La nuova disciplina della recidiva

 

La nuova disciplina della recidiva, di Massimo Pavarini

(Ordinario di Diritto Penitenziario all'Università degli Studi di Bologna)

 

Della ex Cirielli si è fatta, dall’opposizione, moderata critica ed inefficace contrasto per quanto concerne il profilo, alla fin fine, più innocuo: l’abbrevio dei termini di prescrizione, certo per consentire anche a qualche eccellente di sfuggire l’imminente rischio di prigione, ma più in generale per offrire una chance in più a chi può efficacemente “fare resistenza” nel processo penale – solo perché può permettersi di sostenere economicamente i costi dello stesso – e quindi protrarre nel tempo l’esito giudiziario. Qualche ulteriore privilegio, volto a ulteriormente immunizzare i “ricchi” dai pericoli del sistema di giustizia penale, personalmente mi scandalizza di meno dellaltro profilo della legge in discussione: l’avere definitivamente tolto ogni speranza ai “poveri” che vi impattano. In effetti, così ragionando, sbaglio: questi profili apparentemente divergenti essi sono le facce della stessa medaglia, che ben si armonizzano, riflettendo una medesima politica criminale (cfr. G. Flora, Le nuove frontiere della politica criminale: le inquietanti modifiche in tema di circostanze e prescrizioni, in “Diritto penale e processo”, pp. 1325-56).

La legge n. 251 del 5 dicembre 2005 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975 n 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze del reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) è infatti una tappa significativa nella produzione di un sistema di giustizia penale sempre più diseguale, che persegue con coerenza l’obiettivo di un diritto sostanziale, processuale ed esecutivo differenziati; una specie di nuovo “doppio binario”, quello della sostanziale impunità per i soggetti forti e della “tolleranza zero” per i deboli.

Di fronte alle nuove disposizioni in tema di recidiva, fin da subito ci si è chiesti quali fossero le ricadute sulla già drammatica situazione carceraria. E infatti molti si sono prestati a questo esercizio, “dando i numeri”: 10.000, 15.000, financo 20.000 detenuti in più del trend da tempo oramai costante che registra una crescita annua di 6.000 detenuti (come è documentato da L. M. Solivetti, a cura di, Il sistema penitenziario italiano. Dati e analisi, Ministero della Giustizia, Roma, 2003), quale solo effetto delle riforme apportate. Esercizio in verità divinatorio in un Paese in cui la statistica penitenziaria e penale sono assai deficienti. Infatti nessuno sa, neppure al Ministero o al Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria quanti siano, con precisione, i recidivi, i recidivi reiterati, ecc. L’unico dato ufficiale, che fotografa però la realtà del 2003, indica un 64% dei condannati per delitto, “con precedenti penali” (Istat, Annuario statistico italiano, Roma, 2005, p. 140).

Premesso un veloce excursus descrittivo delle riforme apportate dalla ex Cirielli alla disciplina della recidiva (molto veloce e solo descrittivo, lasciando ad altri momenti un approfondimento giuridico più soddisfacente) farò seguire alcune considerazioni teoriche.

 

L’intento di fondo del legislatore è stato nel senso di un inasprimento della risposta sanzionatoria a carico dei recidivi, e questo si è dato per quanto concerne il quantum di pena irrogabile, le regole che concorrono alla commisurazione giudiziale della stessa ed infine le disposizioni in materia esecutiva.

  1. Ristretto l’ambito di rilevanza della recidiva ai soli “delitti non colposi”, con la legge n. 251 del 2005: si introduce un’ipotesi di recidiva obbligatoria, sia pure limitatamente a soli alcuni gravi delitti, in controtendenza a quanto inaugurato con la riforma del 1974, e in piena sintonia invece allo spirito e alla lettera dell’originaria versione codicistica;

  2. permangono facoltative le altre forme di recidiva (semplice, monoaggravata, specifica e reiterata), ma ove contestate e discrezionalmente applicate dal giudice, esse determinano conseguenze obbligatorie particolarmente severe. Così si prescrive un generalizzato inasprimento di pena per chiunque, già condannato per un delitto non colposo, ne commetta un altro. Per chi, poi, già riconosciuto recidivo, commetta un altro delitto doloso (recidivo reiterato) – indipendentemente dalla natura dei reati e dal tempo tra questi trascorso – gli innalzamenti di pena obbligatori sono ancora più pesanti.

Tutto ciò determina alcune conseguenze particolarmente significative, come la riduzione del potere discrezionale del giudice nella concessione delle attenuanti e nel giudizio di bilanciamento delle circostanze, al punto di annullarlo per effetto di veri e propri automatismi che minimizzano ogni valutazione della gravità del fatto e della personalità del reo (L. Pistorelli, Ridotta la discrezionalità del giudice, in “Guida al Diritto. Il Sole – 24 Ore”, gennaio, Dossier/1, 2006, pp. 61-66).

Così, nell’ipotesi di recidivi reiterati, la nuova disciplina introduce il divieto di operare un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti rispetto alle circostanze inerenti alla persona del colpevole. Ma il giudizio di prevalenza delle attenuanti è anche precluso in altri casi, come nell’ipotesi aggravata della determinazione alla commissione del delitto di persona non imputabile o non punibile.

Ma dove la disparità trattamentale del recidivo si fa più accentuata è in fase esecutiva.

L’art. 9 della legge n. 251 del 2005, esclude dalla sospensione dell’esecuzione ex art. 656 c.p.p. (così come novellato dalla legge Saraceni-Simeone), oltre i condannati per i delitti di cui al 4bis ord. penit., anche i condannati a pena o residuo pena inferiore ai 3 anni, ai quali sia stata applicata la recidiva ex art. 99 quarto comma c.p. Questa disciplina dovrà poi essere, direi pacificamente, raccordata coni principi da tempo avanzati ed accolti dalla giurisprudenza in tema di scioglimento del cumulo di pene.

