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Tortura democratica - inchiesta sulla Comunità del 41 bis reale di Sergio D’Elia e Maurizio Turco, edizioni Marsilio
Prefazione di Marco Pannella
Eravamo da un paio d’anni deputati, quando Emma Bonino, Adele Faccio e Mauro Mellini decisero di "occupare", barricandovisi dentro, le Murate di Firenze. Non ricordo più per ottenere il rispetto di quale norma dell’Amministrazione, che dopo alcuni giorni venne assicurato e si poté così finirla con quella inedita carcerazione volontaria. Eravamo, mi par di ricordare, nel 1978. Radiotelevisioni, grande (e piccola) stampa, tacquero: la gente non ne seppe nulla; di già le azioni nonviolente, neogandhiane, divenivano d’imperio e subito clandestine, essendo invece concepite e compiute proprio per "manifestare" un problema, un obiettivo. Dal 1946, per trentanni, migliaia di deputati e senatori della Repubblica non s’occuparono mai di ispezionare carceri e condizioni dei detenuti, non ebbero – pare – mai nemmeno il dubbio che potesse esser serio e necessario sistematicamente ispezionarle, e che a tal fine non avevano che da esercitare una loro "prerogativa". Nel 1976, appena eletti, noi 4 deputati (accompagnati dai nostri "deputati supplenti" Franco De Cataldo, Roberto Cicciomessere, Suor Marisa Galli e Angelo Pezzana) iniziammo quelle "visite" che da un Ferragosto, Natale e Capodanno all’altro e da oltre un quarto di secolo i parlamentari radicali sono venuti sistematicamente compiendo. Attraversammo estati di fuoco, rivolte e repressioni nelle "case di pena" italiane, dove la pubblica Amministrazione ed i Governi hanno per ora sequestrato almeno due milioni di persone, per oltre il 60% dichiarate innocenti dalla "Giustizia", spesso annientate con le loro famiglie, non solamente sul piano morale, della qualità della vita, ma della vita stessa. Le giornate intere, dall’alba al tramonto, da una cella all’altra, da Poggioreale all’Ucciardone, dalle "Nuove" a San Vittore e Regina Coeli, a Volterra o Trani, Palmi o Badu e Carros, dall’Asinara a Pianosa, con detenuti e agenti di custodia, e Direttori, medici, cappellani; sulla scia di suicidi e suicidati, nel bel mezzo di regni ferocemente ordinati dei boss, della ferocia terroristica interna, e moltitudini ammassate come bestie, sempre meno e meno numerosi in condizioni di comprendere e di essere informati sulla propria "situazione giudiziaria", nemmeno dai propri avvocati, per quanti ne avessero... Certo, "le" carceri non sono più quelle. Ma le filiere assassine scie dei cento e cento "casi" Tortora, Cirillo, Moro, con i loro "gruppi di fuoco" costituiti da magistrati, giornalisti, terroristi e criminali "comuni", pentiti e politici, non sono affatto cancellate, anzi sono divenute malcelati orpelli di grandi "carriere", di storie e complicità storiche ed ideologiche di individui potenti. Nell’estate del ‘92 alcuni parlamentari radicali si recarono al carcere di Pianosa, nella sezione Agrippa, che era stata improvvisamente riaperta dopo anni di abbandono. Il giudice Paolo Borsellino era stato appena ammazzato e, nel giro di una notte, circa settanta ‘mafiosi’ furono, come si dice in galera, ‘impacchettati’ e trasferiti nell’isola. Altri finirono all’Asinara, che era stata chiusa nel dicembre 1980 per azione convergente di Bettino Craxi, del Generale Dalla Chiesa e nostra, durante il sequestro del giudice D’Urso. Arrivarono a destinazione tutti con solo quello che avevano addosso quando furono presi di notte nelle celle dell’Ucciardone e di altre carceri siciliane, e così li trovarono - chi in pigiama, chi in mutande – Marco Taradash, Elio Vito, Emilio Vesce e Sergio D’Elia che erano andati a fargli visita. In base a quello che avevano visto e sentito, a quello che mi fu raccontato nei giorni