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Firenze, 3 - 4 dicembre 1999
Intervento di Franco Corleone (Sottosegretario alla Giustizia) Ringrazio
chi ha organizzato questo convegno, perché ha posto un grande tema, che è
quello dell’informazione: l’informazione in carcere, l’informazione sul
carcere, quello che emerge fuori e che è sempre parziale, è incomparabile
rispetto alla ricchezza delle testate che qui sono state presentate, che in
alcuni casi manifestano uno spessore notevole. Devo
dire che questo convegno, inevitabilmente forse, non poteva che essere così,
non si è limitato ad affrontare i problemi dell’informazione, ma ha
affrontato anche i problemi del carcere. Ognuno
dei temi toccati meriterebbe un convegno a parte e, in realtà, così accade,
perché sul problema degli stranieri in carcere proprio qui a Firenze s’è
tenuto qualche mese fa un importante convegno e, sul lavoro, s’è tenuto a
Padova qualche giorno fa, e così via. Sono
molti i temi che richiederebbero un approfondimento e mi è difficile riassumere
o ipotizzare risposte che non siano sintetiche. Proprio perché mi è piaciuto
un riferimento fatto ieri, a partire dall’esperienza del giornale di Padova,
“Ristretti”, l’idea che non vi debbono essere tabù, cioè che bisogna
liberamente confrontarsi, sia nella fattura del lavoro di informazione sia,
credo, questo vada inteso anche nelle cose che ci diciamo. Ad
esempio, devo dire che trovo, in qualche modo, diciamo, stravagante, anche oggi
nell’intervista, che Marzia Belloli abbia quasi polemizzato con la proposta di
affettività nel carcere, quasi come se fosse in contrapposizione con il
problema drammatico della liberazione dei bambini dal carcere. Siccome
questa non è la prima volta che viene fatta, perché io la conosco da tanti
anni e mi ha anche scritto su questo. Io trovo che è assolutamente stravagante,
perché è una cosa sacrosanta lottare e impegnarsi per l’approvazione in
Parlamento di quelle proposte di legge che sono all’esame, purtroppo non
ancora concluso, ma non vedo la relazione, se non per questa maledizione tutta
italiana di lottare quasi tra i deboli. Invece
di arricchirsi di diversi obiettivi, da richiedere agli interlocutori che
possono essere quelli politici, quelli parlamentari, di governo, amministrativi,
ed essere solidali nel chiedere, facendosi forza delle diverse richieste, c’è
l’abitudine di dire: “No, la mia viene prima...” Continuando
un po’ sul terreno della rottura dei tabù e dell’operazione di dire la
verità, io credo che l’opera d’informazione deve servirci anche per rompere
il criterio della classificazione e usare un po’ anche il criterio della
distinzione. Io
penso che, se dal mondo delle carceri venisse fuori una maggiore informazione
sulla realtà, questo ci aiuterebbe. Un’istituzione chiusa è fondata su un
sistema di relazioni di potere: è ovvio che il maggior esercizio del potere è
da parte dell’autorità, ma siamo così sicuri che non vi è esercizio di
potere anche a livello della detenzione? E come si esercita il potere nella
nuova composizione della detenzione? Non lo so, se per esempio le notizie che
noi abbiamo su una parte di detenzione straniera, che comincerebbe ad esercitare
un potere forte sugli altri detenuti, siano vere oppure no. Lo
pongo qua, questo tema, però, probabilmente, ci aiuterebbe molto avere, da
questo punto di vista, notizie ed informazioni da parte della controinformazione
che viene dai giornali del carcere come espressione di democrazia, e non avere
solo un’informazione, diciamo “delle informative”. Confesso
che leggo alcuni dei giornali, non tutti, sarebbe una menzogna evidente se
dicessi che li leggo tutti, però, insomma, li esamino. Io
penso allora di suggerire che alcuni temi sarebbe bene approfondirli di più,
sempre dall’interno. Ad esempio il problema dell’alimentazione: credo che se
un giornale dice che si mangia male, dice una cosa che può essere vera o falsa,
ma forse è troppo poco. Da
parte dell’amministrazione si è fatto un tentativo, con queste tabelle per