Qualche problema presenta la questione se il divieto di sospensione dell’esecuzione debba riguardare la sola condanna aggravata dalla recidiva ovvero si applichi alla persona del condannato, purché si tratti di recidivo, anche nel caso di altra e diversa condanna. La questione è delicata, almeno nei suoi riflessi pratici. Direi, e in ciò sono confortato dall’interpretazione offerta da altri colleghi (A. Melchionda, La nuova disciplina della recidiva, in “Diritto penale e processo”, 2006, pp. 181 ss.; A. Marcheselli, Permessi premio con il contagocce ai recidivi, in “Guida al Diritto. Il Sole – 24 Ore”, gennaio, Dossier/1, 2006, pp. 79-83), che il divieto debba valere solo nei confronti dell’esecuzione della condanna aggravata dalla recidiva. Militano in favore di questa lettura tanto la formulazione letterale quanto la coerenza sistematica della disposizione. Meno, certo, la ratio del legislatore, di questo legislatore, che sembra essersi orientato politicamente nel senso della “tolleranza zero” nei confronti di definiti tipi d’autore, come avrò modo di spiegare in seguito.

Pavento questa nuova disciplina dell’art. 656 c.p. più di ogni altra. La temo, paradossalmente, perché in grado di sanare una situazione “patologica” che aveva determinato effetti virtuosi, quasi salvifici, come si dà, a volte, di certe malattie. Infatti la sospensione del decreto di esecuzione per il mese necessario al fine di presentare al Tribunale di Sorveglianza competente, dallo stato di libertà, istanza di qualche misura alternativa (prevalentemente affidamento ordinario e/o speciale e detenzione domiciliare) ha nel tempo determinato – per l’impossibilità della giurisdizione di sorveglianza di fare fronte ad un carico elevato di istanze – quella situazione anomala di un limbo – vera sala d’aspetto di fronte alla Porta della Legge di kafkiana memoria – di una esecuzione “permanentemente” sospesa per un universo sociale di alcune decine di migliaia di condannati definitivi (ripetutamente e da persone esperte e prudenti ho appreso di circa 80.000 esecuzioni penali sospese al 31 dicembre 2005, ma forse per mia distrazione non ho mai potuto verificare questa cifra da fonti ufficiali). Queste migliaia di condannati a pena detentiva inferiore ai 3 anni, sociologicamente rappresentano in larghissima misura quella che viene oggi chiamata area della detenzione sociale, se appunto in carcere finissero.

Ragionevole quindi la seguente argomentazione: se ed in quanto condannati a pene detentive tendenzialmente brevi, ma non più coperte dalla sospensione condizionale, si può supporre che la maggioranza abbia di quest’ultimo beneficio già goduto e più di una volta. Ergo: a molti sarà stata già contestata la recidiva. A quanti? Ignoro, ma probabilmente ad una percentuale ragguardevole, per quanto molto inferiore alla percentuale dei condannati definitivi con precedenti penali. II solo dato disponibile, per la verità un po’ vecchio, ma scientificamente sicuro, aveva stimato la percentuale dei re-ingressi in carcere sull’ordine 30% dell’intera popolazione carceraria in esecuzione (E. U. Savona, a cura di, Sistema di giustizia penale e reingresso in carcere, “Quaderno dell’Ufficio Studi, Ricerche e Documentazione della Direzione Generale per gli Istituti di prevenzione e pena”, n. 21, 1989).

È quindi da supporre che tra i definitivi che potevano beneficiare della sospensione dell’esecuzione prima della legge 251/2005 la percentuale di recidivi fosse superiore. L’associazione Antigone, ad esempio, stima sull’ordine del 50% i recidivi reiterati ad esecuzione penale sospesa, appunto una percentuale intermedia tra il tasso di reingressi in carcere e quello dei condannati con precedenti penali. Se così fosse – con tutta la prudenza del condizionale – solo per effetto della disposizione che fa divieto per i recidivi reiterati della sospensione dell’esecuzione, dovremmo stimare, nel prossimo futuro, un ingresso in carcere dallo stato di libertà di alcune migliaia di condannati in più all’anno. Certo: di questi molti potranno fare istanza per qualche beneficio dallo stato detentivo. Ma come sappiamo, per residui di pena brevi, i tempi dell’osservazione consumano tutta la pena. Nelle altre ipotesi, sappiamo che l’accoglimento delle istanze per percorsi di alternatività dallo stato detentivo non supera mediamente il 50% (cfr., G. A. Mosconi, M. Pavarini, Flessibilità della pena e potere discrezionale. Sentencing penitenziario (1986-1990), Associazione CRS-Centro di studi e iniziative per la riforma dello stato, Roma, 1993), come dire che di quelle migliaia di detenuti in più circa la metà vedrà l’istanza respinta, con il serio rischio di scontare l’intera pena in regime di privazione della libertà.

Abrogato l’art. 8 della legge in commento per effetto dell’art. 4 del decreto legge n. 272 del 30 dicembre 2005 n. 272, la disciplina strettamente penitenziaria è quindi riformata dal lungo art. 7, che finisce per riscrivere l’intero ordinamento penitenziario, almeno per quanto concerne il regime dei benefici.

Tacciamo della nuova detenzione domiciliare dell’ultra-settantenne. Per tutto il resto, la disciplina restrittiva di tutti i benefici penitenziari fa riferimento al “condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 quarto comma, c.p.”, come già visto per il divieto di sospensione dell’esecuzione. Do pertanto già per risolto in senso affermativo l’interrogativo se la disciplina restrittiva, di cui dirò tra breve, sia applicabile al soggetto recidivo reiterato solo sulla pena inflitta nella condanna in cui tale sua condizione è stata accertata.

Ripeto: soluzione da accogliersi per tante e buone ragioni “tecniche” e non solo; ma – a mio modesto avviso – l’intento di questo Legislatore sembra diverso, nel senso della volontà di introdurre una sorta di presunzione legale di pericolosità (appunto dopo l’abrogazione della stessa operata dalla Gozzini già nel lontano 1986) fondata sul suo stile di vita o sulla sua appartenenza a determinati gruppi sociali del condannato. Ma sul punto vedremo meglio in seguito.

Il recidivo reiterato vede rimodulati in senso restrittivo i termini temporali di ammissibilità ad alcuni benefici. In estrema sintesi: per potere fruire dei permessi-premio, deve avere espiato:

  1. almeno un terzo della pena, se in esecuzione di pene inferiori ai tre anni o alla pena dell’arresto;

  2. la metà della pena, per la reclusione superiore ai tre anni;

  3. i due terzi della pena e comunque non oltre quindici anni se condannato anche per alcuno dei reati di cui alla prima parte dell’art. 4bis ordinamento penitenziario;

  4. quindici anni infine, se condannato all’ergastolo. Per potere essere ammesso al regime della semilibertà il recidivo reiterato deve invece avere espiato almeno i due terzi della pena, se risponde anche di reati presuntivi di affiliazione al crimine organizzato. Disposizione particolarmente severa per il recidivo reiterato, per la semilibertà concedibile dopo l’espiazione di metà della pena, quanto per la semilibertà applicabile immediatamente per pene inferiori ai tre anni.

