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Avvocatura del Comune di Roma
Seminario
"Il nuovo titolo quinto della Costituzione. Roma capitale" Campidoglio Sala della Protomoteca, 8 febbraio 2002
Relazione introduttiva (Avv. Sebastiano Capotorto)
La revisione dell’intero titolo quinto della Costituzione dopo oltre mezzo secolo dalla sua entrata in vigore, e dopo circa trent’anni dalla istituzione delle Regioni a statuto ordinario (1970), è un fatto che di per se merita una approfondita riflessione, che riguarda in primo luogo il sistema istituzionale italiano considerato nel suo insieme. Questa considerazione preliminare non ha bisogno di particolari dimostrazioni: è sufficiente, per condividerla, pensare - sul piano giuridico - al carattere c.d. rigido della nostra costituzione, e - sul piano storico - alla capacità di resistenza, al limite della immodificabilità, del testo costituzionale per mezzo secolo (le eccezioni hanno riguardato ritocchi quantitativamente modestissimi), fino alla vigilia della revisione dell’intero titolo quinto. La legge costituzionale n° 3 del 18.10.2001, infatti, è stata preceduta, come è noto, dalla emanazione della legge costituzionale n° 1 del 22 novembre 1999, generalmente conosciuta per aver introdotto - in via transitoria e fino all’introduzione dei nuovi statuti regionali, come invece generalmente non si ricorda - la elezione diretta dei presidenti di regione. La legge cost. n° 1 del 1999, dunque, ha rappresentato, per così dire, il ‘primo tempo della revisione costituzionale sul tema "Le Regioni, le Province, i Comuni", per stare alla ‘rubrica del vecchio come del nuovo Titolo V. In quest’ordine di idee, scontando le critiche di natura metodologica che ogni schematizzazione di per se comporta, sembra corretto affermare che la nuova disciplina costituzionale rappresenta l’ultima e, sul piano giuridico - formale, più significativa espressione di un’intera fase, poco più che decennale, della nostra vita pubblica, che ha obiettivamente introdotto modificazioni sostanziali sia al profilo ed alle funzioni delle istituzioni regionali e locali, sia alla configurazione dello Stato nella sua (almeno) duplice espressione, di "Stato – persona" e di "Stato – comunità", sia - ed è questo l’aspetto generale che qui particolarmente interessa e sul quale conviene innanzi tutto soffermarsi - alle relazioni tra istituzioni regionali e locali ed al rapporto tra esse e lo Stato. La fase che riteniamo meritevole di speciale considerazione nel senso spiegato, è quella che inizia con la emanazione della legge 142 (giugno 1990). Questa legge sembrò rappresentare il punto di approdo di una discussione e di una rielaborazione teorica e pratica che erano state aperte a metà degli anni settanta, sulla spinta dell’istituzione dell’ordinamento regionale, e quasi a conclusione della prima legislatura regionale: si ricordi la legge n° 382 del 1975 e la legislazione delegata attuativa (in particolare il d.p.r. n° 616 del 1977), senza dimenticare la parallela riorganizzazione delle funzioni nel settore dell’assistenza e della sanità (e la soppressione degli enti strumentali: mutue, i.p.a.b. nazionali, ecc.). Si aprì, invece, di lì a poco, questo decennio, che giunge fino alla legge di revisione della quale parliamo, e che, a partire dalla riforma del sistema elettorale di comuni e province (1993), passando poi per la prima modificazione del sistema elettorale delle regioni (1995), e per le c.d. leggi Bassanini (n° 59 e 127 del 1997), con i relativi provvedimenti attuativi (in particolare il d.p.r. n° 112 del 1998), solo per limitarci alle tappe con rilevanza generale, ha segnato una trasformazione del sistema istituzionale che al momento della emanazione della legge 142/90 nessuno poteva immaginare, ed è - come si vede dal contenuto del nuovo titolo quinto - ancora suscettibile di modificazioni e sviluppi importanti, anche se non possono in astratto escludersi battute d’arresto e perfino ritorni all’indietro, oggi alquanto improbabili.
