Sosta Forzata numero zero

 

"Sosta Forzata", giornale dal carcere di Piacenza

 

Editoriale

Perché "Sosta Forzata"

Fermo immagine

Auguri a "Sosta Forzata"

Libri - Cultura – Lettura

A Piacenza: arrestate quel libro!

Una visita alla biblioteca dell’Università Cattolica di Piacenza

22 novembre - Giornata internazionale dei diritti del bambino

Stranieri in carcere

Storie di immigrazione bloccate in una sosta forzata

L’associazione "La Ricerca": una presenza piena di significati, di difficoltà e di forza

Progetto Icaro, una casa pronta ad accogliere la tua famiglia e chi ti vuole bene

Pensieri in branda

Dal "Due Palazzi" al Quirinale: detenuti-volontari premiati da Ciampi

Sanità in carcere: problemi, lungaggini e mancanza di fondi

Scusi… posso farle una domandina?

Parole oltre il muro

La Redazione

Editoriale

 

Scrivere, raccontare, descrivere... parlare, dire, del mondo, degli altri, di sé... in definitiva, esserci. Redigere un articolo di giornale, soprattutto di un giornale come questo, non risponde propriamente ad un dovere di "cronaca", che tra l’altro in carcere arriva dal di fuori quasi appannata, ma ad una voglia di parlare, di dire qualcosa, perché si è convinti che qualcosa da dire ci sia, per comunicare con gli altri, che sono lontani ma attraverso questo tipo di comunicazione appaiono molto più vicini. Raramente i giornali redatti in un istituto di pena peccano di banalità, di sterili e vacue disquisizioni; e non ci chiediamo perché?

Perché il redattore porta in sé la voglia, l’ansia di mostrare la propria coscienza, provata senz’altro dalla condizione di restrizione vissuta, ma libera interiormente, e la libertà e la profondità del pensiero sono ancora maggiori proprio per l’esistenza di quel muro che limita gli spazi fisici ma mai quelli mentali. Questi sono propri di ogni individuo, in qualunque situazione esso si trovi, perché di uomini si tratta, all’interno di un carcere ma uomini, che pensano e raccontano agli altri di sé e della loro visione delle cose, rivendicando pari dignità rispetto ai cosiddetti uomini "liberi", imbrigliati da una serie infinita di condizionamenti di ogni tipo propri del nostro viver sociale.

 

Caterina Zurlo

Perché Sosta Forzata

 

"Sosta Forzata" nasce dal nostro entusiasmo e dal consenso del direttore dottoressa Zurlo che, pur con uno sguardo alla sicurezza, ha messo a disposizione della redazione detenuta spazi e mezzi per conseguire questo traguardo.

Sosta Forzata nasce da un’esigenza.; così com’è stato inventato il martello per conficcare i chiodi. Un giornale del carcere perché nessun uomo deve essere dimenticato. Vogliamo che lo leggano in particolare i giovani. Essi potranno costruirsi una loro idea del disagio sociale, perché il carcere non può essere definito soltanto un’area di sosta, ma rappresenta e ha sempre rappresentato un disagio. Vogliamo comunque che sia diretto a tutti gli uomini di buona volontà, affinché non considerino l’ex detenuto come una minaccia, ma lo osservino senza quei pregiudizi che determinano l’incomprensione.

Il giornale non vuole essere una richiesta di pietà, né uno strumento per suscitarla, né tantomeno una denuncia di torti subiti. Vuol essere una finestra aperta con l’esterno, con il mondo, con la società che è stata offesa. Chi scrive è perfettamente conscio di questo. Il rancore non può essere un sentimento pacificatore. Serve mutua comprensione anche verso chi ha rotto il patto societario, verso chi non ha avuto la forza di adeguarsi alle regole.

Il carcere ora ospita un gran numero di extracomunitari. È la radiografia della nuova società italiana e più verosimilmente di quella europea, avviata già da tempo a diventare cosmopolita. Se qualcuno volesse chiudere gli occhi di fronte a questa realtà ineluttabile, farebbe male. Sarebbe solo un procrastinare il problema.

Nessuno può pensare di barricarsi in un cubo di cristallo ed ignorare quanto avviene all’esterno, o anche solo di demandare sempre ad altri il compito di affrontare i problemi. L’universo carcerario riguarda tutti. La miseria economica e culturale genera dolore e sopraffazione, tutti dobbiamo collaborare, discutere se veramente vogliamo un mondo migliore. Gli studenti soprattutto, che già si sono prestati con entusiasmo a vagliare gli scritti del concorso. Parole oltre il muro, saranno, ci auguriamo, gli interlocutori privilegiati. Il giornale ospiterà una rubrica apposita per questo dialogo. Noi redattori detenuti mettiamo a disposizione la nostra esperienza, i nostri errori, i fallimenti ma anche l’impegno e la speranza: vogliamo e possiamo fare qualcosa anche noi per la società che abbiamo offeso.

 

La Redazione

Fermo immagine

 

L’immagine ferma su un momento unico e irripetibile. Per ognuno la libertà di leggerlo e interpretarlo come vuole. La nostra scelta comunicativa non prevede vigorosi toni pubblicitari né sussurri persuasivi. Vorremmo trovare un modulo espressivo che sia rispettoso della nostra reciproca dignità. Di noi dentro e di voi fuori. Tutto qui. Vorremmo creare un dialogo che sia aperto ai sentimenti e alle storie ma anche al ragionamento e alla critica. Vorremmo essere conosciuti e riconosciuti come esseri umani col corpo prigioniero ma liberi nello spirito e sempre in divenire.

 

È una sosta forzata; cerchiamo di evitare il disastro

 

Fermo immagine è una piccola rubrica che racconta qualcosa di noi, una pennellata per costruire a poco a poco un affresco animato da tanti uomini momentaneamente rinchiusi.

 

Fermo immagine

 

Su un gruppo di persone in una stanza chiusa, in un edificio chiuso, con il cuore spesso chiuso. D’altronde hanno sbagliato e "devono pagare". Lo sanno anche loro e difatti pagano. Poco, tanto o troppo…non lo sappiamo. Sarà il loro destino, forse, a dare una risposta. Intanto li guardiamo: italiani, stranieri dell’est europeo e africani che, come si sa, sono ancora più stranieri. Giovani e quasi anziani. Storie simili e infinitamente diverse.

Oggi l’immagine si ferma su Enrico, cinquant’anni distribuiti equamente nel suo metro e ottanta e più di statura, negli occhi pensierosi e nella pacatezza del dire. Negli anni della gioventù è stato inserito tra i giovani apprendisti attori dell’Accademia d’arte drammatica di Milano. Recita a memoria il tormento di Ugolino; l’espressione vigorosa del Poeta si piega e s’innalza nella voce profonda dell’Enrico. In una stanza grigia quattordici uomini stipati nei banchi di scuola ascoltano in silenzio. È sempre carcere ma per un breve momento l’arte accende i colori e spezza la noia.

 

Fermiamo l’immagine!