Singolare poi – come da subito sottolineato (A. Marcheselli, Permessi premio con il contagocce ai recidivi, in “Guida al Diritto. Il Sole – 24 Ore”, gennaio, Dossier/1, 2006, p. 81) – che la disposizione in oggetto faccia riferimento solo ai condannati “detenuti”: è infatti possibile che un recidivo reiterato si trovi a fare istanza di semilibertà dallo stato di libertà, ad esempio perché in differimento di pena ex art. 147 c.p. e pertanto, irragionevolmente, nei suoi confronti non sarebbe applicabile questa disciplina restrittiva. Trattasi, con tutta evidenza, di un lapsus calami.

In tema poi di detenzione domiciliare, quella c.d. generica è preclusa al recidivo reiterato, che viene pertanto equiparato all’autore di reati di cui all’art. 4bis, parte prima, ordinamento penitenziario. Quella invece “nuova” a beneficio dell’ultra settantenne, è preclusa se il soggetto sia stato dichiarato delinquente abituale, per tendenza o professionale, ovvero se sia stato condannato con l’aggravante della recidiva e non solo quella reiterata (anche se non dichiarata nella sentenza della cui esecuzione si tratta); infine per la detenzione domiciliare concedibile per motivi di studio, famiglia e salute di cui al 1° comma dell’art. 47bis ordinamento penitenziario, il condannato recidivo reiterato ne potrà godere solo per pene o residui di pena fino a tre anni.

La disposizione più severa è certamente quella di cui al 7° comma dell’art. 7 che introduce un comma 1bis all’art. 58ter dell’ordinamento penitenziario, secondo il quale «L’affidamento in prova, la detenzione domiciliare, la semilibertà non possono essere concessi più di una volta al condannato al quale sia stata applicata le recidiva prevista all’art. 99, quarto comma, c.p.»

Si pone una questione interpretativa di nodale importanza, in quanto il testo si offre a distinte letture. La legge non si esprime inequivocabilmente, per cui astrattamente non sappiamo con certezza se il recidivo reiterato possa godere:

  1. di una qualsiasi misura alternativa una sola volta in tutta la vita;

  2. di un solo affidamento, di una sola semilibertà, di una sola detenzione domiciliare in tutta la sua vita;

  3. ovvero, per ogni successiva condanna possa fruire, sia pure per una sola volta, dei benefici;

  4. infine, di un solo beneficio per ogni successiva condanna.

Per quanto mi sforzi, io non riesco a liberarmi dall’idea che la disposizione in oggetto debba essere intesa nel senso più assurdamente e odiosamente draconiano. A questa interpretazione si è coartati dalla lettera della disposizione (il riferimento al “condannato”, ad esempio), dalla lettura sistematica della legge stessa, oltre che dalla inequivoca volontà del legislatore.

Poi, certo, se questo deve essere il modo di intendere la norma, essa potrebbe risultare in violazione del principio costituzionale della rieducazione del condannato, sempre che la Corte Costituzionale non convenga prudentemente di utilizzare per l’occasione la teoria della polifunzionalità della pena. Si potrà anche sostenere che la disposizione in esame nel suo cieco rigore, sia contraria al criterio di proporzionalità (cfr., T. Padovani, Una novella piena di contraddizioni che introduce disparità inaccettabili, in “Guida al Diritto. Il Sole — 24 Ore”, gennaio, Dossier/1, 2006, pp. 32-37), ma ben sappiamo che non è in questa prospettiva che il criterio della ragionevolezza può essere fatto valere di fronte al Giudice delle leggi. È pur vero che interpretando nel senso del rigore, si aprono vistose aporie, tali da denunciare profili di vera e propria irrazionalità, come nell’ipotesi in cui una nuova misura alternativa venisse negata anche quando la nuova pena si debba riferire ad un reato precedente alla prima misura. Insomma: la legge offre il fianco a molte perplessità di natura costituzionale, alcune delle quali potrebbero essere anche censurate dalla Corte. Ma, al di fuori di ogni pur lodevole volontà di resistenza che sempre anima l’impegno civile del giurista democratico, da un punto di vista di una lettura “sociologica” della disposizione in esame — la sola prospettiva che qui interessa — essa non può essere intesa che per quello che “significa” e soprattutto “vuole” significare politicamente.

Se si dovesse dare esecuzione a questa disposizione nell’interpretazione restrittiva qui sopra richiamata, potremmo, fin da ora, decretare a breve la morte definitiva dello spirito della riforma penitenziaria (Magistratura Democratica, La proposta di legge Cirielli: emblema del diritto diseguale, in www.magistraturademocratica.it/md.php/9/653).

Quasi tutti i condannati, la maggior parte dei quali recidivi reiterati, con ben poche eccezioni, finirebbero per giocarsi la sola ed unica chance di alternatività a loro riservata, dopo di che la pena tornerebbe, come nel passato, ad essere, per il restante della loro vita e della loro presumibile carriera criminale, inflessibile. Un salto all’indietro, così, al dominio dell’intangibilità del giudicato, con buona pace di trent’anni e passa di erosione di questo “vecchio arnese” del pensiero retributivo (cfr. M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità delle pena in fase esecutiva, Martina Editore, Bologna 1996).

 

La domanda è quindi pertinente: dobbiamo paventare un futuro prossimo di mass incarceration? Dubito che questo scenario possa effettivamente darsi nella forma più coerente, cioè in quella che finirebbe per chiudere in breve tempo con i benefici penitenziari e i percorsi di alternatività alla pena privativa della libertà. Un solo beneficio penitenziario per tutta la vita, dopo di che solo e soltanto carcere (per altro con pene sempre più lunghe, per effetto della nuova disciplina della recidiva nella commisurazione della pena), comporterebbe in pochi anni il prosciugamento dell’“altro” carcere (G. A. Mosconi, a cura di, L’altro carcere, Gleup, Padova, 1982), che giova ricordare ha oggi le dimensioni del “vecchio” (M. Pavarini, Processi di ricarcerizzazione, ovvero del dominio di un certo “punto di vista”, in “Questione giustizia: La libertà delle persone”, 2004, 2-3, pp. 415-35).

