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Le personalità condizionate da abusi subiti nell’infanzia di Stefano Bovero*
Tratto da www.progettouomo.net
La distruttività e la perversione di un soggetto (infantile o adolescente o adulto), maschile o femminile risultano di regola la conseguenza comportamentale di un attaccamento "andato male" (Kohut, Sullivan, Winnicot, A. Miller, De Zulueta) con le prime figure di accudimento. Infatti assai spesso il bambino abusato o maltrattato non è un soggetto accattivante, che ispira compassione, ma un soggetto "che trasmette inquietudine, sofferenza, allontanamento, disordine, indisponenza" (Borghi). Assai spesso le stesse bambine abusate o maltrattate vengono tacciate di "megalomania" e sono vissute come "indisponenti" (Borghi). Quanto segue definisce, più particolarmente, i processi e le conseguenze relative all’abuso sessuale subito da soggetti infantili da soggetti adulti, tenendo tuttavia presente che analoghi comportamenti distruttivi o autodistruttivi risultano presenti anche come conseguenza, più o meno differita, di episodi di maltrattamento fisico o anche solo morale, spesso protratti nel tempo e messi in atto di solito da una o più figure genitoriali.
Il duplice abuso sessuale delle figure d’attaccamento
Nel più specifico caso dell’abuso sessuale si tratta di soggetti che hanno ricevuto profonde ferite psichiche, più profonde delle stesse eventuali ferite fisiche. Per abuso non si intende necessariamente ed esclusivamente la violenza sessuale diretta, ma anche la violenza visiva e/o tattile, come nei casi, assai numerosi, di bambini o bambine obbligati ad assistere a violenze sessuali o a rapporti sessuali adulti, oppure ad assistere o a partecipare ad atti autoerotici di adulti, oppure ancora a subire carezze o attenzioni lascive oppure ancora costretti a guardare con l’adulto riviste o video a contenuto pornografico. Tali situazioni determinano sistematicamente una compromissione psichica come risultato di un atto o di più atti, da parte di un soggetto adulto, che hanno essenzialmente provocato e fissato in loro la confusione tra tenerezza e sensualità erotica. E questo perché là dove i bambini in questione si attendevano fiduciosi affetto, protezione ed aiuto hanno invece ottenuto violenza e perversità; là dove avevano riposto e indirizzato spontaneamente ogni bisogno di tenerezza sono stati letteralmente degradati ad oggetto di piacere da parte dello stesso adulto, molto spesso con la complicità o l’omertà di altri adulti. E quasi sempre queste figure di adulti sono proprio figure di attaccamento (genitori, nonni, zii, amici di famiglia). Nel caso del classico abuso della bambina da parte del padre si verifica facilmente lo schema "a tre" dell’abuso: la bambina abusata, il padre abusante e la madre che pur, cogliendo parecchi segnali, sceglie il meccanismo difensivo della negazione per difendersi dall’angoscia, diventando così silenziosa e spesso nervosa connivente dell’abuso (che pertanto può continuare a protrarsi malgrado ci sia chi sa ma cerca di nasconderselo). Il trauma può così restare segreto a lungo, come conseguenza sia del vissuto della confusione del bambino, sia dell’anatema di cui è spesso vittima ulteriore da parte dell’abusante: "Tu non parlerai ". Nella vittima immatura e impotente si instaura perciò l’identico meccanismo innescato nei campi di sterminio nazisti dalle SS sugli internati e così ben descritto da Primo Levi nel suo celebre "Se questo è un uomo": "Quand’anche doveste riuscire a fuggire di qui nessuno crederà a quello che direte...". Quando il trauma riemerge, il bambino abusato si assume invariabilmente la colpa dell’accaduto, specie se si tratta di incesto: infatti per lui il genitore abusante, che assai spesso è tale con la tacita connivenza dell’altro genitore, è una figura di attaccamento fondamentale dalla quale dipende il suo sostentamento e quindi la sua vita stessa; per lui tale figura semplicemente non può essere colpevole, pertanto egli assumerà la colpa su di sé, convinto di aver subito quel trattamento perché è stato cattivo e non si è meritato l’affetto del genitore.