 

Sullo stesso gruppo di persone. Una settimana dopo. Scenario immutato; un rumore di ferri battuti. Nuovo incontro e nuovi pensieri. Oggi scopriamo che: è cambiato il mondo, non ci sono più le mezze stagioni, le casalinghe sono in via di estinzione, e nemmeno il criminale è più quello di una volta…. L’indignazione è autentica; nessuna simulazione. Nei "vecchi" di galera c’è un senso di sconforto. Prima chi entrava in carcere aveva fatto una precisa scelta di vita, sapeva di rischiare e, se qualcosa andava male, assumeva le conseguenze. Oggi il consumo di sostanze, i soldi facili legati al commercio di droga, hanno spalancato le porte della galera a una nuova tipologia di individui. Il carcere non era nemmeno lontanamente nei loro pensieri. Magari sognavano il binomio scontato e necessario bella macchina - bella donna.

Ma il carcere, quello no. Siamo diventati un asilo infantile! – la voce maschile si colora di trattenuto disprezzo. Su una pioggia arrabbiata che cade a quadretti. E non è una battuta: la rete alle finestre condiziona anche il "vissuto meteorologico". Oggi l’immagine si ferma su Akrame. Viso mediterraneo e occhi scurissimi. Palestinese di nascita, tunisino di adozione. Il carcere in Italia. Parla della sua terra molto lontana nel tempo e nello spazio. Dell’esilio iniziato a due anni, tra le braccia della mamma, su una nave che portava là dove non si voleva andare. Il dolore di non poter tornare e quel terribile 11 settembre che ha reso tutto più difficile; è scoppiato mille e mille volte in giro per il mondo creando nuove diffidenze, alimentando risentimenti e pregiudizi. "Le persone non mi guardano più con gli stessi occhi di prima…" e scuote la testa. Lui che era un musulmano non praticante oggi, nella sofferenza della detenzione, chiede perdono ad Allah per i suoi errori. Fermiamo l’immagine sul suo sforzo di esprimere quanto è "chiuso dentro di me". Fermiamo l’immagine sul nostro desiderio di capire.

 

Carla Chiappini

 

I redattori ringraziano di cuore "Il Nuovo Giornale" e la Fondazione di Piacenza e Vigevano che hanno reso possibile la pubblicazione di questo numero 0 di Sosta Forzata.

Auguri a Sosta Forzata

 

Siamo abituati a pensare al carcere come ad un luogo dove il tempo non passa mai ed effettivamente per chi sta dentro dare un senso alla propria giornata è molto spesso un’impresa. In cella tanti si lasciano vivere, rimangono in branda, guardano la televisione (e la televisione sembra avere tempi molto adatti al carcere), qualcuno ingrassa a dismisura – si pensi a Massimo Carlotto, "Il Fuggiasco" la cui storia è raccontata in un film uscito da pochi giorni, graziato per motivi umanitari dal Presidente della Repubblica Scalfaro, qualcuno deperisce in modo impressionante – come Cosimo Iannece, l’imprenditore che uccise dandogli fuoco un suo dipendente rumeno dopo una discussione e che in pochissimo tempo perse sedici chili -, qualcuno si fa del male, lesionando il proprio corpo o ingerendo pile o altro, quasi tutti chiedono qualche cosa da fare.

Mi è capitato spesso di iniziare un’attività a cui si era iscritto un gruppo di persone detenute e scoprire che parecchi non avevano la minima idea di che cosa si doveva sviluppare: avevano fatto la domandina per uscire dalla cella, a volte partecipavano ad un paio di incontri e poi dicevano che non erano interessati, che pensavano che si trattasse di altro. Con molti ho fatto dei veri e propri patti d’onore: "io vengo per dieci volte ma anche voi vi impegnate ad essere sempre presenti, altrimenti non si combina nulla".

Da vari anni per conto del Comune mi occupo delle attività all’interno della Casa Circondariale: mi preoccupo che si riescano a fare delle esperienze (formative, culturali, ricreative,ecc.) e che queste attività siano mirate, finalizzate, non proposte a caso, che per quanto possibile rispondano alle richieste di chi sta in prigione e non alle valutazioni di chi sta fuori. Quando ho iniziato, nel vecchio carcere di fronte al Tribunale, non c’erano nemmeno le scuole, oggi ci sono anche le superiori ma non mi sembra che questo sia sufficiente. Mi preoccupo, dicevo, che vadano in porto una serie di attività a favore delle persone detenute; a volte direttamente conduco un cineforum o un gruppo di discussione.

Ogni volta alla fine mi viene chiesto di continuare o di organizzare altro e ogni volta mi trovo combattere con l’indifferenza e con la prepotenza di un’opinione pubblica che ritiene che non è giusto fare qualcosa, spendere soldi ed energie per i detenuti. Per tutto questo non posso che vedere con piacere l’uscita del numero 0 di Sosta Forzata, che rappresenta il logico sbocco di un lavoro che è cresciuto con il tempo, che da corso di giornalismo è diventato redazione e ora pubblicazione e che, per me, rappresenta la possibilità (o forse solo la speranza) di mettere in collegamento il "dentro" e il "fuori", perché per riabilitare le persone occorre che molta parte la faccia la società e non tanto il carcere. Inoltre da qualche tempo continuo a pensare che oltre al tempo sia importante anche lo spazio e che ogni iniziativa rappresenti un luogo dentro a un non luogo, come direbbe l’antropologo Marc Augè, una boccata d’ossigeno per chi si trova all’interno di un’istituzione totale. Mi piace immaginare spazi attivi e non passivi e quando penso ad una biblioteca, compresa quella del carcere di Piacenza, vorrei che fosse una sala di lettura e di scambio di libri e non un deposito…

Detto questo non mi resta che fare gli auguri a Sosta Forzata e alla sua redazione che ogni tanto vado a trovare: non ho mai fatto loro i complimenti, ma loro sanno che non è importante ottenere gratificazioni, ma spazi di espressione per combattere il pregiudizio e l’irrefrenabile desiderio di giudicare anziché cercare di comprendere.

 

Brunello Buonocore

 

A nome di tutti gli operatori Caritas impegnati nello sportello interno al carcere di Piacenza auguro buon lavoro al giornale "Sosta Forzata" e confido nell’impegno di tutta la redazione a fare un serio lavoro di informazione circa i problemi reali delle persone detenute e delle loro famiglie.

 

Massimo Magnaschi

 

La notizia della "nascita" di un nuovo giornale, realizzato da detenuti, è sempre una buona notizia, perché significa che un altro passo avanti è stato fatto, nel difficile cammino per rendere il carcere più trasparente. Ma ci fa particolarmente piacere che questo giornale nasca nella Casa Circondariale di Piacenza, e sia la prosecuzione di una esperienza, quella dell’inserto della rivista "La Ricerca, che ben conosciamo e della quale abbiamo apprezzato la qualità degli articoli a tal punto, da decidere di pubblicarne alcuni anche sul nostro giornale e nel sito www.ristretti.it. Con la redazione di Piacenza, e la sua responsabile, Carla Chiappini, collaboriamo da anni all’interno di un Coordinamento, che tiene insieme tutte le realtà di informazione dal carcere, presenti nel nord-est. Ci piace quindi pensare che questo nuovo giornale sia un po’ anche "figlio" nostro, della nostra esperienza e della voglia che abbiamo di lavorare insieme e di abbandonare una volta per tutte la logica del "coltivarsi ognuno il suo orticello". Auguri quindi di cuore dalla Redazione di Ristretti Orizzonti.

