Relazione Conclusiva
Osservazioni preliminari in materia
di oggetto e metodo del lavoro
I. Necessaria offensività e irrilevanza penale
del fatto
1. Necessaria offensività penale del fatto; 2. Irrilevanza penale del fatto
II. Superamento o mantenimento della dicotomia
delitti-contravvenzioni
III. Realizzazione del principio di colpevolezza
1. Principi generali; 2. Dolo e colpa; 2.1. Questioni relative al dolo;
2.2 Questioni relative alla colpa; 3. La disciplina dell'errore; 3.1. L'errore
sul precetto; 3.2. L'errore sul fatto; 3.3.Errore sugli elementi differenziali
fra più reati ed errore sulle scriminanti; 4. Eliminazione delle residue
ipotesi di responsabilità oggettiva od anomala; 4.1. Linee generali e specifiche
della riforma; 4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da
taluno dei concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel reato proprio; 4.3.
Reati a mezzo stampa o radiotelevisione; 4.4. Le circostanze del reato.
IV. Reati omissivi e posizioni di garanzia nell'ambito
di organizzazioni complesse
1. I reati omissivi; 1.1. I reati omissivi propri; 1.2. Reati commissivi
mediante omissione; 2. Le posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni
complesse.
V. Le cause di giustificazione
1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine illegittimo
vincolante; 2. Difesa legittima e stato di necessità; 3. L'uso legittimo
delle armi; 4. Consenso dell'avente diritto; 5. Una nuova scriminante generale?
VI. Tentativo e delitti di attentato
1. Il delitto tentato; 1.1. Suo campo di applicazione; 1.2. Sua struttura
e trattamento sanzionatorio; 1.3. Dolo e tentativo; 2. Desistenza volontaria
e recesso attivo; 3. I delitti di attentato.
VII. Concorso di persone nel reato e reati associativi
1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione; 2. Il trattamento sanzionatorio
delle condotte di partecipazione; 3. La partecipazione omissiva nel reato
commesso mediante azione; 4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p.; 5.
Il concorso nei reati colposi; 6. Istigazione e accordo non seguiti dalla
commissione del reato; 7.La responsabilità del partecipe per il reato da
lui non voluto e il concorso nel reato proprio; 8. La disciplina delle circostanze
e delle cause di giustificazione; 9. I reati associativi.
VIII. Il sistema delle pene
1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene; 2. Una nuova articolazione
delle pene; 3. La reclusione; 4. Le pene diverse dalla reclusione; 5. La
pena pecuniaria; 6. La confisca; 7. La sospensione condizionale della pena;
8. L'oblazione; 9. La commisurazione della pena; 10. Le circostanze del
reato; 11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati; 12. Cenni
sulla revisione della disciplina delle misure alternative alla reclusione;
13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa; 14. Astensione
dalla pena; 15. Cenni sulla prescrizione; 16. La funzione rieducativa della
pena.
IX. L'imputabilità
1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non;
2. Questioni di tecnica legislativa; 3. Infermità di mente ed altre anomalie;
4.Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti; 5. Minorenni; 6. Trattamento
dei soggetti non imputabili; 7. Mantenimento di fattispecie di capacità
ridotta?
X. La responsabilità delle persone giuridiche
XI. Struttura del codice ed indicazione dei beni
giuridici
1. La centralità del codice; 2. La organizzazione della parte speciale.
XII. Esemplificazione di riforma della parte speciale:
una nuova tipologia dei delitti contro lo Stato
Composizione della Commissione:
Presidente: Prof. Avv. Carlo Federico Grosso
Componenti: Dott. Giovanni Canzio, Avv. Fabrizio Corbi, Prof. Francesco Palazzo,
Prof. Paolo Pisa, Prof. Avv. Domenico Pulitano', Avv. Ettore Randazzo, Prof.
Sergio Seminara, Prof. Avv. Filippo Sgubbi, Avv. Filippo Siciliano, Dott. Giovanni
Silvestri, Dott. Giuliano Turone, Dott. Vladimiro Zagrebelsky, Avv. Giampaolo
Zancan.
Composizione del Comitato Scientifico della Commissione:
Coordinatore: Dott. Elisabetta Cesqui.
Componenti: Dott. Raffaele Cantone, Dott. Piero De Crescenzio, Dott. Ombretta
Di Giovane, Dott. Giacomo Fumu, Dott. Giovanni Masi, Dott. Andrea Padalino Morichini,
Dott. Carlo Piergallini, Dott. Ancrea Vardaro.
Hanno partecipato ai lavori, personalmente o con loro delegati, il Capo di Gabinetto,
il Capo dell'Ufficio Legislativo e il direttore generale degli Affari Penali
del Ministero di Grazia e Giustizia.
Osservazioni preliminari
su oggetto e metodo del lavoro
In data 21 ottobre 1998 il Ministro di Grazia e Giustizia, premesso che "occorre
procedere a una riforma del codice penale che, muovendo dai lavori già svolti
in materia dalle Commissioni Parlamentari e Ministeriali, approfondisca in particolare
-
il tema delle sanzioni in una prospettiva che tenda a una loro razionalizzazione
nel quadro del contemperamento delle esigenze di prevenzione generale e di prevenzione
speciale;
-
il tema della riduzione dell'ambito dell'intervento penale previa
la ricognizione dei beni giuridici meritevoli di tutela penale e l'indicazione
di massima delle relative fattispecie di reato", ha proceduto alla costituzione
di una Commissione di esperti costituita da docenti universitari, da magistrati
e da avvocati penalisti finalizzata alla "stesura di un documento nel
quale siano esposti gli orientamenti e le priorità di una riforma di
parte generale e di parte speciale del codice penale e siano inoltre prospettati
gli eventuali criteri di un disegno di legge-delega coordinato fra l'altro con
i provvedimenti all'esame del Parlamento e con le elaborazioni che su aspetti
collegati sono in corso da parte di altri gruppi di lavoro costituiti presso
il Ministero di Grazia e Giustizia (specie in materia di responsabilità penale
delle persone giuridiche e depenalizzazione)". Il termine per la conclusione
dei lavori è stato fissato al 30 giugno 1999.
La Commissione, tenendo conto
delle indicazioni contenute nel Decreto istitutivo, valutato che i tempi stretti
concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione che affrontasse
con la medesima attenzione l'analisi dei temi di parte generale e di quelli
di parte speciale, ha ritenuto di privilegiare il primo di tali aspetti e di
riservare per il momento ai profili di parte speciale considerazioni riguardanti
soprattutto i criteri generali ai quali dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina.
Ciò è apparso tanto più opportuno considerato che le indicazioni desumibili
dai disegni di legge in discussione al Parlamento, o già approvati dallo stesso,
apparivano non del tutto univoche, e soprattutto perché una analisi dettagliata
della parte speciale presupponeva il consenso sulle scelte di fondo della parte
generale e sugli stessi criteri generali cui ispirare i dettagli di quella speciale.
La Commissione, seguendo le indicazioni ricevute dal Ministro, è partita dalla
analisi dei lavori già svolti in materia di riforma del codice penale dalle
Commissioni Parlamentari e Ministeriali, facendo particolare riferimento alla proposta di legge-delega elaborata dalla Commissione
Pagliaro (1992) ed al disegno
di legge di riforma della parte generale elaborato dalla Commissione Giustizia
del Senato nel corso della XII legislatura (c. d. Progetto Riz), ripresentato
in sede referente alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in
data 26 gennaio 1999 con ampia relazione illustrativa.
In alcuni punti qualificanti la Commissione si è discostata dalle soluzioni
suggerite in tali progetti, proponendo soluzioni talvolta fortemente innovative,
ad esempio in materia di disciplina delle sanzioni penali, nella attenzione
dedicata al problema delle garanzie in taluni settori di diritto penale sostanziale
(es., realizzazione complessiva del principio di colpevolezza, disciplina delle
c.d. forme di manifestazione del reato, disciplina della imputabilità), nella
considerazione, tradizionalmente negletta, del problema della responsabilità
delle persone giuridiche.
I lavori della Commissione si sono articolati attraverso
la attività di ricerca, di approfondimento e di stesura di documenti intermedi
svolto da Sotto-commissioni costituite per settori, e discussione e revisione
di tali documenti da parte della Commissione plenaria. Approvate, nel corso
di una serie di riunioni concluse il 12 giugno 1999, singole determinazioni,
nelle quali si è dato comunque atto delle divergenze di opinioni emerse su alcuni
problemi affrontati, la Commissione ha dato mandato al Presidente di procedere
alla stesura della Relazione finale sulla base del materiale complessivamente
elaborato nelle Sotto-commissioni e nelle sedute plenarie. I documenti predisposti
dalle Sotto-commissioni, o prodotti da singoli commissari, anche se in alcuni
punti superati dalla discussione plenaria, sono stati raccolti in materiale
numerato da 1 a 13.
I. Necessaria
offensività e irrilevanza penale del fatto
Sia il tema della necessaria offensività del fatto, sia, soprattutto, quello
della sua irrilevanza penale, sono destinati a suscitare, e già hanno suscitato,
discussioni e fermento fra i penalisti. La Commissione, dopo avere affidato
ad una Sotto-commissione una prima riflessione sui due temi, li ha poi discussi
in seduta plenaria, formulando le proposte 'alternative' di seguito indicate,
rinviando comunque ai risultati di un più ampio dibattito fra i tecnici, e soprattutto
fra i politici, le scelte definitive.
1. Necessaria offensività del fatto
La Commissione prende innanzitutto
atto del fatto che il principio di necessaria offensività costituisce ormai
connotato pressoché costante dei più recenti progetti riformatori. Esso ha trovato
ingresso nello schema di legge-delega Pagliaro, che in uno dei primi articoli,
collocato non a caso subito dopo la enunciazione del principio di legalità,
invita a "prevedere il principio che la norma sia interpretata in modo da limitare
la punibilità ai fatti offensivi del bene giuridico" (art. 4 comma 1). Ed è
stato enunciato a tutto campo nel Progetto di revisione della seconda parte
della Costituzione, licenziato il 4 novembre 1997 dalla Commissione Bicamerale:
"non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui
esso non abbia determinato una concreta offensività".
La Commissione ritiene che, al di là delle opinioni specifiche di ciascuno
sulle modalità di inserimento di tale principio nel codice, le posizioni sopra
enunciate esprimano la esigenza insopprimibile di ancorare, anche visivamente,
la responsabilità penale alla offesa reale dell'interesse protetto, nel quadro
di un diritto penale specificamente finalizzato a proteggere i (più rilevanti)
beni giuridici, e centrato sulla tassativa descrizione di fatti costituenti
reato già di per sé costruiti in modo da assicurare, nei limiti del possibile,
la punibilità di condotte offensive dell'interesse protetto. Che di conseguenza
il nuovo codice penale non possa rinunciare ad enunciare espressamente fra i
suoi capisaldi il principio secondo cui un fatto di reato, per risultare punibile,
deve avere offeso l'interesse tutelato dalla norma penale incriminatrice.
Divergenze si sono invece manifestate con riferimento alle modalità di configurazione
della regola ed alle specifiche conseguenze pratiche connesse alla introduzione
della stessa. Queste divergenze hanno costituito l'inevitabile riflesso delle
differenti posizioni emerse in dottrina sul principio di offensività nel dibattito
degli ultimi trent'anni.
Una parte della Commissione sostiene la necessità di introdurre nel codice
penale il principio di necessaria offensività del reato grosso modo nel modo
in cui esso è stato formulato dagli estensori della Commissione Bicamerale:
non è punibile chi ha commesso un fatto previsto come reato nel caso in cui
esso non abbia determinato concretamente la offesa dell'interesse protetto.
Il significato di questa scelta è evidente. Si tende a cristallizzare in una
norma esplicita quanto una parte della dottrina ritiene già oggi desumibile
dall'art. 49 comma 2 c.p., con l'obbiettivo di inserire la offesa fra gli elementi
strutturali del reato, e consentire di conseguenza al giudice di escludere la
responsabilità penale ove dovesse accertare che un fatto, che pure riproduce
gli elementi astrattamente configurati dalla norma penale incriminatrice, non
ha in concreto offeso il bene che tale norma era destinata a proteggere.
L'importanza pratica di questa di questa impostazione è stata individuata da
una parte dei componenti della Commissione soprattutto sul terreno dei reati
di pericolo, che, si è sostenuto, per risultare concretamente offensivi dell'interesse
tutelato devono per forza assumere la veste della reità a pericolosità concreta.
