbiamo bisogno di vedere, di osservarla mentre dice queste cose con semplicità: occhi azzurri onesti, viso intelligente. Un velo sottile di ironia. Le crediamo. Anche Antonio, ventisette anni di carcere e un sano, bergamasco scetticismo, decide che sì, la dottoressa Borsellino è sincera. E scrive a matita su un biglietto: "Ho visto persone perdonare dopo aver ricevuto un male immenso e terribile e questo mi ha veramente colpito. Credo che io non riuscirei a essere così generoso però ho scoperto dentro di me una buona dose di volontà di perdonare. Ma so di avere ancora dei limiti". La redazione si sofferma sulla parola "perdono". Arrivano altri biglietti, scritti a mano, di getto per non correre il rischio di addomesticare i pensieri. "Non conosco il significato di questa parola! Più precisamente la considero una sorta di utopia". Roby. "Il perdono risolverebbe tutti i problemi e soprattutto quelli di coscienza" Massimiliano. "L’errore è umano ma il perdono è divino. Abbiamo sempre bisogno di perdonare" Benjamin. Ma il pensiero più commuovente lo ritroviamo in un foglio stropicciato di qualche mese fa. " Per la Festa del Papà le mie figlie, già adulte, mi hanno fatto un piccolo, piccolissimo regalo ma molto più grande, piacevole, toccante di qualsiasi altra cosa con una breve dedica: - Perdonare è sentire il tuo cuore che, con calma, si acquieta verso te stesso e verso gli altri, per ricominciare con il perdono e non con la vendetta; ti vogliamo bene -. Questo è stato più bello di qualsiasi festeggiamento". Rino. Mentre per noi è il tempo della pausa, per gli amici reclusi inizia il periodo più pesante: caldo asfissiante nelle celle strette, zanzare, ozio, la giornata che si chiude alle cinque di pomeriggio. Alle tre per chi non vuole andare in saletta, termine surreale che definisce una stanza, in verità piuttosto squallida e vuota, ove da tempo il ping pong è un passatempo virtuale perché mancano le palline e l’unico tavolo riunisce gli irriducibili del gioco a carte. Nelle celle la televisione rimanda impietose immagini di spiagge assolate e splendide fanciulle in costume. L’estate incarcerata è angosciante anche nella fantasia di chi non l’ha conosciuta.
Carla Chiappini
Turismi penitenziari
Mentre la parola "turismo" ci rimanda un’idea di riposo, di amenità, l’aggettivo "penitenziario" ha la funzione di rinchiuderci all’interno del nostro mondo che di ameno non ha proprio nulla. Altre esperienze, altri usi e costumi: non solo all’estero ma anche in Italia. Dalla Svizzera rigida ma molto civile ad alcune carceri del nord del nostro paese al disastro di un carcere del sud. Purtroppo anche all’interno nel nostro stesso Stato e sotto la giurisdizione dello stesso Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, si aprono tante diverse "offerte penitenziarie" che possono rendere la galera più o meno drammatica e pesante. Per tanti differenti motivi che vanno dalla stato di salute degli istituti all’igiene, dalla disponibilità di lavoro interno alla scuola, dalla presenza o assenza del volontariato, dalla magistratura di Sorveglianza al responsabile della custodia, dalla direzione all’ufficio educatori. Senza scordare il cappellano che talvolta illumina la pena, ascoltando le persone, aiutando le famiglie con lo spirito sollecitato da San Paolo: - Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere ...- Pare strano ma anche nell’assegnazione a un carcere piuttosto che a un altro ci vuole fortuna.
In Svizzera con Mario
La Svizzera è divisa in "cantoni", simili alle nostre regioni: quello tedesco, quello francese, quello romancio e quello italiano. In materia di trattamento penitenziario sono autonomi. Io ho vissuto la mia esperienza nella regione ticinese, cioè quella italiana... Una volta varcata la soglia del carcere, non esiste, salvo casi rarissimi, possibilità di una scarcerazione prima del fine-pena. I casi di assoluzione sono quasi impossibili. Le pene sino a sei mesi si possono scontare nella propria abitazione, con l’obbligo del lavoro e il controllo tramite braccialetto elettronico. In alternativa la stessa pena può essere scontata, previo accordo, durante i periodi delle ferie per preservare il posto di lavoro. All’ingresso in carcere: il colloquio con il direttore All’ingresso in carcere, dopo le formalità di rito, ogni detenuto ha un colloquio con il direttore, con l’assistente sociale e viene sottoposto a visita medica. Sono a carico dell’assistente sociale, cioè del servizio, i costi per eventuali telefonate ai familiari nel caso di una persona che non abbia i soldi per pagarsele. La stessa assistente sociale si occupa anche di organizzare vitto e alloggio gratuiti per familiari dei detenuti in caso di eventuali permanenze sul territorio poiché le sei ore di colloqui mensili sono cumulabili. I colloqui sono liberi per chiunque, si svolgono in un ambiente accogliente oppure in giardino dove sono predisposti giochi per i bambini, costruiti dagli stessi detenuti. Qualsiasi detenuto viene settimanalmente chiamato per un colloquio dall’assistente sociale.
Risposte scritte entro quarantotto ore
Ogni domandina scritta riceve risposta scritta entro quarantotto ore, comprese le lettere inviate alla direzione. Il direttore dell’Istituto concede udienze settimanali con chiunque e con regolarità. Ogni detenuto riceve un regolamento in diverse lingue nel quale sono indicati diritti e doveri. Il lavoro durante il periodo di carcerazione è obbligatorio dal momento dell’entrata in carcere. Le lavorazioni interne di legatoria, assemblaggio elettrico, giocattoli, falegnameria, lavanderia riescono a impiegare tutti i detenuti. Ognuno riceve un "peculio" di circa 250 euro mensili di cui un terzo rimane bloccato sino alla scarcerazione. Chiunque frequenti corsi scolastici viene retribuito come un lavorante.
Le ore di aria e di sport con sezioni in comune
Le ore di aria e di sport si svolgono nel perimetro del campo di calcio con sezioni in comune. Lo sport è concesso quattro volte la settimana dopo le ore lavorative. Anche l’uso della palestra attrezzata è di libero accesso a tutti anche nei giorni festivi, durante i quali vengono organizzati tornei di calcio. Ogni sezione ha il suo agente di servizio che provvede alle richieste telefonicamente e provvede alla distribuzione dei farmaci. Si possono effettuare due telefonate settimanali a qualsiasi orario.
Celle aperte e cucina in comune
Ogni detenuto ha una cella singola, può acquistare un televisore, un computer, una chitarra e generi alimentari nello spaccio interno. Le celle rimangono sempre aperte, salvo nell’ora del controllo conta. Le docce sono aperte fino alle 23. I detenuti hanno a disposizione in ogni sezione una cucina grande con forno, frigorifero e freezer e una sala ricreativa in comune con la televisione.
La liberazione anticipata e i permessi
La liberazione anticipata è pari a un terzo della pena per chiunque abbia avuto un comportamento corretto e viene revocata nel caso di reato successivo commesso nei primi cinque anni seguenti. Viene concessa sempre puntualmente. I cittadini svizzeri, oppure stranieri domiciliati, hanno diritto al primo permesso di otto ore dopo aver scontato un terzo di pena, che il mese seguente raddoppia, il terzo mese triplica fino a raggiungere un tempo massimo di 58 ore. E così rimane fino al fine pena. Gli stranieri, invece, hanno il primo permesso soltanto a metà pena con il medesimo meccanismo che viene puntualmente applicato. E per puntualmente si intende dire "con assoluta puntualità" come da elvetica tradizione. Per quanti non hanno diritto a benefici di permessi premio, è stata creata una struttura interna, ossia un appartamento composto da soggiorno, camera da letto, bagno ove poter trascorrere, ogni due mesi, sei ore con la propria famiglia con pasti a modico prezzo. Questo, comunque, dopo aver trascorso almeno un anno di pena.