 

Ornella Favero

 

Da parte nostra: grazie alla redazione di "Ristretti Orizzonti" giornale del carcere di Padova e al sito www.ristretti.it. Nel momento, per noi di grande gioia ed emozione, dell’uscita del numero zero di "Sosta Forzata" non possiamo non ringraziare Ornella Favero e i redattori di Ristretti Orizzonti, oltre che per la preziosa amicizia personale, anche per la generosità con cui da anni mettono a disposizione di tutti una ricchissima documentazione sulle problematiche relative al carcere e al reinserimento sociale delle persone detenute. Questo atteggiamento di intelligente apertura è stato per noi un importantissimo incentivo a lavorare con impegno e serietà cercando sempre di guardare oltre il nostro limitato orizzonte personale e territoriale.

Da un recente intervento pubblico di Ornella Favero citiamo un passaggio sulla comunicazione dal carcere che ci trova pienamente d’accordo: "Un’altra considerazione: quando si raccontano delle storie la testimonianza è importante, ma lo è anche la qualità della testimonianza stessa. La televisione è piena di testimonianze, ma io non voglio scendere a quel livello, però ho dovuto fare una battaglia nella mia redazione e feroci discussioni perché passasse l’idea che, se tu ti racconti, servono toni sobri, mentre si tende all’esagerazione, al vittimismo, oppure si usano toni più forti, credendo così di essere ascoltati di più.

Insegnare la sobrietà del racconto di vita è fondamentale. Noi andiamo con i detenuti nelle scuole ho visto che, quando le persone raccontano le loro storie senza fare vittimismo, senza piangersi addosso, dicendo di scelte molte volte sbagliate e dicendo il perché di queste scelte, la gente ascolta. I ragazzi stranieri non sono sempre vittime; ce ne sono tanti che avevano una situazione regolare e hanno visto il loro compagno che si alzava a mezzogiorno e in poche ore guadagnava quello che loro guadagnavano in un mese: chi non avrebbe la tentazione di fare una vita diversa, di prendere delle scorciatoie?

Non possiamo nemmeno andare a raccontare solo le storie da piangere che ci sono: ad esempio la donna che è in carcere, perché per la prima volta nella sua vita è arrivata con la pancia piena di ovuli, con un bambino in braccio, sperando di non attirare l’attenzione ed è stata arrestata… quella senz’altro è una storia di disagio e di disperazione, altre lo sono in modo diverso. Quindi imparare a raccontarsi vuol dire anche imparare una capacità autocritica, cercare di vedersi, raccontarsi come si è davvero, di capire che è più efficace quello, che tutte le storie forzate, per attirare l’attenzione…"

Libri - Cultura - Lettura

 

Così sancisce l’Ordinamento penitenziario del 2000

 

Art. 21 - Servizio di biblioteca

 

  1. La direzione dell’istituto deve curare che i detenuti e gli internati abbiano agevole accesso alle pubblicazioni della biblioteca dell’istituto, nonché la possibilità, a mezzo di opportune intese, di usufruire della lettura di pubblicazioni esistenti in biblioteche e centri di lettura pubblici, funzionanti nel luogo in cui è situato l’istituto stesso.

  2. Nella scelta dei libri e dei periodici si deve realizzare una equilibrata rappresentazione del pluralismo culturale esistente nella società.

 

Così scrive Marcel Proust

 

"Non vi sono forse giorni della nostra infanzia che abbiamo vissuto così pienamente come quelli che abbiamo creduto di aver trascorso senza viverli, i giorni passati in compagnia di un libro prediletto…". Marcel Proust "Il piacere della lettura" - Net 2002 (Pubblicato per la prima volta nel 1905)

 

Così racconta un detenuto la sua legittima evasione

 

Fin dai tempi dell’adolescenza il mio sogno ricorrente era quello di viaggiare, viaggi carichi di avventure, alla scoperta di territori straordinari e di antiche città. Poi come tanti altri sogni, anche questo è andato perso tra le mille vicissitudini della vita fino a quando, cinque anni orsono, ho deciso che quel sogno andava in qualche modo vissuto. In quel periodo ho viaggiato in lungo e in largo la terra, e non solo, ho attraversato le Americhe da Nord a Sud, a volte con l’aiuto di canoe per risalire fiumi altre a bordo di vecchi torpedoni tanto sgangherati quanto affascinanti.

Ho viaggiato attraverso l’equatore Africano, spingendomi sino in Sud Africa in compagnia di antiche tribù o con cacciatori di grande esperienza per dare la caccia al più grosso e reale dei felini.

Di questi viaggi potrei raccontare al lungo e con dovizia di particolari, infatti le immagini racchiuse nella mia mente sono nitide come se guardassi delle istantanee scattate durante questo lungo peregrinare, potrei addirittura descrivere i profumi di ogni singolo luogo. Mi chiamo Gianfranco e sono detenuto da ben cinque anni in carcere! Mi si potrebbe obiettare: ma allora come hai fatto a viaggiare? La risposta, per un detenuto, è delle più ovvie: evadendo!

Non si tratta della classica evasione con lima da ferro e lenzuola annodate, ma di un’evasione del tutto legittima, fatta di candide pagine bianche violate da un impertinente inchiostro nero, all’interno delle quali vi è tutto un mondo di emozioni e sentimenti. Ho sempre letto libri, anche prima di questa mia "esperienza afflittiva" e posso dire, anche se ciò può sembrare quasi forzato, che la lettura da recluso la vivo molto più intensamente che in passato. Il motivo di questa intensità sta nel fatto che la condizione attuale non è restrittiva solo nel fisico, ma assopisce col tempo molte emozioni. Quando leggo un libro, questo diventa la scenografia della mia avventura, e la fantasia, che in questo luogo è cibo quotidiano, mi rende protagonista della storia. Mi sono ritrovato innamorato a Parigi, ho gioito dopo aver raggiunto la cima dell’Everest, ho avuto paura in battaglia e senza fiato nel guardare la terra dalla luna, provando intensamente e qua si realmente tutte queste emozioni e sentimenti. Ogni minuto trascorso in lettura è un minuto in meno trascorso tra le mura.

 

Gianfranco Amato

A Piacenza: arrestate quel libro!

 

L’Associazione di Solidarietà "La Ricerca" e la Direzione della Casa Circondariale "Le Novate" promuovono il progetto "Arrestate quel libro!", ideato a Milano circa dieci anni fa e tuttora condotto dai volontari dell’Associazione "Mario Cuminetti".