Se ci si interroga sulle radici, e dunque sulle ragioni di fondo di questo processo, che nel decennio considerato ha attraversato momenti diversi per velocità ed intensità, ma non ha subito mutamenti apprezzabili di direzione e di senso, non v’è dubbio che si viene ricondotti, attraverso una osservazione che non è certo esclusiva (anzi!) degli studi giuridici ed istituzionali, a fenomeni di carattere più generale. In altri termini, non è possibile spiegare il mutamento intervenuto nelle istituzioni locali e regionali italiane, ed il loro rafforzamento nelle relazioni tra esse e lo stato, e tanto meno è possibile dare conto della linearità di fondo di questo mutamento, se non si considerano i più ampi processi di cambiamento ai quali tutto il sistema istituzionale è stato, ed in parte è tuttora esposto, per il contesto nel quale storicamente si collocano. In una prospettiva che, dunque, non può essere che generale e comparata, va sottolineato che l’assetto determinato dalle nuove norme sulle istituzioni regionali e locali, si inquadra in modo del tutto coerente nella tendenza assolutamente dominante negli ordinamenti europei: quella del rafforzamento dei governi periferici, determinata da sollecitazioni molteplici e di segno diverso (le questioni etniche o nazionali, le difficoltà dello stato sociale e dunque della capacità redistributiva degli stati centrali, la pressione delle aree più ricche per una utilizzazione in chiave locale - talora addirittura tendenzialmente esclusiva - della ricchezza prodotta nei territori, la reazione contro una lunga fase di rigido controllo centralistico negli stati dell’est europeo), ma in qualche misura non secondaria anche dalle stesse esigenze e strutture dell’organizzazione comunitaria (le politiche di coesione sociale si rivolgono prevalentemente ad istituzioni di livello substatale, ed in modo preponderante di tipo regionale).
In Italia poi, la destrutturazione dei vecchi assetti politici, e la crisi prima, e la caduta poi, di un’intera classe dirigente, si sono intrecciate, come elementi specifici ed a loro modo originali, con questo passaggio d’epoca che accomuna quasi tutti gli omologhi paesi europei, tanto che si può dire che il "caso italiano" si è in qualche modo riproposto anche in questa fase così straordinaria. E non v’è dubbio che la ridislocazione degli assetti di potere interno, che ha avuto tante manifestazioni diverse - riguardanti, per esempio, le grandi tecnostrutture, l’impresa pubblica, le centrali finanziarie, la creazione delle c.d. autorità amministrative indipendenti ed altri aspetti ancora, che non interessano qui specificamente, ma che richiamiamo solo per spiegare con un cenno rapidissimo il senso dell’affermazione - ha agevolato anche il rafforzamento dei poteri regionali e locali di natura democratica e rappresentativa, trovando in esso un contrappeso non secondario nel rapporto tra potere e consenso, così importante negli ordinamenti evoluti come il nostro.
Porsi realisticamente in questa ottica, non solo consente di darsi ragione della ispirazione fondamentale delle norme, il che è metodologicamente indispensabile per elementari motivi di approccio ermeneutico, ma aiuta a definire la prospettiva più efficace, come dire il terreno più utile, per i tanti soggetti che saranno necessariamente chiamati ad intervenire nella fase interpretativa - attuativa - operativa che la revisione costituzionale ha aperto. Una così importante modificazione di norme costituzionali, infatti - e ne vedremo subito taluni aspetti, oltre agli altri che verranno esaminati dagli eminenti relatori di questo convegno - pone (ha già posto), problemi applicativi di enorme portata. Le nuove regole, infatti, proprio per la loro natura, oltre che per il loro contenuto, metteranno (hanno messo) in tensione, se così si può dire, una molteplicità di soggetti, che per la loro funzione e per l’attività ad essa connessa, sono - direttamente o indirettamente – i destinatari delle regole stesse. Questa tensione, che in un primo momento sembra aver avuto un effetto paralizzante, non tarderà, credo, ad innestare azione e movimento.
