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Riflessione sull’Altro diverso da noi: il carcerato tesina di psicologia sociale, di Elena Fungenzi
Nel mondo in cui viviamo la frase tratta da un saggio orientale "vedo una belva" predomina nell’uomo nella sua considerazione dell’altro. Questo è un approccio negativo all’altro che è visto come ostacolo, come nemico: l’altro è un nemico che fa paura, che crea incertezza ed angoscia. Lo straniero, l’altro che è diverso da noi incute timore perché è sconosciuto, perché nel nostro mondo globalizzato, in cui l’uomo è alla difficile ricerca di se stesso, è più facile alzare barriere auto-protettive e fuggire dall’altro, piuttosto che avvicinarlo e tentare di non vedere un nemico, ma un possibile fratello che chiede aiuto e con il quale creare nuove esperienze. Siamo talmente ostinati a rintanarci in angoli sicuri per la paura dell’altro, del nostro fratello, che preferiamo essere come Caino al cospetto di Dio:disinteressandoci del nostro fratello lasciandolo solo, evitandolo e costruendo muri che ci separino da lui, e da ciò che è sconosciuto e quindi incute timore. Nel libro "Abbattere muri, costruire incontri", a cura di Giuseppe Milan, la paura dell’altro analizza l’altro come "lo straniero"ma senza necessariamente cambiare stato, l’altro da cui fugge l’uomo è colui che è diverso da lui, quindi sicuramente il carcerato. Il carcerato, cioè colui che ha sbagliato, che è stato una minaccia per la società e che ora sta "pagando", ma che per la società odierna dovrebbe rimanere isolato, abbandonato a se stesso, una persona che non ha più il diritto di vivere, o di avere una famiglia, o un lavoro quando uscirà dal carcere, una persona cioè che è rifiutata dal mondo, e della quale il mondo si disinteressa di proposito. Io credo che sia facile per "l’uomo libero" e "pauroso" condannare chi ha sbagliato e non volerne sapere nulla. Del resto basta guardare un telegiornale nazionale per sentire notizie che vanno al di fuori di ogni qualsiasi tipo di umanità: ragazzi picchiati a sangue fuori da una discoteca, un ragazzo è stato ucciso perché ha difeso la sorella, o persone che in seguito ad un incidente non danno soccorso. Penso davvero che in mondo così sia troppo facile avere paura dell’altro, o delle proprie responsabilità, ma sono convinta anche del fatto che per abbattere i muri creati dall’uomo e da questa società, sia indispensabile ascoltare le parole e le condizioni dei detenuti. Sono parole scomode e fastidiose da ascoltare per molte persone, ma se vogliamo provare ad abbattere i muri che ci dividono dall’altro, dobbiamo ricordarci che l’altro è un uomo come noi, e che, se anche ha sbagliato, ha diritto di vivere, di avere una famiglia, e un lavoro. Per questa ragione l’intento di questa tesina è di evidenziare le condizioni dei carcerati e di chi vive a contatto con loro, per cercare di evidenziare il loro essere persone, individui, genitori in carcere o per lo meno cercare di capire se esserlo è possibile, e provare a vedere se con fatica è possibile che la società non veda più nei carcerati solamente belve in gabbia, ma provi a trasformare queste "belve immaginarie" in uomini che hanno il diritto di vivere come tutti, anche se hanno sbagliato.
Detenuto: persona detenuta in carcere. Carcere: luogo in cui sono "rinchiuse" le persone private della libertà, per ordine dell’autorità competente. È necessario fare una distinzione importante tra le case di reclusione e le case circondariali: le case di reclusione sono strutture che "ospitano" le persone che sono state condannate alla reclusione dopo una sentenza di colpevolezza per un reato e solitamente a pene lunghe o medio lunghe; mentre le case circondariali sono strutture riservate ai detenuti in attesa di giudizio o con lievi pene da scontare. Sia le case di reclusione, sia le case circondariali sono divise in sezioni, ovvero in aree, tra le quali vi sono quelle per i detenuti "speciali" cioè quelli sottoposti a carcere duro ossia mafiosi, terroristi e soggetti pericolosi, e le sezioni per i detenuti "protetti" cioè collaboratori di giustizia, gay, travestiti, e colpevoli di reati contro i minori o di violenze carnali, questi ultimi infatti sono chiamati "infami" dagli altri detenuti, ed è facile intuire che nelle sezioni "normali" non vivrebbero a lungo.