 

La premessa

 

"Pensiamo sia giusto e utile che fra l’interno e l’esterno del carcere si aprano nuovi canali di comunicazione e di scambio. Far dialogare società e mondo carcerario è un tassello essenziale del mosaico che forma una società più giusta, più libera, più sicura. L’apertura del carcere, la costruzione di ponti e varchi lo rendono certamente un luogo meno crudele, più umano. Un carcere chiuso umilia l’uomo e impoverisce la società: il dialogo e la conoscenza arricchiscono entrambi".

 

Associazione Mario Cuminetti

 

La proposta concreta

 

Si tratta di regalare un libro a una persona detenuta secondo una lista di indicazioni raccolte in carcere dall’ufficio educatori tramite le solite "domandine", resa anonima e successivamente consegnata alle librerie che collaborano con l’iniziativa.

Una visita alla biblioteca dell’Università Cattolica di Piacenza

 

Due detenuti della redazione in trasferta all’Università

 

L’idea di visitare la biblioteca dell’Università Cattolica l’abbiamo avuta perché anche noi i detenuti delle Novate abbiamo la speranza di rinnovare la nostra biblioteca. Con il permesso della Direzione e con l’autorizzazione del Magistrato di Sorveglianza il giorno 1° ottobre siamo andati a visitarla e, perché no, anche a imparare qualcosa che ci potesse essere utile. All’ingresso ci aspettava il responsabile della biblioteca dott. Scottini che ci ha invitati ad entrare e con molta pazienza ci ha spiegato la loro organizzazione. Mi ha colpito molto come riescono a trovare dei libri che non hanno in sede; un collegamento in rete con l’università di Milano e Brescia che permette di trovare ciò di cui hanno bisogno. È un organizzazione perfetta che hanno raggiunto con molta fatica. Ma la cosa che mi ha affascinato di più era la nuova sala di Giurisprudenza che è stata inaugurata proprio in questi giorni. Che dire sono rimasto davvero senza parole, spero che anche noi, nel nostro piccolo, faremo qualcosa di buono.

 

Elvis Roghozina

22 novembre - Giornata internazionale dei diritti del bambino

 

La redazione di Sosta Forzata dedica questa storia vera dal sapore vagamente natalizio a tutti i bambini del mondo; a quelli che amano e possono leggere, a quelli che potrebbero ma detestano i libri e a tutti quelli che, per gravissime responsabilità degli adulti, sono troppo impegnati a sopravvivere… "E infine a tutti i grandi che non hanno dimenticato di essere stati bambini…" (Antoine de Saint Exupéry)

 

Come nasce una passione

 

La passione alla quale "nonostante tutto" non ho mai rinunciato è quella per la lettura; questa passione è nata per caso ed è legata soprattutto ad un testo: "I ragazzi di Via Pàl".

Ricordo nitidamente il momento in cui presi in mano per la prima volta quel libro, ciò che provai in quell’istante; ricordo perfettamente la storia e le sensazioni che mi diede.

Avevo otto anni, finalmente giunse il sospirato Natale e, come da tradizione, ricevetti numerosi regali da parte di tutti i parenti, ma solo da uno di questi pacchetti colorati rimasi deluso; era il pensiero di una mia carissima zia, la stessa che l’anno dopo mi regalò una macchina da scrivere.

Una volta aperto il pacchetto mi ritrovai tra le mani questo libro e nonostante la delusione fosse evidente fui in un certo senso costretto a ringraziare.

Nei giorni a seguire presi quella "inutile raccolta di fogli" e la sistemai vicino ai quindici volumi dell’enciclopedia che i miei genitori avevano comprato per "adornare" la mia cameretta.

Il libro rimase li per più di due anni senza nessuna attenzione, in quanto a quell’età mai mi sarei mai sognato di perdere del tempo in una lettura se non obbligato da motivi scolastici. Poco prima degli esami di quinta elementare mi capitò di restare a letto per una settimana, classico malanno dei ragazzini di quell’età, fu quella l’occasione in cui mi ritrovai per le mani il libro.

Non so per quale motivo, forse la monotonia o probabilmente la "febbre" ma cominciai a leggere e dopo poche pagine fui rapito dal racconto, pensai addirittura che vi si narrasse la mi storia, mi rivedevo completamente in quei ragazzi della periferia di Budapest che si preparavano a "combattere " per un loro diritto e cioè il posto in cui giocare. Il paragone era quasi scontato, infatti io sono cresciuto all’estrema periferia di Milano dove oltre a grandi caseggiati e immense distese di fabbriche non vi era posto per tirare due calci al pallone.

Le lotte dei ragazzi di Via Pàl contro le camicie rosse dell’Orto Botanico mi ricordavano, in un certo senso, le dispute che io e i miei amici dovevamo affrontare quotidianamente contro altri giovani del nostro stesso quartiere per giocare su di un piccolo appezzamento di terreno.

Provai gioia e un po’ di invidia nell’affiatamento di quei ragazzi materialmente poveri ma ricchissimi di sentimenti, lealtà e coraggio. Il fascino di questo racconto è dovuto proprio alla spensieratezza di questi ragazzi, che nonostante fossero ispirati dal mondo circostante e dalla guerra che si stava combattendo, interpretavano il ruolo degli adulti come un gioco, escludendo in questo modo la violenza e il dramma della realtà. È una storia in cui i veri ed unici protagonisti sono i giovani, mentre gli adulti sono figure di fondo. La conclusione del romanzo è imprevedibile ed amara, infatti nonostante la vittoria in battaglia ottenuta dai ragazzi di Via Pàl, il terreno conquistato sarà immediatamente edificato, motivo per il quale non vi saranno né vinti né vincitori. A questo libro e a mia zia devo la mia passione per la lettura, grazie alla quale ancora oggi vivo avventure ed emozioni che la situazione attuale non mi consentirebbe di provare.

 

Gianfranco Amato

Stranieri in carcere

 

Dall’Ordinamento penitenziario

 

Art. 35 - Detenuti ed internati stranieri

 

  1. Nell’esecuzione delle misure privative della libertà nei confronti di cittadini stranieri, si deve tenere conto delle loro difficoltà linguistiche e delle differenze culturali. Devono essere favorite possibilità di contatto con le autorità consolari del loro Paese.

  2. Deve essere, inoltre, favorito l’intervento di operatori di mediazione culturale, anche attraverso convenzioni con gli enti locali o con organizzazioni di volontariato.

 

Sportello informativo per detenuti stranieri

 

Nella Casa Circondariale Le Novate l’Associazione di Solidarietà "La Ricerca" coordina uno sportello informativo per detenuti immigrati, con due mediatrici culturali presenti il venerdì e il sabato per un totale di 6 ore settimanali.