successivi, alle lettere, ai telegrammi e alle telefonate di familiari e avvocati di detenuti, presentai un’interrogazione al ministro della giustizia. Chiesi se gli risultava che a Pianosa, in particolare: si imponesse ai detenuti una attività sportiva o fisica, in modo indiscriminato e crudele; fossero abituali forme di violenza quali pugni, calci, manganellamenti, fino all’abuso nei confronti di due detenuti handicappati che erano stati visti recarsi senza stampelle, senza aiuto, strisciando per terra ai colloqui con familiari o difensori; non fosse consentito il cambio delle scarpe, quasi tutte, stranamente, per chi non conoscesse l’attività "fisica" cui erano costretti per ore i detenuti, con le suole usurate; si consentisse l’uso delle docce una volta ogni quindici giorni, per tre o quattro minuti, chiudendo l’erogazione dell’acqua in termini improvvisi e ‘lampo’; fosse riscontrabile la scomparsa di capsule di denti, in numero considerevole; fosse stato denunciato che i pasti costituissero un’altra occasione di violenza, con trentaquattro pezzi di pasta corta, una patata, un litro d’acqua per l’intera giornata, senza carne e senza pesce come invece previsto dai regolamenti; fosse registrata una caduta di peso dei detenuti, in poche settimane, di dieci kg. e oltre; i detenuti fossero costretti al silenzio, sia durante le ore di aria, che nelle stesse loro celle. Ricordo - quanto bene - il mio interrogare Salvo Lima, durante una sessione del Parlamento Europeo a Strasburgo, su cosa sapesse e pensasse di questa situazione. "Abbiamo certo dimostrato con provvedimenti del governo, di Andreotti e di Martelli, quanto siamo stati capaci e determinati ad assumerci gravissime responsabilità - più di ogni altro fino ad oggi - nella lotta contro la realtà criminale mafiosa," mi rispose. "È una logica di guerra, contestabile ma rispettabile e – probabilmente – rispettata." Ricordo che, a questo punto, soggiunse: "Poiché me lo chiedi, devo però aggiungere che quel che voi state constatando è realtà tale che non sarà rispettata né tollerata, molto probabilmente. Non ti nascondo che ne sono molto preoccupato. Li si tratta con ferocia, come bestie, contro quel che dettano la legge e le leggi nostre? Come sorprendersi se ritenessero di dover - loro – reagire con la ferocia di bestie?" Anche per questo, poco dopo, con il cadavere ancora caldo di Salvo Lima, immediatamente ne onorai la memoria, e affermai che Lima moriva assassinato dalla mafia, così come altri dalla "guerra alla mafia" traevano potere, successi, vittorie. Lo ribadisco ancor oggi: i criminali peggiori, più pericolosi, sono i "colletti bianchi" (si sarebbe detto una volta), gli "uomini dalla voce dura", per i quali i fatti di Pianosa e di ogni dove sono stati difesi, resi vincenti, esemplari anche; con l’alibi dei "41 bis", delle antimafie mafiose. Perché il "41 bis" non è astrazione scritta, ma la sua applicazione concreta, come questo libro racconta e dimostra. Potrebbe divenire altro alla sola condizione di procedere a processare i fatti e misfatti del "41 bis reale" e condannare i responsabili in modo equo tanto quanto esemplare. Dubito che il Csm se ne occupi. Il "Csm reale", beninteso, quello golpista, non certo quello iscritto nella Costituzione. Ricordo la mattina in cui, dinanzi al tabaccaio di noi deputati, a Montecitorio, incontrai il ministro dell’interno e "amico" Virginio Rognoni. Gli dissi che avevamo la sera prima registrato una tribuna autogestita, con Emma che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Lenardo, un brigatista arrestato e torturato nelle ultime ore del rapimento del generale americano Dozier. Gli chiesi se fosse a conoscenza del fatto, e dei documenti che noi in tal modo rendevamo televisivamente "pubblici". Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento, e dopo un istante sbottò: "Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini..." La tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno, sulla grande stampa, in Parlamento, nella magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene. Virginio Rognoni è oggi il massimo esponente istituzionale del CSM. Gli dedicherò una copia di questo libro! Nel merito delle questioni poste, non mi ricordo di una risposta soddisfacente del ministro sui fatti di Pianosa; ricordo, però, che vessazioni nei confronti dei detenuti furono confermate alcune settimane dopo in un rapporto redatto dal magistrato di sorveglianza di Livorno Rinaldo Merani dopo la sua visita nell’isola. A dieci anni esatti di distanza, Maurizio Turco e Sergio D’Elia hanno compiuto questo "giro cella-a-cella" nelle sezioni del 41 bis per capire la realtà odierna della detenzione speciale in Italia; chi sono i ‘mafiosi’ oggi in isolamento, da quanto tempo sono in quelle condizioni. Hanno fatto – Maurizio che presiede il gruppo di noi deputati radicali europei, e Sergio che ha portato "Nessuno tocchi Caino" a essere e operare come la più importante e significativa delle forze impegnate nel mondo a mutare, permutare la pena di morte in civile recupero del diritto della e alla vita - quello che avrebbero dovuto fare la Commissione parlamentare Antimafia e le Commissioni Giustizia di Camera e Senato prima di discutere e proporre modifiche o, addirittura, decidere la stabilizzazione del carcere duro. Le carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa sono state chiuse, il regime speciale non arriva oggi ai limiti della violenza fisica diffusa, sistematica come è accaduto nei primi anni ‘90, eppure rimangono ancora condizioni di detenzione e finalità di pena (ancorché in molti casi non comminata) indegne, intollerabili in un paese civile. Già compromessi agli occhi dei giudici e dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere detenuti per mafia e, quindi, dei "mostri", si continua ad esigere da loro anche una condotta di "collaborazione" che consista in tradimenti e delazioni che li rendano "infami" a tutti gli effetti. Vi è una storia dell’infamia che ritorna oggi, se non coi codici, le procedure e le rappresentazioni di un tempo, sicuramente con le stesse dinamiche e finalità distruttive. Su sedici morti in regime di 41 bis di cui è stato possibile sapere, sette si sono suicidati. Noto appena che teoricamente i "suicidi" in carcere andrebbero sempre evocati... con le virgolette. Antonino Gioé fu ritrovato impiccato nel carcere di Rebibbia, il 28 luglio del 1993, alcuni giorni dopo il suo arresto. Aveva accanto un biglietto dove c’era scritto "Da diciassette anni sono un mostro..." Non sapremo mai quanti di loro abbiano voluto in quel modo liberarsi di infami condizioni di detenzione o inteso piuttosto ribellarsi a un retaggio della storia, alla pena d’infamia (e alla gogna che gli è propria) a cui l’essere considerati ‘mafiosi’ li aveva condannati. Ma non c’è solo l’infamia inflitta attraverso il discredito sociale, la delegittimazione morale, la cancellazione umana, opera dei professionisti della gogna, dei perbenisti di professione, dei difensori dell’Italia dei valori, dell’ordine e della sicurezza pubblica. C’è anche la forma attiva dell’infamia, quella ottenuta attraverso la "collaborazione con la giustizia" a cui i mafiosi sono costretti e che non veniva esatta neanche nel Medioevo. "Non risulta avere dato segni di ravvedimento o manifestato la volontà di collaborare con la giustizia," è scritto tuttora nei decreti ministeriali con cui si impone ai mafiosi il carcere duro. È quello che pensano e dicono i Violante e i Maritati, senza rendersi conto – perché gli viene naturale – che pensano e dicono quello che nel