Omosessuali in carcere

 

Transessuali e omosessuali in carcere: proposte per il futuro

 

Aut, maggio 2004

 

Il 17 marzo si è svolta, presso l’Aula Giulio Cesare del Comune di Roma, alla presenza di numerosi rappresentanti delle istituzioni e dell’associazionismo, la presentazione della “Bozza del Piano per il carcere 2004 – 2005 – 2006”: questo strumento di portata storica nasce dall’impegno di tutte le realtà che lavorano all’interno delle carceri e delle istituzioni competenti in materia. Il Circolo Mario Mieli, già impegnato all’interno della Consulta permanente cittadina del Comune di Roma per problemi penitenziari, ha svolto sui tavoli di lavoro, creati per la compilazione del Piano, il proprio compito in difesa delle persone omosessuali e transessuali rinchiuse nelle carceri romane. 

La condizione delle persone transessuali è drammatica: vivono separate dagli altri detenuti, sono oggetto di desiderio sessuale e al contempo di “disgusto” per la loro “manifesta diversità”, spesso sono straniere con un decreto di espulsione che le attende a fine pena. Non solo, la risposta del carcere alle loro esigenze è ben poca cosa: mancano controlli medici specialistici sulla somministrazione degli ormoni; il sostegno psicologico loro fornito è del tutto insufficiente, come anche è assente una corretta educazione sessuale: il tema del sesso, infatti, continua ad essere ostinatamente un tabù.

Questione diversa e al tempo stesso altrettanto delicata è, poi, l’omosessualità: i gay, spesso per evitare di essere oggetto di segregazione, preferiscono tacere e restare nell’ombra piuttosto che affrontare la realtà circostante e quella interiore. All’interno delle mura carceraria non si ha altro che l’ampiflicazione dei problemi presenti nella c.d. “società dei liberi”.

Attraverso questo Piano, il Circolo Mario Mieli, insieme ad ArciTrans – Libellula 2001, ha voluto dare voce a questi problemi, indicando il percorso da seguire per rispondere alle richieste di aiuto che prevengono dall’interno mondo – carcere. 

Le nostre proposte:

Interventi che favoriscano l’integrazione nella vita all’interno dell’istituto penitenziario e lo sviluppo delle potenzialità creative delle transessuali (corso di teatro, corsi di attività artigianali, corso di pittura);

Gruppo di sostegno e di auto-aiuto per l’informazione e il raggiungimento della consapevolezza della propria condizione psicologica e l’individuazione di obiettivi realisticamente realizzabili a breve termine nell'istituzione penitenziaria e a lungo termine nella vita sociale allargata;

Corso di italiano per stranieri ai fini dell’integrazione e del superamento della barriera linguistica;

Consulenza endocrinologia, a carico del S.S.N., nel percorso di adeguamento tra l’identità psichica e l’identità fisica. A tale scopo ci si può avvalere del SAIFIP - San Camillo, una struttura che da già anni interviene attivamente su questa realtà;

Informazione e counseling sulla sieropositività e sulla prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili;

Corso di formazione degli operatori penitenziari volto a informazione e maggiore attenzione sul tema.

Il carcere, con e senza le sbarre

 

Intervista a Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente cittadina e coordinatore del Piano permanente per il carcere del Comune di Roma

 

“II Piano deve rappresentare per tutti lo “strumento ordinario” attraverso il quale garantire i diritti essenziali alle persone detenute e permetterci un costante adeguamento all’evoluzione dei problemi”. Lillo Di Mauro, presidente della Consulta permanente cittadina e coordinatore del Piano permanente per il carcere del Comune di Roma, parla non solo di questo nuovo e importante strumento sociale ma anche e soprattutto del suo essere omosessuale e della sua vicinanza alla sofferenza. Perché il carcere può essere quello che viene costruito per gli omosessuali all’esterno, anche se senza sbarre.

 

Il Piano presentato a Roma il 17 febbraio è indubbiamente uno strumento di lavoro di portata storica. Cosa può dirci?

Questo Piano trova le sue origini dal basso, dalla volontà delle realtà appartenenti al terzo settore e degli stessi detenuti di “sistematizzare” l’intervento all’interno delle carceri e sottrarlo dalla strumentalizzazione della politica. È un lavoro imponente che ha visto unirsi intorno a un tavolo e giungere a un accordo, grazie anche al lavoro di sensibilizzazione che mi ha visto in prima linea, parti molto diverse tra loro (sindacati, consolati, ministeri, assessorati…). Gli interventi che si vogliono portare in carcere, partendo dalla valorizzazione e implementazione delle risorse già esistenti, comprese le organizzazioni di detenuti interne agli istituti, prevedono, oltre al miglioramento delle prestazioni sociali e sanitarie, la realizzazione di corsi di formazione professionale e culturale, l’apertura di sportelli di informazione, l’organizzazione di spettacoli, progetti di inserimento lavorativo, sostegno psicologico ed economico, segretariato sociale, comunità di accoglienza e centri diurni.

  Visto la particolarità del suo ruolo, viene da chiederle come è giunto ad occuparsi del mondo del disagio?