Non è un caso che sul solco della sopra menzionata interpretazione dell'art.
49 comma 2 c.p. una parte della dottrina, e della stessa giurisprudenza, abbia
sostenuto che già oggi i reati di pericolo astratto previsti dal codice penale
Rocco, o quantomeno la maggior parte di essi, devono essere intesi tutti come
reati di pericolo concreto.
Altra parte della Commissione sostiene invece che il principio di offensività
debba essere introdotto nel codice penale come criterio di interpretazione,
secondo il modello offerto dallo schema di legge-delega Pagliaro. Muovendo dal
presupposto secondo cui il contenuto offensivo deve essere espresso dalla struttura
della fattispecie, nella quale integralmente si identifica, si afferma che non
vi è alcun spazio per ammettere un elemento costitutivo aggiuntivo rispetto
a quelli essenziali indicati dalla singola norma incriminatrice. L'offesa deve
svolgere invece un ruolo ermeneutico, sia pure essenziale e primario, per l'accertamento
del significato e della portata della fattispecie. Come è stato osservato, mentre
per la concezione strutturale gli elementi descrittivi del reato concorrono
insieme alla offesa ad individuare l'area della tipicità, per la concezione
interpretativa essi segnano il limite esterno della tipicità, all'interno della
quale l'offesa può operare come ulteriore criterio selettivo.
In questa prospettiva alcuni componenti della Commissione hanno, in particolare,
esplicitamente sostenuto che recepire il principio di offensività non deve significare
presa di posizione contro la configurabilità di reati a pericolo astratto, né
deve attribuire al giudice la facoltà di sostituire alla struttura della fattispecie
una struttura diversa.
2. La irrilevanza penale del fatto
La Commissione ha innanzitutto preso
atto dei precedenti in materia e del contesto in cui si è cominciato a parlare
di attribuzione alla magistratura della possibilità di dichiarare improcedibili,
o non punibili, situazioni in cui elementi di marginalità potrebbero indurre
a non considerare rilevante penalmente un fatto nonostante la sua corrispondenza
al modello di un reato.
Si è rilevato da un lato che l'ipotesi di irrilevanza del fatto è già presente
nel nostro ordinamento limitatamente al diritto minorile, ove l'art. 27 comma
1 D.P.R. 22 settembre 1998, n. 448 dispone che "durante le indagini preliminari,
se risulta la tenuità del fatto e l'occasionalità del comportamento, il pubblico
ministero chiede al giudice sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza
del fatto quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative
del minorenne".
Si è osservato dall'altro che il problema è diventato di attualità nel momento
in cui alcuni disegni di legge, nell'intento di contribuire al decongestionamento
delle aule di giustizia, hanno previsto di dare rilievo alla irrilevanza del
fatto dapprima sotto la veste di causa di improcedibilità (disegno di legge
C/4625, contenente disposizioni in tema di definizione del contenzioso civile
pendente), e successivamente di causa di non punibilità (testo unificato delle
proposte di legge n. 411, 4625 bis/C e abbinate: c.d. testo unificato Carotti),
prevedendo che "1. Per i reati per i quali la legge stabilisce una pena detentiva
non superiore nel massimo a tre anni ovvero una pena pecuniaria sola o congiunta
alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando risulta la irrilevanza penale
del fatto; 2. L'imputato non è punibile quando rispetto all'interesse tutelato,
l'esiguità del danno o del pericolo che ne è derivato, nonché le modalità della
condotta, la sua accasionalità, valutata anche in relazione alla capacità a
delinquere del reo, e il grado di colpevolezza non giustificano l'esercizio
della azione penale; 3. L'irrilevanza penale del fatto può essere dichiarata
solo se vi è stata la richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. Se è
stata esercitata l'azione penale l'irrilevanza del fatto può essere dichiarata
se l'imputato non si oppone".
Si è ulteriormente considerato che il disegno di legge-delega in materia di
competenza penale del giudice di pace, approvato dalla Camera dei Deputati e
successivamente anche dalla Commissione Giustizia della Camera, prescrive (art.
16 comma 1 lett. c) "la introduzione di un meccanismo di definizione del procedimento
nei casi di particolare tenuità del fatto e di occasionalità della condotta,
quando l'ulteriore corso del procedimento può pregiudicare le esigenze di lavoro,
di studio, di famiglia, di salute della persona sottoposta ad indagini o dell'imputato".
Nonostante che l'istituto di maggiore rilievo, perché destinato ad operare
in via generale sul terreno della giustizia penale, sia stato stralciato dal
testo unificato Carotti, e pertanto oggi la sua introduzione nel sistema penale
sia tutt'altro che imminente, la Commissione ha ritenuto di affrontare comunque
i problemi aperti dalla prospettiva di una sua possibile utilizzazione, tanto
più che non mancano in Europa esempi di utilizzazione di istituti similari.
Una parte della Commissione si è espressa in termini del tutto contrari alla
introduzione del nuovo istituto, a causa della eccessiva discrezionalità che
esso attribuirebbe alla magistratura, e dei problemi di costituzionalità che
esso, comunque venga definito, porrebbe con riferimento al principio di obbligatorietà
della azione penale.
Altra parte della Commissione, pur non nascondendosi i problemi, ha assunto
invece un atteggiamento di maggiore apertura. Si è rilevato che l'istituto ha
funzionato comunque bene in materia minorile. Si è soggiunto che se si considerano
le prassi seguite in sede di archiviazione (o di dichiarazione di 'inoffensività),
si constata che 'di fattò il criterio viene già usato con una certa ampiezza
al di fuori da qualunque regolamentazione e da qualunque controllo, per cui
una sua disciplina contenuta e razionale potrebbe risultare positiva sul terreno
della legalità. Si è affermato che in fondo l'idea soggiacente al criterio della
esiguità della offesa o della tenuità del fatto è quella della esclusione dall'area
del penalmente rilevante della fascia di criminalità bagatellare che ben può
annidarsi all'interno di fattispecie costruite in termini espressivi di un disvalore
quantitativamente molto differenziato (come ad es. i reati patrimoniali, i reati
fiscali, nei quali fra l'altro l'utilizzazione di soglie quantitative di punibilità,
sia pure tipizzate, costituisce una costante). Si è sostenuto che i dubbi di
incostituzionalità costituiscono un falso problema, in quanto il principio di
obbligatorietà della azione penale non esclude che l'ordinamento possa prevedere
ipotesi specifiche e predeterminate in cui l'obbligo del pubblico ministero
è subordinato al contemperamento tra gli interessi della giustizia ed interessi
di altra natura, privatistici e pubblicistici, con la prevalenza dei secondi;
è essenziale che tale bilanciamento non possa avvenire in modo da pregiudicare
i valori sottostanti al principio di obbligatorietà quale garanzia di non discriminazione,
e si moduli pertanto "sulla base di situazioni predeterminate dalla legge, di
categorie generali e non di casi in cui al potere politico sia attribuita la
facoltà di impedire il promovimento dell'azione penale per motivi contingenti
e estemporanei".
Piuttosto, hanno osservato i componenti della Commissione non ostili alla introduzione
del nuovo istituto, occorre riflettere con attenzione sui limiti entro i quali
esso (che, non si dimentichi, è comunque istituto 'di favore') può essere utilizzato
senza scardinare il sistema della responsabilità penale.
Al riguardo sono stati evidenziati alcuni requisiti:
-
necessità di una rigorosa
delimitazione dell'area applicativa dell'istituto attraverso limiti quantitativi
di pena edittale;
-
per il giudizio in concreto di irrilevanza, considerazione
primaria degli elementi 'interni' al fatto: la particolare tenuità del fatto,
scaturente dalla esiguità del danno o del pericolo e dal grado della colpevolezza;
-
la considerazione dei requisiti esterni al fatto, quali la occasionalità
dello stesso, o la prognosi in ordine alla sua non ripetibilità da parte dell'autore,
dovrebbero essere costruiti come 'limiti negativi' alla dichiarazione di irrilevanza
nonostante la sussistenza dei requisiti indicati sub a) e sub b); d) possibilità
di allargare i criteri di valutazione a situazioni di non esigibilità in concreto
di una condotta diversa.
Alcuni componenti della Commissione si sono dichiarati non contrari alla introduzione
dell'istituto alla condizione che sia configurato sul terreno del processo come
causa di improcedibilità e non su quello del diritto penale sostanziale come
causa di non punibilità.
II.
Superamento o mantenimento della dicotomia delitti-contravvenzioni
La bipartizione dei reati in delitti e contravvenzioni ha costituito oggetto
di ampia discussione prima in Sotto-commissione, poi in Commissione.
Una parte dei componenti ritiene che sia giunto il momento di abolire le contravvenzioni,
superando un modello che lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto di
legge Riz avevano invece previsto di conservare, pur contemplando incisive modificazioni
in materia di pena (rispettivamente, semidetenzione in luogo dell'arresto, eliminazione
dell'arresto).
Le ragioni di questa proposta, tendente a semplificare il sistema dei reati
depenalizzando le infrazioni veramente bagatellari, e configurando come delitti
tutte le altre, con esplicita articolazione nella veste dolosa e colposa (differentemente
punita) delle fattispecie per le quali si ritiene opportuna anche la ipotesi
della responsabilità colposa, possono essere sintetizzate nei seguenti profili:
-
frequente irrazionalità e casualità delle scelte operate nell'inserimento
dei reati nell'una piuttosto che nell'altra categoria, rivelata fra l'altro
dalla presenza di delitti puniti con la sola multa e dalla collocazione fra
le contravvenzioni di fatti di notevole gravità;
-
appiattimento in una unica cornice edittale delle condotte colpose e di quelle dolose;
-
facile preda della prescrizione di contravvenzioni di notevole rilevanza ma di lungo e complesso accertamento;
-
frequente non esecuzione, o addirittura ineseguibilità, delle
pene irrogate, e conseguente significato meramente simbolico della previsione
di numerose contravvenzioni;
-
inflazione delle previsioni di reati conseguente alla possibilità di ricorrere al modello contravvenzionale.
Altra parte della Commissione giudica invece utile la conservazione del modello
contravvenzionale. A sostegno di questo assunto si sottolinea:
-
il pericolo di un appesantimento eccessivo della categoria dei delitti a fronte della difficoltà
di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività;
-
la persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua
specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle
fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con
una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata,
ecc.);
-
la esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti
(es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno
sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle
al controllo giurisdizionale;
-
la validità del modello di reato contravvenzionale
individuato dallo schema di legge-delega Pagliaro nelle tre categorie dei reati
consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare
esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione,
controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta offensività.
Né, si è soggiunto, ha pregio il riferimento alla prescrizione, che può essere
agevolmente modulata in modo da evitare una troppo agevole prescrittività delle
contravvenzioni complesse, o alla frequente 'ineffettività' delle sanzioni,
che può essere anch'essa superata attraverso idonea disciplina. Si concorda
comunque sulla eliminazione della pena dell'arresto, e sulla sua sostituzione
con pene diverse da quella detentiva carceraria secondo il modello dello schema
di legge-delega Pagliaro.
III. Realizzazione del principio di colpevolezza.
1. Principi generali
L'individuazione del principio di colpevolezza
quale uno dei principi fondamentali ed inderogabili del diritto penale costituisce
opinione comune in dottrina. La rilevanza costituzionale del principio è stata
affermata dalla Corte Costituzionale nella fondamentale sentenza n. 364/88.
L'adeguamento completo al principio di colpevolezza appare obbiettivo
fondamentale d'una riforma del codice penale.
Per quanto concerne la struttura dell'imputazione soggettiva si ritiene valida
la struttura di fondo del sistema vigente, con le modifiche finalizzate alla
piena attuazione del principio di colpevolezza, e con una semplificazione tendente
ad eliminare disposizioni ridondanti.
In questa prospettiva si ritiene di confermare:
-
la previsione del dolo e della colpa come forme base dell'imputazione soggettiva;
-
l'esclusione della responsabilità penale nel caso di errore o ignoranza di fatto e nel caso di
errore o ignoranza incolpevole sull'illiceità del fatto secondo l'indirizzo
dettato dalla Corte Costituzionale;
-
nell'ambito dei delitti, responsabilità per dolo, salvo l'espressa previsione di figure di delitto colposo;
-
nell'ambito delle contravvenzioni (se confermate: v. retro punto II), responsabilità indifferentemente
per dolo o per colpa.