L’accompagnamento del servizio sociale per casa e lavoro
Allo scadere della metà pena qualsiasi detenuto viene trasferito nella sezione semi-liberi e gli viene trovato un lavoro e uno stipendio adeguato. Quando manca un’opportunità di lavoro esterno, c’è la possibilità di svolgere dei lavori di giardinaggio e di pulizia nel perimetro esterno del carcere. È compito dell’assistente sociale la ricerca del lavoro per ogni detenuto. Qualsiasi detenuto scarcerato sarà accompagnato da un assistente sociale in permesso, prima del suo fine pena per trovare un’abitazione in affitto a spese dell’istituzione per un tempo determinato.
Mario Visintin
In giro per l’Italia del nord con Benjamin
Quando una persona entra in carcere ha bisogno di conoscere le regole che lo governano. Cosa sono le regole? Sono ciò che tu devi o non devi fare e sono necessarie soprattutto in quei luoghi, come la prigione, dove ci sono due o più persone che non parlano la stessa lingua e, nella fattispecie, ora ce ne sono più di 300 di diverse culture e religioni. Persino in una cella dove vivono due persone si trovano delle regole da seguire in modo tale da rendere possibile la convivenza. Mi chiamo Benjamin Ouyekwelu, sono extra-comunitario e mi trovo in carcere da quasi 5 anni. Prima sono stato detenuto a Modena, poi a Busto Arsizio e alla fine sono arrivato qui a Piacenza. È vero che il carcere è sempre il carcere ma posso assicurarvi che esistono strutture in cui si vive meglio che in altre.
Modena Busto-Arsizio
Per esempio a Modena, quando arrivi, per prima cosa ti presentano all’educatore che ti istruisce sul comportamento da tenere in carcere e, allo stesso tempo, ti aiuta a risolvere i problemi immediati. Infatti, in quel carcere, l’educatore è l’intermediario tra detenuti e agenti. Se fai una richiesta per poter parlare con l’educatore, non passano più di 2-4 giorni per avere un colloquio con lui. In questo modo i detenuti riescono a familiarizzare con i loro diritti e doveri. Mi ricordo quando ero a Busto Arsizio gli educatori si presentavano anche in classe per vedere come andavano le cose e avevano parole di conforto per coloro che hanno anche il problema della lingua.
Benjamin - Nigeria
Da un carcere del sud
Carissima, non puoi sapere che piacere mi ha fatto il tuo telegramma. Sei stata la prima persona a farmi sentire bene. Sai, ora un po’ sto bene ma se tu potessi vedere questo posto moriresti. Siamo dodici in una stanza e la sporcizia che c’è non immagini; credimi si sta veramente male. C’è gente così povera e gente abbandonata dalla propria famiglia, che pena che mi fanno! Io gli dò quello che posso, non riesco a non dividere quello che ho. Sai, dopo otto mesi ho visto mio figlio (ndr il figlio è in carcere in attesa di giudizio ma lei non poteva vederlo perché era agli arresti domiciliari in attesa di sentenza). Che emozione e quanto ho pianto! Sai, qua ci vediamo coi maschi solo in chiesa ma, se ti vedono che guardi, ti fanno rapporto. A mio figlio l’ho visto quando siamo usciti dalla chiesa e mi chiamava e mi diceva di stare tranquilla ma, come tu sai, io amo così tanto questi figli che in quel momento volevo morire ma mi devo fare forza e penso che prima o poi tutto questo finirà Ho parlato tanto di te ai ragazzi e ci sembra impossibile che una giornalista possa entrare in carcere e pubblicare delle storie di noi stessi. Sai, questa gente ha bisogno di credere a qualcosa; la maggior parte sono con 20 anni di condanna tutti per omicidio, però fanno tanta pena. Questa volta la mia esperienza è ancora più grande vedendo tante giovani ragazzine con pene così lunghe e la vita spezzata, e poi penso ai miei figli e cerco di passare quanto meglio posso le mie giornate. Scusa i miei errori, ti voglio bene e ti mando un grosso bacio
La tua pazza amica R.
La prima notte... in galera
All’improvviso la vita si ferma e il tempo resta bloccato in una cella chiusa, blindata. Abbiamo provato a chiederci cosa si prova. Non è stato facile ma forse queste quattro voci possono dire qualcosa di più sul carcere e sulla separazione tra un prima e un poi che cambia tutto. Cercare di capire è molto importante per evitare parole inutili che non costruiscono nulla, riescono solo a ferire persone già sofferenti e ad allargare il solco tra un dentro recluso e un fuori che ignora.
Pensieri sensazioni paure angosce
Con il passo rassegnato, in una mano il sacco nero e nell’altra quello che mi resta, svuotato in ogni forza, di ogni senso, di ogni cosa, mi lascio accompagnare, come un’ombra, nel serraglio dei cancelli arrugginiti e delle porte chiuse di uno zoo umano ridotto all’agonia che elabora mille strategie per riuscire a non soffocare. Si respira disordine mentale, un’atmosfera tesa, surreale, senza cordialità. Quando arrivo la sento subito nell’aria, un senso di minaccia a cui non posso sottrarmi. Avvolge anche me, mi circonda, agisce come un’inquietudine o come un’infezione, si insinua dappertutto. La mia testa vorrebbe allontanarsi, divagare, nell’idea impossibile di diventare in qualche modo indipendente, ma è tutto inutile perché ogni forza mi abbandona.
Mani che ti frugano
Non si può parlare di umiliazione quando non puoi impedire ad altre mani di frugarti addosso: è qualcosa di molto peggio, allontana i sentimenti. Mentre, sospeso nella mia ansia, aspetto non so bene cosa, un odore misto di muffa e cemento mi accoglie e si fa largo nei polmoni, tra ruggini e tinte insensate sovrapposte male, quasi ad indicare che qualsiasi vergogna qui non si potrà mai cancellare, non si dovrà più dimenticare. È una trama complicata, un labirinto arrugginito, che unisce in tante croci file enormi di sbarre. Come preda nella rete ti chiedi se potrai esistere ancora, se saprai resistere, se riuscirai mai ad aiutare le cose a ricomporsi in modo normale. Quanto dovrai aspettare prima che un giorno quello che c’è di sbagliato in te si dissolva; forse nei simboli di queste croci arrugginite scomparirai anche tu.
È tutto vero: sono prigioniero
Immaginarlo è al di fuori delle mie forze; il mio cuore adesso trema e mi spinge contro un nuovo muro. Non appena riesco a raggiungere un respiro un po’ più ampio, c’è sempre una nuova porta che mi sbarra il cammino e mi richiude in quella successiva e in un’altra ancora, e poi un’altra, inventando nuovi labirinti, altre serrature che mi incatenano gli occhi e mi impediscono di ragionare, come incubo, un sogno maledetto da cui vorrei svegliarmi, vorrei uscire. "Sto sognando" mi dico, "sto solo sognando, " nel mio cuore un confuso presentimento.. "Adesso mi sveglio in un’altra dimensione..". E invece no! È tutto vero; "sono prigioniero".. Una ad una devo attraversare tutte le sette porte che conducono il mio batticuore in una tragedia maledetta in un teatro in ferro, freddo, innaturale.
Intorno a me ci sono gli altri
Intorno a me ci sono altri; facce sdentate, teste rasate, improponibili acconciature, aggrappati e allineati, vestiti male; sembrano maschere di tristezza in un girone assurdo. Stanno così, in un labirinto di mormorii e di urla improvvise, mortificati nella loro solitudine senza onore, sprecano e imprecano sputi e maledizioni che rimbalzano come echi tra questi muri e creano confusione. Ma è solo gente come me che combatte le proprie confusioni; troppi sospiri, troppi rancori. Aspettano che qualcuno li chiami, che qualcuno li ascolti, che qualcuno si ricordi di loro; forse hanno perduto tutto, gettati alla svelta in questo tempo senza interesse. Ma per capire meglio bisogna percorrerli questi labirinti vuoti, ascoltarli quei sospiri, guardarli meglio e da vicino questi muri.