Ma ipotizzare a breve un raddoppio della popolazione penalmente ristretta in Italia è irrealistico: lo è rispetto ai tassi di carcerizzazione della tollerante Europa, che non prevedono significativi allontanamenti da una media ponderata intorno ai 100 detenuti su 100.000 abitanti, con punte estreme che comunque non superano i 140 detenuti su 100.000 e già oggi, in Italia, abbiamo sia pur di poco sfondato la soglia dei 100 (M. Pavarini, Uno sguardo ai processi di carcerizzazione nel mondo: dalla “Ronda dei carcerati” al “Giromondo penitenziario”, in “Rassegna penitenziaria e criminologica”, 2002, 1-2, pp. 105-126). Lo è per ragioni “fiscali”, perché vorrebbe dire affrontare in poco tempo il raddoppio della recettività carceraria, attraverso un piano di nuova edilizia penitenziaria di proporzioni che non sono nelle disponibilità delle presumibilmente prossime magre finanziarie. E anche quando si dovesse decidere per quest’ultima strategia, giova ricordare che un piano di nuova edilizia penitenziaria di queste proporzioni potrebbe essere portato a termine in non meno di vent’anni. Ed, infine, è irrealistico anche perché rinunciare alla flessibilità della pena in fase esecutiva, significa rinunciare ad ogni strategia di premialità; e questo non è oggi – in Italia, ma anche altrove – nelle cose che sono da attendersi.

Ciononostante, questa legge “ideologicamente” prefigura lo scenario di un paese orientato ad un futuro prossimo di mass incarceration. Ripeto: almeno nel periodo medio-breve non pavento che questo possa effettivamente realizzarsi. Peraltro non ho mai ingenuamente pensato che una legge di per sé possa determinare più o meno carcerizzazione. Ma non ho neppure mai sottovalutato come determinate campagne simboliche – e la ex Cirielli è certamente parte importante di un messaggio a forte contenuto ideologico – alla fine siano in grado di favorire l’emergere di una determinata costruzione sociale della penalità.

 

La cifra politico-criminale della nuova disciplina della recidiva è inequivocabilmente di ridurre la discrezionalità giudiziaria tanto in sede di commisurazione della pena quanto in fase esecutiva. Il contenimento della discrezionalità giudiziaria è quindi tenacemente perseguito come di per sé capace di riaffermare la certezza della pena o quantomeno di contenere l’ineffettività crescente dei castighi legali. Da qui, quindi, una rivalutazione sintomatica della “ricaduta nel reato”, che deve essere anche apprezzata sotto una diversa prospettiva, esattamente nel nuovo rapporto che la legge in oggetto ha inteso instaurare tra recidiva e la prescrizione. La prescrizione attiene alla memoria dell’ordinamento e pertanto dovrebbe rimanere indifferente alla carriera criminale dell’autore; la recidiva, per quanto categoria ambigua, nel nostro ordinamento, almeno a fare corso dalla novella del 1974, dovrebbe gravitazionare più verso il polo della colpevolezza che verso quello della pericolosità (cfr., E. M. Ambrosetti, Recidiva e recidivismo, Cedam, Padova, 1997, p. 49 ss.). Ebbene, come correttamente si esprime F. Giunta, (Il marchio indelebile della nuova recidiva. Commiato dal diritto penale del fatto?, di prossima pubblicazione in “Diritto penale e processo”, 2006): “... l’avere collegato funzionalmente recidiva e prescrizione ha determinato un cortocircuito politico-criminale dagli effetti perversi il nuovo marchingegno normativo annoda memoria e dimenticanza in una dimensione relativistica di marca soggettiva che accentua, in modo selettivo, l’interesse alla repressione di fatti anche remoti nel tempo, quanto l’autore ha alle spalle una carriera criminale…”.

Emerge pertanto il Tatertyp normativo del recidivo come “nemico”, come colui non è più realisticamente possibile includere socialmente e da cui pertanto ci si deve solo difendere, attraverso la neutralizzazione: ed infatti per il recidivo reiterato si apre un circuito penale speciale, che perpetua lo stigma dell’antisocialità attraverso presunzioni legali di immeritevolezza, preclusive di un normale trattamento sanzionatorio, sia in fase di commisurazione giudiziaria della pena che in fase di esecuzione penal-penitenziaria. E così, a norma del riformato art. 69, comma 4 c.p., eventuali circostanze attenuanti non potranno prevalere sulla recidiva reiterata, con conseguente incremento di efficacia delle aggravanti che saranno pertanto destinate a prevalere o a bilanciare le attenuanti concorrenti. L’acquisizione dello status di recidivo reiterato comporta quindi effetti negativi molteplici: dall’incremento della pena comminata a altre restrizioni nella fruizione di istituti a base discrezionale (quali le attenuanti generiche, il bilanciamento delle circostanze e il reato continuato) fino all’impedimento e/o drastico contenimento nella fruizione dei diversi benefici penitenziari.

Ma, ci si deve interrogare, esiste effettivamente un’emergenza criminale oggi tale da giustificare questa disciplina della recidiva? L’interrogativo non conosce risposte facili.

Da un lato, si può sostenere che il potenziamento illimitato della discrezionalità giudiziaria sia stato e tuttora sia compartecipe della crisi dell’effettività delle pene sia in fase commisurativa (cfr., per tutti, F. Giunta, L’effettività della pena nell’epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1988, pp. 419 ss.), sia e ancor più, in fase esecutiva (cfr. per tutti, M. Pavarini, Lo scambio penitenziario. Manifesto e latente nella flessibilità della pena in fase esecutiva, Martina, Bologna, 1996). D’altro lato, questa rinnovata sensibilità per il principio di legalità della pena potrebbe meglio soddisfarsi in altra maniera, come attraverso un processo di riforma realmente capace di rivisitare in primis i tariffari sanzionatori. Insomma, è da tempo risaputo che il potere giudiziario ha supplito attraverso l’uso della discrezionalità nella fase commisurativa l’inerzia del legislatore democratico di fatto mostratosi incapace di mettere mano alla riforma di un arsenale sanzionatorio di inusitata severità.