2. Dolo e colpa. Le definizioni del codice Rocco hanno contribuito più
a far sorgere problemi che ad additare soluzioni. La scelta che si pone in sede
di riforma è fra la loro sostituzione con definizioni nuove e più idonee ad
orientare la prassi, ovvero la rinuncia a qualsiasi definizione legale, lasciando
l'elaborazione degli istituti alla razionalità interna della cultura giuridica.
L'opzione a favore di definizioni legislative è ritenuta preferibile per esigenze
di certezza del diritto.
2.1. Questioni relative al dolo
Relativamente al dolo (forma
più grave di colpevolezza e criterio normale di imputazione soggettiva dei delitti)
v'è sostanziale concordia sui tratti fondamentali: dolo significa volontà consapevole
di realizzazione del fatto illecito; la consapevolezza deve abbracciare tutti
gli aspetti da cui dipende la tipicità penale del fatto commesso.
L'ambito problematico, nella teoria e nella prassi, è il c.d. dolo eventuale Lo schema Pagliaro, con il richiedere (art. 12) una definizione di dolo "univocamente
comprensiva del dolo eventuale", si limita ad esprimere l'esigenza che l'imputazione
per dolo sia estesa a fatti che l'agente si è rappresentato non in termini di
certezza, come conseguenza della propria condotta. In realtà l'esigenza di fondo,
in sede di riforma, non è quella di consolidare il già incontroverso ancoraggio
normativo della figura del dolo eventuale, ma, al contrario, quella di precisare
i limiti di tale forma di dolo: la formula corrente della 'accettazione del
rischio' ha carattere essenzialmente retorico, e la prassi applicativa evidenzia
il pericolo di slabbramenti della figura del dolo, sia sotto il profilo definitorio,
sia sotto il profilo probatorio e applicativo.
Si tratta allora di determinare le condizioni minime in presenza delle quali
resti fondato il rimprovero di volontaria realizzazione del fatto illecito,
ancorché la previsione dell'evento o (più in generale) la rappresentazione del
fatto non siano in termini di certezza. Alla luce dell'esperienza, il legislatore
potrebbe utilmente stabilire:
-
che occorre comunque, per l'imputazione per dolo, una rappresentazione della
realizzazione del fatto tipico in termini di alta probabilità, e non di generica possibilità;
-
che l'oggetto della rappresentazione, sia pure in termini di probabilità e non di certezza,
deve essere il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa d'illecito.
2.2. Questioni relative alla colpa
Relativamente alla colpa
lo schema di base resta quello della attribuzione di responsabilità per avere
realizzato il fatto con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione
cautelare. Rispetto alla formula del codice Rocco, ed alla prassi che su di
essa si è formata, si pongono diversi problemi:
-
Individuazione delle regole cautelari pertinenti al giudizio di colpa.
Resta valido il modello vigente, nel quale hanno rilievo sia regole 'non formalizzate'
(di diligenza prudenza perizia), ricostruibili secondo i criteri della prevedibilità
e prevenibilità, sia regole tipizzate a livello normativo (inosservanza di leggi
ecc.).
Questione della prevedibilità: la prevedibilità dell'evento (o meglio,
di un fatto del tipo di quello in concreto realizzato) deve o non deve essere
considerata un autonomo elemento caratterizzante della fattispecie colposa,
non necessariamente assorbito nella violazione della regola cautelare? La rilevanza
del tema è bene evidenziata da vicende giudiziarie come quella dei processi
relativi a tumori per esposizione ad amianto in anni remoti: l'imputazione per
omicidio colposo è sufficientemente fondata sulla violazione di regole cautelari
generiche, relative alla esposizione a polveri, o richiede la prevedibilità
di eventi di morte da tumore, alla luce delle conoscenze disponibili al momento
del fatto?
Questione della prevenibilità: si può affermare la responsabilità
per colpa quando risulti che l'evento non si sarebbe evitato nemmeno tenendo
una condotta conforme alla regola di diligenza?
Metro della colpa. Lo schema Pagliaro propone (art. 12) di formulare
la definizione della colpa "in modo che in tutte le forme di imputazione si
fondino su di un criterio strettamente personale". L'indicazione, pur poco chiara,
sottende l'esigenza di ancorare la colpa ad un criterio non meramente oggettivo.
A tal fine è sufficiente il criterio dell'agente modello, diversificato per
tipi di attività, o si può (si deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali
di incapacità?
Metro della colpa relativamente alle attività professionali: il limite
della colpa grave, previsto dal codice civile per le prestazioni professionali
di speciale difficoltà, vale anche in materia penale? Con motivazioni apparentemente
contrastanti, la prassi recepisce l'esigenza di una delimitazione della colpa
per imperizia, che tenga conto delle peculiari difficoltà di certe prestazioni.
A livello normativo potrebbe essere espressamente sancito il principio che eventuali
limitazioni di responsabilità, previste in altri settori dell'ordinamento, valgono
anche per il diritto penale.
Rischio consentito. Relativamente allo svolgimento di attività pericolose
è affermazione comune che i confini del rischio permesso dipendono da un bilanciamento
d'interessi: da un lato l'interesse allo svolgimento dell'attività, dall'altro
la misura del rischio ad essa connesso (in funzione della natura e della probabilità
di eventi lesivi). La concretizzazione di tale bilanciamento rappresenta un
punto critico (di incertezza) nella disciplina delle attività pericolose.
Rispetto alla colpa, vengono in rilievo sistemi più o meno complessi di regole
cautelari formalizzate da leggi, regolamenti ecc.: vi è spazio, ove tali sistemi
esistano, per ulteriori riferimenti ai criteri della colpa generica? In via
di principio sembra ragionevole tenere ferma la corrente risposta affermativa,
con l'avvertenza che il riferimento alla colpa generica non può essere adoperato
per spostare le soglie del rischio accettabile che fossero riconoscibilmente
individuate dal legislatore con la determinazione di valori soglia o di altri
parametri definiti.
La criticità del rapporto fra esigenze inderogabili di tassatività del precetto
ed esigenze di tutela 'a tutto campò è bene esemplificata dal tipo di questioni
esaminato dalla Corte Cost. 312/96 (rinvio della legge a 'misure tecniche, organizzative
e procedurali' necessarie per la riduzione al minimo del rischio rumore) . La
soluzione interpretativa proposta dalla Corte (riferimento agli standard generalmente
adottati nei diversi settori), volta a salvare la determinatezza del precetto,
rischia di disperdere la dimensione 'normativa' propria delle regole cautelari,
la cui funzione è di controllo (non dunque di mera convalida) delle prassi.
Si pone qui l'interrogativo radicale, se clausole generali come quella della
'riduzione al minimo' di dati rischi possano trovare diretta applicazione in
sede penale, senza la mediazione di più puntuali specificazioni da parte di
fonti autorizzate, che traducano la direttiva generale in precetti sufficientemente
determinati.
3. La disciplina dell'errore
3.1. L'errore sul precetto
La disciplina dell'errore sul precetto,
rimodellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 364/88, rappresenta
un ragionevole punto d'equilibrio. L'errore (o ignoranza) sull'illiceità del
fatto commesso esclude (per vincolo costituzionale) la colpevolezza, se si tratta
di errore o ignoranza incolpevole.
La questione (su cui v'è contrasto sia in dottrina che in giurisprudenza) se
occorra avere riguardo alla consapevolezza dell'illiceità penale o della generica
illiceità giuridica, dovrebbe essere risolta nel senso di ritenere sufficiente,
per affermare la colpevolezza dell'agente, la possibilità di conoscere l'illiceità
giuridica del fatto commesso Andare oltre, verso una più ampia rilevanza scusante
dell'errore (anche 'evitabile') sul precetto, rischierebbe di indebolire le
condizioni d'efficacia generalpreventiva dell'ordinamento penale, senza che
ciò trovi giustificazione in serie esigenze di garanzia dell'individuo da interventi
arbitrari della potestà punitiva. L'attribuzione di responsabilità per dolo
(cioè secondo la forma più grave di colpevolezza, e con conseguenze sanzionatorie
consistenti) appare sufficientemente fondata sulla volontaria realizzazione
del fatto, sempre che l'illiceità di questo fosse riconoscibile dall'agente.
Resta ovviamente prioritaria l'esigenza di ridurre al minimo lo spazio di credibili
errori sull'illiceità mediante una adeguata selezione e formulazione delle fattispecie
di reato.
3.2. L'errore sul fatto
La rilevanza dell'errore 'essenziale'
sul fatto costitutivo di reato è il riflesso logico dei principi sul dolo e
sulla colpa, ed è destinata ad essere riconosciuta anche indipendentemente da
una sua eventuale espressa riaffermazione. L'errore sul fatto esclude il dolo,
non esclude la colpa se dovuto a colpa, la esclude se incolpevole.
Un problema particolare si pone peraltro per l'errore su legge extrapenale,
trattandosi di questione controversa, con una contrapposizione fra giurisprudenza
e dottrina. In una prospettiva di riforma non interessa tanto prendere posizione
su quale sia l'interpretazione corretta del vigente art. 47 u.c., quanto individuare
la soluzione preferibile, avendo riguardo innanzi tutto ai vincoli posti dal
principio di colpevolezza, e trovare una formulazione normativa capace di trasmettere
un messaggio chiaro, superando le attuali incertezze interpretative. Anche se,
teoricamente, una norma espressa potrebbe apparire a qualcuno non necessaria,
una disciplina specifica sembrerebbe opportuna nella prospettiva della necessità
di una correzione della prassi, con un messaggio puntuale in grado di correggere
i principi giuridici affermati in materia dalla giurisprudenza, probabilmente
per ragioni di semplificazione probatoria. L'obiettivo è di evitare che, in
sede applicativa, vengano sottratti alla applicazione dei principi generali
tipi di errore che incidono sulla comprensione del fatto, ricadendo su profili
giuridici o comunque 'valutativi' da cui dipende la tipicità penale dello stesso.
3.3. Errore sugli elementi differenziali tra più reati ed errore
sulle cause di giustificazione
In tema di errore "sugli elementi differenziali
tra più reati" la soluzione concordemente ritenuta preferibile (e già leggibile,
però non senza incertezze, nel vigente art. 47, 2° comma) è quella della punibilità
per il reato meno grave (schema Pagliaro, art. 15).
I criteri generali di disciplina dell'errore vanno tenuti fermi anche in materia
di errore sulle cause di giustificazione, come già nel sistema vigente (art.
59) e come propone lo schema Pagliaro (art. 15).
4. Eliminazione delle residue ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala
4.1. Linee generali e specifiche della riforma
L'indirizzo
di "escludere qualsiasi forma di responsabilità incolpevole" (schema Pagliaro,
art. 12) esprime una posizione comune della dottrina, e costituisce la doverosa
attuazione di un principio affermato dalla Corte Costituzionale (sentenze n.
364/88 e 1085/88). Come è noto, in proposito la Corte ha affermato, in un importante
obiter dictum della sentenza n. 364/88, che pur non essendo posto dall'art.
27 Cost. un tassativo divieto di responsabilità oggettiva, "va, di volta in
volta, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie
che non possono non essere 'coperti' almeno dalla colpa dell'agente perché sia
rispettata la parte del disposto di cui all'art. 27, primo comma, Cost., relativa
al rapporto psichico tra soggetto e fatto". Nel modello delineato dalla Corte,
l'inserzione fra i presupposti della punibilità di elementi meramente obiettivi,
non toccati dalla colpevolezza dell'agente, potrebbe mantenere un ambito residuale
ed eccezionale, all'interno di un sistema nel quale siano comunque assicurate
le condizioni dell'imputazione per un fatto illecito colpevolmente realizzato.
Dalla funzione garantista del principio di colpevolezza deriva dunque -per
vincolo costituzionale- l'inaccettabilità dell'imputazione meramente oggettiva
di elementi i quali siano a) significativi rispetto all'offesa, nel senso che
(anche) da essi dipenda la realizzazione dell'offesa o messa in pericolo dell'interesse
protetto, e quindi la riconoscibilità dell'illecito; b) oppure significativi
rispetto alla pena, nel senso che da essi venga fatta dipendere la misura della
sanzione: in un ordinamento conforme al principio di colpevolezza, condizioni
obiettive di maggiore punibilità non possono avere spazio, come del resto il
legislatore ha (parzialmente) riconosciuto superando il criterio della rilevanza
meramente obiettiva delle circostanze aggravanti.
L'unica categoria ammissibile di presupposti 'meramente oggettivi' della responsabilità
è ravvisabile in condizioni di punibilità che, accedendo ad un fatto illecito
già riconoscibile come tale indipendentemente dalla condizione, delimitino ulteriormente
la risposta penale per ragioni 'estrinseche' d'opportunità.