La vita in carcere non posso certo descriverla per esperienza, quindi posso solo riportare ciò che ho letto, ciò che i detenuti dicono di questi luoghi, che sono la loro casa, e ciò che risulta da un servizio sulle carceri italiane pubblicato dal settimanale "Oggi". Le carceri sono sovraffollate, e questo è un problema di cui tutti siamo a conoscenza. Tutte le celle hanno letto, tavolino, armadietto e sgabello. I detenuti vivono in celle assieme ai tossicodipendenti e ai malati di Aids. Il cibo arriva quasi dovunque freddo perché nella maggior parte delle carceri la cucina è unica per tutto l’istituto. Le condizioni igieniche sono quasi disumane, nelle celle è presente il water e il lavandino dove però non sempre arriva l’acqua, figuriamoci quella calda, le docce sono comune in un locale delle diverse sezioni, piene di umidità e spesso poco igieniche. Addirittura nel nostro carcere di Padova, il Due Palazzi, il water presente nelle celle non ha nessun divisorio che permetta un po’ di privacy e di igiene. Nonostante le condizioni di mancanza di igiene, per fortuna tutte le carceri hanno almeno un medico di guardia 24 ore su 24, almeno uno psicologo e uno psichiatra, inoltre vi sono le "salette di socialità" in ogni sezione, cioè sale dove i detenuti possono giocare a carte, a calciobalilla, a dama o a scacchi, e quasi tutte le carceri hanno palestra e campi da calcetto. Per quanto riguarda la "cultura" oltre alla biblioteca in quasi tutte le carceri è presente la scuola elementare, media e in alcune anche la scuola superiore, e molti corsi professionali di vario genere, che dovrebbero essere utili non solo per "passare il tempo", ma molto di più per quando i detenuti usciranno dal carcere, (sempre ammesso che trovino lavoro). Il nostro carcere Due Palazzi, che si divide in struttura vecchia e struttura nuova, ha diversi corsi, a seconda della sede: nella sede più vecchia, che è una casa circondariale, ci sono corsi per elettricisti, per vivaisti e pizzaioli, corsi di teatro, di fotografia, di musica e di informatica. Nella sede più recente i corsi presenti sono di restauro, di legatoria, di informatica, e oltre a questo i detenuti fanno un telegiornale di 15 minuti in onda su RTR, una loro rivista "Ristretti Orizzonti"; 40 detenuti fanno rassegne stampa su commissione, e alcuni collaborano con la Facoltà di Psicologia di Padova. Ciò che state per leggere è una parte della testimonianza, della vita carceraria, di Mario, un ergastolano detenuto dal 1983, pubblicata dalla rivista del carcere di Padova "Ristretti Orizzonti": "Tutto è segnato da tempi ben precisi che raramente ammettono errori. Una sorta di automatismo continuo. Alle nove l’apertura dei cancelli, si può andare all’aria, che poi sono degli scatoloni, all’incirca di 20 m x 10 m, nei quali si cammina avanti e indietro, attività che ricorda molto le attività concesse ai criceti nelle loro gabbiette. Molti detenuti rinunciano all’aria per frequentare i corsi di formazione o la scuola, perché le attività culturali avvengono durante l’ora d’aria". Un’altra testimonianza più specifica è quella di Francesco, 34 anni, detenuto all’Ucciardone, il carcere di Palermo: "Siamo in otto in 20 metri quadrati, e semplici gesti, abituali o necessità, come andare in bagno, devono essere concordati con i compagni di cella. L’acqua non sempre giunge al quarto piano, il cibo arriva freddo, perché la cucina è unica e lontana. Siamo mischiati ai tossici e ai malati di Aids, con gravissimi rischi di salute. Senza considerare che un tossico in astinenza, buttato nella tua cella, è una scena terrificante, che aggiunge sofferenza a sofferenza."