Il sé corrotto
Avendo ricevuto passione erotica in luogo di tenerezza il soggetto infantile si sente sporco e "stigmatizzato", cioè convinto di essere diverso ed in qualche modo "segnato", predestinato all’infamia. Non svilupperà autostima, ma crescerà con la vergogna e il senso di colpa costante di essere una persona indegna. Bene o male dunque crescerà, diventerà un ragazzo, ma i suoi rapporti sociali saranno singolarmente erotizzati, poiché quella è la modalità di approccio umano che gli è stata insegnata. Potrà diventare aggressivo, manipolativo e inaffidabile, ma il suo comportamento in realtà non farà che gridare tutta la sofferenza e la disperazione "incapsulate" ermeticamente dentro di lui, una mala pianta destinata assai spesso a germogliare e produrre gli stessi frutti velenosi. Dovendo confrontarsi con lo studio, il lavoro e gli affetti, potrebbe scoprire presto di sentirsi portato alla sconfitta e alla rassegnazione: la sua insicurezza potrebbe giungere al punto da dargli la continua sensazione di non riuscire a controllare il proprio destino. Avrà pertanto grandi difficoltà a tenere un comportamento adeguato a situazioni di minaccia e perderà la fiducia negli adulti. Ne scaturirà facilmente una reazione rabbiosa che potrà dare luogo ad un comportamento distruttivo. Tale devastante lacerazione della personalità sarà tanto più grave quanto più precoce sarà stato l’abuso subito: il bambino piccolo abbisogna infatti soprattutto di "coccole"; se invece riceve attenzioni sessuali, queste realizzeranno in lui un imprinting sessuale nei rapporti affettivi e con l’altro da sé in genere. Inoltre, l’abuso gli lascerà "un vuoto relazionale ed affettivo che con il tempo lo farà sentire ancora più responsabile e colpevole" (Borghi) del suo stato.
Da abusato ad abusante
Il bambino abusato, ormai divenuto un giovane, cresce con il suo inferno interiore incapsulato dentro di sé e a poco a poco diventa un adulto con la necessità di mettere a tacere la sua sofferenza interiore, cioè i vecchi sentimenti di impotente umiliazione e il suo desolato vuoto affettivo. Se, infatti, nel frattempo non sono intervenuti eventi in qualche misura riparatori, ovvero se le circostanze non gli hanno permesso di sperimentare nuove figure di attaccamento capaci di correggere almeno in parte i tratti personalitari danneggiati dall’abuso, l’abusato divenuto adulto non sarà "in grado di avere relazioni sessuali soddisfacenti" (De Zulueta). Perciò i sentimenti di indegnità e di autosqualifica introiettati molto tempo prima, unitamente al peso della sua perenne deprivazione affettiva, prima o poi lo spingeranno ad agire in modo da sentirne meno il peso. Ed invariabilmente proverà l’eccitante impulso di insinuarsi nella vita di qualche bambino solo e isolato. L’abuso che potrà compiere a sua volta avrà esattamente la funzione di difenderlo dalla consapevolezza di essere stato abusato. "Finalmente non sono più io che subisco questo maltrattamento, questa minaccia per me immensa e intollerabile; finalmente non devo più sopportare questa situazione insostenibile; finalmente sono io ad essere potente e tu, bambino, sei ora la vittima che finalmente io non sono più !". Questo è ciò che vive l’inconscio di moltissimi adulti abusanti. Il maltrattamento compiuto è una "coazione a ripetere egosintonica", ovvero un’autocostrizione a rivivere l’abuso ma dalla parte attiva, per poter percepire il sollievo del tormento dell’averlo subito quando era parte passiva. Il bambino abusato è dunque ora diventato un adulto abusante. Si tratta quasi sempre di una persona dall’aspetto e dalla condizione sociale assolutamente rispettabili, che può avere già agito nella vita la sua rabbia repressa canalizzandola aggressivamente in un lavoro persino di successo. Proprio grazie agli abusi continui e segreti (veri e propri, ma anche semipubblici, come nel caso dei "tours per pedofili" in estremo oriente, o semivirtuali, come nel caso della contemplazione autoerotica di fotografie pedopornografiche su Internet) egli continua a perpetrare, egli può mettere in atto meccanismi comportamentali compensativi degli effetti della sua antica ferita interiore (l’abuso subito da bambino); di conseguenza egli non si vivrà come abusante. In questo modo si spiega maggiormente l’ostinazione "ragionata" con cui i vari club per pedofili on line sostengono la liceità di interagire con la "naturale sessualità dei bambini". La difficoltà di smascherare un adulto abusante è perciò speculare con la difficoltà che sperimenta il minore abusato nel rendere visibile l’abuso subito. L’anatema "Non lo dirai a nessuno", unitamente alla totale confusione tenerezza/erotismo introiettata al tempo all’abuso, produce pertanto i suoi nefasti effetti in ambedue le situazioni.