Storie di immigrazione bloccate in una sosta forzata

 

In carcere a soli vent’anni

 

Mi chiamo X, sono nato in un paese dell’est europeo nel 1983, in una città abbastanza grande con circa 400.000 abitanti. Provengo da una famiglia che all’inizio era del tutto normale; la mamma ci ha dato per poco tempo, diciamo, una buona educazione; mi hanno mandato a scuola, fino a che qualcosa in me è stato rovinato. All’improvviso la mia famiglia si è separata perché i miei genitori hanno deciso di non vivere più insieme. Quindi io e mio fratello piccolo siamo rimasti con la mamma. Tutto andava bene fino a quando la mia mamma non ha deciso di risposarsi e questo è stato il mio disastro; ho cominciato a essere svogliato, non mi sentivo amato e quindi sono andato a vivere con mia nonna.

Avevo 15 anni e in quel periodo ero impegnato con la scuola perché dovevo sostenere l’esame per il liceo e così sono riuscito a entrare in un liceo importante ma era così difficile che dopo un anno ho dovuto smettere di frequentare perché non riuscivo ad andare avanti e quindi ho cominciato a mancare le lezioni e così il direttore ha deciso, per darmi un’altra possibilità, di trasferirmi in un’altra scuola, una scuola per diventare elettricista perché pensava anche a un mio futuro. Mia nonna non era in grado di mantenermi, per cui ho cominciato a fare piccoli lavori.

A 19 anni ho deciso di cambiare la mia vita e sono partito da casa, senza essere consapevole delle conseguenze che mi stavano aspettando e della cattiveria delle persone , lasciando a casa il mio fratello, mia nonna e il più grande amore che non avrò mai più perché ormai è finita male.

Ora sono in un posto difficile, dove soffri tanto, sei nessuno e non riesci mai a esprimerti e mi dispiace troppo per la mia scelta, ma una sola cosa mi fa felice qua ed è il modo in cui qui diventi ragionevole su tutto e su tutti così almeno riesci a fare la differenza tra buoni e cattivi…e parlo per me che sono un ragazzo giovane che non ha i suoi genitori vicini e sono arrivato a un punto in cui non sapevo dove andare. Se non ha i genitori che lo guidano, un giovane fa le sue scelte che quasi sempre sono sbagliate perché non ha nessuna esperienza della vita. Spero, siccome ho avuto l’opportunità di imparare e di vedere le conseguenze di certe scelte, spero di non sbagliare mai più e di mettermi a posto. Tra poco devo finire questa vita da "giù" e potrò tornare alla vita normale.

 

Non mi firmo solo perché voglio iniziare con il piede giusto.

 

Una storia come tante

 

Provengo da un paese dove la dittatura e l’ignoranza ci schiacciavano senza pietà. E l’unico pensiero era andare oltre il mare, alla ricerca di un futuro migliore. Come me i ragazzi senza futuro erano tanti. Io vi racconto la mia storia. Avevo 10 anni quando iniziò la guerra per rovesciare il regime di Enver Hoxha. Io non sapevo cosa significasse tutto questo, non mi rendevo conto, ma molto presto capii cosa significasse la battaglia per sopravvivere; il tempo passava e in casa sentivo la mia presenza ingombrante.

La mia famiglia non poteva soddisfare le esigenze di un ragazzino di 13 anni che vedeva la televisione. Decisi di andare in Grecia. Partii con mio cugino, non sapevamo la strada, eravamo spinti solo dalla volontà di trovare un futuro migliore. Arrivati in Grecia, mi resi conto che non c’era lavoro in generale e per un ragazzo di 13 anni ancor meno. Rimasi sei mesi arrangiandomi come potevo, ma alla fine fui costretto a prendere la via del ritorno dalla mia famiglia. Il mio pensiero era diventata l’Italia. Si diceva che vi fosse lavoro per tutti; il paese del bengodi. Era diventato un pensiero che mi tormentava. Non vedevo l’ora di partire, ma non avevo il denaro per pagare il viaggio in gommone. Riuscii a trovare un prestito 500 mila lek, equivalente a 6 mesi di lavoro. Arrivai in Italia da mio fratello che mi ospitò in casa sua. Mi trovò un lavoro e per molti anni ho sempre cercato di stare con i piedi per terra. Lavoravo e finalmente ero felice. Poi… (la storia continua nel prossimo numero).

 

Gjon Tanushi

 

Mi chiamo Eduarto e sono un ragazzo albanese…

 

Io vengo da una famiglia semplice e molto onesta, senza problemi anche nel tempo del regime. Però era il 1989 quando ho cominciato a pensare di andare via dal mio paese, proprio per colpa di quel regime. Anche se all’epoca era una cosa molto pericolosa e io ero molto giovane. Ero un ragazzo tranquillo e a scuola andavo molto bene.

Ero orgoglioso della mia famiglia e amavo il mio paese. Però eravamo completamente isolati dal mondo e io non vedevo un futuro. E poi economicamente nessuno stava bene, anzi, stavano tutti male. Pero finalmente nel 90-91 è caduto il muro di Berlino albanese. E anche io come tutti i albanesi della ex dittatura volevo scoprire quel mondo oltre i confini. Quel mondo dei sogni che fin allora era proibito anche a pensarlo. Stavo andando a scuola con i miei amici quando abbiamo saputo che a Durazzo stavano partire le navi per l’Italia. Ci siamo guardati negli occhi e senza pensare due volte siamo andati alla stazione del treno per andare a salire su quelle navi.

Era pomeriggio quando siamo arrivati al porto di Durazzo e due navi erano partite. Pero c’era un’altra nave che aspettava di partire. Siamo saliti su quella nave e abbiamo passato tutta la notte pieni di speranza; poi abbiamo saputo che la nave non funzionava. La mattina è intervenuta anche la polizia e così siamo tornati a casa.

Entro a casa e vedo i miei genitori che piangono. Mi avvicino a loro, li abbraccio e prometto loro che non partirò più senza i loro consenso. E così passano altri tre anni e finalmente convinco anche i miei genitori a lasciarmi venire in Italia. Ormai ho vent’anni e mi sento molto grande; mi organizzo con i miei amici e ci dirigiamo verso Valona il porto da cui partono i motoscafi. Sono molto felice e non vedo l’ora di arrivare per poi ripartire verso quella nuova vita tanto sognata. Ma, partendo, lascio alle spalle la mia casa, la mia famiglia, la mia città e il mio paese. Dopo molti sacrifici e un terribile viaggio con il motoscafo, arriviamo finalmente in Italia.