L’altra emergenza che si potrebbe invocare a sia pure parziale giustificazione di questa nuova disciplina della recidiva – ed è effettivamente quella che più spesso è stata politicamente invocata –, è la crescente temibilità sociale della criminalità di massa. Che una certa tipologia di criminalità predatoria sia aumentata e di molto in Italia, come in tutto il mondo occidentale, è un dato di fatto, ma questo incremento è da circoscrivere oramai – almeno per il nostro Paese – alle decadi degli anni ottanta e novanta del secolo scorso (cfr. Barbagli, Sabbadini, La sicurezza dei cittadini, il Mulino, Bologna, 1999), dopo di che i tassi di delittuosità sono rimasti pressoché invariati se mai segnati da una tendenza al ribasso per alcune tipologie, come gli scippi e i furti in appartamento. Non è pertanto l’insicurezza oggettiva, come rischio di vittimizzazione, a crescere, quanto il sentimento di insicurezza, cioè la paura sociale.

 

Sulla categoria della recidiva reiterata si costruisce poi un distinto, nel senso di nuovo, processo di differenziazione della pena in fase esecutiva. Ma con caratteri di novità rispetto agli altri presenti nel nostro ordinamento penitenziario. Sappiamo che il criterio della differenziazione esecutiva si è venuto progressivamente consolidando nel nostro ordinamento (dagli originali decreti attuativi dell’art. 90 dell’ordinamento penitenziario tra il 1977 e il 1986, alla disciplina offerta dalla Gozzini nel 1986, alla normativa di contrasto alla criminalità mafiosa dei primi anni novanta del secolo scorso) attraverso l’affermazione di regimi di esecuzione distinti per maggiore severità, in ragione di valutazioni di pericolosità.

Le valutazioni di pericolosità rilevanti alla produzione di un diritto penitenziario “diseguale” sono state due: una pericolosità penitenziaria e una criminale. Quest’ultima essenzialmente orientata a due diverse figure tipologiche rispondenti a due distinte emergenze criminali degli ultimi 30 anni di storia italiana: il terrorista e l’affiliato alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Il primo girone della differenziazione (artt. 14bis e seguenti dell’ordinamento penitenziario) nei fatti non è mai decollato, almeno nella modalità previste dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, preferendosi provvedere in via amministrativa” alla neutralizzazione dei detenuti che creano problemi in carcere. Il secondo, invece, è quello fino ad ieri trasversale a tutta l’esecuzione penitenziaria, disciplinato dagli articoli 4bis, 41bis, seconda parte, e 58ter dell’ordinamento penitenziario.

La disciplina della differenziazione per ragioni di pericolosità criminale si è fondata su alcuni elementi qualificanti: una valutazione presunta di pericolosità, desumibile comunque dalla gravità di alcuni fatti di reato; e la possibilità — non solo ammessa, ma fortemente favorita in chiave di premialità — che la condotta post condanna del differenziato possa aprire lo spazio ad una valutazione favorevole ad un processo di differenziazione trattamentale di segno opposto (vedi: il collaboratore di giustizia inserito in un programma di protezione) (per tutti, cfr. B. Guazzaloca, Criterio del “doppio binario”, “utilizzo della premialità” e “degiurisdizionalizzazione” del procedimento di sorveglianza nella legislazione penitenziaria dell’emergenza, in G. Giostra, G. Insolera, a cura di, Lotta alla criminalità organizzata. Gli strumenti normativi, Giuffrè, Milano, 1995, pp. 141-176).

Insomma la categoria della pericolosità in ambito esecutivo non si è mai indirizzata verso valutazioni prognostiche di non recidività in senso proprio, ma verso la differenziazione trattamentale per tipologie d’autore di reati espressione di fenomeni valutati come pericolosi (terrorismo e mafie) e al fine precipuo di favorire in un primo tempo i processi di dissociazione e in seguito quelli di vera collaborazione. Certo, i processi di differenziazione per ragioni di pericolosità si sono avvalsi anche di momenti di neutralizzazione selettiva, ma in verità, alla fine, nei confronti di solo alcuni, in verità quantitativamente pochi: i terroristi irriducibili e i mafiosi non collaboranti. Negli anni caldi della lotta alla mafia circa 2.000 detenuti sono stati sottoposti al regime del 41bis comma 2° dell’ordinamento penitenziario; oggi poche centinaia.

Nella decade della lotta al terrorismo politico, il livello più elevato di differenziati in carceri di massima sicurezza riguardò alcune migliaia di giovani; già alla fine degli anni ottanta del secolo passato, solo poche centinaia.

II nuovo processo di differenziazione per pericolosità criminale introdotta dalla normativa sulla recidiva si costruisce invece su presupposti diversi. Esattamente: una presunzione legale assoluta di pericolosità connessa alla sola ricaduta nel delitto giudizialmente accertata, anche per illeciti bagatellari e tra loro disomogenei, purché dolosi; e l’irrilevanza, ai fini di una riconsiderazione della pericolosità, della condotta del condannato in fase esecutiva. Questa irrilevanza della condotta del reo e condannato nei confronti del giudizio di pericolosità criminale significa un arretramento temporale a quella fase oramai lontana precedente all’intervento della Corte Costituzionale che aprì la prassi della revoca anticipata delle misure di sicurezza per cessata pericolosità.

II marchio di Caino viene impresso a fuoco solo per il fatto di essere qualificato recidivo reiterato. E una volta impresso, non può più essere cancellato, con tutto quello che ne consegue. Si è e si rimane per sempre e comunque socialmente pericolosi. Insomma: una pericolosità “permanente” e “indifferente” alla stessa osservazione empirica. Indifferente anche all’evidenza, come nel caso che il recidivo-specifico fosse in grado di dare prova non altrimenti confutabile della sua cessata pericolosità.

Ripeto: impossibile dire con accettabile precisione quali potranno essere gli effetti sui tassi di carcerizzazione. Ma certamente possiamo dire che, se in una prima fase di applicazione la nuova normativa riguarderà migliaia di condannati, nel giro di pochi anni finirà per riguardare quasi tutta l’area della “detenzione sociale”, che sappiamo essere la maggioranza dell’universo sociale carcerizzato oggi in Italia (G. A. Mosconi, C. Sarzotti, a cura di, Antigone in carcere. 3° rapporto sulle condizioni di detenzione, Carocci editore, Roma, 2004).