Siamo in tanti, siamo troppi
Siamo in tanti, siamo troppi, come talpe in poco spazio, aspettando il nostro destino. È difficile descrivere la rassegnazione con cui tutti aspettano tutto in questo posto dove tutti diventano nessuno. È ancora più difficile vedersi come si è.. Tra l’emozione e l’attesa, la speranza è un salto abissale. Qui c’è il niente in sequenza di niente, ma è tutto normale. Disperazione è la sensazione precisa; disperazione e rassegnazione; la stessa che provo oggi mentre scrivo queste parole. Resto così, resto distratto, finché raggiungo l’ultimo passo della mia triste traiettoria, varcando il capolinea dell’ultima soglia: una cella dedicata a me, una come tante.
Dentro di me non c’è tregua
Ma dentro di me non c’è tregua, non c’è pace; come se qualcosa stesse rosicchiando lentamente la mia anima. Una specie di interferenza sistematica mi costringe a continue illusioni e mi sembra che tutto sia definitivamente fermo, chiuso insieme a me in un tempo inesistente. Resto murato in una solitudine, quella vera, che conosciamo solo quando non ci sono più parole. Intuisco la calma dei ciechi; i tempi lunghi, dilatati. Mille domande mi bruciano in bocca senza che mi riesca di farle. È qualcosa di atroce, una preoccupazione costante che nasce dal peso di questo vuoto. Arriva la sera e non riesco a dire niente, a fare niente. Ho parlato tutto il giorno senza aprire bocca. Dentro di me pare tutto morto, finché la tentazione di gridare con tutto il fiato è così forte che la mia voce non riesce più a stare ferma, deva andare. Carica fino alla vertigine, incomincia a ingrossarsi, a salire, talmente forte fino a farmi male, come se da sola potesse squarciarmi e fuggire. E siccome non sono muto, improvvisamente quella esce; esce senza più controllo.
È una voce brutta, che neanche sapevo di avere
Ed è una voce brutta, che neanche sapevo di avere, che non riconosco. E più grido forte, più non ci capisco niente; non si vuole fermare, sputa contro tutto e contro tutti, è più forte di me, deve andare. Devo lasciarla andare, libera di impazzire, libera di gridare.Fino a quando, ansimando, il mio sogno insensato si infrange, "ma è solo un sogno" mi dico, "è solo un sogno, adesso mi sveglio in un’altra dimensione".
Mario Visentin
La mia prima volta in galera
Sono appena entrato in carcere e adesso? Ho chiesto cosa devo fare, come e quando. Non so come dire ai miei che sono qui, nessuno mi ha chiesto se voglio fare una telefonata o scrivere una lettera. Non conosco le regole carcerarie e nemmeno con chi devo parlare per sapere qualcosa. Non ho shampoo, bagno schiuma o asciugamani, spazzolino per i denti, dentifricio, altri vestiti per cambiarmi. Come posso imparare questa lingua che non conosco, ho bisogno di comunicare e anche voglia di imparare. Sono straniero e non mi posso far capire. Sono sotto pressione, non posso fare o dire niente per essere capito. Ho bisogno di sapere ma nessuno mi dice nulla. Sono in carcere da una settimana e ancora non so nulla. Mi arrivano tanti dati, tanti dati da altri detenuti, gentili, che sono passati per la stessa situazione prima di me. Non ho soldi, vorrei scrivere a casa ma come faccio; non ho neanche l’indirizzo del carcere. Non è un film, è tutto reale ma. Manca ogni informazione e devo adattarmi a questa nuova eventuale forma di vita. Non so come riempire i moduli per chiedere quello che mi serve. Magari avessi il "manuale" del detenuto straniero o il "manuale avanzato" del carcere. Assistente sociale, educatrice, psicologa.ma come faccio per vederle? Ci sono ma dovrei sapere come chiamare alla loro porta no? Aiuto!
Jaime-Spagna
Un giorno per la tua felicità
Il 20 novembre 2004 per la prima volta entro in un istituto di pena. L’istituto è quello di San Vittore a Milano. Dopo aver passato una notte in questura, sono curioso con un po’ di angoscia di vedere come è fatto e strutturato internamente un carcere. Dopo le varie prassi di impronte digitali e foto, verso le 18,30 mi accompagnano nel raggio che mi hanno assegnato. Una volta arrivato, mi succede un fatto molto curioso. In quel periodo andava in onda uno spot pubblicitario della lottomatica con Fabio Fazio e la colonna sonora del gruppo musicale Paolo Belli che cominciava così: "Oggi può essere un gran giorno per la tua felicità". In quel momento nella cella 209 del IV° raggio, quella che mi hanno assegnato, appena l’agente apre il blindo e io entro, stanno mandando in onda proprio quella pubblicità! In un attimo passo dalla iniziale curiosità, a una tristezza incredibile! Certo non è proprio un gran giorno per la mia felicità! Questo è il fatto curioso che mi è capitato nella prima notte in carcere e sinceramente penso che non dimenticherò mai quell’entrata!
Nando
Sarà dura
Ho intuito subito che sarebbe stata dura. Dopo un’ora di solitaria attesa nei più profondi meandri di San Vittore, ne ho avuta la certezza. Terminate le necessarie formalità, mi hanno rinchiuso in una cella dicendomi: - Aspetta qui. - I primi sintomi della depressione non hanno tardato a manifestarsi. L’angoscia che mi assale non è più gestibile. Conosco già questa sensazione; l’ho ereditata dal noioso lavoro d’ufficio che ho portato avanti per anni. Di solito riesco a controllarla, questa volta no, la situazione non lo permette. Non chiedo aiuto, non voglio fare la figura del debole, spero solo che passi presto. Sembrerà strano ma, quando finalmente entro nella cella 411 del quarto raggio, sono quasi contento.
Tremendo
Carta canta e il detenuto... piange
L’illegalità
Perché il luogo preposto al rispetto delle sentenze della giustizia vive al di fuori della legge? Ora al di là dell’ironia, il punto è proprio questo. Ovvero che le carceri sono Istituti dello Stato. Istituti che dovrebbero essere luoghi di giustizia e di legalità e che invece giustizia e legalità non hanno. Se non fosse grave, perché riguarda un potere sovrano dello Stato, mi piacerebbe definire paradossale che in luoghi come le carceri, che sono preposti all’esecuzione di provvedimenti emessi da un giudice italiano e pronunciati in nome del popolo italiano, regni invece il non rispetto della legge, il non rispetto della persona. Se poi non fosse irriverente, perché sono l’ultimo arrivato, mi piacerebbe domandare ma che senso ha predisporre "sulla carta" un giusto processo se poi la pena che ne consegue è eseguita in modo illegale? Come dire: processo giusto e pena ingiusta? Della serie: ci limitiamo a salvare la faccia? Quando l’imputato detenuto è in tribunale può assistere all’elegante ortodossia del processo ma finito il rito lo si ributta in una cella zozza e sovraffollata? Scuserete le molte, forse troppe, domande scritte nel giorno del debutto di Radio Carcere sul Foglio. Ma il motivo di queste domande sta nel fatto che Radio Carcere non si presume soluzione, ma piattaforma di discussione circa un potere sovrano dello Stato come il carcere e la giustizia penale, che ne è la necessaria premessa. Radio Carcere, già in onda su Radio Radicale e ora in forma scritta sul Foglio (forse siamo contagiosi), intende accendere un faro su quel mondo buio popolato da imputati e detenuti senza nome e vive nella prospettiva (oggi poco alla moda) di trattare un tema così importante non costretta dai vincoli delle contrapposizioni politiche ma tenendo salda la priorità di un interesse comune. Quello della giustizia penale. "Che nessuno si senta assolto perché siamo tutti coinvolti" diceva Fabrizio De Andrè in una canzone. Sarà immeritato per noi scomodare De Andrè, ma in questa frase c’è l’intento di Radio Carcere.