Una semplice lettura, anche veloce ed improvvisata, dell’articolato del nuovo titolo quinto, fa capire agevolmente la complessità, oltre che la notevole quantità, dei problemi interpretativi, sia letterali che sistematici, che la disciplina costituzionale comporta. Si consentirà, allora, di sottolineare in questa introduzione almeno quelli che appaiono i suoi elementi portanti: la legge di revisione, infatti, ruota intorno ad alcuni cardini concettuali, che costituiscono i frutti più vistosi del dibattito pubblico sviluppatosi in questi anni sul tema delle autonomie regionali e locali. Su di essi, beninteso nella misura in cui si siano tradotti in norme positive, conviene soffermarsi sinteticamente, sia per la loro valenza e per i loro effetti, sia perché forniscono la chiave di lettura della nuova disciplina e della ispirazione di insieme che la caratterizza. A me pare che si possano individuare quattro principi, che della nuova architettura istituzionale costituiscono altrettanti pilastri. Il primo "pilastro". È anche, non per caso, contenuto nel primo comma del primo articolo dell’intero nuovo titolo quinto: nel momento in cui l’art. 114 stabilisce che "La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato", afferma, e al tempo stesso riconosce, un principio di equi-ordinazione, o se si vuole di "pari dignità" tra tutte le istituzioni territoriali storicamente consolidate (discorso specifico merita, come appare subito evidente e come vedremo, l’istituzione "città metropolitana", anche se va detto subito che l’indicazione in questo contesto non può non avere una valenza ed un significato di particolare rilevo). Non sfugge, naturalmente, che possa esservi - nello spettro della regola - una colorazione enfatica; ma c’è da chiedersi se essa sia davvero un eccesso retorico, oppure se non rappresenti - con lungimiranza e profondità che debordano dalla normale attività legislativa (ma qui, appunto, si tratta di regola costituzionale), in quanto tale più incline a conformarsi ad una sollecitazione pragmatica, che a meditare sulle forme del potere nella prospettiva storica - una realistica presa d’atto della crisi degli stati nazionali, e della loro, vera o presunta o semplicemente ambita, sovranità, così come messa in luce da una ormai vasta letteratura, che descrive il quadro generale di questa fase storica, oggi ancora più di ieri, in termini di progressione geometrica degli interscambi transnazionali, di moltiplicazione delle interdipendenze, di globalizzazione. Ora, senza voler minimamente entrare in questo tipo di analisi, è osservazione difficilmente contestabile, e spesso addirittura semplice informazione sul diritto positivo, che di crisi dello stato non si parla oggi nel senso in cui se ne parlava nella dottrina di alcuni decenni or sono, in rapporto all’influenza delle grandi organizzazioni sociali, ma ci si riferisce ad un duplice fenomeno. Innanzi tutto, la proliferazione di poteri pubblici sovranazionali, che delimitano oggettivamente in maniera crescente gli spazi di intervento e di regolazione degli stati che ne fanno parte (nel nostro caso, basti pensare alle funzioni dell’Unione Europea). In secondo luogo, l’inadeguatezza nella erogazione dei servizi rispetto alle domande sociali ed alla loro mutevolezza, alle quali le istituzioni territoriali mostrano una maggiore e più flessibile capacità di risposta. Su entrambi i livelli, alle rigide gerarchie di un tempo, si vanno sostituendo procedure più complesse, articolate, negoziate, tanto che autorevoli studiosi parlano dell’affermarsi sempre più ampio di un fenomeno di "contrattualizzazione" delle relazioni intergovernative, riguardante i vari livelli di governo. Sta di fatto che l’affermazione di questo principio di pari dignità, collocata com’è in apertura dell’intera legge, rappresenta un’indicazione impegnativa non solo per i protagonisti della vita istituzionale, ma anche per i singoli cittadini e per tutti gli altri attori della esperienza viva dell’intera comunità nazionale, a cominciare dalle organizzazioni sociali e collettive (comunità c.d. intermedie) nelle quali si esprime e "si svolge" la personalità dei singoli (art. 2 Cost.). Ma essa è anche, ed in questo senso vi si può leggere una specificazione ed insieme un rafforzamento dello stesso articolo 5 della Costituzione, criterio interpretativo ed operativo fondamentale (in questo senso dovendosi tener conto del necessario collegamento tra il primo ed il secondo comma dell’art. 114, che stabilisce il principio della autonomia delle istituzioni territoriali "secondo i principi fissati dalla Costituzione ") per i giudici, chiamati ad applicare le norme ai casi che sono sottoposti, appunto, alla loro giurisdizione, a cominciare - come è naturale - dalla Corte Costituzionale, ma anche linea - guida imprescindibile per tutti coloro che concretamente agiscono "in nome e per conto" di quelle che, ora a giusto titolo, possono essere chiamate, assimilandole tra loro, "istituzioni repubblicane".