Certamente la vita in carcere per un detenuto non è così leggera da vivere, anche se attività da poter svolgere ci sono in tutte le carceri, perché il peso più grande da portare è il senso di colpa per il reato commesso, la paura di "non farcela" ad uscire, la lontananza dei propri familiari, dei figli, e la consapevolezza che loro soffrono come e più di chi è in carcere senza avere colpe. Gli affetti in carcere, già, ma può un detenuto vivere in qualche modo degli affetti in carcere? Si può essere padre o madre, o semplicemente un compagno in carcere? È davvero difficile evitare che i rapporti familiari ed affettivi si deteriorino con il tempo quando vi è un detenuto tra i componenti familiari, soprattutto quando si è detenuti in un Paese che non è il proprio;è ovvio che la famiglia in questi casi è distante, e non sempre è facile per il detenuto mantenere i contatti. Il 30% dei figli dei detenuti finisce a sua volta in carcere e il 70% dei detenuti che escono a fine pena torna a commettere reati; questi sono i pesanti dati che emergono dalle difficoltà di rapporti con la famiglia dei detenuti. La carcerazione spesso porta alla rottura di matrimoni e alla perdita dei rapporti tra detenuti e figli fuori dal carcere, con un’immaginabile conseguenza: i detenuti che escono finita la pena e si ritrovano da soli, senza affetti, senza famiglia, o comunque con rapporti quasi da sconosciuti con essa tornano a commettere reati, e la mancanza di aiuti nel vivere il dolore e la vergogna di avere un parente in carcere da parte della società per le famiglie dei carcerate è un altro punto negativo. È evidente che un detenuto, che esca a fine pena e non sia solo e abbandonato a se stesso, costituisce un pericolo inferiore per il mondo esterno; così come un figlio, aiutato a sopportare la pesante esperienza della carcerazione di un genitore, riuscirà più facilmente a non far parte di quella percentuale di ragazzi sicuramente destinati al carcere. Questo è il ruolo che l’educatore deve svolgere: deve aiutare il detenuto a conservare i rapporti familiari, e facendosi forza di questi e della propria esperienza, deve riuscire il più possibile a educare il detenuto nella società, mediante la società e per la società tramite un "lavoro educativo" finalizzato a responsabilizzare il detenuto. A dimostrare ciò che dico è il clima presente nelle sale colloquio delle carceri, ovvero i luoghi in cui i detenuti incontrano i familiari e nei quali si dovrebbero mantenere i rapporti con i figli, i mariti o le mogli, ma le sale colloquio sono tutto quello che si può immaginare per soffocare i sentimenti e i gesti "indispensabili" per mantenere i rapporti familiari o di genitori. Quello che segue è il racconto di un’ex carcerata, che descrive il suo indelebile ricordo delle sale colloquio: Oggi sono fuori, ho la libertà di vivere le mie emozioni, ma se torno a ieri....rivedo il bancone di una sala colloquio, lo sguardo dell’agente fisso su noi detenute, pronto al rimprovero se l’abbraccio si prolungava, se il bacio era troppo intimo, se i bambini giocavano troppo vivacemente, certo con i bambini erano tutti un po’ più tolleranti, ma in ogni caso i bambini dovevano restare al di là del bancone. Le detenute madri di bambini al di sotto dei 12 anni, hanno il diritto a fare i colloqui nelle aree predisposte all’aperto, con una panchina e una giostrino, per cui nel periodo freddo non puoi andarci, in genere sono spazi racchiusi da una cita alta in ferro, intorno la struttura del carcere e tanti volti appesi e mani che stringono le inferriate per rubare una piccola parte di normalità familiare. Decisamente non è il posto ideale per far finita di mantenere il ruolo di madre o di padre, perché è una finzione il pensare che una detenuta in carcere possa continuare ad essere anche una madre: un bambino ha bisogno di una stabilità e di una continuità di rapporto che non si può raggruppare in tre minuti di telefonata o in un’ora di colloquio, il ruolo di madre e padre è demandato quasi sempre ai parenti che ti tengono i bambini, e quando ritorni da loro a fine pena, il distacco non è più sanabile se non in parte, e comunque ha già fatto il suo danno. Hai sbagliato e devi pagare, in questo modo sono in tanti a pagare. Questa testimonianza è davvero forte, ma so che molte persone "libere" non pensano a questi aspetti del carcere, e secondo me è proprio per questo motivo che è difficile il reinserimento degli ex detenuti nella nostra società, perché la nostra società non è disponibile a pensare a chi ha sbagliato, e più facilmente è portata ad ignorare i diritti di queste persone che sono "al di fuori" delle regole della società e quindi incutono paura. E tutto questo perché?