Riccardo Arena, dal Foglio 14 maggio 2005
Per esempio...
Il regolamento penitenziario è un testo di ben 117 pagine composto da: titoli, capi e articoli. Questi dettano diritti e doveri di noi detenuti e stabiliscono i compiti dell’Amministrazione; sono presenti anche alcuni ingarbugli burocratici ma fortunatamente non ci toccano direttamente. Leggendolo con attenzione, ho individuato alcuni punti che meritano di essere discussi perché, a mio parere, non ne viene rispettato il contenuto. Li citerò in modo chiaro e sintetico, critico ma non polemico. L’articolo 25 dice che in ogni istituto penitenziario deve essere affisso l’albo degli avvocati in modo che i detenuti possano prenderne visione. C’è poco da dire: nelle sezioni non c’è e mi risulta non esserci mai stato. In genere le informazioni riguardanti gli avvocati vengono date dai familiari di chi, fortunatamente, fa i colloqui; da fuori è sufficiente sfogliare le pagine gialle o consultare la Telecom e il gioco è fatto. L’articolo 27 riguarda l’osservazione della personalità; in pratica quest’articolo afferma che l’osservazione della personalità è diretta all’accertamento dei bisogni del detenuto. Dopo aver acquisito i dati giudiziari, penitenziari, clinici, psicologici e sociali, ha inizio l’esecuzione dell’osservazione. Attraverso l’esame del comportamento si dovrà formulare un programma di trattamento che verrà compilato entro il termine ultimo di nove mesi. Credo si possa affermare senza paura di essere smentiti che l’argomento trattato è uno dei più importanti dell’intero testo. La mancata chiusura dell’osservazione, alias "sintesi", impedisce la richiesta di qualsiasi beneficio previsto dalla legge. I permessi-premio, la semi-libertà, l’affidamento in prova vengono negati dai magistrati quasi esclusivamente per lo stesso motivo: manca la relazione del carcere. Mi chiedo come sia possibile che un detenuto che ha trascorso in carcere ben più dei nove mesi necessari per l’osservazione, non abbia ancora la chiusura della stessa. L’articolo 35 affronta i problemi dei detenuti stranieri. Dice così: devono essere favorite le possibilità di contatto con le autorità consolari del paese di provenienza e inoltre deve essere agevolato l’intervento dei mediatori culturali. La quasi totalità dei detenuti non conosce i propri diritti, figuriamoci l’articolo 35 del codice penitenziario. Sono in balia degli eventi e aspettano il fine pena.
Articolo 94: Assistenza alle famiglie
Deve essere fornito alle famiglie dei detenuti sostegno morale senza trascurarne i problemi pratici e materiali. I punti salienti dell’articolo sono questi ed è difficile discuterne i contenuti con distacco. Sappiamo tutti che, quando si finisce in galera, il prezzo più alto lo pagano le nostre famiglie che si scoprono forti solo perché da soli bisogna esserlo. Questo lo imparano molto presto perché fuori in realtà non c’è nessuno che li aiuti, nonostante l’articolo 94.
No comment
Repubblica on-line, 18 giugno 2005
Il ministro delle Riforme Roberto Calderoli, riferendosi al giudice che ha concesso il permesso ad Adriano Sofri, dice: "Quando saprò chi è stato almeno saprò con chi prendermela. Per chi si rende responsabile di delitti così atroci come quello attribuito a Sofri c’è un’unica pena: metterlo in una cella e buttare via la chiave per tutta la vita, altro che grazia a lui o a Bompressi". "Se proprio gli si vogliono dare due giorni, al posto che i domiciliari, gli si mette un bel pigiama a righe con tanto di palla al piede e li si mette per due giorni a fare manutenzione sulle pubbliche strade a ripagare per quello che hanno fatto", conclude.
Per non perdere anche la testa
E, purtroppo, non si tratta di una facile battuta. Il carcere fa danno. Questo vedono i nostri occhi, anno dopo anno. Il solo tempo positivo all’interno delle mura, è quello trascorso a scuola, al lavoro, nei rari colloqui con familiari o con gli operatori, con il cappellano o con ministri di culto ove ci siano e siano disponibili. Il resto è noia, abbandono, chiacchiere vuote che raramente superano il confine della propria vicenda penale o delle più trite banalità Le offerte lavorative e formative all’interno della prigione valgono il doppio. Anche se, soprattutto queste ultime, non sono facili da proporre e realizzare perché spesso l’ozio e la pena hanno talmente deprivato le persone da far sì che preferiscano il rifugio della branda ad attività in cui, comunque, devono riattivare il pensiero, svegliare sentimenti ed emozioni. I due brevi contributi che seguono si riferiscono a due attività promosse dal Centro Territoriale Permanente "Italo Calvino" che da diversi anni è presente all’interno della Casa Circondariale di Piacenza con attività formative sempre in crescita ed evoluzione: dal corso di alfabetizzazione curato dalla dott.ssa Pinuccia Montanari, alla scuola media per detenuti comuni, a un corso di scolarizzazione con insegnanti volontari per i detenuti della sezione "protetti". Il CTP "Italo Calvino" è diretto dal professor Rino Curtoni.
Corso di informatica alle Novate
L’attività di questo laboratorio, che coinvolgerà due gruppi di cinque persone detenute nella sezione "protetti", è partita da pochi giorni. Il docente, ingegner Giorgio Borella, è alla seconda esperienza nel carcere di Piacenza ed è entusiasta di riprendere il suo volontariato con le persone recluse. "Ho lavorato con loro anche lo scorso anno e posso dire di non aver sentito per nulla il peso di queste ore trascorse in carcere". Il corso ha una durata prevista di 30 ore per ciascun gruppo e si ripropone di trasmettere competenze di hardware, software e sul sistema di disegno CAD. In particolare quest’ultimo capitolo formativo, che è risultato molto interessante per i partecipanti al corso del 2004, è stato realizzato grazie alla generosità dell’azienda Nemetschek che ha prestato il software Allplan del CTP "Italo Calvino". Quest’anno l’azienda che ha sede a Trento ha raddoppiato il proprio impegno, permettendo al professor Borella di lavorare con più persone sul sistema CAD. Così scrive un partecipante straniero al corso 2004, rivolgendosi al dirigente scolastico prof. Rino Cartoni: - Il corso è stato troppo breve; il computer prima non era di mia conoscenza poi il corso mi ha permesso di fare piccoli passi avanti però avrei bisogno di soffermarmi più a lungo su certi argomenti.
Quando un adulto legge per la prima volta
Da sette anni svolgo la mia attività di insegnante elementare con studenti "speciali", speciali in quanto adulti ma soprattutto perché detenuti. Le forti emozioni spesso contrastanti che si erano attivate in me all’inizio di questa esperienza, hanno iniziato a sedimentarsi per lasciare spazio ad una maggiore riflessione. Se degli anni trascorsi con i bambini ricordo l’entusiasmo, lo stupore e la vivacità, ciò che mi ha colpito maggiormente in questa esperienza, a volte molto faticosa, è la gratitudine che spesso ho ricevuto dai miei "ragazzi" che mi ha motivato a rimanere anche quando l’idea del trasferimento sembrava delinearsi con più determinazione dentro di me. Raccontare di questi anni, di tutti gli studenti, delle loro storie così diverse e così uguali aprirebbe uno scenario molto vasto, sia dal punto di vista didattico che relazionale, per cui restringo il campo sull’attività con i ragazzi analfabeti, ancora oggi numerosi, italiani e stranieri. È questa un’esperienza ancora oggi per me molto coinvolgente ed emozionante. È vero che i bambini e gli adulti imparano a leggere attraverso lo stesso percorso, ma ciò che, a mio avviso, determina la linea di confine tra l’apprendimento degli uni e degli altri, è la consapevolezza dell’evento che negli adulti è presente. Riconoscere una lettera, attribuire un suono, leggere la sillaba e poi la parola mobilita nell’adulto una soddisfazione ed un’emozione che ogni sono anche mie. Imparare a leggere e a scrivere in età adulta è, a mio avviso, sul piano simbolico una nascita, un portare alla luce un potenziale positivo, represso nell’infanzia da condizioni sociali deprivate e deprivanti. Insegnare agli adulti significa allora aiutarli ad appropriarsi di un diritto, un tempo negato e che una volta raggiunto, non può più essere mortificato.