l’alimentazione, e sarebbe interessante avere un riscontro che ci dica se le
cose sono cambiate in meglio, che cosa manca, o non c’è. Poi
il problema del consumo dei medicinali, quel risuonare alla sera della richiesta
di terapia: che risvolto ha, in pratica, quanti e quali medicinali vengono
consumati? Credo che, nel mondo del carcere, si potrebbe fare quel giornalismo
che non si fa più, quello delle indagini, delle inchieste. Così
come sul problema della droga: è possibile che sia emerso il problema del
consumo della droga solo perché sono tragicamente morti, in pochi giorni,
diversi giovani, a Torino, a Pisa... avere qualche inchiesta in proposito
sarebbe assai interessante. Bisogna
lavorare perché questi giornali abbiano poi una relazione con le città, io
penso soprattutto con le scuole, trovando anche il modo perché questi giornali
vengano inseriti nelle reti civiche. In
molte città oramai esiste un sistema informativo a livello comunale e, a
partire magari dalle biblioteche, chiedere che i giornali del carcere siano a
disposizione dei cittadini. Credo
che, al prossimo convegno che sarà organizzato, si possa pensare a una tavola
rotonda con i giornalisti dell’informazione ufficiale: potrebbe essere
estremamente interessante per metterli a confronto con questa massa enorme di
problemi che sono emersi oggi. Partirò,
adesso, proprio da questo problema della droga, perché mi pare che sia il
problema più spesso rimosso e che si lega a un altro problema, quello
dell’immigrazione: due temi che hanno cambiato il quadro della presenza in
carcere. Attraverso
queste presenze, maggioritarie, quasi, in molti Istituti, noi dobbiamo fare i
conti; come con altri problemi, come quelli della salute e del lavoro. Io
penso che il carcere abbia due destini davanti: quello di restare una discarica
sociale, oppure quello di avere in sé le forze per ribaltare e, da questo
destino a cui è chiamato, diventare qualcos’altro, quello che io chiamo
laboratorio sociale, un pezzo di stato sociale. Questa
è una sfida, per chi lavora in carcere, per chi nel carcere c’è ed anche
tutto quel mondo del volontariato, dei giornali, delle attività culturali,
delle rappresentazioni, perché poi il teatro è rappresentazione di opera, di sé,
etc. Ora,
penso che questa sia l’alternativa, alcuni giornali potrebbero cominciare a
far ragionare anche le università, che ci sono in tutte le città, per essere
presenti dal carcere nel dibattito sulla riforma del welfare che viene promessa,
o minacciata, dal gennaio prossimo. Una
riflessione sul welfare a partire dal luogo dove ci sono gli ultimi, i più
deboli, i tossicodipendenti, gli emarginati, i malati, gli stranieri poveri,
come diceva Sofri. Penso
che questo possa essere un approfondimento, che potrebbe essere straordinario,
prima per il carcere, ma anche per la società, perché penso che a partire dal
carcere possa emergere qualche idea intelligente su cosa debba essere la riforma
del welfare nel nostro paese. Allora,
anche per affrontare il problema delle politiche: a Torino sono morti in tre,
per overdose, e il direttore pro tempore del carcere, presente in quei giorni,
ha pensato di risolvere il problema con un ordine di servizio di questa natura:
siccome ci sono prove, o sospetti, che quella droga sia entrata attraverso degli
ovuli inghiottiti da un detenuto, i nuovi giunti dovevano essere messi in
apposite celle senza servizi igienici e tenuti lì tre giorni, a meno che
accettassero di farsi fare delle radiografie, perché attraverso le evacuazioni
si potesse giungere alla scoperta di eventuali ovuli. Questo
compito così “nobile” veniva affidato alla Polizia Penitenziaria: si può
pensare, poi, che si possa chiedere alla Polizia Penitenziaria di assumere un
ruolo di partecipazione ad un progetto culturale all’interno del carcere, se
gli si chiede di fare opere di questo genere? Per fortuna, il direttore,
rientrato, ha ridimensionato questa circolare. Questo
lo dico perché dimostra come, se non c’è una completa rivoluzione culturale,
di fronte alle sollecitazioni esterne, non si arriva a una soluzione del