Il mio è stato un percorso ben preciso nell’ambito del disagio sociale e nasce non da una appartenenza ideologicapolitica, ma da una particolare sensibilità personale alla sofferenza, dovuta al mio stesso trascorso di vita. Voglio chiarire questo punto: la mia sensibilità non nasce dal fatto di essere omosessuale ma da una conoscenza diretta della sofferenza giorno dopo giorno. Sin da piccolo ho dovuto vivere da solo la mia sessualità, affrontare senza alcun confronto esterno la mia identità. Essere fanciullo cosciente del proprio desiderio sessuale e strumento di piacere per vari adolescenti in un piccolo centro rurale con genitori già anziani, legati alla antica cultura contadina a cui si riferiva Pasolini, di certo non aiuta a comprendere, però ringrazio questa mia storia e questa mia solitudine perché hanno saputo rendermi più attento a me stesso, protagonista nel dolore e nella gioia del mio destino.

Certo, lungo è stato il percorso e tantissimi i dolori: il primo innamoramento totale ma non corrisposto, l’angoscia, la paura di essere il solo al mondo, il desiderio della morte, l’estenuanti ricerche per incontrare l’amore della mia vita nei recinti creati dalla cultura discriminante e razzista che molto sottilmente ha sempre pervaso il nostro Paese, ricerche che si concludevano sempre a letto e che lasciavano spesso l’amaro in bocca. Si capisce, quindi, come io conosca bene la radice della sofferenza e che, di conseguenza, avverta e partecipi di quella altrui.

 

Perché questo particolare interesse per i detenuti?

L’interesse per il carcere inizia con gli adolescenti detenuti. Per me i giovani rappresentano la gioia della vita; rappresentano quella vitalità e quella spensieratezza a me negata e, al contempo, racchiudono in loro quella stessa sofferenza che mi appartiene. Il mio impegno, poi, mi ha portato ad occuparmi anche degli adulti. Ricordo ancora lo sconcerto della prima volta che ho varcato il portone di Regina Coeli: quei volti e quelle braccia che uscivano fuori dalle sbarre, appartenenti ad uomini che ti chiedono tutto, a volte anche senza più la dignità di essere umano.

 

Venendo ad un tema a noi vicino, come vede la situazione delle persone omosessuali e transessuali nelle carceri?

In carcere ci sono individui che per loro stessa condizione anagrafica e sessuale sono doppiamente reclusi. è proprio in questi casi che il mio intervento e il mio lavoro hanno ancora più senso. Come omosessuale ho sempre avuto una particolare attenzione su questo punto. Fa male, infatti, vedere le transessuali messe lì, sole, come scimmiette in gabbia, senza essere raggiunte da alcun intervento socializzante oltre che, peggio, sanitario; come anche sapere che l’omosessuale maschio o femmina, se si dichiara, viene isolato dagli altri detenuti “per il suo stesso bene” (dicono proprio cosi!). Viene loro negata la sessualità come a tutti gli altri detenuti ma anche l’identità e l’affermazione, non possono ricevere le visite del proprio compagno o compagna di vita, affiancando così, alla violenza della mancanza di libertà, quella della privazione dei propri affetti.

 

Oltre ad interessarsi di carcere, lei ama scrivere poesie, occuparsi di politica, impegnarsi attivamente per la comunità glbt. È stato tra l’altro tra i collaboratori del primo ArciGay Nazionale di via Cesare Beccaria a Roma. Con il suo modo di essere che modello vuole rappresentare per i più giovani?

Non voglio rappresentare un modello, piuttosto esortarli a non lasciare mai che nessuno condizioni il loro destino, la loro fiaba di vita. Se devo esprimermi verso un modello di omosessualità, pur rispettando tutti, mi sento distante da quello rappresentato dal mondo dello spettacolo di oggi. Un modello che trovo funzionale al potere e alla cultura dominante che ci preferisce “scimmiottini” riferendosi unicamente a una visione “cabarettistica” dell’omosessualità, piuttosto che confrontarsi con quello che io stesso e persone come me rappresentano. Io credo che i movimenti dovrebbero battersi e impegnarsi in questa direzione. In questo senso trovo che il Mario Mieli stia facendo un percorso positivo che non si limita alla spettacolarizzazione dell’omosessualità ma alla sua affermazione culturale e sociale.

Io e il mio compagno, ma anche voi e molti altri omosessuali maschi e femmine, lavoriamo ogni giorno a vario titolo per l’affermazione dei diritti non solo degli omosessuali. Molti di noi sono inseriti nella società con ruoli di responsabilità che ci consentono di far sapere cosa pensiamo sulla pace, sulla politica, sulla società, sulla cultura: io so che dobbiamo continuare su questa strada. L’omosessuale fino a venti anni fa era assimilato a Michelangelo, a Raffaello, ai grandi della storia, della letteratura della poesia; oggi dal crogiolo di questa società “libertaria” e “permissiva” siamo assimilati alle paillettes, alla pornografia, alla violenza vedi pedofili. La mia figura rompe sicuramente con questo stereotipo di omosessuale e mi rendo conto che per i maschi eterosessuali è molto più traumatico confrontarsi con me, perché mio malgrado finisco col mettere in discussione la loro stessa sessualità. Vorrei finire, se mi è permesso, con uno strano parallelismo tra il carcere “istituzionale” e il carcere che viene costruito per gli omosessuali all’esterno, anche se senza sbarre. È questo quello che vuole il sistema, il ghetto piuttosto che omosessuali liberi, determinati e rispettati ed è questo che dobbiamo combattere.

"Quando valichi la porta del carcere fai un passaggio non solo di libertà ma di vita: è un altro mondo che vive di regole diverse da quelle dell’esterno, è un’altra vita. Lo stesso odore è quello di un luogo perduto, avulso dalla libertà"

 

 

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