Secondo "pilastro". Non può sfuggire la portata innovativa dell’art. 118, primo comma, secondo il quale "Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza". Certo, non possono essere trascurati i vincoli e le limitazioni che possono essere introdotti, sia attraverso la normativa di "conferimento" delle funzioni, che la stessa regola costituzionale comporta, sia per via di interpretazione. E tuttavia la costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (in questo caso c.d. verticale), ancorché integrato da quelli di differenziazione e di adeguatezza, e la configurazione del comune come fondamentale protagonista delle funzioni amministrative, come dire il perno dell’intero sistema di rapporti tra istituzioni pubbliche e cittadini, corrisponde in modo che non potrebbe essere più evidente a due orientamenti di fondo. Da un lato, la conferma, nella forma più solenne, del recepimento nel nostro ordinamento di un principio che si è fatto strada nel dibattito e nella prassi dell’Unione Europea, come indirizzo di fondo al quale ispirarsi nelle relazioni interistituzionali. Dall’altro lato, la riaffermazione del carattere primario dell’istituzione "comune" nella nostra esperienza giuridica nazionale, che ne sottolinea il ruolo (si potrebbe forse dire di primus inter pares), in coerenza piena con la storia delle nostre istituzioni, o meglio con la nostra storia tout court. In questa ottica, e l’argomento ci riconduce ad una valutazione d’insieme, il principio di sussidiarietà (così come, in modo originale, è stato formulato nell’art. 118, comma 1), e quello di autonomia - nella sua triplice configurazione di autonomia normativa (statutaria e regolamentare ); finanziaria; amministrativa - si accompagnano ad un criterio, implicito ma non meno rilevante, di responsabilità, che si è concretizzato con l’abrogazione degli articoli 124, 125 e 130 (Commissario di governo, Comitati regionali di controllo, controlli c.d. di legittimità sugli atti delle regioni e degli enti locali) e cioè con la eliminazione dei controlli di tipo legale - formale, ormai più che matura e preparata dalla legislazione ordinaria. Sempre sulle generali relazioni inter- istituzionali, va sottolineata la scelta, che non è nuova per il nostro ordinamento, ma che pure era stata messa in discussione da più parti nel corso dei lavori della Commissione Bicamerale alla quale nella passata legislatura era stato affidato il compito della revisione di tutta la seconda parte della Costituzione, di un pieno riconoscimento costituzionale delle istituzioni infraregionali: si deve leggere in questo modo anche la disposizione di cui all’art. 117, comma 2, lettera p). In sostanza, come peraltro era già avvenuto a conclusione di quel dibattito all’interno e fuori della Bicamerale, è stata abbandonata la tesi di una sorta di sovra ordinazione delle Regioni rispetto alle istituzioni territoriali locali, mediante l’attribuzione alle stesse regioni di un potere ordinamentale in materia di enti locali: una soluzione, si badi, che trova applicazione in altri ordinamenti, in particolare quelli a struttura federale. Occorre intendersi: l’influenza che potenzialmente le regioni, come subito si vedrà, saranno in grado di esercitare sull’attività degli enti locali, ha un’ampiezza ed un’intensità che appaiono - a prima vista - assai grandi. Ma è forse anche per questo, oltre che per dare un segno inequivocabile di continuità storica, in mancanza del quale si sarebbe prodotto un vero e proprio "strappo" alla rete istituzionale di governo, che il legislatore costituzionale ha, prima mediante il principio generale di equiordinazione del quale si è già parlato, poi con questa norma e con altre ispirate allo stesso principio, non solo ribadito, ma perfino rafforzato il ruolo, il profilo ed il valore, oltre che evidentemente -le funzioni, delle autonomie locali, e segnatamente dei comuni. Da questo punto di vista, assumono rilevanza, oltre che autonoma per il loro precipuo significato precettivo, talune disposizioni che integrano e irrobustiscono quello che abbiamo considerato il secondo pilastro del titolo quinto.