Ho girato tutta l’Italia in cerca di lavoro e, siccome il paese è bellissimo, mi è piaciuto molto ed era proprio come me lo aspettavo. Qui vedevo tante cose, cominciando dai palazzi grandi, dai negozi e dai giardini bellissimi, dai vestiti e roba da mangiare che in Albania non esistevano. Però era molto difficile crearsi una vita nuova perché ero molto giovane, ero in un paese straniero e non conoscevo nemmeno la lingua. Quindi presto mi sono sentito solo e senza un aiuto; solo allora ho capito che tutta quella vita facile che avevo sognato era solo un’illusione. Piano piano ho cominciato a imparare un po’ la lingua e anche a lavorare. Per qualche tempo ho pensato che stava andando bene, però senza volerlo mi sono incontrato con la droga. Per me era una cosa poco conosciuta e non sapevo nemmeno cosa fosse veramente; non sapevo che colore e che gusto aveva. Per mia sfortuna mi è capitata in mano e l’ho provata. All’inizio mi è piaciuta perché mi faceva dimenticare la solitudine e il pensiero che ero lontano dalla mia famiglia e dal mio paese. Da quel giorno la mia vita ha cominciato a cambiare finché sono finito in carcere. E adesso penso di aver capito veramente il valore della vita, del proprio paese e della famiglia.

 

Eduarto

 

La (mia) vita in carcere

 

Prima di finire in carcere non sapevo e non capivo il valore della libertà. Non riuscivo a capire come vivono le persone in carcere finché questa maledizione non è caduta su di me. Il primo giorno per me è stato come un brutto sogno; mentre mi portavano in magazzino per perquisirmi nudo soffrivo così tanto che odiavo me stesso. Non conoscevo neanche una parola in italiano; un agente del carcere mi maltrattava credendo che facessi finta di non riuscire a parlare. Dopo sono stato accompagnato dal dottore per fare il controllo della salute.

Dopo di questo mi hanno portato in cella con un altro detenuto che puzzava così tanto che ho resistito con lui solo due giorni e poi mi sono trasferito nella cella con uno slavo. Siamo stati insieme otto mesi prima di arrivare a Piacenza.

Qui sono triste, mi chiedo perché ho sbagliato; però adesso che la mia vita è nelle mani degli altri, finalmente e, purtroppo tardi, ho capito il mio sbaglio, cioè che non si deve vivere lontani dalla propria famiglia. Ogni secondo che passa penso a mia figlia, a mia moglie e credo che la mia anima sia là da loro; qui è rimasto solo il mio corpo. Stare qui è una sofferenza e un tormento che mi sta uccidendo psicologicamente; ma dobbiamo capire che è necessario pagare i nostri sbagli e ricominciare la vita da capo onestamente come la maggior parte della gente.

Qui non ci sono amici né persone che ti capiscono; qui ognuno vive per se stesso. Ogni mattina mio sveglio, faccio il caffè e, mentre faccio colazione, i miei pensieri sono da mia figlia e da mia moglie e penso come sarebbe bello fare colazione insieme a loro. Mentre i miei pensieri sono lontani, all’improvviso si apre la porta e il mio bel sogno è spezzato dalla voce della guardia che mi chiede se voglio andare all’aria. Non mi piace fare amicizia; ci sono tanti detenuti bravi e meno bravi perciò preferisco stare da solo a combattere con me stesso…

Verso le 11 torno in cella, mangio il pranzo e scendo di nuovo a camminare dalle 13 alle 15; poi se ho voglia vado in "saletta" a giocare a scacchi, briscola, ramino.. altrimenti mi faccio una bella doccia dopodiché scrivo oppure leggo un libro, con un po’ di difficoltà perché non riesco ancora a leggere in modo scorrevole. Alle 20 guardo il telegiornale e poi se c’è una partita o un film o un bel programma. Alle 23 mi lavo i denti e poi mi metto a dormire.

Sono felice di frequentare la scuola perché la scuola mi ricorda tanto la mia infanzia e le maestre mi danno tanta voglia ed energia per guardare con più ottimismo al mio futuro. I giorni lavorativi volano; a scuola mi sento a mio agio, al martedì frequento i gruppi di auto-aiuto e al giovedì sono al giornalismo. Al sabato lavo la mia roba da solo e faccio tutte le altre cose che non facevo prima di venire qui. Mi fa piacere imparare tutto; solo così posso capire come ci si sente quando gli altri faticano per te e tu non apprezzi il loro sacrificio.

Di domenica vado in chiesa a pregare. La spesa si fa due volte la settimana; chi se la può permettere è allegro chi non può è triste. Il colloquio si fa quattro volte al mese; chi aspetta il colloquio la sera prima non dorme perché non vede l’ora di vedere i suoi cari per essere almeno un po’ felice. Chi non ha il colloquio è triste e pensa alla sua vita sfigata. E così mi sono passati i giorni, i mesi, gli anni e adesso so con certezza che la cosa più bella, più cara e preziosa è la libertà. Non esiste altra cosa nel mondo che si può paragonare alla libertà…

 

Nikolay Toshev

 

A mia madre

 

Un amore che nasce fra la mamma e il figlio dopo nove mesi di sofferenza è così grande che non dovrebbe permettere a nessuno di abbandonarla, però certe volte il destino ci obbliga d’allontanarci da lei. Io sono stato costretto a lasciarla per tutti questi anni per cercare il mio futuro dimenticando che lei è una parte importante della mia vita e adesso mi manca tanto spero che non le succeda niente di male non vorrei farla soffrire quando la chiamo per telefono mi agito; appena sento la sua voce piango perché le voglio molto bene.

 

Motoi Akrame

 

Lettura consigliata per curare i pregiudizi: Gian Antonio Stella "L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi" Rizzoli, Milano, 2002, pp. 277.

L’associazione "La Ricerca": una presenza piena di significati, di difficoltà e di forza

 

L’Associazione "La Ricerca" Onlus è presente nel carcere di Piacenza, con propri volontari e operatori, da 10 anni con lo sportello tossicodipendenze e da tre con il progetto "Sportello detenuti immigrati", gestito in convenzione con il Comune di Piacenza.

Una realtà come questa, che ha le sue radici nel volontariato impegnato nel settore del disagio giovanile, non può non essere presente nei luoghi dove questo disagio è molto forte come il carcere. All’inizio entrare in carcere per i colloqui era dare continuità al rapporto iniziato con persone che venivano arrestate mentre erano inserite nel nostro programma di recupero dalla tossicodipendenza "Progetto Uomo" oppure dopo che lo avevano terminato.

Col passare degli anni i colloqui sono diventati sempre più occasione per proporre stimoli e risorse ai detenuti tossicodipendenti che possono accedere alle misure alternative o sono in procinto di terminare la detenzione. Il Progetto che gestiamo col Comune è nato dall’esigenza di coordinare le attività degli sportelli e dei laboratori presenti nel carcere, questo progetto è diventato occasione per creare relazioni tra interlocutori diversi e che spesso parlano lingue diverse, è una fucina di idee e uno stimolo a fare sempre meglio.

Per me, dopo tanti anni di lavoro con i tossicodipendenti, il lavoro col carcere vuol dire confronto coi limiti e gli ostacoli, è un esercizio di pazienza e a volte una sfida con l’impossibile.

I punti di forza di questa esperienza sono:

riuscire a definire obiettivi comuni a operatori interni e ed esterni e non perderli di vista soprattutto quando ci sembra di non raggiungerli;

poter attingere dall’esperienza ormai ventennale di lavoro con persone pluri-svantaggiate come sono i tossicodipendenti;

riuscire a organizzare volontari e operatori che non si muovono come singoli, ma come un unico interlocutore che diventa così più visibile, più costante e più verificabile;

la collaborazione tra ente locale, carcere, terzo settore crea ricchezza di rapporti e di opportunità per i detenuti e di stimoli per la società esterna.