Pinuccia Montanari
La redazione ringrazia
Il nuovo comandante dell’Istituto dottor Ferdinando Piccini ha fatto già due visite alla redazione di Sosta Forzata e la sua attenzione è stata molto apprezzata. In particolare nella più recente occasione si è parlato della possibilità di istituire la commissione di detenuti prevista dall’art.59 del DPR 2000 che tratta delle attività culturali, ricreative e sportive. I programmi delle attività culturali, ricreative e sportive sono articolati in modo da favorire possibilità di espressioni differenziate. Tali attività devono essere organizzate in modo da favorire la partecipazione dei detenuti e internati lavoratori e studenti. I programmi delle attività sportive sono rivolti, in particolare, ai giovani; per il loro svolgimento deve essere sollecitata la collaborazione degli enti nazionali e locali preposti alla cura delle attività sportive. I rappresentanti dei detenuti e degli internati nella commissione prevista dall’articolo 27 della legge sono nominati con le modalità indicate dall’articolo 67 del presente regolamento, nel numero di tre o cinque, rispettivamente, per gli istituti con un numero di detenuti o di internati presenti non superiore o superiore a cinquecento unità. La commissione, avvalendosi anche della collaborazione dei detenuti e degli internati indicati nell’articolo 71, cura l’organizzazione delle varie attività in corrispondenza alle previsioni dei programmi. Le riunioni delle commissioni si svolgono durante il tempo libero. Nella organizzazione e nello svolgimento delle attività, la direzione può avvalersi dell’opera degli assistenti volontari e delle persone indicate nell’articolo 17 della legge.
La persona che ammiro di più
Mio padre, il mio idolo
Devo dire che non sono un gran scrittore ma la storia che racconto mi è venuto semplice scriverla. Perché è la storia di un grande uomo, del mio idolo. Tutto ha inizio nel 1987; io ho appena 7 anni. Abito con i nonni in un paesino in provincia di Bergamo. Mamma lavora a Milano e papà non l’ho mai visto; cioè, mi correggo, ero stato a Bruxelles con lui ad abitare per due anni ma ero troppo piccolo per ricordarmelo. Dopo quel periodo papà era tornato in Camerun per la morte del grande papà ed era rimasto bloccato lì per quasi cinque anni.
Un grande uomo nero
Un bel giorno come tanti torno da scuola e mi trovo davanti un grande uomo nero. Vi chiederete perché dico "un grande uomo nero"; dico così perché era semplicemente la prima volta che vedevo un nero, un nero puro, un nero scuro come il carbone. Lo guardo a lungo. Prima d’allora gli unici neri che avevo visto erano i calciatori in televisione o le foto di lui che mi faceva vedere la mamma. Che bel momento! Mi aveva anche portato una macchina telecomandata; ero felice. Purtroppo, però, i bei momenti non durano a lungo. Presto andiamo ad abitare nel centro di Bergamo; io, papà e mamma. Papà è molto severo, ride poco, in casa c’è spesso nervosismo mentre io, cresciuto con i nonni e gli zii, ero abituato alle coccole di tutta la family. Oltretutto ero il primo nipote, per giunta maschio e nero, ero un casinista e nessuno mi diceva mai niente; insomma stavo crescendo come un viziato.
Due schiaffi indimenticabili
Ma papà ci mise pochissimo a raddrizzarmi. Ricordo ancora, come se fosse oggi, due occasioni in cui ricevetti uno schiaffo che stava, poi, per una lezione di vita. Una di quelle volte gli dissi: - Cattivo! - ma, non feci quasi a tempo a finire la parola, che mi arrivò uno schiaffo duro. Che botta! Regola numero uno: mai rivolgersi in modo poco educato alla family e soprattutto a papà. L’altra occasione che ricordo è che si trattava di fare una semplice commissione. Avrò avuto circa otto o nove anni, eravamo piuttosto poveri e non c’era da scherzare. Quel giorno papà mi diede dei soldi per comprare il pane, esattamente dieci panini. Io ne comprai, invece otto e, in più, durante la strada del ritorno, ne mangiai due. Arrivai a casa con sei panini, papà mi guardò e bum. Che ko quel giorno! Ricordo che, mentre la mamma gridava, lui mi guardò e disse: - Non sei solo in casa, siamo in tre a dover mangiare! Aveva ragione lui; io avevo fatto un brutto gesto e quel giorno mi diede un’altra lezione.
Tanta fatica e pochi soldi
Devo precisare, però, che papà non è mai stato un manesco: uno schiaffo ogni tanto al proprio figlio mi sembra quasi dovuto. Ritornando a noi, passavano gli anni e papà aveva iniziato a lavorare nella ditta in cui lavora tuttora. Ma la sua vita era dura; non vedeva la famiglia da tempo, suo fratello di sangue in Camerun aveva da scontare una lunga carcerazione e qui in Italia, e a Bergamo in particolare, all’epoca di neri non ce n’erano. La gente era, e forse lo è ancora, molto chiusa. Lui che era abituato alle grandi città Paris - Lyon - Bruxelles - Berlino, lui che non aveva mai abbassato la schiena, lui che quando mi faceva vedere le sue foto all’estero, gli brillavano gli occhi, sempre vestito bene, circondato dai paesani suoi, una grande casa, la mamma che sembrava una star. Io capivo che, a quell’ epoca, i miei dovevano vivere bene, sempre felici. Mentre al momento in casa c’era solo tensione, soldi non ce n’erano proprio, bastava soffiare sul tavolo per farli volare via tutti. Senza cash è dura e duri erano quei tempi ma il grande uomo non mollava e io mi chiedevo: - Chi glielo fa fare al papà? - Che domande stupide!
Senza paura, con onore
Devo dire una cosa, però: non c’è mai stata una volta che fossi arrabbiato con lui, non potevo permettermelo, sarebbe stato ingiusto. Gli anni passavano e io e papà ridevamo sempre di più, man mano arrivava l’armonia, senza accorgercene eravamo diventati amici e ora siamo fratelli, sempre con il giusto rispetto che si deve portare al proprio papà. A distanza di anni, penso spesso a quanto è stata dura la vita per lui, ma l’ha affrontata con la schiena diritta, senza paura, con onore. Ho solo un’ultima cosa da dirvi: io ho un sogno, divenire un grande uomo come mio papà che per me è un idolo!