Intendiamo riferirci:
Su un piano assai diverso, ma sempre nello stesso ordine di idee e di impostazioni nella regolazione dei rapporti tra regioni ed altre istituzioni territoriali, va ricordata ed anzi sottolineata una delle novità più importanti dell’ordinamento regionale, così come delineato nel nuovo titolo quinto: il "Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali" che lo statuto di "ogni Regione" dovrà disciplinare (art. 123, comma 4), ma la cui istituzione non potrà essere, evidentemente, in nessun caso pretermessa. Le considerazioni svolte pongono peraltro un altro problema, di importanza fondamentale: che valore conserva il testo unico degli enti locali (d.p.r. n° 267 del 2000), in tutte le parti riguardanti la disciplina di materie che non rientrano nella riserva di legge (esclusivamente) statale? Come si coordina tale normativa con quella sulla potestà regolamentare? Come si vede, si apre una problematica amplissima, sulla quale - non è difficile immaginarlo - vi sarà ampio spazio anche per giudici ed avvocati.
Corollario del secondo "pilastro": la sussidiarietà c.d. "orizzontale". Abbiamo definito come pilastro della riforma il principio di sussidiarietà, e ne abbiamo messo in evidenza le caratteristiche più rilevanti, almeno alla luce della problematica emersa nella discussione pubblica che si è svolta in merito ad esso, in sede politica ed istituzionale, oltre che naturalmente in sede scientifica. Ma proprio questo dibattito, si è intrecciato con un altro, quello sulla cosiddetta sussidiarietà orizzontale, riguardante per la verità questioni affatto diverse, ma che - a livello semantico e terminologico - ha con la prima trovato, nelle più influenti forme e sedi di comunicazione, assonanze e somiglianze, delle quali è rimasto un segno inequivocabile nell’articolato costituzionale. È proprio infatti nello stesso articolo 118, all’ultimo comma, che esso viene definito e trova la sanzione normativa più solenne. Quanto poi alla reale portata innovativa e precettiva della disposizione, la quale rimette a tutte le istituzioni, ivi compreso lo stato, il compito di "favorire" "l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà ", non può essere trascurato che è stata stabilita con un precetto di rango costituzionale una direttrice di comportamento carica di significato programmatico, anche se ne è stata rimessa largamente la pratica attuazione alla discrezionalità delle varie istituzioni. Per sottolinearne l’importanza, del resto, vale l’osservazione che è l’unica regola - nel corpo dell’intera riforma del titolo quinto - che impegna anche l’istituzione statale, seppure non solo essa, in un campo di per se estraneo all’ambito proprio della legge di revisione, mentre migliore e più logica collocazione avrebbe trovato nel titolo terzo della Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici".
Terzo "pilastro". È il principio stabilito al quarto comma dell’articolo 117 in forza del quale "Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. "Di questo fondamentale principio si è parlato molto, anche nel dibattito pubblico e di opinione, sia per il suo significato intrinseco, indubbiamente straordinario, sia perché si presta, più di altri, ad essere rappresentato con immagini forti ("rivoluzione copernicana", "rovesciamento della piramide" e simili), apprezzabili non solo dagli "addetti ai lavori", ma anche da un più vasto numero di osservatori e di cittadini interessati. La formulazione della norma è chiara, e certamente la sua portata concreta potrebbe rivelarsi persino maggiore di quella che pure a prima vista appare già assai grande, seppure le "materie" riservate alla potestà normativa esclusiva dello stato (art. 117, comma 2), sono, per alcuni aspetti, più numerose ed ampie di quanto i più radicali innovatori di ispirazione regionalista ritenevano congruo. Alcune di esse, infatti, hanno fatto molto discutere per più motivi: mi riferisco, per esempio, alla lettera b) immigrazione; alla lettera n) norme generali sull’istruzione; alla lettera o) previdenza sociale; alla stessa lettera p), della quale si è già parlato più sopra; alla lettera s) tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali: tutte materie che in altri ordinamenti, propriamente federali, spesso trovano ripartizioni differenti tra centro e territorio. In generale, tuttavia, si può dire che la sfera di