"La nostra è una società che sembra soltanto chiedere di non vedere le contraddizioni che sono al suo interno, di rinchiudere chi ha commesso un reato e di buttare via la chiave; chiede, giustamente, sicurezza, ma la chiede in termini timorosi, anche egoistici, soprattutto rincorrendo l’effimera ipotesi che una maggiore segregazione possa portare ad una minore insicurezza. L’insicurezza è un sentimento sociale delicato, difficile da afferrare: una società può sentirsi sicura anche in situazioni gravi, perché forti sono i valori condivisi, oppure non sentirsi sicura anche in situazioni di benessere e di sufficiente tranquillità". Questa è una parte della testimonianza di Mauro Palma, (rappresentante italiano nel Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti), che è stato intervistato dalla redazione di "Ristretti Orizzonti" durante la Giornata di studi su "Volontariato penitenziario e informazione". La testimonianza di cui ho portato due parti, secondo me efficaci, termina con l’accentuazione dell’importanza della sensibilizzazione delle"persone comuni" riguardo al carcere, perché solo con la conoscenza di ciò che noi non conosciamo, riduce profondamente la paura dell’altro, visto come nemico. Credo che Mauro Palma, abbia con la sua testimonianza, rafforzato il principio di Barman, secondo il quale è necessario "mettere in discussione le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere", le premesse che si fondano sull’autocentramento dell’io; queste premesse che contribuiscono a caricare di disagio il vivere individuale e sociale; "per ridurre il fatto che queste premesse impediscano la comprensione del mondo e il vivere tranquillo in rapporto con l’altro, con se stessi e con la società". Più semplicemente il discorso di Mauro Palma e il principio di Barman, suggeriscono l’analisi e la discussione delle premesse (paure) del vivere del mondo, al fine di conoscere di più l’altro e ciò che lo differenzia da noi, e quindi fare in modo,tramite la conoscenza, che l’altro non ci faccia paura. Che cosa ne pensano i carcerati
È indispensabile ora, sapere ciò che pensano anche i "diversi da noi" di cui io sto parlando: i carcerati. Cosa ne pensano loro, coloro che incutono timore alla società, come pensano che la società li consideri? E come pensano di poter cambiare l’idea della gente? Di seguito riporto un articolo scritto dalla redazione di Ristretti Orizzonti, in cui vi sono le risposte dei detenuti di Padova ai quesiti appena letti: La sensazione che proviamo è comunque che quasi tutti dicano più o meno così: Non fateli uscire, perché dei rottami degli avanzi di galera non ne vogliamo sapere. Lasciateli marcire dentro, accatastati l’uno sull’altro, perché fuori ci potrebbero solo dare fastidio. Ma si può fare qualcosa per cambiare la percezione che la gente, nei quartieri, nei paesi, ha dei detenuti come "persone moralmente e socialmente degradate"? Si può far capire a qualcuno che la sicurezza nelle nostre città si conquista, anche dando delle prospettive di vita decente alle persone che usciranno dal carcere? Si può, con fatica, ma noi pensiamo che si possa. Bisogna però che il volontario si impegni su questo terreno, che metta al centro della sua azione non solo il carcere, ma anche il territorio. Rassicurare, spiegare, parlare con la gente "fuori": tutto questo si dovrebbe fare di più, per ricostruire intorno alle persone detenute un tessuto sociale meno ostile. Troppo spesso, fuori, ci si ritrova a parlare di carcere tra "addetti ai lavori", bisogna invece tornare ai vecchi tempi "della controinformazione e della sensibilizzazione", non dare per persa la battaglia per cambiare l’idea del carcere che ha la maggior parte della gente, ma farla, questa battaglia con chi vive "ristretto". Questa testimonianza credo sia molto chiara, descrive come i detenuti credono che la gente li consideri, e l’importanza enorme della sensibilizzazione; inoltre la testimonianza apre il discorso purtroppo molto reale sulle riunioni tra "addetti ai lavori" che servono poco per sensibilizzare la gente. Il grande problema dei convegni sul carcere: sono riunioni per "addetti ai lavori". Ecco la mia piccola testimonianza sull’argomento