Nasser
Il carisma di mia madre
Senza alcun dubbio la persona che è stata per me un punto di riferimento e ha contato di più è stata mia madre. Lei aveva un carisma e una verve insuperabili e aveva una gran voglia di vivere. Mi ha insegnato moltissime cose di cui oggi vado fiero; l’educazione, il buon senso, lo stile. Era una persona fantastica; non riuscivo a nasconderle nulla. Nelle difficoltà mi ha sempre aiutato facendomi vedere la maniera giusta con cui affrontarle. Senza esagerare ritengo che fosse un bel faro pieno di luce per me e per tutti quelli che la conoscevano. Ha attraversato la mia vita nel modo più bello e interessante dandomi tutto ciò che di meglio un figlio si può aspettare da sua madre. Purtroppo solo per poco tempo. L’ho persa all’età di sedici anni in un incidente stradale e non è riuscita a insegnarmi a diventare uomo; quindi, rifacendomi ai ricordi, a come era fatta, a come la pensava, ho cercato di immaginare come si sarebbe comportata in certe circostanze e all’inizio mi è servito molto ricordala, specialmente nel mio lavoro di artista di strada. Cercavo il centro dell’attenzione e pensavo a mia madre, a come si sarebbe posta davanti a un pubblico immaginario e… tac! Subito l’ispirazione!
Non ho versato una sola lacrima il giorno in cui è morta
Piango molto quando penso alla mia mamma e a quello che avrei potuto essere se ci fosse stata lei a proteggermi ma non ho versato una sola lacrima il giorno in cui è morta. Ho capito dopo quanto fosse importante e, incontrando il teatro, l’ho capito ancora di più. Sicuramente tutte le mamme sono così per i loro figli e credo che anche tu sia una madre eccellente per i tuoi figli (ndr e naturalmente ringrazio di cuore) ma la mia mamma era davvero speciale. Ora che mi trovo chiuso qui dentro non riesco a pensare cosa avrebbe fatto lei al posto mio e so anche di non essere stato quello che lei voleva. Ma ora basta, niente più lacrime, sarebbe come piangere su me stesso e questa è la cosa peggiore che un uomo possa fare. Ho una grande salita da affrontare, una salita nella quale non ci si può fermare, una salita che non si può affrontare piangendo o facendosi aiutare da qualcuno perché questa è la mia salita e, se penso a mia madre, sono convinto che anche lei sarebbe d’accordo. Non so se ce la farò o perlomeno non lo so ancora ma so che devo riuscirci per me e per lei e questa è l’unica ragione che mi tiene in vita qui in carcere. Anche se so che, se ci fosse stata lei, non ci sarei mai finito e so che non è affatto contenta di me e questa è la cosa che più di tutte mi fa male. Penso che se è vero quello che ci insegna la nostra religione, quando morirò la incontrerò di nuovo.
Enrico
Mia madre: una persona su cui contare
Premetto che "provo" molta difficoltà quando si tratta di parlare di argomenti che mi riguardano, comunque cercherò di fare del mio meglio. Dei primi anni di vita ho solo ricordi confusi perché ho cercato, volutamente, di cancellarli visto che in quel periodo mi trovavo in un paese del quale faccio fatica persino a pronunciare il nome. Una volta in Italia, ho occupato il tempo a imparare l’italiano e il dialetto di Brescia perché, parlando solamente il francese mi sentivo un po’ come un "diverso". La figura a cui mi sono ispirato da bambino fino all’età adolescenziale era quella di mio padre con cui avevo un rapporto di amicizia e complicità; appena potevo, infatti, lo seguivo al lavoro nei suoi viaggi internazionali col camion e ammetto di averne nostalgia quando mi capita di tornare con la mente a quei momenti in cui mi sentivo veramente felice. Col passare del tempo, raggiunta una certa libertà, seppur giovanissimo, più che un vero e proprio punto di riferimento, rincorrevo degli ideali che poi mi hanno portato dei problemi come la tossicodipendenza e, di conseguenza, il commettere reati e ritrovarmi spesso in carcere.
Le mie strambe idee mi hanno portato dei problemi
Con il senno di oggi riconosco che molte delle mie idee erano "solo" strambe. In questi ultimi anni ho recuperato il rapporto con mia madre con cui sono sempre stato in contrasto per via della diversità di pensiero. E il contrasto era dovuto al fatto che mettevo in discussione tutti i valori morali che lei cercava di trasmettermi e che, comunque, ho dentro, consciamente e ripetutamente repressi attraverso le esperienze vissute.
Grande stima per la mia mamma
Da parte mia ora so, ma forse ho sempre saputo, e non ho mai voluto ammetterlo nemmeno con me stesso, la grande stima che nutro per mia madre perché è una donna veramente speciale, con una grande forza interiore e per chi la conosce, una persona su cui poter fare affidamento. Non vorrei essere troppo severo con me stesso, ma penso di avere per lei una positiva invidia, per la persona che ha saputo essere, per la serenità con cui è sempre riuscita a superare gli ostacoli che ha incontrato. Per il futuro la mia speranza è quella di poter attingere da lei come da un pozzo inesauribile e continuare con quel bellissimo rapporto di confronto che abbiamo saputo instaurare.
Anonimo
Raccontare il carcere, raccontare le persone
Martedì 19 aprile alle ore 17,30 presso l’Auditorium dell’Università Cattolica del Sacro Cuore il carcere ancora una volta ha incontrato la città su un tema che tocca molto da vicino il nostro lavoro di redazione: "Raccontare il carcere, raccontare le persone". Nel caso specifico, raccontare e raccontarsi con un impegno che spesso ci avvicina, seppur piccoli e giovani, alla tradizione delle scritture autobiografiche con tutti i significati che la "scrittura di sé" contiene. Il bisogno di mettere insieme piccoli tasselli della propria vita, il bisogno di fissare su carta ciò che non è chiaro neppure a noi stessi, il bisogno di raccontarsi, di essere vivi per se stessi e per gli altri. Altri che spesso non hanno un volto conosciuto, ma ci sono, leggono, riflettono sulle nostre parole. Occasione dell’incontro è la presentazione del libro "Parole oltre il muro" una raccolta dei racconti primi classificati nelle tre scorse edizioni del premio di scrittura riservato alle persone detenute nel carcere di Piacenza. Quattro gli ospiti per presentare altrettanti libri che parlano di carcere e dal carcere: Candido Cannavò che racconta come l’esperienza da cronista a San Vittore gli abbia arricchito la vita, Giorgio Porrà che coglie alcuni spunti dalla lunga chiacchierata con Adriano Sofri su calcio e carcere, Adriana Lorenzi che ripercorre i tratti salienti di un laboratorio di scrittura con le donne detenute nel carcere di Bergamo, infine Ornella Favero con alcune riflessioni tratte dal testo "L’amore a tempo di galera", antologia di scritti su tema dell’affettività reclusa. Sandra Ramelli e Romano Gromi impreziosiscono la serata con alcune letture tratte dai testi degli autori presenti. Tre gli interventi istituzionali: della dottoressa Caterina Zurlo direttore del carcere, dell’assessore ai servizi Sociali Leonardo Mazzoli che dichiara il proprio impegno per l’istituzione del Garante e infine del direttore di Svep Giuseppe Chiodaroli. Ci emozionano in modo particolare le parole calde e incoraggianti del professor Luciano Eusebi, docente di Diritto Penale e studioso di alto profilo. Tra il pubblico notiamo massiccia la presenza di insegnanti che operano in carcere, volontari di svariate associazioni, il nuovo comandante della Casa Circondariale Piccini, il vice-direttore dottoressa Anna Albano, le mediatrici culturali e alcuni operatori dell’area sanitaria. Molto apprezzate le parole di Nico Giampaolo e la testimonianza Antonio Mistri della redazione di Sosta Forzata: Mi chiamo Antonio Mistri e sono di Bergamo. Ho, purtroppo, una lunga esperienza di detenzione che mi ha portato a conoscere in profondità il mondo del carcere, con tutti i suoi aspetti e problemi. Vorrei raccontare del lavoro che facciamo nella nostra redazione che ha l’intento di informare e dialogare con il mondo esterno ma, soprattutto, aiutare le nostre menti a scrivere tutti quei sentimenti, emozioni e sofferenze con cui conviviamo. Tanti di noi nascondono le difficoltà che hanno nello scrivere e il dover raccontare le storie o vicissitudini personali, per pudore o mancanza di cultura di base, si rifiutano di comunicare...però noi ci proviamo e fa piacere se ci ascoltate. La casa circondariale ha due tipologie di detenuti; quelli in attesa di giudizio e quelli che espiano la pena. Quelli che espiano la pena sono la maggioranza e sono quelli che più hanno bisogno di trovare una collocazione nel tempo che devono trascorrere da reclusi. Soprattutto hanno bisogno di aiuto concreto, hanno necessità di lavorare all’interno perché, le poche opportunità esistenti, non bastano; tanti detenuti hanno bisogno di mantenersi ( o, addirittura, aiutare finanziariamente le proprie famiglie) e non tutti, se non coinvolti, sanno che siamo un costo economico ed è umiliante gravare sul già magro bilancio famigliare perché, nella quasi totalità, il ceto sociale è molto modesto. Per questo chiediamo al territorio piacentino e agli imprenditori un aiuto affinché aumentino le attività lavorative in carcere: per dare un senso alla nostra pena. L’aiuto lavorativo alla nostra comunità è un percorso importante per la giusta collocazione al nostro reinserimento. Inoltre ci toglie da questo ozio devastante che non fa altro che intorpidire le menti. Vi è, poi, l’aspetto dell’istruzione. La scuola è una grande risorsa e opportunità che ha aiutato tanti di noi a migliorare la cultura e la capacità di autocritica; è un aspetto fondamentale. Vi è, inoltre l’isolamento affettivo. Questo ci porta a deteriorare i rapporti con i famigliari e, particolarmente, con i figli. Esso ha bisogno di essere migliorato nei suoi aspetti applicativi, concedendo un po’ più di intimità, fondamentale nei rapporti con le persone a noi più care. Con la nostra redazione, con i nostri scritti, i nostri pensieri, i racconti vogliamo tenere aperto un dialogo al mondo esterno e con il nostro vicino territorio. Una nazione emancipata, non si stanca di offrire accoglienza, perdono e opportunità di un nuovo inizio; non mette in risalto né la colpa né la condanna, ma la reale possibilità di rinascere.