potestà normativa riservata allo stato in via esclusiva, ricalca sostanzialmente gli indirizzi suggeriti in linea di massima da elementari e comprensibili, ma non per questo meno importanti, considerazioni di opportunità, oltre che da una concezione largamente diffusa, sia tra gli esperti, sia nella più larga opinione. In disparte, tuttavia, le questioni che, indipendentemente da possibili valutazioni critiche, sono state comunque risolte dal legislatore costituzionale in un senso o nell’altro, e consegnandole - se mai - alle eventuali correzioni che l’esperienza potrà far maturare, ciò che, invece e soprattutto, va sottolineato è la radicalità dell’innovazione che la regola dell’attribuzione della competenza legislativa generale alle regioni è suscettibile di introdurre nell’ordinamento. Quali contorni assumerà, come verrà utilizzata dalle regioni e da ogni regione, su quali settori delle comunità è destinata ad avere reale incidenza, oggi non è dato francamente immaginare con sufficiente approssimazione. In questo momento, si può solo dire che si tratta di un potente motore di cambiamento, ma che il suo funzionamento effettivo è ancora da collaudare. Del resto il tema è strettamente connesso - e non poteva che essere così, per un ordinamento con la nostra storia, rigorosamente centralistico sul piano della produzione normativa, certo poco più che scalfito dalla prassi consolidatasi nella vigenza del vecchio articolo 117, anche per l’interpretazione datane dalla Corte Costituzionale - con il vastissimo territorio confinante delle "materie di legislazione concorrente " tra stato e regioni ( art. 117, comma 3). Territorio aperto alle tendenze interpretative ed applicative potenzialmente più conflittuali, almeno secondo una previsione che, sulla base dell’esperienza, sembra facile da formulare, e non meno agevole da verificare, alla luce della riserva legislativa statale in ordine alla "determinazione dei principi fondamentali" sulle materie in questione. Sono note le iniziative correttive e modificative che sono state assunte, per lo più determinate da esigenze di natura politica forse contingente; così come è noto lo sforzo di coordinamento che, in questa prima fase, si cerca di compiere attraverso strumenti pensati ad hoc. Ma non si può omettere di considerare che assai difficilmente si potrà evitare lo svilupparsi di un ampio contenzioso, sul quale sarà essenzialmente la Corte costituzionale a doversi pronunciare. Del resto va subito detto che sarà comunque fondamentale, e preminente su quello di tutti gli altri attori interessati, il ruolo della Corte non solamente nell’azione di "regolamento dei confini" tra potestà normativa statale, regionale e locale (che, si faccia attenzione, è questione assai più ampia della sola, seppure ovviamente fondamentale, questione, riguardante il riparto della potestà legislativa tra stato e regioni), ma anche sull’intero complesso delle regole del nuovo titolo quinto. E infatti, anche a voler essere ottimisti sull’efficacia, peraltro non scontata, del confronto politico - istituzionale che si svolgerà direttamente tra i soggetti che "costituiscono" la Repubblica, ed anche a voler dare la massima considerazione al principio della "leale collaborazione", ripetutamente espresso dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale come regola che deve caratterizzare il rapporto tra le istituzioni territoriali, sembra mancare, alla costruzione di una repubblica così fortemente orientata alla valorizzazione di tutte le sue articolazioni territoriali, quella modifica all’assetto degli organi costituzionali centrali - parlo della trasformazione del Senato in una "camera delle autonomie" - che con ben maggiore autorevolezza avrebbe potuto (e potrà, se mai vedrà la luce) dirimere in via preventiva i conflitti potenziali, e ridurre in limiti accettabili e ragionevoli quelli dovuti ad obiettive incertezze applicative, da rimettere alle decisioni dei giudici della Corte. Ma sono ben note le resistenze, trasversali rispetto agli schieramenti politici (destra, centrodestra, sinistra, centrosinistra), che in proposito hanno prevalso, conformi del resto a quelle che storicamente si sono più volte manifestate ogni qual volta è venuto in discussione il rapporto stato centrale - autonomie regionali e locali, e che tendono inevitabilmente a ripresentarsi con caratteristiche analoghe.