Pronosticare un’impennata nei tassi di carcerizzazione è quindi esercizio profetico facile. In fin dei conti, come ho già detto, in Italia il tasso di carcerizzazione è di 1 detenuto su 1.000 abitanti, assolutamente nella media della vecchia, civile e tollerante Europa. Insomma: c’è spazio per crescere, solo che si butti l’occhio alle statistiche carcerarie di molti paesi extraeuropei. Ma, ripeto, non penso comunque – almeno nel breve e medio termine – ad un incremento significativo. Esso sarà ancora relativamente contenuto. Poi, certo, nei tempi lunghi, tutto potrà succedere.

 

La mia pessimistica lettura è supportata anche da una circostanza, da pochi fino ad ora sottolineata. La ex Cirielli, per quanto concerne almeno gli effetti della recidiva reiterata sul momento commisurativo ed esecutivo della pena è, non tanto “ispirata”, quanto “copiata”, con l’apporto di soli ritocchi tecnici per adattarla alla realtà normativa del nostro paese, dall’esperienza nord-americana dello “three strikes and you are out”, dalla legislazione dei “tre reati (anche bagatellari) e si è fuori” dal sistema normale del sentencing, cioè da un sistema discrezionale di pena flessibile. Si è infatti condannati in quanto recidivi reiterati ad una pena life o no-fixed, che comporta comunque un minimo di pena detentiva da scontare particolarmente elevato. Esperienza che ha oramai vent’anni, partita pionieristicamente in alcuni Stati americani, poi presto diffusasi in tutti gli stati dell’Unione.

E’ una circostanza inquietante prendere atto che il sistema di giustizia penale statunitense prima del three strikes, raggiungesse, esattamente nel 1975, un tasso di carcerizzazione uguale a quello italiano di questi giorni, cioè di un detenuto ogni 1.000 abitanti. Oggi, dopo più di vent’anni di applicazione di questa strategia di incapacitazione selettiva, i detenuti sono 2.200.000 e i condannati a misure alternative 4.500.000 annui, vale a dire 7 detenuti su mille e 13 condannati in misura alternativa sempre su mille residenti (L. Wacquant, Parola d’ordine: tolleranza zero, Feltrinelli, Milano, 2000). Un tasso del 2% della popolazione nazionale sotto controllo penale è impressionante. Tenendo conto che la popolazione penalizzata e cancerizzata è al 96% di sesso maschile e all’ 80% compresa tra i 18 e i 35 anni, si può calcolare che ogni 100 giovani maschi americani, circa 8 sono sotto controllo penale. Se poi aggiungiamo la variabile razziale, in ragione del fatto che la maggior parte dei detenuti e penalizzati negli Stati Uniti sono neri o sono ispano-parlanti, allora si raggiunge il dato vergognoso che consente di sostenere che, se sei un maschio, nero di pelle o che parli come prima lingua il castigliano, hai 50 probabilità su 100 di finire o in carcere o sotto probation prima di compiere i 40 anni. È vero: ci sono più giovani neri ed ispano parlanti sotto controllo penale negli Stati Uniti che iscritti alle scuole medie superiori.

Cerchiamo in breve di intendere la filosofia di questo nuovo modello di sentencing americano. II carcere e il sistema penale sono utili nel governo della criminalità e della recidività se ed in quanto siano messi in grado di operare con finalità di neutralizzazione selettiva (Auerhanhan K., Selective Incapacitation and the Problem of Prediction, in “Criminology”, 1999, XXXVII, 4, pp. 703-84; Blumstein A., Cohen J., Nagin D., a cura di, Deterrence and Incapacitation: Estimating the Effects of Criminal Sanctions on Criminal Rates, National Academy of Sciences,Washington, D.C., 1978; Zimring F., Hawkins G., Incapacitation: Penal Confinement and Restraint of Crime, Oxford University Press, New York, 1995)

Il fine della neutralizzazione selettiva origina all’interno di una cultura tecnocratica ed amministrativa della penalità: essa interpreta la giustizia penale come sistema che persegue obiettivi di efficienza, quali, ad esempio, differenziare la risposta per livelli di pericolosità e implementare strategie di controllo sui gruppi sociali (N. Reichman, Managing Crime Risk: Towards an Insurance-based Model of Social Control, in “Research in Law, Deviane and Social Control”, 1986, 8, pp. 151-72). La retorica che emerge è quella del calcolo probabilistico e di distribuzione statistica applicati nei confronti delle popolazioni che creano problemi sociali (J. Simon, The Emergence of Risk Society, in “Insurance Law and State”, 1987, pp. 61-86.1-86).

Non molto diversamente dalle tecniche assicurative, il linguaggio della utilità sociale e del governo dei rischi sociali prende progressivamente il posto di quello della responsabilità individuale e della prevenzione speciale nelle politiche penali. Il linguaggio della penologia tecnocratica è pertanto caratterizzato da un’enfasi sulla razionalità sistemica e formale.

Il governo amministrativo del controllo penale tende a costruirsi intorno ad obiettivi sistemici che radicalmente divergono dall’uso simbolico della penalità. La gestione amministrativa della penalità risponde solo ad una sua logica interna, svincolata da finalità extra-sistemiche.

Un’amministrazione delle pene che ribalta pertanto i paradigmi stessi dell’uso ideologico della sofferenza legale. Mentre la risorsa simbolica del sistema della giustizia penale utilizza un vocabolario in cui i termini più utilizzati sono imputazione, responsabilità personale, meritevolezza del castigo, esemplarità della pena ecc. (insomma, le molte espressioni che definiscono la riduzione individuale della dimensione sociale dei problemi), la gestione amministrativa delle pene parla un’altra lingua: quella non più di punire gli individui, ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale; non più quella correzionalistica, ma quella burocratica di come ottimizzare le risorse scarse, in cui l’efficacia della azione punitiva non è più in ragione dei telos esterni al sistema (educare e intimidire), ma è in ragione di esigenze intra-sistemiche (neutralizzare e ridurre i rischi) (M. Feeley, J. Simon, The New Penology: Notes on the Emerging Strategy of Corrections and Its Implications, in “Criminology”, 1992, XXX, 4, pp. 449-74: Actuarial Justice: the Emerging of New Criminal Law, in D. Nelken, a cura di, The Futures of Criminology, Sage, London, 1994, pp. 173-201).