Antonio Mistri
La mia partecipazione al convegno: un commento a caldo
Una opportunità a cui tenevo tantissimo. Fino all’ultimo giorno non sapevo se la mia richiesta di essere presente sarebbe stata accettata, poi è arrivato il permesso; ci tenevo a dare il mio contributo come redattore del nostro giornale. Devo dire il convegno è andato bene, vi è stata una risposta positiva della città con una significativa presenza di pubblico. Vi erano anche tanti addetti ai lavori e la risonanza in termini di media stampa e televisioni locali è stata ampia. Un ottimo segnale, perché noi come redattori ci auguriamo che il nostro impegno serva a smuovere il territorio a far sì che le persone "fuori" incomincino a vedere un po’ la nostra umanità e il nostro bisogno di aiuto per coltivare la speranza di un futuro migliore. Ci piacerebbe tanto sentir parlare di opportunità concrete, che diano un senso alla nostra detenzione perché, superata questa fase di espiazione, vi è l’aspetto fondamentale del reinserimento in cui l’ex detenuto ha più che mai bisogno di essere supportato al fine di evitare le ricadute, spesso dettate da disperazione e abbandono. Finora l’unico aiuto vero lo riceviamo dalle Cooperative Sociali che rappresentano per noi un sostegno indispensabile tanto che molti di noi vi si aggrappano ma, purtroppo, alla fine della pena, è difficile che rappresentino una reale sicurezza. Abbiamo tutti molto bisogno di aiuto. Vogliamo continuare a crederci e sperare.
La testimonianza in pubblico: una scelta responsabile
Durante il convegno ho scelto di esporre la mia persona, il mio viso, il mio nome allo sguardo del pubblico e all’attenzione della stampa. Alcuni miei compagni di detenzione, per motivi comprensibili: pudore, tutela del proprio mondo privato hanno, invece, scelto di non farlo.Io non ho interessi privati da tutelare, né familiari, né figli che possano soffrire la vergogna del genitore detenuto; inoltre, dopo tanti anni passati in carcere, ho rimosso il problema del pudore e quindi ho accettato di dare visibilità alla mia storia. Mi sono esposto soprattutto perché, con la mia presenza, ho voluto, nel mio piccolo, rendermi utile e anche perché sono molto stanco di vivere così, isolato dalle mura. Come tanti altri miei compagni di sventura sento il desiderio di comunicare con l’esterno, e di condividere con la società civile le tante storie di dolore e di disperazione che si consumano dentro il carcere.
Antonio Mistri
Le mie prime cinque ore di vita intensa
Sono state veramente esaltanti. Esco dal portone del carcere e mi accolgono un viso e un sorriso a me tanto cari. La mia caporedattrice è venuta ad aiutarmi e ad accompagnarmi in questura per la firma d’obbligo. Salgo nella macchina di Carla , e dopo anni che sono salito ammanettato sui mezzi, non mi pare vero di fare questo gesto con le mie mani libere e da solo; anche il semplice gesto di allacciarmi la cintura di sicurezza e avere davanti a me la visuale libera senza le squallide grate del furgone trasporto detenuti, tutto è un’emozione. È tutto vero, e sono emozionatissimo, sono finalmente su una macchina vera dopo sei anni e ho accanto a me una persona amica e molto cara , anche lei è felicissima che questo convegno abbia contribuito a farmi riacquistare questi momenti di libertà, ed io lo sono ancora di più , perché vado a portare la mia testimonianza. Entriamo in città per recarci alla incombenza della firma in questura; vedo finalmente la città con i miei occhi, il traffico, la gente, la quotidianità della vita, i negozi, tutte le cose a cui non ero più abituato, e ora sono felice, guardo con avidità ogni cosa tutto e tutti, nel frattempo parlo anche con Carla del convegno mentre lei riceve telefonate per definire i dettagli . Non è una bella giornata, è una giornata di pioggia, questo sarebbe un disagio per tante persone ma per me è stupenda ed eccezionale, scendo dalla macchina, non mi importa di essere bagnato dalla pioggia, provo quasi piacere, sto assaporando i miei primi momenti di libertà. Carla ha paura che il brutto tempo possa influire sull’afflusso della gente al convegno, parliamo insieme del mio intervento e di quello di Nico e intanto arriviamo all’università. I timori di Carla vengono subito fugati, perché piano piano l’Auditorium si riempie di gente fino all’inverosimile, io rivedo anche miei ex compagni di detenzione e conosco un sacco di persone. È bello essere tornato in mezzo alla gente, alla vita, mi sento rinascere dopo tanti anni di segregazione dietro il muro del carcere. Cerco subito un telefono pubblico perché voglio salutare e fare partecipe di questo bellissimo evento le mie persone più care, che non ho potuto avvisare in tempo, racconto la mia felicità a tutti. Subito dopo iniziano i lavori del convegno, il mio intervento è riuscito bene, e Teleducato mi chiede se possono intervistarmi, cosa che accetto volentieri perché voglio portare a compimento il mio impegno e anche perché tutto ciò mi fa sentire vivo ed utile, mi piace partecipare a questa esperienza e condivido la sua finalità. Il convegno sta finendo, osservo la soddisfazione di Carla per il risultato positivo e questo mi rende ulteriormente felice. C è subito il rinfresco, un’ occasione per conoscere altre persone stupende che io continuo a "divorare" con gli occhi e con la mente; voglio tenerli tutti dentro di me come una bellissima esperienza . Il tempo vola, rimane solo qualche minuto per andare a bere qualcosa in compagnia e scambiarci gli ultimi saluti e promesse, e cosi ci avviamo al rientro in carcere, un velo di tristezza mi assale, ma sono felice per queste cinque ore stupende di vita vera che ho trascorso nel mondo libero, preludio al mio prossimo rientro alla vita vera.