Ci sono anche molte difficoltà e rischi:

il rischio di accontentarci di esserci, di limitarci a proporre attività che intrattengono perché è più difficile attuare progetti che siano utili al reinserimento;

il rischio di farci coinvolgere da problemi troppo grandi, di non tenere conto dei nostri limiti e non rispettare il mandato ricevuto;

difficoltà ad individuare persone preparate e motivate a svolgere attività coi detenuti;

difficoltà ad inserire nuovi volontari e soprattutto giovani (chi si prende questo rischio?);

il rischio di suscitare un interesse per il carcere che non sia sano, ma morboso;

le scarse risorse disponibili ci costringono a volte a scelte affrettate e poco utili.

È possibile affrontare queste difficoltà intensificando il lavoro di sensibilizzazione fuori dal carcere, coinvolgendo le istituzioni in iniziative concrete, creando occasioni di confronto e di relazione tra le persone dentro e fuori il carcere, il progetto Icaro ne è un esempio.

 

Mara Verderi, responsabile coordinamento delle attività culturali ricreative nel carcere di Piacenza

Progetto Icaro, una casa pronta ad accogliere la tua famiglia e chi ti vuole bene

 

Se sei detenuto nella Casa Circondariale di Piacenza, se i tuoi cari abitano lontano e, pur desiderando vederti, non possono permettersi di sostenere le spese dell’albergo, Progetto Icaro con i suoi volontari ti può aiutare.

Perché ci rendiamo conto di quanto sia importante avere la possibilità di incontrarsi con serenità dopo una lunga separazione, senza dover sostenere altre spese, oltre a quelle che già accompagnano la detenzione.

Perché pensiamo che l’aiuto e la vicinanza delle famiglie siano fondamentali per preparare il reinserimento nella società della persona detenuta.

Perché desideriamo sostenere il tuo impegno.

Per avere informazioni rivolgiti allo sportello Caritas nella Casa Circondariale.

Pensieri in branda

 

La partita di pallone

 

Sono in cella e guardo il calendario: non vedo l’ora che arrivi mercoledì.

Mercoledì è il giorno più bello della settimana, è il giorno della partita di pallone, è il giorno della mia libertà; voi non lo potete capire ma io sì.

Perché scendo giù al campo e non penso a niente.

Penso solo a giocare e poco importa se vinco o perdo.

Sono libero.

Purtroppo le cose belle durano poco e finisce la partita.

Dobbiamo tornare in cella e io guardo il calendario: è solo mercoledì e aspetto il mio giorno di libertà.

Aspetto.

 

Gjon Tanushi

 

Le mie mani

 

Guardo il pavimento della mia cella. Guardo ogni angolo e spigolo. Guardo le mie mani e sorrido. Io sono migliore?

Sì, signori, io sono migliore; le mie mani possono fare cose molto più belle di questo pavimento.

Scusate la rabbia che ho dentro. Ma io sono un pavimentista nato e non riesco a capire perché devo stare qui a rimisurare all’infinito angoli e spigoli della mia cella.

Guardo le mie mani e sorrido. Aspetto il futuro…aspetto. E tutto passa.

 

Gjon Tanushi

Dal "Due Palazzi" al Quirinale: detenuti-volontari premiati da Ciampi

 

Un detenuto della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova e una detenuta dell’Istituto Penale Femminile della Giudecca hanno varcato, lunedì 24 novembre, la soglia del Quirinale, dove, insieme ad alcuni operatori dell’Associazione di volontariato penitenziario "Il Granello di Senape", hanno ricevuto dalle mani del Presidente della Repubblica, Carlo Azelio Ciampi, il Premio nazionale della solidarietà "Luciano Tavazza", consistente in un assegno di 15 mila euro. Tale alto riconoscimento, che l’Associazione Il Granello di Senape si è conquistato grazie al carattere fortemente innovativo delle sue iniziative, è "rivolto ad organizzazioni di volontariato che abbiano operato sul territorio con attività innovative e promozionali di prevenzione, reinserimento e integrazione, a favore di persone e nuclei famigliari a rischio di emarginazione e/o devianza, con particolare attenzione ed impegno nell’attivazione e auto organizzazione dei destinatari del servizio". ..

Il Granello di Senape ha come proprio obiettivo il reinserimento sociale dei detenuti e la sensibilizzazione della pubblica opinione sulle tematiche della pena e del carcere; l’organizzazione, dentro e fuori del carcere, di attività culturali, ricreative e lavorative; la realizzazione di programmi, anche sperimentali, mirati a sviluppare la solidarietà a favore dei detenuti, il loro reinserimento sociale e il sostegno alle loro famiglie. Ma l’assoluta novità consiste nel fatto che non sono i volontari che si occupano di soggetti svantaggiati, ma sono i detenuti stessi che fanno volontariato per cambiare la propria vita, informando, sensibilizzando il territorio, lavorando per sconfiggere i pregiudizi e le paure che accompagnano sempre chi esce dal carcere.

Presso la Casa di Reclusione di Padova l’Associazione sviluppa un’attività di carattere prevalentemente informativo ed editoriale attraverso il Centro di Documentazione Due Palazzi (60 detenuti permanentemente coinvolti), cui fanno capo la rivista Ristretti Orizzonti (7 numeri all’anno, 2.000 copie stampate, un’autorevolezza che la colloca al primo posto fra i giornali italiani dal carcere e sul carcere), il sito internet www.ristretti.it (aggiornato ogni 15 giorni, ha già più di 5.000 pagine e 60 mila visite all’anno) e la Rassegna Stampa, che produce un "dossier" settimanale su "Carcere, ergastolo, pena di morte" nonché rassegne monografiche sulle carceri di Padova e Venezia, sulla detenzione femminile, sulla scuola e sul lavoro in carcere, sulla Polizia Penitenziaria, e su altri temi di attualità.

 

"Morire di carcere": martedì 25 alla Camera è stato presentato il dossier-denuncia di "Ristretti Orizzonti"

 

Martedì 25 novembre è stato ufficialmente presentato alla Camera dei deputati, in una conferenza stampa, il Dossier "Morire di carcere", frutto di oltre un anno di accurata ricerca del Centro di Documentazione due Palazzi di Padova e della redazione della rivista Ristretti Orizzonti. Alla conferenza stampa hanno preso parte i parlamentari Marco Boato, del Gruppo Misto, Enrico Buemi, dello SDI, Ruggero Ruggeri, della Margherita; Franco Corleone (Difensore civico per le carceri di Firenze ed ex sottosegretario alla Giustizia); Sergio Segio (responsabile del Gruppo Abele di Milano); Ornella Favero, responsabile della rivista Ristretti Orizzonti, Francesco Morelli, detenuto-redattore e curatore del dossier, Livio Ferrari (presidente della Conferenza Nazionale Volontariato e Giustizia). La presentazione alla Camera è il secondo passo, dopo che il Dossier, da un mese a questa parte, è stato ampiamente diffuso per coinvolgere il più possibile il territorio sulle questioni più drammatiche legate alla detenzione.