diritto internazionale va sotto il nome di tortura. È che ci si attende non di rado da loro il "vero" di teoremi accusatori, non necessariamente del "vero" storico. È eccessivo parlare, oggi, di pena d’infamia e di tortura, abolite da secoli, per i detenuti – non solo i condannati, ma anche gli indagati, gli imputati, i giudicabili – per reati di mafia? Credo di no, specie se si tiene conto di come vivono e si realizzano le norme del 41 bis. La pena d’infamia era la sanzione inflitta ai "dignitari", i cittadini abbienti di un tempo, e comportava la perdita di una serie di diritti civili, l’esclusione dal proprio ceto di appartenenza, l’assimilazione a coloro che sul piano della dignitas non avevano nulla da perdere, appunto gli infami. La pena d’infamia corrispondeva alla pena di morte riservata invece agli emarginati, ed era la cancellazione del reo in quanto "persona" dalla faccia della terra. Il termine "tortura" avrebbe indicato più tardi "qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona". Allora, mi pare evidente che già l’avviso di garanzia, l’inchiesta e il carcere nei confronti dei "presunti" mafiosi rappresentano - per individui cui viene negata alla radice e in toto la presunzione costituzionale di non colpevolezza - una condanna, un marchio d’infamia che li fa precipitare, immediatamente, al grado più basso della società. Altrettanto evidente mi sembra che la specifica "collaborazione" perfino nelle forme prescritte e raramente vissute coi magistrati, l’essere infame del gergo carcerario, non sia altro che la certezza che da quel cedimento non ci si possa più sollevare, specie se frutto di necessità e di calcolata ma pur sempre libera scelta. La semplice dissociazione non basta, come dimostra la vicenda di molti detenuti che hanno rotto con il loro passato senza fare proclami o fare i pentiti e che sono ancora in 41 bis. Perché per uscire dal carcere duro occorre "la dissociazione a rischio della vita", come è scritto nei decreti ministeriali di assegnazione al 41 bis. Il momento carcerario non può essere una dimensione seria, neppure secondaria, di lotta alla mafia. All’argomentazione apparentemente vera che in questo modo si determinerebbe la rottura dei collegamenti tra i mafiosi detenuti e quelli in libertà, il blocco dei loro traffici criminali, sarebbe facile obiettare che, fosse per questo, allora, i mafiosi andrebbero tenuti proprio a Palermo e nelle altre loro zone di influenza. Si renderebbe più facile a magistrati e polizia giudiziaria l’assolvimento dei propri compiti. Si consentirebbe una seria, efficace attività di controllo e di intelligence. Se l’obiettivo fosse davvero questo, il modo migliore per raggiungerlo potrebbe semmai essere proprio quello di tenere i mafiosi in condizioni tali da usare, "facilitandoli", i loro collegamenti, per su questi investigare, ricostruire e smantellare reti e traffici criminali. Le dure condizioni di detenzione rispondono solo ad una logica di rivalsa e a un primordiale senso di vindice giustizia. Si è risposto con Pianosa e l’Asinara alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Il dolore dei parenti delle vittime contro le vessazioni nei confronti dei detenuti. Questo è stato messo a confronto! Le inutili, meramente afflittive soverchierie dell’art. 41 bis, provocano soltanto durezza di comportamenti, irriducibilità, autolegittimazione, rifiuto di ogni dialogo o, peggio, a fronte di gravi maltrattamenti, l’imbarbarimento generale, la pseudo-legittimazione di rivalse mafiose, magari nei confronti di magistrati e poliziotti che cercano di difendere, nella legalità e con la civiltà dei loro comportamenti, la legge e lo Stato. Il "proprio" dello Stato di diritto è rispondere con la sovranità, sia pure armata, delle regole. Non può "dichiarare guerra" alla