Uguale e forse ancora maggiore importanza la camera delle autonomie avrebbe potuto avere rispetto alla indispensabile funzione equilibratrice richiesta dall’art. 119, il quarto pilastro delle nuove norme, che regola il principio della "autonomia finanziaria di entrata e di spesa" (art. 119, comma 1) delle istituzioni regionali e locali. Si esamini, infatti, l’insieme delle regole, contenute nello stesso articolo 119, con le quali si precisano l’ambito di operatività e le caratteristiche strutturali della autonomia finanziaria. Le istituzioni territoriali "stabiliscono e applicano tributi ed entrate proprie ", e "dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali" (comma 2), mentre "la legge dello Stato istituisce un fondo perequativo senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante" (comma 3), e con tali "risorse" debbono "finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite" (comma 4 ), riservandosi lo stato di destinare "risorse aggiuntive", e di effettuare "interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni": comma 5. Ebbene, appare con immediata evidenza che l’ormai trentennale dibattito sull’autonomia finanziaria delle istituzioni territoriali, avviato subito dopo l’entrata in vigore della riforma tributaria del 1972 -73, ha prodotto un orientamento generale concettualmente condiviso con notevole larghezza, ma la cui portata reale rinvia ad una strumentazione operativa nella quale gli indirizzi politici - tutti rimessi, dato il carattere necessariamente legislativo della materia, alla maggioranza parlamentare di volta in volta esistente - rischiano di determinarsi al di fuori di una trasparente e reciproca assunzione di responsabilità delle istituzioni centrali e di quelle più legate al territorio, quale certo una "camera delle autonomie" avrebbe reso più esplicita e leggibile, oltre che - con ogni probabilità - più meditata ed equilibrata. Vero è che il legislatore ordinario, e si tratta beninteso di una delle più interessanti, e praticamente rilevanti, innovazioni introdotte in questo campo, ha provveduto, prima con la Conferenza stato - regioni, poi con la Conferenza stato - città, infine con la Conferenza unificata stato - autonomie, ad istituire le sedi di un confronto continuo sulle politiche riguardanti l’ampia gamma delle funzioni attribuite o delegate. Ma non può certo sfuggire che le forme là codificate di consultazione si svolgono con vincoli e limiti connaturati alla funzione, e sono dunque ben lontane dal presentare quel carattere e quella incidenza, sotto l’aspetto decisionale, che sono propri delle camere di rappresentanza dei poteri regionali e locali, esistenti - si deve notare - non solo negli ordinamenti a struttura federale, ma anche in alcuni fra i più importanti di quelli storicamente analoghi al nostro, che gli studiosi di scienze politiche classificano come "modelli napoleonici", per le note ragioni storiche. Certo è, sia consentita questa ulteriore riflessione critica, che il difficilissimo, e mai definitivamente risolto, problema connaturato alla finanza locale, quello della corrispondenza, o se si preferisce, dell’equilibrio tra funzioni e risorse, rimane sostanzialmente aperto, a dispetto della formulazione, per la verità ottimisticamente assertiva, della disposizione di cui al quarto comma dell’art. 119 ("Le risorse… consentono… di finanziare integralmente le funzioni pubbliche… attribuite"), anche se non si può disconoscerne completamente l’utilità, come criterio normativo (di rango costituzionale) di valutazione. Si deve tener presente che questa questione non è resa difficile solo da problemi di ripartizione di poteri e dalla ineliminabile limitatezza delle risorse da distribuire, ma anche dal problema - così sentito e vivo in questi anni - del c.d. residuo fiscale e dalle conseguenti necessità perequative: e cioè dallo squilibrio che viene a determinarsi per i cittadini delle aree più ricche, che ricevono in termini di utilità pubbliche meno di quanto mediamente pagano in tributi. Squilibrio che le istituzioni debbono correggere, come il nuovo art. 119 dispone inequivocabilmente.