Per il lungo periodo di egemonia della cultura e delle prassi correzionalistiche, la ricaduta nel delitto era cartina di tornasole dell’insuccesso dell’investimento educativo in carcere. La recidiva segnava il fallimento. Nella stagione delle misure alternative, la revoca delle stesse definiva la speranza della reintegrazione sociale come illusoria. Oggi, al di fuori di ogni filosofia special-preventiva, i parametri che segnavano l’insuccesso vengono invece interpretati come utili indicatori dell’efficienza del sistema penale nel suo complesso. Gli indici di recidività mostrano sia che il sistema penale ha fin dall’inizio selezionato efficacemente la propria clientela, sia che, sulla base della esposizione alla ricaduta nel delitto interpretata per gruppi sociali, è possibile definire predittivamente le categorie a rischio e di conseguenza diversificare la risposta punitiva.

Una discrezionalità, quindi, che non si illude più di fondarsi sulla osservazione scientifica della personalità, ma che ancora sempre più la propria decisione ad un calcolo statistico dei rischi per popolazioni criminali e gruppi sociali devianti, piuttosto che affidarsi alla sorte nello “scommettere” sull’uomo.

Lo stesso processo di differenziazione trattamentale nel carcere non risponde più al bisogno di individualizzazione dell’esecuzione per finalità special-preventive, ma si piega alla necessità di usare anche il carcere come variabile dipendente in ragione di una diversa distribuzione del rischio. Così lo strumento della pena detentiva inflessibile non si orienta ad una logica di incapacitazione individuale, per cui esso è l’estrema risposta per i colpevoli di reati particolarmente gravi, ma diventa il contenitore per tutti coloro che risultano in base ad una logica di incapacitazione selettiva come appartenenti a gruppi sociali ad elevato rischio criminale.

 

Uno sguardo a livello mondiale, ci mostra come i tassi di carcerizzazione siano lievitati, pur con diverso accento, un po’ ovunque, anche in contesti nazionali molto distanti – economicamente, politicamente e socialmente – da quanto occorso in alcuni paesi leader del primo Mondo. Infatti, con la sola eccezione degli Stati Uniti, la crescita mondiale nei tassi di carcerizzazione ha segnato soprattutto i paesi in via di sviluppo (E. Carranza, Justicia penal y sobrepopolacion penitencaria. Propuestas posibles, Siglo XXI, Mexico D.C., 2002).

Personalmente mi trovo in serie difficoltà nello spiegare il fenomeno: A livello ancora intuitivo, un’idea (certo non ancora un modello esplicativo) mi sembra relativamente plausibile, cioè soggettivamente più convincente di altre. A ben riflettere le pratiche e le ideologie penali e di controllo sociale nella storia moderna e contemporanea hanno sempre conosciuto un processo di diffusione ed espansione che alla fine riconduce (nel senso che aderisce) al punto di vista “dominante” (che tale è, perché sviluppatosi nei paesi egemoni) sulla questione criminale.

La stessa invenzione penitenziaria del diciottesimo secolo, nata nel contesto delle prime economie capitaliste e a quel sistema economico così profondamente e strutturalmente vincolata, si è poi ben presto imposta in tutto il mondo, per cui assistiamo con una certa meraviglia all’edificarsi di carceri panottiche nell’India del XIX secolo o in alcuni stati caraibici o africani, a quel tempo dominati da rapporti di tipo feudale. In seguito, la stagione delle alternatività alla pena detentiva, in forte dipendenza con l’imporsi in alcuni contesti nazionali occidentali delle politiche di Welfare, si è diffusa ovunque, anche ove non c’era, e mai in seguito neppure si conoscerà, un fantasma di stato sociale. Eppure, mi è sovente capitato di dovere dissertare di probation con alcuni operatori penitenziari, ovvero con alcuni politici e penalisti di white collar crime, in paesi in via di sviluppo nei quali le uniche effettive modalità di controllo sociale erano ancora, e ben evidenti, la pratica illegale della pena di morte da parte della polizia o il linciaggio, ovvero quella sistemica della corruzione. E gli esempi, solo avendo un po’ di pazienza e di memoria, sono numerosi.

Si pensi, per venire a fatti a noi più prossimi, al diffondersi di politiche penali di forte repressione della droga in contesti locali in cui il consumo di alcune di esse era ed è da sempre un fatto socialmente accettato; ed ancora, all’espandersi di legislazioni per la repressione della pedofilia anche dove storicamente e culturalmente rapporti sessuali tra adulti e minori erano e sono un costume diffuso e non problematico. Forse non è un’esagerazione ritenere che, almeno a fare corso dagli anni ‘50 del secolo passato, in significativa coincidenza con l’emergenza degli Stati Uniti d’America come capitale economicamente, politicamente, culturalmente egemone nel mondo “non comunista”, con ben poche eccezioni, le sole politiche di controllo sociale che si sono imposte universalmente sono state quelle veicolate attraverso il processo di americanizzazione della “periferia”.

Come si devono trattare i delinquenti non è qualche cosa che nella modernità e nella contemporaneità sia mai stato lasciato indifferentemente alle contingenze nazionali. Nei fatti, il principio della non ingerenza nelle questioni interne non è mai riuscito a porre un argine all’imporsi culturale del punto di vista dominante sulla penalità. Infatti, il governo della questione criminale è una della diverse espressioni del modo di intendere complessivamente l’ordine sociale e pertanto è per eccellenza la componente più preziosa che una cultura nel suo complesso esprime. Non deve stupire pertanto che la cultura storicamente egemone – nel caso che qui interessa, quella occidentale dei Paesi economicamente più avanzati – tenda naturalmente ad imporsi e farsi progressivamente il punto di vista che conta universalmente.

Certo il grado di coerenza nell’importazione progressiva di questo punto di vista in contesti culturali distanti e disomogenei è assai differenziata: per alcuni è immediata per altri invece è confusa e compromessa con la sopravvivenza di altri modi di intendere e praticare la questione del governo dell’ordine sociale. Ma pur sempre, alla fine, questo punto di vista dominante esterno conquista un suo spazio di visibilità e poi di effettività, sia pure insieme ad altri. Perché, infatti, in molte realtà del mondo in cui la libertà dei più e in particolare delle maggioranze emarginate non ha mai avuto un valore economico, da almeno due secoli, di fatto si punisce anche attraverso la privazione della libertà?