Il 18 ottobre 2002 presso l’aula Nievo a Palazzo del Bo a Padova si è svolto un incontro di Studio sul tema "Verso una Carta Etica per il carcere" promosso ed organizzato dall’Associazione Lanza, dall’Università di Padova e dal Gruppo Operatori Carcerari Volontari, e io assieme ad alcune compagne vi ho partecipato. All’incontro erano presenti alcuni docenti delle Università di Padova, di Bologna, di Venezia, e dell’Università Cattolica di Milano, oltre a Mauro Palma (Comitato nazionale Prevenzione Tortura), Livio Ferrari (Conferenza nazionale Volontariato - Giustizia) ed Ornella Favero (Redazione "Ristretti" - Padova) e il presidente dell’ Associazione Lanza Renzo Pegoraro, che ha coordinato l’incontro. Il convegno è stato davvero interessante, sono state trattate questioni importanti riguardanti il carcere; ad esempio si è parlato del carcere come unica pena prevista per i reati in Italia, la Professoressa E. Palermo Fabbris si è soffermata sull’importanza del detenuto e delle sue capacità, ponendo come prerequisito di una Carta Etica del carcere la considerazione del detenuto come uomo, cercando di favorire l’Empowerment nei suoi confronti, e davvero molti altri interventi, anche quelli più pesantemente polemici, sono stati interessanti, e sono stata molto soddisfatta di essere stata presente all’incontro. Questo incontro però mi è servito a verificare con i miei occhi che l’argomento Carcere è trattato solo per persone "addette ai lavori", infatti la sala era quasi vuota, e le persone presenti erano guardie carcerarie della Giudecca (carcere femminile di Venezia), volontari, e 6 studentesse compresa me del mio corso di laurea. Davvero questa cosa mi ha fatto riflettere: per quale ragione non erano presenti in sala politici, assessori, ovvero persone che potrebbero fare qualcosa per risolvere i problemi? Non sono stati invitati? Non credo. Ma forse quest’incontro non è stato pubblicizzato nemmeno in facoltà, tanto è vero che io stessa l’ho saputo perché sono passata casualmente al Bo, e non certo perché mi era stato detto dai miei docenti, o erano stati affissi ai muri dei volantini che pubblicizzassero un po’ l’evento. Non voglio fare polemiche, non ne ho il diritto, ma forse se chi ha organizzato questo incontro avesse pensato anche a pubblicizzarlo, magari non saremmo state solo in 6 studentesse. Il carcere può diventare un luogo educativo? È possibile una forte interazione tra educatori e carcerati? E questa interazione porterebbe a carceri in grado di rieducare i carceri per quando tornano in libertà? Davvero questi sono grandi quesiti, e all’incontro ho potuto sentire diversi pareri di persone "addette ai lavori" e sicuramente con più conoscenza di me sull’argomento trattato, ma finché questi incontri non vengono pubblicizzati al meglio, e finché gli educatori del futuro ( a parte 6 studentesse) non sono presenti a questi incontri trovo che sarà dura trovare delle soluzioni ai problemi, perché si continuerà a trovarsi tra "addetti ai lavori" ponendo domande impegnate, sentendo tanti pareri, ma non concludendo nulla. E sono convinta che la sensibilizzazione bisogna studiarla, non lamentarsi perché non c’è senza pubblicizzare incontri che potrebbero incrementarla. Che cosa pensa la gente "libera" dei detenuti
Per rispondere a questo quesito, ho provato a svolgere un questionario a 50 persone di età compresa tra i 20 e i 60 anni, per vedere cosa ne pensano dei detenuti. Questo è il questionario:
Questionario sul carcere
1) Cosa ne pensa dei detenuti?
2) È a conoscenza delle condizioni di sovraffollamento delle carceri italiane? Cosa ne pensa?
Cosa pensa?
3) Pensa che sia giusto un processo rieducativo durante la detenzione per i carcerati?
4) Cosa pensa degli educatori e dei volontari che lavorano con i detenuti? Perdono tempo, o fanno un lavoro indispensabile?
5) Crede che sia possibile un reinserimento nella nostra società e nel mondo lavorativo per gli ex detenuti?
6) Se lei fosse contattato dal carcere Due Palazzi, con la richiesta di assumere degli ex detenuti in una sua ipotetica fabbrica, come risponderebbe? a) no, assolutamente b) devo riflettere c) sì, posso provare.
7) Pensa che sia facile per un ex detenuto reinserirsi nella nostra società, alla fine della pena? Perché?
8) Crede che per madri e padri detenuti sia sufficiente vedere figli e parenti in sala colloqui, o pensa che sarebbe più opportuno un colloquio più privato?
9) In diverse carceri non italiane (francesi, spagnole, etc.) i detenuti hanno la possibilità di "colloqui intimi" con il partner. In Italia ciò non è possibile. Sarebbe favorevole o contrario all’attuazione anche in Italia?
10) Si era mai trovato a pensare a questa tematica? Pensa che questo questionario le sia stato utile per riflettere?
Riuscirà la società odierna, grazie alla sensibilizzazione, all’informazione, e all’impegno degli "addetti ai lavori" ma non solo, a trasformare il detenuto da "belva" che incute timore, a "persona che ha sbagliato, ma che ha gli stessi diritti e doveri di tutta la società"? Trovo che sia molto difficile avere una risposta positiva a quest’ultima domanda finché non c’è informazione, e non si cerca creare sensibilizzazione, e finché agli incontri sul carcere sono presenti solo "addetti ai lavori". Ma io credo nella possibilità di una società che rispetti di più i detenuti. Forse è un’utopia, ma se ad esempio Progetto Giovani del comune di Padova promuovesse e pubblicizzasse questi incontri, non sarebbe già un piccolo passo verso persone che non sono "addetti"?
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