Antonio Mistri
L’evento conclude il progetto 2004 "Il carcere nel cuore della città" realizzato dal Centro di Servizio per il Volontariato di Piacenza - Svep con il contributo di alcune associazioni di volontariato che operano nel carcere e il sostegno della Direzione della Casa Circondariale
Amnistia ovvero la speranza delusa
Redattore Sociale, 13 giugno 2005
Alla vigilia dell’estate l’associazione di detenuti ‘‘Papillon’’ rilancia l’allarme sulla situazione delle carceri, chiedendo "una seria e pacata riflessione sulla necessità di un reale provvedimento di amnistia e indulto per tutti". Alla vigilia dell’estate l’associazione di detenuti "Papillon" rilancia l’allarme sulla situazione delle carceri, chiedendo "una seria e pacata riflessione tra tutte le forze parlamentari sulla necessità di un reale provvedimento di amnistia e indulto per tutti, nessuno escluso, che sia la base di partenza per quelle riforme del pianeta Giustizia da tutti e da tempo auspicate". "Ci rendiamo conto che parlare apertamente di amnistia e indulto e affrontare concretamente in Parlamento una riforma del nostro sistema penale e penitenziario non è cosa facile, ma non per questo è tollerabile il permanere di una situazione che scivola ogni giorno di più oltre i limiti della legalità", afferma l’associazione, precisando: "Non siamo soltanto noi detenuti e la Chiesa Cattolica a sottolineare il limite di guardia ormai raggiunto nelle carceri. Anzi, un dato importante della nuova situazione è che oggi alcuni tra i più importanti sindacati del personale penitenziario riconoscono che per ristabilire nelle carceri un equilibrio minimamente accettabile occorrono misure che alleggeriscano davvero un sovraffollamento di oltre 15mila detenuti". Inoltre Papillon rivolge un appello a tutti gli Operatori Penitenziari e alla la Magistratura di Sorveglianza italiana "affinché recuperino completamente la lettera e lo spirito di tutte le Leggi che permettono l’applicazione di varie misure trattamentali e di misure alternative al carcere (liberazione anticipata, permessi premio, affidamento in prova ai Servizi Sociali o alle Comunità Terapeutiche, Lavoro Esterno, Semilibertà) e il differimento della pena per casi di incompatibilità con la detenzione...
La nostra redazione è solidale con l’appello di Papillon
Le carceri affollate oltre ogni buon senso (59.000 contro i 42.000 che dovrebbero essere), il personale insufficiente, il passaggio mai del tutto realizzato della medicina penitenziaria al servizio sanitario nazionale, le leggi continuamente disattese. I malati di aids che continuano a essere reclusi per carenza di strutture che li possano ospitare e, nonostante la legge Finocchiaro, i bambini da 0 a tre anni "incarcerati" con le mamme. E i soldi che non ci sono. La legge penitenziaria continuamente violata dall’istituzione diventa perentoria solo nei confronti dei detenuti. Tutto questo dovrebbe indurre a una riflessione seria per quello che, ormai, dovrebbe essere un atto di giustizia. Nonostante ciò, l’opinione pubblica resta del tutto indifferente, il mondo politico non sembra in grado di ragionare pacato sul tema. La possibilità di coagulare intorno a un progetto concreto di amnistia-indulto un consenso ampio e trasversale diventa chimera. Chiedeva con forza clemenza Giovanni Paolo II il 14 novembre 2002, applaudivano i nostri parlamentari. Poi il nulla. Moriva Giovanni Paolo II, si pensava finalmente a un gesto significativo a favore delle persone recluse. Ma ancora nulla. Un digiuno di Pannella, qualche articolo sui giornali, i comunicati del volontariato penitenziario e della federazione dei giornali delle carceri e poi niente. Tutto dimenticato. Al centro degli interessi il referendum. Speranze sollevate inutilmente che diventano crudeli e irresponsabili al momento della delusione. E nelle carceri si sta sempre peggio; sembra che i sinonimi del termine costituzionale "rieducazione" siano "castigo", "sofferenza", "abbandono". Nessuna evoluzione sulla strada della civiltà e della tutela dei diritti. Nel dubbio si torna indietro.
I pensieri delle persone detenute
Tante volte ho sentito parlare di amnistia, ma per me è rimasto un miraggio, una parola incomprensibile. A tale proposito non so cosa pensare perché credevo che dovesse venire in mio aiuto ma, da quanto ho potuto capire, è solo una speranza senza alcun esito.
Rino
Ne ho sentito parlare dal momento del mio arresto e sono trascorsi due anni. Vivendo qui, qualcuno ci spera ed anche io, forse, ma è l’idea indefinita di una parola alla quale non riesco a dare il senso. Forse un sogno o una speranza chissà...forse un giorno ci sarà...
Mario
La parola amnistia evoca false speranze. Viene estratta dal cilindro quando fa comodo, in genere per lavare la coscienza di chi non ha risposte.
Massimiliano
Una speranza per uno sconto di pena che attendiamo con tanto fervore
Nando
Amnistia: una parola che significa dimenticare; io mi sono dimenticato tutto quello che facevo quattro anni fa fuori. Adesso non posso neanche pensare a quattro anni fa. Devo guardare avanti
Turco
Con tutte le delusioni di questi ultimi anni è veramente deprimente parlarne ancora. Soprattutto sapendo che, le rare volte che viene concessa, il 60% dei detenuti ne sono esclusi
Antonio
Dimenticare non vuol dire dimenticare il fatto ma farti ricordare che non lo devi ripetere. È dare una chance, la possibilità di una nuova scelta
Jaime
La prima cosa che mi viene in mente con la parola "amnistia" è "fantascienza", visto che dal ‘90 ne ho sentito parlare spesso, per cui mi comporta quasi un senso di fastidio
Nico
Un’altra illusione mediatica in attesa di deluderla in occasione di qualche nuovo delitto eclatante!
Gianluca
Amnistia in greco è legata all’idea di "dimenticare"; per questo hanno dimenticato di farla
Benjamin
Amnistia: un segno tangibile legato alla parola umanità
Enrico
Amnistia e indulto
Amnistia e indulto sono provvedimenti di clemenza previsti dalla Costituzione. L’amnistia estingue il reato. Può essere applicata prima che sia intervenuta una sentenza irrevocabile di condanna (amnistia propria) oppure successivamente alla condanna stessa (amnistia impropria). Il Codice penale prevede espressamente la possibilità che l’amnistia possa essere sottoposta a condizioni ed obblighi. Diversamente dalla grazia, concessa al singolo dal Presidente della Repubblica, l’indulto e l’amnistia sono deliberati dal Parlamento. Dal 1992 è prevista una maggioranza qualificata molto alta (due terzi). L’ultima amnistia risale al 1990. Un anno fa, fu concesso il cosiddetto indultino, che in realtà è uno sconto di pena di due anni. L’ indulto - insieme con la grazia, che è un provvedimento individuale, specifico, cioè, per una sola persona - "condona in tutto o in parte la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna".
Le amnistie
Dal 1946 AL 1986: prima di quella del 1990, erano state 19 le amnistie concesse dallo Stato repubblicano in 40 anni, la prima il 22 giugno 1946, l’ultima l’11 dicembre 1986. In media, un’amnistia ogni due anni e un mese. Il primo Presidente della Repubblica, Enrico De Nicola, inaugurò nel 1946 la consuetudine di concedere l’amnistia in occasione dell’insediamento, firmandola il giorno stesso dell’arrivo al Quirinale. Il suo successore Luigi Einaudi la concesse sei mesi dopo essere stato eletto, nel 1948; Antonio Segni sei mesi dopo la sua elezione, nel 1962. Sandro Pertini, nel 1978, aspettò un mese dal suo insediamento. Francesco Cossiga, infine, attese un anno e mezzo, fino al dicembre 1986. La tradizione si è poi interrotta con i settennati di Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi.
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