Perché di fatto si accetta in queste realtà la contraddizione di dovere sia pure malamente mantenere chi finisce in carcere, quando le classi sociali da cui questi detenuti provengono muoiono di fame, contraddicendo così la regola aurea dell’internamento carcerario, cioè la legge della less eligibility che impone di differenziare la qualità della vita tra poveri onesti e poveri disonesti? E che dire, della diffusione delle garanzie processuali (certo: a parole, ben più che nei fatti) in realtà sociali segnate profondamente da rapporti di servitù? I modelli dominanti in politica criminale insomma penetrano ovunque, come l’abitudine di bere Coca-Cola. Poi, certo, accanto a questa, si continuerà ancora, in molte realtà, a masticare foglie di coca, a bere vino, a sorseggiare tè, a fumare tabacco. Ma attenti: sempre meno.

Insomma: più o meno carcere nel mondo (un più o meno, ripeto, apprezzabile più simbolicamente che materialmente) non sembra avere molto a che vedere con la criminalità, con l’ampliarsi o restringersi dell’universo di esclusi dal lavoro, con le variazione nelle rappresentazioni sociali della pericolosità nelle grandi periferie mondiali; o meglio ha anche a che vendere con tutto questo, ma nel senso che, nella presente contingenza storica, l’aumento della criminalità, il diffondersi dell’insicurezza sociale, le pratiche di esclusione imposte dal mercato, i nuovi processi di mobilità determinati dalla globalizzazione, la riduzione dello stato sociale ecc. sono solo gli elementi attraverso i quali – in primis nella “capitale” – si costruisce, si impone e alla fine si diffonde universalmente una nuova filosofia morale, un determinato punto di vista sul bene e sul male, sul lecito e sull’illecito, sul meritevole di inclusione o di esclusione.

 

Sono personalmente convinto che la legge n. 251 del 2005 si richiami alla filosofia della incapacitazione selettiva e che pertanto il legislatore si sia ispirato all’esperienza nord-americana sopra sinteticamente richiamata. Nella logica oggi fortemente presente anche in Italia delle politiche sicuritarie che si fondano sui sentimenti di insicurezza espressi dalle collettività cittadine, i nuovi nemici opportunisti non sono (solo) i mafiosi e neppure (solo) i terroristi. Ciò di cui io, come cittadino, più pavento sono i furti in appartamento, gli scippi, i borseggi, i piccoli o i grandi attentati alla proprietà privata.

Temo, e non dico sempre irrazionalmente, gli spacciatori magrebini, gli sfruttatori albanesi, i giovani ladri rom, gli immigrati irregolari ecc. Non sopporto più i livelli crescenti di inciviltà urbana, anche se spesso penalmente irrilevanti. Insomma, alla fine, i miei nemici, quelli da cui debbo tutelarmi, sono i variegati personaggi affiliati al grande esercito della illegalità di massa. Insomma: i tanti e sempre crescenti salariati dell’economia criminale. Quelli che entrano ed escono dalle patrie galere.

E’ un dato criminologicamente conosciuto che i reati predatori, cioè quelli opportunistici contro la proprietà, sono oramai di massa. Ma masse non sono (sempre) coloro che li commettono. Si è calcolato che tra il 15 e il 22% di coloro che sono stati condannati per alcuni di questi delitti risultava responsabile di più del 50% di tutti i reati predatori consumati nel medesimo territorio nell’ultimo anno, includendo anche quelli coperti dalla “cifra oscura”. Mediamente – attenendosi alle dichiarazioni offerte da questa minoranza di “criminali in carriera” – essi in libertà infrangevano la legge penale più di duecento volte all’anno. Da qui l’ovvia tentazione: se si potesse individuare con precisione questa minoranza di criminali all’inizio della loro criminal career prima che si trasformino in career criminals, basterebbe mettere questi “pochi” nell’impossibilità di delinquere per ottenere “grandi” risultati nella riduzione della criminalità.

La questione è quindi quella, ben conosciuta dalla scienza penalistica del giudizio di pericolosità sociale o criminale, cioè, in ultima istanza dei criteri di predittività dell’azione deviante. Una vota che questi siano individuati e che rispetto ai medesimi si confidi nella capacità tecnica di selezionare i futuri high-rate offenders, la risposta sanzionatoria non sarà in ragione di valutazioni di colpevolezza, ma di sola pericolosità. E senza ovviamente che si debba mettere in campo il rito di valutazioni criminologiche personologiche, palesatesi costose quanto inutili: i criteri di presunzione legale di pericolosità debbono essere costruiti su valutazioni statistiche di rischio per appartenenza a gruppi.

Se il target sociale che suscita, a torto o a ragione, le mie paure, è prevalentemente costituito dall’esercito dei proletari dell’economia illegale e criminale (cfr. Ruggero, Economie sporche: L’impresa criminale in Europa, Bollati Boringhieri, Torino, 1996) questa legge ha una sua indubbia coerenza. Certo: alla fine una sola coerenza ideologica, perché la realtà americana di questi ultimi vent’anni ci sta ad insegnare che per quanto elevi i criteri di neutralizzazione selettiva del sistema penale (addirittura: di sette volte!), alla fine l’efficacia nel contrasto alla criminalità di massa è trascurabile. Si dovrebbe potere incapacitare la maggior parte dell’emarginazione sociale controllando penalmente la maggioranza dei poveri, per ridurre significativamente la criminalità, meglio, questa criminalità. Il che, anche per la intransigente e ricca America, è alla fine impossibile. I marginali e i poveri sono (sempre) troppi per potere “efficacemente” neutralizzare attraverso la repressione penale le classes dangereuses. Ma il solo fatto che sempre più marginali e poveri vengano comunque colpiti dal sistema penale-carcerario ha un’innegabile funzione pedagogica in sé e per tutti.

Onestamente, non temo che l’Italia seguirà coerentemente nei fatti e fino in fondo il modello “zero tolerance”. Insomma: non riesco ad immaginare, neppure in tempi medio-lunghi, l’Italia con una popolazione carceraria di 400.000 detenuti, quanti sarebbero ove il nostro paese eguagliasse i tassi di carcerizzazione presenti oggi negli Stati Uniti. Ma un incremento, nel giro di pochi anni, dei penalmente penalizzati e carcerizzati di un 30-40%, forse sì. È assai probabile: E già questo è sufficiente ad inquietarmi. Ma a preoccuparmi ancora di più è il senso etico che questa scelta di “colpire duro” i deboli finisce per diffondere socialmente.

 

 

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