Se ci è consentita una piccola parentesi, ricordiamo che questa faticosa e preziosissima indagine sui suicidi in carcere è nata, così come ha detto Ornella Favero nella prima presentazione pubblica a Venezia, "dalla lettura di un racconto scritto nel carcere di Piacenza", dal ricordo di un ragazzo albanese morto suicida a Modena qualche ora dopo essere stato trasferito. Il nostro pensiero va, dunque a Leonard che, per pochi mesi, ha fatto parte della nostra redazione, prima di scegliere una evasione senza ritorno.

Sanità in carcere: problemi, lungaggini e mancanza di fondi

 

Il tema è complesso, delicato e parecchio doloroso soprattutto per chi ne fa quotidianamente le spese; è al centro delle riflessioni di molte associazioni che si occupano di carcere e, in particolare, è sotto lo sguardo crudo e disincantato della redazione di Ristretti Orizzonti. Noi proponiamo una testimonianza scherzosa ma non troppo dal carcere di Piacenza

 

E la mia gamba?

 

In carcere avere qualsiasi esigenza sanitaria diventa un problema. Se soffri di mal di denti ti viene data una bustina di Aulin, per crampi allo stomaco pure e in caso di patologie più complesse andrà bene ancora la bustina. A questo punto, ritengo che l’inventore di questo farmaco, andrebbe insignito del Nobel per la medicina, visto che costituisce una panacea per ogni sofferenza.

Io sono recluso da circa quattro anni e sono privo di una gamba che persi in un incidente automobilistico. Premetto che tale menomazione non mi provoca depressioni né angosce. Con i miei compagni spesso ci scherzo sopra. Ovviamente porto un arto artificiale che periodicamente deve essere sostituito ed adeguato alle nuove esigenze deambulatorie.

Quando entrai in carcere era giusto il momento di cambiarlo, ma non ne ebbi il tempo, appunto per l’arresto. Dal carcere, segnalai ai sanitari la mia esigenza, ma venni mandato da "Erode a Ponzio Pilato" un’infinità di volte. Ancora oggi se domando ad un’assistente sociale di interessarsi per la mia gamba, magari anche non turbo, soltanto il modello base, senza optional, trovo chi si vuole assumere quest’onere, ma poi ineluttabilmente tornano tutti frastornati per essersi scontrati contro una muraglia di burocrazia e di norme di sicurezza.

Questa povera gamba ormai non fa più i tagliandi da una vita non passerebbe nemmeno più ad una revisione. "Ora", mi ha detto un compagno, "fanno quelle catalitiche, con quella non puoi più nemmeno circolare la domenica". Questa è una delle tante battute che potrei raccogliere in un libro. Chissà, forse ci farei anche qualche soldino per le sigarette.

Per l’interessamento della assistente volontaria Valla, avevo anche trovato nella generosa Piacenza, chi si sarebbe assunto l’onere economico, senza passare per l’assistenza statale. Tutto però si è sempre arenato nei meandri della burocrazia e delle competenze. Così, io la notte mi sogno gambe "bioniche", costruite con materiali in possesso soltanto della N.A.S.A.

Mi rassegno, almeno non correrò il rischio di essere fermato dalla polizia stradale, (come dice il mio compagno) in quanto la gamba attuale non è catalitica. Forse negli ultimi giorni e dopo varie strade intraprese, la stessa volontaria Sig.ra Valla è riuscita ad infrangere la barriera che si frapponeva fra me e la sospirata gamba. Hai visto mai… resto comunque in attesa del mio arto e se arriverà ve lo farò sapere.

 

Nico

Scusi…posso farle una domandina?

 

Nelle carceri italiane la domandina è un’istituzione di antica data. Per qualsiasi bisogno vi si deve ricorrere; per chiedere un colloquio con un ispettore, con la Direzione, per l’acquisto di un libro, per tagliarsi i capelli, per frequentare la scuola… qualsiasi richiesta, qualsiasi bisogno, qualsiasi lamentela deve seguire l’iter burocratico della domandina.

Va da sé che, se tutte fossero evase con accuratezza sarebbe più semplice la vita. Ma in un carcere di trecento persone, le domandine di ogni tipo possono essere anche centinaia al giorno e qui la faccenda si complica. A dire il vero qui a Piacenza non vi sono particolari motivi di lagnanza riguardo alle richieste ma, in carceri con capienze maggiori, la domandina diventa un "terno al lotto". Per ottenere l’acquisto di un flacone di "magnesia" anni fa compilai la solita domandina ma, non vedendomi recapitare il prodotto richiesto, dopo venti giorni ne feci altre con cadenza quindicinale. Il risultato fu l’acquisto di tre flaconi di "magnesia" dopo un mese e mezzo! Lungi da me lamentarmi dell’iter, visto che il fine era stato raggiunto. So che se entro una settimana dall’inoltro, la domandina non viene evasa, è opportuno farne un’altra e un’altra e poi un’altra ancora…

 

Il commento

 

Volere e avere in condizioni di libertà sono una logica ben definita: voglio, acquisto, ho, possiedo. Nella condizione di detenuto questi due semplici verbi assumono una logica totalmente diversa. Voglio, compilo una domandina: andrà persa? Sarà accettata? Mi risponderanno?

La grande compagna del detenuto è l’attesa. L’attesa di tutto. Di un processo, di un colloquio, della visita dell’avvocato, di un permesso e, in ultimo ma non certo per importanza, della libertà. L’accoglimento di una domandina ti dà un po’ di buon umore perché ti fa pensare di avere ancora potere contrattuale con la società. È la risposta a una domanda in un luogo ove ti sembra di non avere voce. Nell’adolescenza, quando volevo acquistare qualcosa, ricordo che attendevo davanti al negozio l’orario di apertura. Ero impaziente.

Il carcere e forse l’età hanno domato questi slanci. L’impazienza non è più parte di me come non lo è più la foga del giudizio, della decisione, della valutazione. Sono state le attese che mi hanno insegnato a vedere la realtà con un’ottica differente, priva d’irruenza. Questo cambiamento mi ha senz’altro risparmiato molti errori. Che siano state le domandine a infondermi questo nuovo equilibrio?

 

Enrico Fantoni

Parole oltre il muro

 

Riparte il concorso di poesie e racconti scritti dalle persone detenute nel carcere di Piacenza. Gli avvisi e il regolamento saranno a breve affissi nelle varie sezioni.

 

La Redazione

 

Carla, Enrico, Gianfranco, Indrit, Eduarto, Francesco, Gianluca, Rino, Nico, Akrame, Ivanov, Elvis, Edvin, Gjon,Vincenzo.

 

 

Precedente Home Su Successiva