L’anello mancante di una catena da spezzare
Va da sé che l’approccio giornalistico verso questo gravissimo problema sociale, assai spesso caratterizzato dall’esigenza mediatica di "sbattere il mostro in prima pagina", non aiuta affatto a comprenderlo nei suoi termini reali e complessi. Il "linguaggio" ufficiale, definito "pubblico-politico" dalla psicosociologia, disegna al contrario delle fuorvianti "autoevidenze" fondate sul dualismo mostro-vittima come se esse appartenessero a due mondi assolutamente diversi e che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. Se questo può essere vero per la vittima infantile, non altrettanto ciò può dirsi per l’abusante il quale, in base a quanto esplicitato prima, in realtà non fa che perpetuare inconsapevolmente il meccanismo dell’abuso da lui ricevuto quando a sua volta ne fu vittima. La vittima che diventa abusante crea a sua volta nel nuovo abusato di turno i presupposti affinché tale concatenazione perversa continui a riprodursi su sempre nuove generazioni di vittime, e ciò potenzialmente all’infinito, alla stessa stregua di un vero e proprio "contagio" psichico. In realtà, per fortuna, dopo alcune generazioni tale concatenazione ha mediamente fine grazie all’intervento di circostanze favorevoli e di fattori sociali correttivi nell’ultimo abusato della tragica catena. Ciò non toglie che il problema sia diventato molto serio e sempre più socialmente diffuso. Questo fenomeno è sempre stato presente in tutte le epoche, ma la nostra appare particolarmente favorevole al suo allargamento a causa di una diffusa mentalità edonistica connessa con i valori propagati da un’economia di impresa di breve periodo (cioè tendente ad investire a bassi costi e con lo scopo di realizzare guadagni immediati). Essa ha infatti contribuito non poco a creare una mentalità fruitoria di ogni possibile bene o servizio, spingendo perciò a consumare anche le "utilità" che si possono trarre dalle prestazioni che sfruttano in svariati modi la curiosità e l’interesse per il sesso. Non è un mistero per nessuno che, a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo, accanto alla maturazione di una maggiore consapevolezza dei diritti di libertà individuali si sia andata sviluppando una concezione sociale della sessualità che, resa da un lato sanamente avulsa da dogmi morali e religiosi repressivi già responsabili di ansie e nevrosi varie, ha a sua volta imboccato una via espressiva perdendo di vista la sua naturale funzione affettiva. Che non è certo solo quella riproduttiva, bensì l’equilibrato complemento psicobiologico della tenerezza. Nella misura in cui è venuta crescendo nell’ultimo quarantennio una propaganda mediatica, dapprima disinvolta e poi sempre più insinuante e battente, di una sessualità assolutamente disinibita, si è di fatto avallata sempre più la liceità morale della scissione tra eros e tenerezza, fenomeno questo che sta, non a caso, esattamente alla base stessa della pedofilia. La nostra società sta insomma scontando questo errore di fondo, scambiando per libertà personale ciò che è invece libertà di consumo. Si potrebbe obiettare che non certo tutto il sesso fine a se stesso (cioè sganciato dalla corrente di tenerezza) viene di fatto praticato all’interno di contesti caratterizzati da prestazioni economiche. In altre parole, non tutto l’erotismo sociale "passa" attraverso prostituzione abituale ed occasionale, case d’appuntamento clandestine, club privés per scambi di coppie, sexy shop, mostre cittadine tipo "Erotica", cinema a luci rosse, TV private "a tarda ora", riviste pornografiche, siti Internet pornografici, spettacoli dal vivo delle pornodive di turno o i sex tour asiatici. E tuttavia è difficile negare che, anche qualora non sussistano in merito gli estremi della prestazione a pagamento, nondimeno l’invito mediatico generalizzato, esplicito o più spesso ammiccante a "fare sesso" prefigura comportamenti in cui gli individui si impegnino in relazioni sessuali nelle quali l’un l’altro si vivono di fatto alla stregua di beni di consumo reciproci, "oggettificandosi" a vicenda e quindi, in qualche misura, "deumanizzandosi". Non si tratta necessariamente di demonizzare ciò, in quanto anche tali esperienze sporadiche possono sicuramente entrare a far parte di un percorso di crescita, bensì di segnalare che tali comportamenti vengono ampiamente incoraggiati dagli ormai numerosissimi messaggi, verbali e non, di una società sempre più vittima del consumismo socioeconomico; e questo a discapito di una sessualità matura che, se fosse almeno parimenti divulgata nella sua essenza di riunione armonica delle due correnti pulsionali primarie (eros e tenerezza), produrrebbe un’inversione di tendenza tale da creare un clima sociale sfavorevole per quel consumismo sessuale di cui oggi si serve e si autogiustifica abbondantemente la pedofilia, ormai giunta a livelli di invadenza e di sofisticatezza ragguardevoli grazie alla sua coniugazione con la pornografia tramite Internet.
Stefano Bovero è Psicologo psicoterapeuta specializzato in Psicoterapie Brevi presso il C.I.S.S.P.A.T. (Centro Italiano Studio Sviluppo Psicoterapia Autogenes Training) di Padova e in tecniche di psicoterapia focale, miranti alla ristrutturazione degli aspetti della personalità del paziente che hanno prodotto il disturbo.
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