Una riforma ispirata ai criteri sopra enunciati dovrebbe comportare:
-
la eliminazione di disposizioni (tipo art. 42, 3° comma, del vigente
codice) legittimanti forme d'imputazione dell'illecito 'altrimenti' che per
dolo o per colpa.
-
la modifica della disciplina delle condizioni obiettive di punibilità.
La disposizione vigente (art. 44) è una formula tautologica, che equivale
ad una sorta di riconoscimento dell'esistenza di condizioni oggettive di punibilità,
ma non pone limiti contenutistici espliciti alla possibilità del legislatore
di prevedere condizioni 'operanti oggettivamente', e nemmeno indica all'interprete
delle disposizioni di parte speciale criteri idonei a far riconoscere le condizioni
oggettive, distinguendole da altri presupposti della punibilità. A livello di
parte generale, una disposizione sulle condizioni obiettive di punibilità può
avere un concreto significato normativo in quanto indichi un criterio di identificazione
degli elementi riconducibili a tale categoria.
-
l'abrogazione della figura generale della preterintenzione e (anche
mediante una clausola abrogativa di carattere generale) delle singole figure
di delitti preterintenzionali e di delitti aggravati dall'evento, nelle quali
l'imputazione dell'evento aggravante non sia conseguenza prevedibile (colposa)
della commissione del reato-base doloso, ma sia fondata sul mero criterio del
versari in re illicita. Realizzata questa operazione, si tratta di disciplinare
in sede di parte speciale ipotesi di eventi di morte, di lesione o di 'disastro'
cagionati involontariamente mediante condotte dolosamente aggressive o pericolose
per l'incolumità delle persone o di beni collettivi, previsti espressamente
sotto il profilo della responsabilità per colpa, e muniti di un trattamento
sanzionatorio adeguato alla peculiare forma di colpevolezza: più grave rispetto
alle altre ipotesi di colpa, ma in misura comunque agganciata al carattere colposo
dell'evento realizzato.
-
l'abrogazione della attuale disciplina (art. 83) della aberratio
delicti, con conseguente riconduzione ai principi generali sulla responsabilità
per colpa.
-
nella parte speciale e nella legislazione penale speciale: a) radicale
eliminazione di ogni ipotesi di condizioni obbiettive di maggiore punibilità;
b) abrogazione di disposizioni che escludano l'esigenza della colpevolezza con
riguardo ad elementi del fatto costitutivo di reato (dai quali dipenda l'offesa
o messa in pericolo dell'interesse protetto); c) riforma delle figure di reato
(in particolare, dei reati fallimentari) in cui attualmente sia attribuito un
ruolo centrale a condizioni obiettive di punibilità o di maggiore punibilità.
-
in materia di aberratio ictus: sono stati prospettati argomenti
sia per l'eliminazione dell'istituto, con conseguente applicabilità dei criteri
generali, sia per il mantenimento della disciplina attuale.
4.2. In particolare sul reato diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti e sul concorso dell'estraneo nel reato proprio
Sia l'attuale
disciplina della responsabilità per reato diverso da quello voluto (art. 116)
interpretata secondo le indicazioni della Corte Costituzionale (sentenza n.
42 del 1965), sia la proposta di modifica dello schema Pagliaro (agevolazione
colposa del reato realizzato da altri), presentano i medesimi scarti dal modello
normale dell'imputazione soggettiva: una responsabilità che strutturalmente
è per colpa viene imputata a titolo di dolo, comporta una pena la cui misura
è agganciata (sia pure con il correttivo di una forte diminuzione) alla pena
prevista per il reato doloso realizzato, e l'ambito della responsabilità strutturalmente
colposa copre anche delitti non previsti fra le figure di reato colposo.
Tali modelli di disciplina, poco conciliabili con il principio di colpevolezza,
non sono nemmeno giustificati da esigenze di politica criminale. L'estensione
dell'ambito della responsabilità sulla base della colpa in relazione a fatti
non previsti come reati colposi, appare incoerente con la selezione delle figure
di delitto colposo operata dal legislatore 'di parte speciale'. La mancata punizione
di eventuali contributi colposi alla realizzazione di eventi dolosi, come tali
ascritti a responsabilità degli autori, non aprirebbe alcuna lacuna rispetto
alle esigenze di tutela generalpreventiva, così come valutate dal legislatore
della parte speciale. Con riguardo ad eventi previsti anche come delitti colposi,
realizzati dolosamente da altri, è conforme al sistema l'attribuzione di responsabilità
a titolo di colpa al partecipe che abbia dato un contributo colposo, con applicazione
della pena prevista per il delitto colposo. Un aggravamento di pena, comunque
agganciato alla pena base per il delitto colposo, potrebbe essere giustificato
(soltanto) quando la condotta di concorso nel reato voluto costituisca una consapevole
violazione di una regola cautelare volta a prevenire l'evento realizzato, e
siano in gioco interessi di particolare importanza.
In concreto, il problema si rivela essere 'di parte speciale': come dimostra
la casistica applicativa dell'art. 116 cod. pen., si tratta essenzialmente di
assicurare adeguata tutela all'integrità o alla libertà della persona, in relazione
a prevedibili sviluppi di azioni esecutive di determinati delitti. Meglio, allora,
rinunciare a clausole generali di estensione della punibilità secondo modelli
'anomali', e riportare il problema alla parte speciale. Individuate le situazioni
tipiche per le quali si ritenga opportuno intervenire (delitti contro la persona,
rapina, eventuali altre ipotesi 'nominate') si potrà provvedere o con la previsione
'mirata' di eventuali figure specifiche di agevolazione colposa, o con circostanze
aggravanti speciali, evitando in ogni caso di agganciare le pene per la realizzazione
colposa a quelle previste per la realizzazione dolosa.
Mentre, se proprio si volesse mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina
di carattere generale, essa non potrebbe che riflettere nella fattispecie i
principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti
risponde nei limiti della sua colpevolezza; se è commesso un reato diverso da
quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento
sia ravvisabile almeno la colpa, ed il fatto sia previsto dalla legge come delitto
colposo).
Analogamente, in materia di concorso dell'estraneo nel reato proprio la Commissione,
superato il testo proposto dallo schema di legge-delega Pagliaro (non risultando
chiaro come si concili la persistente vigenza della fattispecie speciale con
il collegamento al principio di colpevolezza), ritiene che l'unico modo di realizzare
senza ambiguità il principio di colpevolezza sia di procedere alla abrogazione
pura e semplice dell'art. 117 c.p., sottoponendo la disciplina di tale tipo
di concorso di persone ai principi generali sulla responsabilità soggettiva.
4.3. Reati a mezzo stampa o radiotelevisione
La vigente disciplina
dei reati a mezzo stampa (artt. 57 s.) presenta gli stessi caratteri strutturali
dell'art. 116: anche qui un meccanismo 'di parte generale' estende l'ambito
della responsabilità sulla base della colpa in relazione ad eventi non previsti
come reati colposi nella parte speciale, ed aggancia la pena per un fatto strutturalmente
colposo a quella prevista per delitti dolosi.
Lo schema Pagliaro (art. 31) si muove nel solco della disciplina vigente, con
importanti innovazioni: la considerazione congiunta della stampa e della radiotelevisione;
la previsione - quali destinatari della norma penale accanto al direttore o
vicedirettore responsabile - di soggetti 'delegati' a svolgere la funzione di
controllo; una accentuata riduzione di pena per il caso di omesso impedimento
colposo.
Il problema concerne sostanzialmente un gruppo delimitato di reati d'opinione
previsti nella parte speciale come reati dolosi. Per ciascuno di essi può essere
posta autonomamente la questione se sia opportuno estendere la responsabilità
penale a soggetti 'garanti', incriminando condotte di mancato impedimento colposo.
Un meccanismo 'di parte generale' sottende una risposta globalmente affermativa,
e prefigura un modello tendenzialmente accentrato di impresa giornalistica o
radiotelevisiva, caratterizzato dalla presenza obbligatoria di poteri di controllo
gerarchico.
Appare preferibile lasciare la soluzione alla disciplina di singole figure
di reato, o ad una organica riconsiderazione della legislazione sui mezzi di
comunicazione. Se proprio si ritiene di mantenere un meccanismo unitario nel
codice penale, occorre: rendere effettivo l'aggancio al criterio della colpa,
prevedere per il mancato impedimento colposo una pena svincolata da quella prevista
per il fatto doloso, ed evitare di bloccare, con l'imposizione di un modello
di responsabilità necessariamente accentrata al vertice, le opzioni relative
alla disciplina dell'impresa giornalistica o radiotelevisiva.
4.4. Le circostanze del reato
Lo schema Pagliaro mantiene il
criterio della colpa per l'imputazione delle aggravanti, e lo estende alle attenuanti
nel senso di attribuire rilevanza alle attenuanti "supposte per errore non dovuto
a colpa". Si tratta d'un adeguamento a esigenze imposte dal principio di colpevolezza,
da considerare positivamente. Una compiuta valutazione delle soluzioni prospettabili
non può essere tuttavia fatta se non nell'ambito di una revisione complessiva
della disciplina delle circostanze, anche con riguardo al profilo sanzionatorio.
IV. Reati omissivi e posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazione
complesse
1. I reati omissivi
L'indirizzo di fondo dovrebbe essere nel senso
di una forte selezione delle figure di reato omissivo, per la più penetrante
incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per
il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale.
Da ciò la opportunità di uno speciale fondamento della responsabilità per omissione,
da ricercare in esigenze non altrimenti soddisfacibili di tutela di beni giuridici
importanti, e la conseguente necessità di una costruzione particolarmente attenta
delle fattispecie di reato omissivo, che ne assicuri, ad un tempo, la 'tenuta'
garantista e la funzionalità generalpreventiva.
1.1. I reati omissivi propri
Nei casi in cui la fattispecie
di reato omissivo è autonomamente e compiutamente configurata dal legislatore
di parte speciale (reati omissivi propri), il problema fondamentale, per quanto
concerne la costruzione delle fattispecie, attiene alla determinazione dei presupposti
del dovere di agire penalmente sanzionato.
L'indirizzo di fondo, per il legislatore di parte speciale, è che il comando
d'agire sia agganciato (con la chiarezza imposta dal principio di legalità)
a situazioni tipiche ben profilate e di significato pregnante, tali cioè da
evocare immediatamente il problema dell'attivarsi in un certo modo per la salvaguardia
di riconoscibili interessi, e da costituire perciò, ad un tempo, il fondamento
del carattere offensivo dell'omissione, e un solido punto di riferimento per
il giudizio sulla colpevolezza dell'omittente.
1.2. Reati commissivi mediante omissione
-
Il problema dell'individuazione delle posizioni di garanzia rilevanti
Secondo il modello generalmente adottato (anche dal codice Rocco, nell'interpretazione
ormai consolidata) il presupposto dell'obbligo d'attivarsi (di 'impedimento
dell'evento') dipende da una 'posizione di garanzia' il cui fondamento non è
dato dalla norma penale 'di parte speciale', ma questa recepisce come rilevante
ai fini dell'equiparazione del non impedimento alla realizzazione positiva del
fatto. Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza
del diritto, esigono che le posizioni di garanzia penalmente rilevanti abbiano
fondamento legale.
I progetti di riforma mantengono la struttura formale della disciplina, che
affida ad una disposizione di parte generale il compito di dettare il criterio
generale di individuazione delle posizioni di garanzia penalmente rilevanti,
fondamentalmente con rinvio a figure disciplinate da altri settori dell'ordinamento.
Nello schema Pagliaro si propone (art. 11) di introdurre una distinzione fra
obblighi di garanzia ed obblighi di sorveglianza, limitando la rilevanza penale
di questi ultimi ai soli casi specificamente previsti dalla legge.
Il modello vigente, che comporta un rinvio del diritto penale ad altri settori
dell'ordinamento mediante una disposizione costruita come clausola generale,
tende ad assicurare coerenza e completezza del sistema di tutela, a prezzo però
di un deficit di determinatezza e di rinuncia a selezionare le posizioni di
garanzia rilevanti secondo valutazioni specificamente penalistiche.
Può essere opportuno cercare di individuare, preliminarmente alla definizione
di formule normative, quali siano le posizioni di garanzia che appaia necessario
selezionare per una adeguata tutela dei beni penalmente protetti, o delle quali
sia opportuno discutere.