criminalità, neppure sotto la guida di un angelo giustiziere come è stato Caselli, consapevole o meno che fosse. Accecato - perché la ferocia della guerra acceca! - dall’essere un angelo. Sia pure vendicatore. È giunto il momento di chiedersi che cosa è avvenuto in questi ultimi dieci anni e cosa continua ad accadere. A questo punto, non si tratta di chiedersi se le norme vigenti siano state rispettate o no, se le procedure siano più o meno corrette; si tratta di chiedersi che cosa Antimafia e Mafia stiano mutualmente facendosi fra di loro e, attraverso quella che è definita una guerra, a noi tutti. È incredibile che nessuno si preoccupi che nei confronti di, ormai vecchi, mafiosi i magistrati continuino a usare l’arma della tortura, dell’infamia che colpisce non solo i ‘mafiosi’ ma sta schiacciando tutto e tutti verso la demagogia e il conformismo politico e sociale. Nessuno che consideri la gravità del fatto che i magistrati, spesso per propria impostazione ma anche per investitura pubblica e politica, più che reati di mafia, stiano perseguendo la Mafia-istituzione, sicché invece di investigare reati specifici, produrre prove e fare i processi, stiano in realtà producendo (assieme alla mafia, com’era naturale prevedere) pentiti e offrendo esempi alla pubblica riprovazione. Il conformismo dell’Antimafia, quella parlamentare e quella della cosiddetta "società civile", sta facendo strame di stato e di diritto, di legalità e di umanità, di società e di persone. Eppure, il 41 bis non si discute. Chi ne tocca i fili, le corde cui si impiccano detenuti così come la legalità, muore? Questa estate, nei giorni della loro "protesta pacifica e civile", i detenuti in 41 bis si sono rivolti alle più alte cariche dello Stato, in questi termini: "Stiamo mettendo in atto un Satyagraha che non mira certo alla abolizione del regime del "carcere duro" (compito questo, in una società democratica, di esclusiva competenza del Legislatore), bensì al rispetto delle regole, delle norme vigenti, nonché al rispetto della dignità umana che, quotidianamente viene calpestata e umiliata." Loro, i fuorilegge, hanno manifestato nelle carceri per il rispetto della legalità; nel frattempo, nessun tutore della legge si è manifestato contro fuorvianti applicazioni, nessun legislatore si è levato in Parlamento per dire che il "41 bis reale" è una barbarie e che questa – non chissà quale altra – si vuole eternizzare. In Commissione Giustizia al Senato la sua stabilizzazione è stata approvata alla unanimità! Da dentro hanno scritto proprio così: "Satyagraha", non senza qualche pertinenza, mentre fuori si manifesta la imbecillità sovrana del "disubbidire non è reato" dei... "disobbedienti"! Ancora ieri i "compagni assassini" erano fuori, gli analfabeti della (non)violenza dentro. Auspico ufficialmente almeno un mesetto di "41 bis" per Fini, Rutelli, e gli "unanimi" del Senato, del CSM. E chiedo che si affidino a noi radicali – per altrettanto tempo – gli assassini (confessi, non solo per "sentito dire") mafiosi. Scommetto che questi disonorati mafiosi delle mafie disonorate diverrebbero davvero "uomini d’onore", onorando la parola data. A noi dei Satyagraha dei radicali e delle carceri per far vivere in Italia "il principio di legalità". L’opera, l’inchiesta, la fatica e la tenacia di Maurizio Turco e di Sergio D’Elia costituiscono un evento, approdo e sintesi di uno dei percorsi radicali nelle caienne delle istituzioni e della società italiana. Ora ciascuno potrà meglio intendere la continuità, l’intimità profonda e attualissima della "comunità reale del 41 bis reale" con i luoghi, che si ritenevano e ritengono scomparsi, delle "deportazioni" di veri o presunti criminali, condannati alla "morte (per intanto) civile".
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