problema della tossicodipendenza. Il tossicodipendente, quando esce dal carcere,
se non ha usato sostanze durante la detenzione avrà la possibilità di morire
più facilmente per overdose; se invece le usa, in qualche modo, può morirci,
perché ancor più non c’è alcun controllo su un prodotto proibito, illegale,
che entra in carcere. Lo
stesso per il lavoro, perché quando esce non gli basta avere un lavoro che gli
permette di guadagnare un milione e mezzo, o un milione e otto, se deve
spenderne il doppio per comperare la sostanza di cui ha bisogno. Così
per gli immigrati: noi possiamo fare tutto quello che la fantasia ci detta e
dobbiamo farlo ed è giusto, per esempio, che tutti i detenuti siano esenti dal
ticket sanitario e che gli immigrati, anche irregolari, siano iscritti al
Servizio Sanitario Nazionale. Ma
certo, è una palese contraddizione nel momento in cui escono dal carcere e
vengono ributtati nella clandestinità, quindi pronti a rientrare in carcere,
magari con un altro nome. Dobbiamo
iniziare da questo punto: che cosa vogliamo che sia il carcere e, per fare
questo, dobbiamo fare un’opera di trasparenza assoluta e togliere il carcere
dal cono d’ombra in cui si è venuto a trovare in questi ultimi anni. Dobbiamo
avere la capacità di affrontare i problemi della composizione del carcere, come
in passato, quando vi erano altre composizioni e, in parte, se non in maniera
completa, il problema si è affrontato. Come quando vi erano in detenzione i
protagonisti della lotta armata e, da parte di chi aveva allora la responsabilità
delle carceri, ci sono state delle politiche; oggi dobbiamo individuarle sul
fronte dell’emarginazione e della marginalità sociale. Devo
dire che qualcosa è stato fatto perché, se dicessimo che il carcere è solo un
luogo di violenza, non coglieremmo quello che vi è, vi è anche sperimentazione
e si tratta di una sperimentazione interessante, sulla quale fare
approfondimenti. In
Parlamento ci sono alcune riforme, che stanno andando avanti. La riforma del
D.A.P. è già stata approvata, il che ci consentirà, entro pochi mesi, di
avere per il personale che lavora in carcere nuovi motivi per stare insieme in
maniera solidale, per non essere più gli uni contro gli altri, frustrati e
demotivati, come accade oggi. Con questa riforma diamo prospettive di carriere
dirigenziale a molto del personale e aumentiamo gli assistenti sociali a 2500
unità, e gli educatori a 1500, praticamente raddoppiandoli rispetto ad oggi.
Abbiamo approvato la legge Simeone - Saraceni che, per quanto non applicata
adeguatamente, rimane un punto importante; e poi la legge sull’incompatibilità
tra carcere ed A.I.D.S. Il giorno 9 dovremmo licenziare, per il Consiglio di
Stato, il Regolamento di Esecuzione delle Pene, che è un importante tassello
della riforma e inciderà sulla vita quotidiana negli Istituti, che devono
diventare luoghi non più di vessazioni, di timore o di incertezza, per tutti,
perché sia gli operatori che i detenuti vivono sotto l’incubo di quintali di
circolari contraddittorie e quindi ce n’è sempre una adatta alle esigenze di
quel giorno. Noi
dobbiamo spazzare via tutto questo materiale cartaceo e avere un regolamento
chiaro, nei diritti, nelle prerogative, in quello che si può fare e che non si
può fare. Devo dire che abbiamo tardato perché credo di avere fatto,
saggiamente, un’opera di democrazia, diffondendo il Regolamento a tutto il
mondo penitenziario: dai provveditori, ai direttori, ai sindacati, al
volontariato, ai giornali, e la risposta è stata superiore a quello che ci
aspettavamo. Cosicché questo non sarà un prodotto calato dall’alto, ma
condiviso, realizzato insieme, e potrà essere il punto di partenza per cambiare
il mondo del carcere. La legge sul lavoro penitenziario è oramai finita, occorre solo il voto finale in commissione, ma si può dire che sia in dirittura d’arrivo. C’è poi quella sulle detenute madri, che è in commissione e bisogna spingerla di più, perché è ancora nella fase di discussione generale.
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