Un abbozzo di casistica, suscettibile di integrazioni, può essere il seguente:
-
Posizioni di protezione nei confronti di persone incapaci (minori, infermi,
soggetti che si siano affidati a un esperto nello svolgimento di attività
rischiose).
-
Posizioni di controllo su fonti di pericolo. Viene qui in rilievo, in particolare,
la gestione di attività pericolose da parte di organizzazioni complesse, di
natura imprenditoriale o anche non imprenditoriale. Gli interessi rilevanti
sono quelli dell'incolumità individuale, della sicurezza individuale e collettiva,
della tutela dell'ambiente. Nella medesima prospettiva si inquadra il problema
della custodia di cose che possano costituire un pericolo, nonché quello della
rilevanza della attività pericolosa precedente.
-
Funzioni di gestione di affari altrui (ruoli di direzione, amministrazione
e controllo entro persone giuridiche, e simili).
-
Svolgimento di attività terapeutica, o di funzioni relative al soccorso
di privati o pubblici infortuni.
-
In tutti gli ambiti sopra indicati si pone il problema dell'impedimento
di fatti illeciti ad opera di terze persone, che ricorre con profili peculiari
relativamente ai corpi di polizia.
-
Il problema della causalità dell'omissione
-
Sul piano sistematico,
la disciplina delle posizioni di garanzia dovrebbe essere sganciata dal problema
della causalità, cui nel codice Rocco è collegata. Le posizioni di garanzia
determinano non già la causalità, ma la tipicità dell'omissione 'non impeditiva'. Circa i presupposti 'materiali' della causalità, dovrebbero valere i criteri
generali.
Ciò comporta l'esigenza di un ripensamento, e della eventuale correzione con
una disposizione ad hoc dell'indirizzo giurisprudenziale che afferma la causalità
dell'omissione, anche quando l'impedimento dell'evento si sarebbe ottenuto con
un grado di probabilità lontano dalla certezza. Alle possibili lacune di tutela,
di fronte ad inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale
('non impeditiva'), si potrebbe ovviare con la previsione di figure di reato
omissivo proprio, di mera condotta (eventualmente con la condizione di punibilità
del prevedibile verificarsi dell'evento lesivo, ma con livello sanzionatorio
comunque dimensionato secondo il disvalore della condotta omissiva).
Con riguardo alla disciplina vigente (art. 40 cpv.) del reato commissivo mediante
omissione, un indirizzo dottrinale sostiene che essa concerne i soli reati con
evento naturalistico. Tale delimitazione è di fatto disattesa dalla giurisprudenza,
e non poggia su ragioni sostanziali: non la struttura dei fatti da impedire,
ma la funzione delle posizioni di garanzia è il criterio razionale di determinazione
dell'ambito della responsabilità omissiva.
2. Le posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse
Nel
ridisegnare i principi generali in materia di responsabilità penale appare opportuno
definire i principi generali sui 'soggetti responsabili' nelle organizzazioni
complesse (impresa et similia), quale che sia poi la sede opportuna per
la loro formulazione. La previsione nel codice penale dei principi portanti
del sistema servirebbe a dare fondamento più certo e maggiore coerenza a soluzioni
che, già oggi sostenibili e sostenute, sembrano dar corpo ad una sorta di diritto
giurisprudenziale, insicuro nei fondamenti e non privo di aspetti controversi.
I problemi fondamentali sono i seguenti:
-
se mantenere, modificare o abbandonare
il sistema che individua come posizione di garanzia fondamentale quella di soggetti
'al vertice' dell'organizzazione;
-
se e come costruire un sistema di posizioni
di garanzia a più livelli;
-
quali debbano essere l'ambito e le condizioni
di rilevanza della delega di funzioni.
Su questi punti esiste una copiosa elaborazione dottrinale e giurisprudenziale,
dalla quale è dato desumere un modello passabilmente accettabile ed unitario,
anche se non privo di incertezze, e del quale non è indicato con chiarezza il
fondamento normativo. A livello legislativo, il più significativo testo di riferimento
è la disciplina introdotta dal d.lg. 626/94 e successive modificazioni relativamente
alla sicurezza del lavoro.
Criterio fondamentale per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle
organizzazioni complesse deve essere quello della corrispondenza fra poteri
e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la previsione di doveri
di attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere
(giuridico e fattuale) di assicurare l'adempimento.
Ne derivano i seguenti corollari (relativamente all'ambito delle posizioni
di garanzia, impregiudicata l'esigenza che la responsabilità penale sia ulteriormente
delimitata in funzione della soggettiva colpevolezza):
-
mantenimento del sistema che individua il garante primario nel soggetto
al vertice dell'organizzazione, munito del potere (e del correlativo dovere)
di organizzare le strutture e l'attività in modo adeguato alla salvaguardia
degli interessi in gioco.
-
determinazione del tipo di garanzia dovuta dal soggetto al vertice, mediante
la selezione di un ristretto nucleo di adempimenti 'non delegabili' propri del
ruolo di direzione complessiva dell'organizzazione. Il riferimento alla previa
valutazione dei rischi ed alla programmazione generale della sicurezza, che
sta alla base del sistema del d. lg. 626/94, è un modello che può essere opportunamente
generalizzato per qualsiasi rischio al quale interessi penalmente protetti siano
esposti in relazione all'esistenza ed all'attività dell'organizzazione; la garanzia
dovuta dal soggetto al vertice, rispetto agli interessi penalmente protetti,
sta nella organizzazione generale della sicurezza sulla base di una adeguata
informazione. Per quanto concerne gli aspetti tecnici delle valutazioni e delle
misure da programmare, resta ferma la possibilità di avvalersi di soggetti tecnicamente
qualificati (la cui cooperazione alla valutazione dei rischi, nel sistema del
d. lg. 626/94, è anzi obbligatoria). Il dovere 'non delegabile' del soggetto
al vertice consiste nell'assicurare le condizioni di idoneo svolgimento del
lavoro dei tecnici, nel verificarne l'effettuazione, e nell'adottare le misure
organizzative conseguenti.
-
identificazione dell'organizzazione cui riferire la posizione di garanzia,
avendo riguardo non alla forma giuridica di per sé considerata (struttura societaria)
ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere (rilevanza della 'direzione
unitaria' di gruppi di società, nell'ambito e nella misura in cui sia esercitata;
rilevanza delle diverse articolazioni dotate di sufficiente autonomia finanziaria
e tecnico - funzionale, come già oggi nel sistema del d.lg. 626/94).
-
correlazione fra poteri e responsabilità ai diversi livelli della struttura:
ai compiti (decisionali, operativi, di consulenza) assegnati a ciascun livello,
dal cui esercizio dipende la salvaguardia di beni penalmente protetti, deve
corrispondere una specifica posizione di garanzia, secondo il modello a più
stadi oggi espressamente previsto in materia di sicurezza del lavoro.
-
ammissibilità della delega indipendentemente dalle dimensioni dell'organizzazione.
Ciò che interessa, in vista della tutela dei beni giuridici, non è la 'necessità'
della delega, ma l'idoneità del sistema organizzativo adottato. In via di principio
devono ritenersi ammissibili, in quanto possano essere ugualmente funzionali
per la protezione degli interessi in gioco, modelli diversi di ripartizione
di poteri: la scelta fra di essi compete a chi abbia la responsabilità complessiva
dell'organizzazione. Ai diversi modelli organizzativi corrisponderà un diverso
ambito e un diverso rapporto (che potrà essere di concorrenza o di reciproca
esclusione) fra i doveri dei diversi soggetti del sistema. La questione interessa,
in particolare, la ripartizione dei poteri di spesa: limitazioni di poteri di
spesa non ostano alla valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi
doveri, e correlativamente ogni riserva di poteri di spesa definisce un ambito
di residua (potenziale) responsabilità del delegante. L'esigenza che la delega
sia espressa, affermata da una parte della giurisprudenza, appare superabile
dove vi sia l'effettiva assunzione di dati compiti implicanti problemi di salvaguardia
degli interessi penalmente protetti.
Nello schema Pagliaro viene proposta (art. 11) una distinzione fra obblighi
di garanzia e obblighi di sorveglianza. Per questi ultimi si prevede una rilevanza
più limitata: la loro violazione non fonderebbe una responsabilità 'per omesso
impedimento', ma verrebbe in rilievo ove 'espressamente prevista come reato'
(omissivo proprio, sembra di capire). Tale distinzione, estranea al diritto
vigente e vivente, eliminerebbe le attuali incertezze circa i contenuti dei
doveri di vigilanza, e i conseguenti rischi di dilatazione della responsabilità
secondo una logica di 'responsabilità di posizione'; per altro verso, comporterebbe
delimitazioni della responsabilità penale non facilmente giustificabili, alla
luce della garanzia affidata a ruoli il cui esercizio sia caratterizzato in
modo pregnante anche da doveri di vigilanza.
Più razionale appare un sistema che continui a considerare il dovere di vigilanza,
là dove previsto, come un aspetto essenziale della garanzia dovuta dai diversi
ruoli, che assuma però contenuti ben delimitati in relazione ai compiti propri
di ciascun garante. Per il soggetto al vertice, in particolare, il dovere di
vigilanza dovrebbe rientrare nel nucleo indelegabile del dovere di buona organizzazione.
V. Le cause di giustificazione
La disciplina vigente delle cause di giustificazioni, in larga misura condivisibile,
solleva alcuni problemi di migliore definizione e tipizzazione delle singole
fattispecie esimenti.
Lo schema di legge-delega Pagliaro, seguendo l'orientamento di una parte della
dottrina, ha ritenuto di dovere distinguere la categoria delle esimenti nelle
due sottospecie delle cause (oggettive) di giustificazione (art. 16) e delle
cause soggettive di esclusione della colpevolezza (art. 17). Questa differenziazione,
che suscita problemi pratici soprattutto con riferimento all'istituto (sdoppiato)
dello stato di necessità, è stata criticata da una parte della Commissione,
che ha giudicato preferibile mantenere l'impianto unitario del codice in vigore.
1. L'esercizio del diritto, l'adempimento di un dovere, l'ordine
illegittimo vincolante Le figure dell'esercizio di un diritto e dell'adempimento di un dovere non
sollevano problemi di rilievo. La riforma dovrebbe di conseguenza confermare
la disciplina vigente.
Con riferimento all'ordine illegittimo vincolante occorrerebbe procedere ad
una tipizzazione, ed eventuale ridimensionamento (all'interno dei tradizionali
settori della gerarchia militare, dei corpi civili dello Stato organizzati militarmente
e degli ausiliari della giustizia), delle ipotesi in cui opera il principio
della insindacabilità dell'ordine. Per esigenze di chiarezza sarebbe d'altronde
opportuno enunciare espressamente che la insindacabilità concerne soltanto la
illegittimità sostanziale, e che la manifesta criminosità dell'ordine obbliga
il subordinato a non eseguirlo, soggiungendo che la percezione di una criminosità
comunque non manifesta obbliga (o in ogni caso autorizza) a rifiutare l'esecuzione
dell'ordine.
Quanto al tema dei limiti della dipendenza gerarchica dei dipendenti civili
dello Stato disciplinata dagli artt. 16 e 17 D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3, la
Commissione si è domandata se sia opportuno mantenere il principio della necessaria
esecutività dell'ordine palesemente illegittimo reiterato per iscritto.
Tradizionalmente l'ordine privato viene escluso dal novero delle esimenti.
Al riguardo si può comunque osservare che delle due l'una: o il contenuto dell'ordine
è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è conforme
alle leggi, ed in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei
casi penale o civile, sia a carico di colui che lo ha impartito, sia a carico
di colui che lo ha eseguito. Lo schema di legge delega Pagliaro, nel tentativo
di dare rilievo alla situazione di disagio in cui si può venire a trovare l'impiegato
privato che riceve un ordine, prevede sotto il profilo delle cause soggettive
di esclusione della responsabilità "l'ordine di un privato rivestito di un'autorità
specificamente riconosciuta dalla legge, quando l'ordine si riferisca ad attività
inerenti al rapporto di dipendenza e l'agente confidi ragionevolmente nella
sua liceità" (art. 17 n. 2). In realtà in tale caso non è tanto l'esistenza
dell'ordine e della posizione di subordinazione a funzionare come causa di esclusione
della riprovevolezza soggettiva, quanto "la ragionevole fiducia nella sua liceità",
cioè, in ultima analisi, l'erronea opinione di liceità di un ordine invece illegittimo.