Quattro brevi considerazioni, precedute da una altrettanto breve premessa generale, su un "sottotema" del titolo quinto, quello della "città metropolitana", che per Roma presenta un interesse del tutto speciale, e sarà oggetto di attenzione e di analisi particolari da parte degli altri relatori, nell’ambito dei loro interventi. La premessa. Nell’Unione europea, la maggioranza dei cittadini vive in insediamenti definibili come "aree metropolitane". Queste conurbazioni hanno subito, negli ultimi decenni, una trasformazione, nel senso che i nuclei centrali di queste aree tendono a perdere abitanti, ma l’urbanizzazione cresce intorno ad essi in forme diverse. E se nelle zone centrali di queste aree diminuiscono i residenti (attratti magari da situazioni abitative più appetibili, per ragioni le più diverse, nell’hinterland), aumenta comunque la loro importanza, poiché vi si concentrano attività direzionali, culturali, finanziarie. Resta comunque intatta la cifra delle interrelazioni che in queste aree si stabiliscono tra i vari punti di esse, e tra le persone che in esse gravitano. Nelle aree metropolitane, inoltre, vengono a concentrarsi non solo condizioni che offrono straordinarie opportunità, ma anche enormi problemi e aspetti critici della modernità (dalla povertà agli squilibri sociali, dall’insicurezza all’inquinamento acustico ed atmosferico). Come governare tutta questa complessità: è questo, ne più ne meno, il tema istituzionale in discussione. Ed ora le quattro, sintetiche considerazioni. Prima considerazione: il legislatore costituzionale, intervenendo a distanza di oltre dieci anni dalla legge 142 del 1990, che per la prima volta introdusse nell’ordinamento l’espressione "città metropolitana", pur dovendo registrare che quella indicazione istituzionale ha prodotto risultati che definire modestissimi è benevolmente eufemistico, non solo l’ha confermata, ma le ha attribuito una valenza tanto rilevante da equipararla, in tutto e per tutto, alle altre istituzioni, nella solenne dichiarazione contenuta nell’art. 114, primo comma, sulla quale ci siamo già soffermati. Seconda considerazione. Ogni qual volta la normativa costituzionale si riferisce alle prerogative fondamentali delle istituzioni territoriali, le città metropolitane sono menzionate accanto alle altre: si vedano le disposizioni di cui agli articoli 114, comma 2; 117, comma 2 lettera p); 117, comma 6; 118, comma l; 118, comma 2; 118, comma 4; 119, comma l; 119,comma 2; 119, comma 4; 119, comma 5; 119, comma 6; 120, comma 2. Ciò non solo comporta, inequivocabilmente, il riconoscimento di una pari dignità formale, ma delinea uno statuto fondamentale delle città metropolitane costituzionalmente garantito, ed una indicazione ineludibile per il legislatore ordinario. Terza considerazione, conseguenza delle prime due. La definizione di un livello di governo idoneo per affrontare i problemi delle aree metropolitane, frutto evidente della constatazione di un’esigenza che trova quotidiane conferme, se fino ad ora non ha trovato una soluzione soddisfacente, anzi meglio sarebbe dire non ha trovato soluzione nelle pur numerose situazioni individuate dallo stesso legislatore, si ripropone in termini nuovi (a cominciare anche dallo stesso numero delle situazioni da considerare), ed ancora più cogenti che nel recente passato. Certo, viene subito da dire che il legislatore ordinario viene sollecitato a non lasciare la questione nello stato attuale, col debole profilo disegnato dal testo unico del 2000. Del resto, è sufficiente fare un giro d’orizzonte sugli altri paesi, europei e non, per osservare che con modelli organizzativi diversi, e variamente classificati dalla dottrina giuspubblicistica, molteplici sono state le risposte, e naturalmente anche differente il loro grado di efficacia. Ma assai rare sono le situazioni come quella italiana, dove nessuna risposta concreta, se si eccettuano alcune timide esperienze a Bologna ed a Firenze, è stata sostanzialmente praticata. Non basta certo, dunque, la presa d’atto delle difficoltà, e meno che meno la naturale resistenza delle classi dirigenti coinvolte, a poter far dichiarare la irrisolvibilità di quello che - con felice espressione - è stato chiamato, nell’opera di uno dei maggiori studiosi europei della materia, il rebus metropolitano. Quarta considerazione. Il terzo comma dell’art. 114, non solo conferma - con norma di rango superiore rispetto alla tradizione - che "Roma è la capitale della Repubblica", ma aggiunge: "La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento". Ora, è di tutta evidenza che - riconoscendo obiettivamente una realtà che continuamente viene sottolineata, e che appare incontestabile - la singolarità del caso di Roma, anche rispetto alle altre aree metropolitane, ha indotto il legislatore costituzionale ad impegnare il legislatore ordinario a garantirle un ordinamento speciale, potenzialmente anche diverso da quello che la legge ordinaria detta e detterà per le altre città metropolitane. Se poi tutto questo sarà una forza in più, o una remora aggiuntiva, per la definizione di un diverso assetto istituzionale per il Comune di Roma, per i suoi municipi, per i rapporti con i comuni circostanti, e conseguentemente per la Provincia di Roma e per la stessa Regione Lazio, è questione rimessa alla capacità ed all’iniziativa delle classi dirigenti, locali e nazionale.
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