Si tratta pertanto di una (opportuna) estensione dell'ambito dell'errore rilevante,
che, se riconosciuta, non si vede tuttavia perché non dovrebbe diventare principio
generale in materia di ordine dell'autorità.
2. Difesa legittima e stato di necessità
La disciplina vigente della
difesa legittima e dello stato di necessità, in larga misura esaustiva, esige
alcune precisazioni in parte dirette a dare veste formale a quanto risulta comunque
pacificamente sostenuto in sede interpretativa, in parte rivolte a risolvere
problemi allo stato non risolti.
Occorrerebbe in particolare:
-
chiarire se le due esimenti operano oggettivamente sulla linea della disciplina
generale attualmente tracciata dall'art. 59 comma 1 c.p., ovvero se la loro
efficacia sia subordinata alla percezione della situazione di pericolo;
-
definitivamente superato il concetto della c.d. 'proporzione fra i mezzi',
chiarire che la proporzione fra i beni deve essere valutata diversamente nella
difesa legittima e nello stato di necessità in considerazione della differente
posizione in cui si trovano i titolari degli interessi contrapposti nelle due
situazioni (tema affrontato dallo schema Pagliaro, che nell'art. 16 nn. 3 e 4
ha distinto il modo di valutare la proporzione nelle due cause di giustificazioni);
-
chiarire in quale misura il requisito del 'pericolo non altrimenti evitabile'
rilevi anche nella difesa legittima;
-
nella difesa legittima prevedere che la scriminante non operi nel caso in
cui l'aggressione sia stata suscitata ad arte allo scopo di potere colpire impunemente
l'aggressore (in questo senso si è pronunciato lo schema di legge-delega Pagliaro);
-
in tema di stato di necessità, a fronte dei dubbi interpretativi suscitati
dalla espressione "danno grave alla persona", chiarire quali beni siano effettivamente
"salvabili" (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra considerare rilevanti
agli effetti della esimente tutti gli interessi personali propri o altrui, siano
essi oggetto di pericolo di un danno grave o non grave, attengano alla integrità
fisica o a quella morale della persona, compensando tuttavia questo ampliamento
con una drastica delimitazione della scriminante sul terreno della proporzione).
-
ove si intendesse continuare a circoscrivere agli interessi di natura personale
l'ambito di applicazione dello stato di necessità, con riferimento agli interessi
di natura patrimoniale sarebbe opportuno disciplinare espressamente la situazione
di chi, per salvare un diritto patrimoniale altrui minacciato, danneggia un
bene di valore minore della stessa persona: per escludere, come sembrerebbe
naturale, la responsabilità del soccorritore oggi si può fare riferimento, in
via interpretativa, agli istituti della negotiorum gestio o del consenso
presunto, mentre sarebbe preferibile disporre di una norma che regolasse esplicitamente
il caso (lo schema di legge-delega Pagliaro sembra fare riferimento, nell'art.
16 n. 2, al consenso presunto).
-
definire i rapporti fra l'istituto del soccorso di necessità disciplinato
dall'art. 54 c.p. e quello del c.d. 'dovere di soccorso', che secondo una parte
della dottrina sarebbe desumibile dall'art. 593 c.p.; eliminare alcune improprietà
riscontrabili nella attuale dizione lessicale della disciplina del soccorso
di necessità.
-
in tema di inapplicabilità dello stato di necessità a chi ha un particolare
dovere di esporsi al pericolo, attenuare la rigidezza della disciplina vigente
precisando, sul solco della proposta Pagliaro, che la scriminante non è applicabile
a chi "essendo tenuto da esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse
proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza".
Nodo di fondo concernente la figura dello stato di necessità riguarda la opportunità
del suo sdoppiamento nelle figure, previste dallo schema di legge-delega Pagliaro,
della causa oggettiva di giustificazione e della causa soggettiva di esclusione
della responsabilità (c.d. necessità cogente).
Si è già rilevato come una parte della Commissione si è dichiarata contraria
allo sdoppiamento, e più in generale alla configurazione di una categoria di
cause soggettive di esclusione della responsabilità da affiancare a quella delle
cause oggettive di giustificazione. Se questa dovesse essere la scelta in sede
di stesura del nuovo codice, lo stato di necessità unitario (inteso come causa
di giustificazione) dovrebbe essere comunque ancorato ad un concetto di proporzione
che tenga conto della equivalenza degli interessi contrapposti, evitando
il rigore eccessivo della proposta Pagliaro, che postula che l'interesse salvato
abbia un valore 'superiore' a quello sacrificato.
Più in generale, quanto allo schema complessivo delle cause soggettive di esclusione
della responsabilità configurato dal progetto Pagliaro la Commissione osserva
che due di esse, quella già considerata (retro n. 1) prevista nel n. 2 dell'art.
17, e quella prevista nel suo n. 4 (l'affidamento nel consenso altrui, qualora
il fatto sia commesso nell'interesse privato proprio, ma l'agente ragionevolmente
confidi che il titolare del bene disponibile avrebbe consentito), consistono
nella sostanza in ipotesi di errore, e come tali sono 'naturalmente' destinate
ad operare come cause incidenti sulla colpevolezza indipendentemente dalla loro
inclusione in una specifica categoria nuova di cause soggettive di esclusione
della responsabilità.
3. L'uso legittimo delle armi
La Commissione fa proprie le istanze
di una revisione di tale causa di giustificazione. L'alternativa è fra la abolizione
della stessa, che ripristini la situazione vigente al tempo del codice Zanardelli,
ovvero una riforma che inserisca nella sua struttura i requisiti della necessità
e della proporzione (soluzione proposta dallo schema di legge-delega Pagliaro,
art. 16 n. 6) od opti per soluzioni più sofisticate, ma sicuramente meno 'facili'
da realizzare (es., sdoppiamento della esimente a seconda che la forza pubblica
sia costretta ad affrontare situazioni di violenza o di resistenza attiva, ovvero
situazioni di resistenza passiva, legittimando nei primi casi anche l'uso delle
armi, consentendo nei secondi soltanto l'impiego di mezzi di coazione fisica
meno aggressivi).
4. Consenso dell'avente diritto
In tema di consenso dell'avente diritto
è emersa qualche incertezza vuoi con riferimento alla delimitazione di taluni
diritti indisponibili (fede pubblica, libertà personale, integrità fisica),
vuoi, soprattutto, riguardo ad alcuni dei requisiti di validità del consenso
(età).
Lo schema di legge-delega Pagliaro si è fatto carico di questo secondo profilo.
Nell'art. 16 n. 2 ha disposto che occorre prevedere "il consenso dell'avente
diritto, rispetto ai reati aventi ad oggetto interessi disponibili, disciplinandone
la validità con particolare riferimento alla capacità del titolare in relazione
alla natura dell'atto". Ha d'altronde opportunamente previsto che occorre
"riconoscere, nei limiti suddetti, la rilevanza del consenso presumibile, stabilendone
i presupposti e, fra questi, in particolare, la verosimile utilità obbiettiva,
al momento del fatto, per il titolare dell'interesse e la mancanza di un suo
dissenso". In questo modo è andato incontro alla esigenza di disciplinare espressamente
i casi in cui un soggetto danneggia un bene patrimoniale di una persona nell'intento
di salvare un altro bene patrimoniale di valore maggiore della stessa.
5. Una nuova scriminante generale?
Lo schema di legge-delega Pagliaro
è intervenuto in un settore delicato, fino ad oggi affidato ai principi non
scritti delle scriminanti tacite e delle regole di perizia professionale: la
attività terapeutica e gli interventi medico chirurgici. Nell'art. 16 n. 5 ha
stabilito che occorre prevedere come causa di giustificazione "l'attività terapeutica,
sempre che:
-
vi sia il consenso dell'avente diritto o, in caso di impossibilità
a consentire, il suo consenso presumibile e la urgente necessità del trattamento;
-
il vantaggio alla salute sia verosimilmente superiore al rischio;
-
siano osservate le regole della migliore scienza ed esperienza".
La Commissione esprime dubbi circa la opportunità di intervenire in questo
settore, e soprattutto di intervenire con una norma strutturata nel modo indicato:
-
intervenire, significa rischiare di irrigidire una disciplina che pare più
opportuno riservare ai canoni ormai consolidati della prassi e della giurisprudenza.
-
il tema del consenso presupposto di liceità dell'intervento medico esige
a sua volta che si affronti quello delicatissimo della informazione corretta
del malato: un tema sul quale sussiste tutt'ora incertezza in dottrina, e che
lo schema di legge-delega si è ben guardato dall'affrontare.
-
determinare quando il vantaggio alla salute sia superiore al rischio non
è sempre agevole; di qui il pericolo di inserirlo quale requisito esplicito
di una scriminante.
-
il requisito indicato sotto la lettera c) del progetto Pagliaro più che
alla struttura di una esimente sembra attenere al profilo della mancanza di
colpa.
-
non si affronta il problema che, invece, parrebbe più urgente affrontare:
prendere posizione nei confronti dei più recenti orientamenti giurisprudenziali
che in caso di consenso ritenuto non sufficientemente 'informato' hanno ritenuto
la configurabilità a carico del medico di delitti dolosi o preterintenzionali
contro la persona.
VI. Tentativo e delitti di attentato
Un inventario dei principali profili dell'istituto del tentativo suscettibili
di riforma può essere redatto ordinandoli in tre grandi gruppi: profili attinenti
a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura e
al trattamento sanzionatorio del tentativo; c) alla disciplina degli
istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza volontaria, recesso
attivo, delitti di attentato).
1. Il delitto tentato
1.1. Per quanto riguarda il campo di applicazione del
tentativo la Commissione, preso atto di soluzioni diverse presenti in alcuni
paesi europei, si è domandata se sia opportuno mantenere la disciplina vigente
o preferibile suggerire delimitazioni ulteriori dell'ambito di applicazione
dell'istituto. La maggioranza della Commissione, esclusa sul terreno generale - preventivo
la opportunità politico-criminale di una riduzione, ha sostenuto che si potrebbe
tutt'al più pensare di escludere la applicazione dell'istituto nei confronti
dei reati omissivi propri (contestata da una parte della dottrina), osservando
che la modesta incidenza pratica della questione potrebbe comunque consigliare
di continuare a rimettere la sua soluzione all'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.
Alcuni commissari hanno invece sostenuto la opportunità di prendere in considerazione
prospettive di limitazione anche marcata dell'area di applicazione del tentativo,
circoscrivendo l'anticipazione dell'intervento penale a reati esplicitamente
individuati, in linea di principio i delitti più gravi.
1.2. In materia di struttura e di trattamento sanzionatorio
del tentativo, la disciplina vigente può essere annoverata tra quelle maggiormente
ispirate ad un orientamento soggettivista.
Quanto alla struttura, il codice penale italiano, sganciata la configurazione
dell'istituto da qualsiasi riferimento diretto alla condotta costitutiva del
corrispondente delitto consumato, costruisce il delitto tentato facendo riferimento
agli incerti confini del concetto di "atti idonei" e "diretti in modo non equivoco"
a commettere il delitto. Poiché il requisito della idoneità non è in grado di
contribuire in modo decisivo alla tipizzazione della condotta di tentativo,
e poiché il requisito della direzione non equivoca degli atti non aggiunge a
sua volta profili sufficienti di tipicità, il giudice rimane sostanzialmente
libero di determinare contenuto e limiti dell'istituto.
Nella maggior parte dei sistemi di civil law europei la condotta del tentativo
continua invece ad essere individuata attraverso il concetto dell'inizio di
esecuzione della azione tipica. In alcuni casi si fa riferimento puro e semplice
a tale concetto (codice francese, codice svizzero, avamprogetto dello stesso);
in altri la formula dell'inizio di esecuzione è arricchita dall'ulteriore riferimento
ai "fatti esteriori" (codice belga, codice spagnolo) o ci si impegna in una
definizione analitica degli "atti di esecuzione (codice portoghese), senza che
questa specificazione sia in grado di recare un reale contributo alla precisazione
della condotta, essendo evidente che l'esigenza di una manifestazione esteriore
della risoluzione criminosa discende già dal principio generale di materialità
del reato, mentre il problema è quello dell'individuazione del grado di sviluppo
della condotta punibile, alla cui soluzione intende provvedere il criterio dell'inizio
di esecuzione.
Mentre la formula degli atti idonei e diretti in modo non equivoco non consente
una tipizzazione adeguata della condotta di tentativo, la formula dell'inizio
di esecuzione ha il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo
da quella della fattispecie di riferimento di parte speciale. Pur non costituendo
una "formula magica" utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini
della discrezionalità giudiziale risultano risolti, è comunque formula più garantista,
e quantomeno sul terreno dei 'segnali lanciati' indica la necessità di porre
comunque una barriera ad una anticipazione indiscriminata degli atti qualificabili
come penalmente rilevanti.
Come è noto, il pregio rilevabile sul piano della maggiore delimitazione concettuale
della condotta punibile viene in qualche modo controbilanciato dalla impossibilità
di ricondurre all'inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo totalmente
atipici, sono però immediatamente antecedenti all'inizio di esecuzione, e con
riferimento a molti dei quali si pone concretamente una esigenza di punibilità.
Era stata d'altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di esigenze simili)
a giustificare, nel 1930, la scelta di abbandonare da formula dell'inizio di
esecuzione utilizzata dal codice penale Zanardelli sostituendola con quella
della idoneità ed univocità degli atti.
Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono
a realizzare una conciliazione delle due contrapposte esigenze. Nel codice tedesco
del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio di individuazione
della condotta tipica continua ad essere costituito dal concetto di "esecuzione
della fattispecie", ma la soglia di punibilità è anticipata attraverso il riferimento
agli atti che precedono "direttamente", "immediatamente", gli atti esecutivi.
Analogamente, il codice portoghese equipara agli atti esecutivi "quelli che,
secondo la comune esperienza , sono di natura tale da far prevedere che ad essi
seguano" gli atti esecutivi.
Nella prospettiva di una maggiore delimitazione possibile della anticipazione
della attività punibile e di un inserimento della disciplina italiana nel panorama
delle legislazioni europee, la Commissione ritiene opportuno orientare la nuova
disciplina del tentativo in una direzione oggettiva, centrata sul concetto della
punibilità degli atti esecutivi della condotta tipica.
Il ritorno alla formula dell'inizio di esecuzione della condotta tipica dovrebbe
essere tuttavia accompagnata da correttivi, finalizzati da un lato ad
evitare rigidezze eccessive del criterio adottato, dall'altro a superare obbiezioni
di eccessiva restrizione dell'area di punibilità che potrebbero essere avanzate
soprattutto con riferimento ai reati causalmente orientati. In questa prospettiva
il criterio sussidiario della "immediatezza" sembra dotato, più di altri possibili,
di efficacia espressiva e delimitativa, e sembrerebbe pertanto preferibile.
Anche nei più recenti progetti di riforma italiani (schema di legge-delega
Pagliaro e progetto Riz) si avverte la esigenza di "meglio fondare la materialità
del fatto di tentativo, svincolandone la struttura, per quanto possibile, da
riferimenti di carattere personale-soggettivo". Tale scopo viene perseguito
aggiungendo l'avverbio "oggettivamente" ai requisiti degli atti idonei diretti
in modo non equivoco. Peraltro non pare che l'aggiunta di tale avverbio sia
in grado di recare un contributo alla precisazione della condotta del tentativo,
vuoi perché, come si è rilevato, il riferimento alla oggettività della condotta
è già implicito nel principio generale di materialità del reato, vuoi perché,
nel contesto specifico della definizione dello schema di legge-delega Pagliaro,
l'indicazione della oggettività potrebbe semmai esprimere l'intento legislativo
di privilegiare l'accezione oggettivistica del requisito della direzione non
equivoca degli atti.
Per quanto attiene al trattamento sanzionatorio, pur non mancando ordinamenti
a noi geograficamente vicini che prevedono la parificazione del tentativo alla
consumazione (Austria, per certi versi Inghilterra), oppure una attenuazione
di pena per il tentativo soltanto facoltativa (Svizzera, Germania), la Commissione,
in considerazione del diverso peso delle offese rispettivamente causate dal
delitto tentato e dal delitto consumato, ritiene preferibile mantenere il regime
di diminuzione previsto dal codice penale vigente.
1.3. Per quanto riguarda l'annosa questione del dolo del tentativo,
e più precisamente della compatibilità tra tentativo e dolo eventuale, la maggioranza
della Commissione ritiene che la soluzione migliore sia di prendere sostanzialmente
atto dell'orientamento ormai maturato dalla giurisprudenza nel senso della esclusione.
In questo senso vanno del resto sia il "progetto Pagliaro" sia il "progetto
Riz". Dei due testi, la formula più corretta risulta comunque quella del primo
("chi, con l'intenzione o la certezza di cagionare l'evento, compie atti ...")
in quanto mette in luce la compatibilità del tentativo anche con il c.d. dolo
diretto oltre che con quello intenzionale, a differenza invece del "progetto
Riz" ("compie atti (...), con l'intenzione di cagionare l'evento").
Alcuni componenti della Commissione hanno peraltro osservato che, una volta
esplicitato che il dolo eventuale dovrebbe consistere in una rappresentazione
della realizzazione del fatto in termini di alta probabilità (v. retro, parte
III, n.2.1), nulla osterebbe a rendere compatibile tentativo e dolo eventuale.
Se questa dovesse essere la scelta in sede di riforma, non sarebbe tuttavia,
forse, necessario formulare una norma ad hoc; esaurendosi la definizione del
tentativo nella indicazione dei suoi requisiti oggettivi, potrebbe trovare automaticamente
applicazione la disciplina generale.
2. Desistenza volontaria e recesso attivo
In materia di desistenza
volontaria e di recesso attivo lo schema di legge-delega Pagliaro ed il progetto
Riz inclinano verso la conservazione dell'esistente, limitandosi (il secondo)
alla mera previsione di un più consistente effetto attenuante del recesso attivo.
Il panorama europeo è caratterizzato invece dalla tendenza a parificare gli
effetti dei due istituti sul terreno della non punibilità dell'autore (codice
tedesco, austriaco, spagnolo, portoghese, avamprogetto del codice svizzero).
La Commissione, tenuto conto di questa realtà, e considerato che fra gli obbiettivi
della riforma dovrebbe collocarsi anche l'incentivazione premiale per chi si
sia attivato a tutela della vittima del reato (parte VIII, n. 13), è favorevole
ad allineare la disciplina italiana a quella testé indicata, prevedendo la non
punibilità anche in caso di recesso attivo.
Per quanto concerne il ravvedimento del concorrente, il quadro europeo rivela
una analoga accentuazione verso la rilevanza dell'istituto, non solo quando
si sia determinato l'impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si
sia limitato ad attivarsi in modo serio per impedire il risultato senza riuscire
nell'intento. Tenuto conto di questa realtà, e considerate le sopra menzionate
spinte di politica criminale, la Commissione propone di dichiarare non punibile
il concorrente che sia riuscito ad impedire la esecuzione del reato, non escludendo
di trattare allo stesso modo il concorrente che si sia attivato in modo serio
per impedire tale realizzazione senza riuscirvi.
Un cenno merita infine l'ipotesi in cui, nonostante il ravvedimento dell'autore,
il reato non sia venuto a consumazione per altre cause. Secondo la disciplina
vigente è difficile giungere ad una conclusione diversa dall'irrilevanza del
ravvedimento, nonostante che l'esigenza della repressione penale appaia modesta.
Ed in effetti negli ordinamenti stranieri è diffusa la previsione espressa della
non punibilità (codice penale tedesco, portoghese, avamprogetto svizzero). Anche
qui la Commissione auspicherebbe un allineamento a tali posizioni.
3. I delitti di attentato
Sia il progetto Pagliaro che il progetto
Riz affrontano il problema equiparando i delitti di attentato al tentativo quanto
ad elementi costitutivi e contenuto offensivo: "per la punibilità dei delitti
di attentato e dei delitti in cui la condotta tipica sia descritta come volta
alla produzione di un evento lesivo, devono sussistere i presupposti e i requisiti
di punibilità del delitto tentato". Si tratta di una modifica dagli intenti
di fondo condivisibili, che non pare tuttavia adeguata ad un inserimento razionale
e sufficientemente 'garantito' di tale categoria di delitti nell'ordinamento
giuridico. Ad avviso della Commissione il problema della tipizzazione dei delitti
di attentato non può essere risolto con un semplice richiamo alla struttura
del delitto tentato.
Tale richiamo può, ad esempio, svolgere un ruolo 'correttivo' nelle fattispecie
nelle quali l'evento finale è costituito da un risultato naturalistico in cui
si concentra il disvalore lesivo del reato, sul modello di omologhe fattispecie
'comuni' a condotta libera (es., attentato contro il Presidente della Repubblica,
offesa alla sua libertà, attentato per finalità terroristiche o di eversione,
ecc.). Non lo può, invece, quando l'evento finale dell'attentato è identificato
in risultati di proporzioni macroscopiche (es., attentato contro la Costituzione
dello Stato, devastazione saccheggio e strage, guerra civile), ovvero direttamente
nella stessa offesa al bene protetto (es., attentati contro la integrità, la
indipendenza o l'unità dello Stato). In questi casi l'innesto del tentativo,
ed in particolare dell'idoneità, può forse assicurare un (apparente) grado di
offensività, a totale scapito, però, della tipicità della fattispecie. Rispetto
ai macro-eventi la differenza di scala è tale da rendere del tutto improbabile
che il giudizio di idoneità possa saldare la sfasatura, consentendo di individuare
condotte sufficientemente tipiche.
Alla luce di queste considerazioni la Commissione ritiene che il nodo dei delitti
di attentato debba essere risolto in modo del tutto diverso da quello pensato
tradizionalmente. Non già facendo ricorso a criteri generali, ma risolvendo
il problema caso per caso, o per gruppi di casi, tenendo conto delle specificità
di ciascun gruppo. Questo approccio si salda alla soluzione che si è testè proposta
in materia di delitto tentato. In materia di tentativo si è cercato di fornire
una definizione la più tipizzante possibile, in grado di superare il coefficiente
di discrezionalità che connota la vigente definizione di cui all'art. 56 c.p.
In materia di delitti di attentato, la cui politicità di obbiettivi di tutela
è fuori discussione costituendo la ragione stessa della loro previsione nel
sistema giuridico, il livello di garanzia può essere abbassato tenendo conto
delle ragioni peculiari che giustificano l'adozione del modello. La scelta del
modello di tipizzazione più adeguato potrà essere tuttavia trovato, come appunto
si diceva, sul terreno delle scelte di parte speciale.
Come è noto, i delitti di attentato si ritrovano oggi soprattutto fra i delitti
contro la incolumità pubblica e fra i delitti contro la Stato. Nei primi la
ragione della anticipazione di tutela è ravvisabile nel carattere ultra individuale
del bene protetto, e soprattutto nella diffusività di certe manifestazioni aggressive,
che induce ad intervenire prima che la condotta abbia prodotto tutta la sua
carica offensiva. Nei secondi l'anticipazione trova la sua ragion d'essere talvolta
nel carattere 'supremo' di taluni beni, talaltra nell'impossibilità di subordinare
la tutela alla loro lesione senza compromettere radicalmente la stessa possibilità
dell'intervento penale. In entrambi i casi c'è dunque una ragione 'politica'
della previsione del modello.
La disciplina dei primi fornisce già oggi un quadro di soluzioni ispirate a
grande varietà di tecniche di tutela idonee a contemperare adeguatamente le
esigenze di anticipazione della tutela con quelle della tipizzazione della condotta.
Tecniche di tutela riassumibili nella previsione: a) di reati di pericolo concreto,
caratterizzati peraltro da un grado molto differenziato di descrittività della
fattispecie, che vanno da quelle a forma libera ove il risultato è costituito
dallo stesso pericolo concreto per la pubblica incolumità, a quelle a condotta
vincolata o comunque sufficientemente descritta, a quelle infine ove oltre alla
condotta è indicato anche un evento naturalistico intermedio; b) di reati di
pericolo astratto, ove la presunzione assume gradi di verosimiglianza prognostica
anche in considerazione della differente portata descrittiva della fattispecie,
che può essere di mera condotta, di evento, di evento particolarmente significativo;
c) di reati consistenti in atti preparatori, che sembrano peraltro ridursi alla
sola fattispecie di cui all'art. 435 c.p.
La previsione dei secondi presenta invece la totale assenza di analoghi dettagli
tipicizzanti di previsione normativa, ma secondo una scelta politico-legislativa
tradizionale appare appiattita sulle formule di stile "chiunque compie atti
diretti a...", chiunque "attenta". In questo campo il lavoro di riforma dovrebbe
essere pertanto particolarmente incisivo.
Esso dovrebbe avvenire distinguendo nettamente due gruppi di fattispecie, a
seconda che tutelino beni "personali-individuali", oppure beni "istituzionali"
o comunque "macrooffensivi" (v. retro). Realizzando nel primo l'esigenza di
tipizzazione tramite la utilizzazione del criterio del pericolo concreto (l'idoneità
può apparire criterio generale inadeguato in materia di delitti comuni, ma può
essere utilizzato senza grandi obiezioni in fattispecie dalla forte connotazione
politica). Puntando nel secondo su tecniche di definizione specifica, e quindi
potenzialmente variegata, dei requisiti della condotta o dell'evento (a questo
scopo si potrebbe ad esempio trarre ispirazione dall'art. 283 c.p., ove è previsto
che l'attentato contro la Costituzione avvenga "con mezzi non consentiti dall'ordinamento
costituzionale dello Stato, e dove si potrebbe ulteriormente giocare sulle due
tipologie fondamentali delle condotte violente e di quelle abusive delle funzioni
pubbliche, rispondenti alle aggressioni provenienti rispettivamente dagli estranei
o dagli intranei).
Se specifiche esigenze di tutela giuridica dovessero indurre a ritenere opportuno
punire attività meramente preparatorie, nulla impedirebbe di operare in tal
senso, purché attraverso una adeguata descrizione della condotta preparatoria
che si intende eccezionalmente punire.
VII.
Concorso di persone nel reato e reati associativi
1. La tipizzazione delle condotte di partecipazione
Il concorso di
persone (come il tentativo ed il reato omissivo improprio) concorre ad ampliare
la tipicità dei singoli reati. Tale estensione, per quanto necessaria, rischia
di indebolire la tassatività delle fattispecie, onde l'esigenza che si realizzi
sulla base di criteri improntati al principio di determinatezza.
A differenza del tentativo e del reato omissivo improprio, che pur non sufficientemente
garantiti sul terreno della tipicità, fanno comunque riferimento a requisiti
intrinseci od a contenuti precettivi, l'art. 110 c.p. è norma priva di contenuti
positivi, limitandosi ad operare in (generica) funzione incriminatrice ex novo
di condotte atipiche e di equiparazione della pena per i concorrenti.
La scelta legislativa di appiattire sul terreno della pena tutti i concorrenti,
indipendentemente dalla condotta in concreto esplicata, determina d'altronde
un indebolimento di tassatività anche con riferimento alla sanzione, che non
risulta adeguatamente modulata tenendo conto della specificità della condotta
posta in essere.
L'abbandono da parte del legislatore del 1930 di ogni descrizione delle condotte
concorsuali trova fondamento per un verso nel fallimento dell'esperienza registrata
sotto il codice penale del 1889, per altro verso nell'adozione di un criterio
causale che sarebbe stato in grado, nell'idea dei suoi compilatori, di consentire
l'individuazione di ogni forma di partecipazione punibile.
La valutazione espressa nei confronti della disciplina del c. p. Zanardelli
può essere condivisa. La combinazione della descrizione delle figure concorsuali
con la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato si era infatti
risolto in soluzioni compromissorie e in definizioni evanescenti, che avevano
condotto ad arbitrio e, soprattutto, avevano innescato un meccanismo per cui
il giudice, con una evidente inversione logica, qualificava la condotta alla
luce della pena che intendeva infliggere.
Il ripudio di tale disciplina non implicava però necessariamente l'accoglimento
della soluzione causale nei termini generici espressi dall'art. 110. La problematica
del concorso si scinde infatti in due profili, l'uno concernente la descrizione
delle condotte punibili e l'altro il trattamento sanzionatorio. E il carattere
insoddisfacente di una loro congiunta regolamentazione non escludeva una diversa
disciplina intesa a mantenere la determinatezza delle forme di partecipazione
e a ricercare per altra via una loro diversificazione sul piano della pena.
Sul piano comparato, una soluzione differenziata è accolta ad esempio dal codice
francese, che definisce il complice come "colui che consapevolmente, mediante
aiuto o assistenza, ha agevolato la preparazione o la consumazione di un crimine
o di un delitto. E' egualmente complice colui che con doni, promesse, minacce,
ordini, abuso di autorità o di potere, abbia provocato taluno all'illecito o
dato istruzioni per commetterlo" (art. 121.7; similmente dispone l'art. 67 del
codice belga; una elencazione delle condotte di concorso è invece contenuta
nel § 25 ss. del codice tedesco, nel § 12 del codice austriaco e nell'art. 26
s. del codice portoghese).
I vantaggi di tale soluzione possono cogliersi nella sua funzione orientativa
nei confronti del giudice, e nell'onere di motivazione conseguente alla qualificazione
del partecipe come complice morale o materiale; tali vantaggi acquistano poi
ulteriore consistenza a fronte della situazione vigente in Italia, ove l'adozione
di un modello indifferenziato ha esaltato il ruolo creativo della giurisprudenza
e la figura del concorrente è divenuta l'archetipo di ogni affermazione di responsabilità
ai sensi dell'art. 110 c.p.
E' significativo, d'altronde, il fatto che al momento di procedere nella parte
speciale alla tipizzazione delle condotte di partecipazione al suicidio (art.580),
il legislatore non ha utilizzato l'ambigua formula "chiunque concorre", ma ha
preferito prevedere, "accanto alla determinazione che si riferisce ad un'attività
diretta a formare l'altrui proponimento, anche il rafforzamento di questo, e
cioè qualsiasi attività diretta a rendere definitivo un proposito già formato"
nonché "l'agevolazione, in qualsiasi forma prestata, alla esecuzione della volontà
suicida". Un chiaro segnale della opportunità di un'espressa previsione delle
condotte concorsuali, dal quale è derivato un incentivo per la giurisprudenza
a ricostruire la causalità delle condotte di partecipazione al suicidio con
una profondità che non conosce confronti rispetto alle problematiche generali
del concorso di persone nel reato.
La opzione "causale" proposta dal legislatore del 1930 come soddisfacente criterio
di tipizzazione delle condotte concorsuali ha dato invece, come era prevedibile,
pessima prova di sé. Alla luce di un consolidato orientamento, la Cassazione
ha affermato genericamente la punibilità di ogni "contributo di ordine materiale
o psicologico idoneo, con giudizio di prognosi postuma, alla realizzazione anche
di una soltanto delle fasi di ideazione, organizzazione o esecuzione dell'azione
criminosa posta in essere da altri soggetti". E con una sentenza che può essere
considerata la sintesi delle opzioni teoriche e politico-criminali della Suprema
Corte è stato deciso che "perché si configuri la fattispecie del concorso di
persone non è necessario che il contributo di ciascuno si ponga come condizione,
sul piano causale, dell'evento lesivo. Infatti la teoria causale del concorso
contrasta con il dettato dell'art. 110 c.p. e la funzione estensiva cui la normativa
sul concorso adempie, consentendo di attribuire tipicità a comportamenti che
di per sé ne sarebbero privi quando abbiano in qualsiasi modo contribuito alla
realizzazione collettiva; mentre, d'altro canto, lo stesso codice, con la previsione
dell'attenuante della minima partecipazione al fatto, ammette la possibilità
di condotte non condizionali, non potendosi considerare condizione indispensabile
per la realizzazione di un reato un'attività di minima importanza. In quest'ottica,
ai fini della sussistenza del concorso deve ritenersi sufficiente che la condotta
di partecipazione si manifesti in un comportamento che arrechi un contributo
apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito
criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e, in sostanza,
che il partecipe, per effetto della sua condotta idonea a facilitarne l'esecuzione
abbia aumentato le possibilità di produzione dell'evento, perché in forza del
reato associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti" (Cass.,
11-3-1991, in Riv. pen., 1992, 498).
Questo criterio amplissimo, che dà rilievo a contributi anche non rigorosamente
causali, fa rilevare sul terreno del concorso condotte che si sono limitate
ad incrementare il rischio della produzione dell'evento, concede indiscriminata
rilevanza ad ogni condotta agevolatrice o di rinforzo, deve essere superato
in sede di riforma. Attraverso una norma che dia invece rilevanza soltanto a
condotte sicuramente causali in ordine alla condotta di un altro concorrente
o al comune evento criminoso attraverso una dettagliata descrizione delle condotte
tipiche.
In via esemplificativa, una formulazione possibile che tenga conto delle sopramenzionate
esigenze di tipicizzazione degli apporti causali potrebbe essere la seguente:
concorre nel reato chiunque abbia partecipato o istigato alla sua esecuzione
ovvero rafforzato il proposito di altro concorrente o agevolato l'esecuzione
fornendo aiuto o assistenza.
Essa concorrerebbe a delineare con una certa precisione i contorni del contributo
di tipo materiale, individuato nella 'partecipazione' e in una 'agevolazione'
qualificata dalla menzione delle condotte di aiuto o assistenza. E porrebbe
le basi per affrontare entro confini anch'essi delineati il problema della rilevanza
del concorso morale: dovrebbe trattarsi di istigazione alla esecuzione (cioè
di condotta che influisce direttamente sull'esecuzione del fatto) o di rafforzamento
del proposito di altro concorrente, una sottolineatura che dovrebbe marcare
la necessità che sia effettivamente provato che la condotta dell'agente ha cagionato
un rafforzamento del proposito dell'altro concorrente incidendo concretamente
sulla realizzazione del fatto di reato (con conseguente esclusione di responsabilità
penale ove questa prova non sia stata raggiunta, ove esista soltanto la prova
della idoneità della condotta posta in essere a determinare il rafforzamento
del proposito ma non quella del rafforzamento realizzato, ove vi sia stata mera
adesione astratta o approvazione dell'altrui disegno delittuoso senza avere
contribuito positivamente all'illecito, ove l'attività psichica sia risultata
ininfluente perché rivolta ad un soggetto già pienamente determinato o perché
l'esecutore ha agito sulla base di diverse motivazioni).
L'esigenza di una riforma dell'istituto del concorso di persone nel reato nella
duplice direzione di identificare le condotte di partecipazione secondo principi
di maggiore determinatezza, e di ricondurre la responsabilità del compartecipe
nell'ambito del principio di colpevolezza è stata riconosciuta dallo schema
di legge-delega Pagliaro. La Commissione ritiene che la formulazione proposta:
"prevedere che concorra nel reato chi, nella fase ideativa, preparatoria o esecutiva,
dà un contributo necessario, o quantomeno agevolatore, alla realizzazione dell'evento
offensivo. Si concorre per agevolazione solo nei casi in cui la condotta ha
reso più probabile, più pronta o più grave la realizzazione dell'evento offensivo",
come del resto riconoscono gli stessi estensori nella relazione introduttiva
all'articolato, realizzi in una misura ancora insufficiente le esigenze di tipizzazione
degli apporti causali idonei a rilevare come concorso nel reato.
2. Il trattamento sanzionatorio delle condotte di partecipazione
La
maggioranza dei sistemi penali europei prevede una riduzione di pena in favore
del complice (codice tedesco, svizzero, spagnolo, portoghese). Tale soluzione
va approvata, giacché consente di articolare le cornici edittali di pena in
considerazione del disvalore oggettivo delle condotte concorrenti, mentre la
soluzione unitaria ex art. 110 trasferisce la valutazione dei diversi contributi
sul piano della commisurazione della pena, realizzando una indebita assimilazione
tra il fatto e la personalità dell'imputato, che vale a spiegare anche la desuetudine
in cui è caduto l'art. 114 c.p.
Tuttavia, l'esperienza comparata dimostra anche come la diminuzione della pena
si leghi, più che alla qualificazione nominalistica della condotta, alla sua
rilevanza nel quadro della realizzazione comune; onde appare opportuno prevedere
altresì una circostanza attenuante legata alla oggettiva minore importanza del
contributo.
Nella prospettiva delineata si colloca l'art. 28.1. dello schema di legge-delega
Pagliaro, il quale ipotizza di "prevedere responsabilità differenziate per i
compartecipi, non in rapporto alla forma astratta di partecipazione, ma in dipendenza
del contributo effettivo di ciascuno alla realizzazione criminosa. Prevedere
come circostanza attenuante l'avere apportato un contributo soltanto agevolatore
alla realizzazione del reato (...)". Qualche perplessità suscita tuttavia il
riferimento della circostanza attenuante alla specifica condotta dell'agevolatore,
contrapposta nel sistema dello schema di legge-delega a quella del contributo
necessario. Tale differenziazione, inconferente agli effetti della determinazione
del carico sanzionatorio, ove rileva esclusivamente la oggettiva minore importanza
della condotta in rapporto alla vicenda concursuale, rischia oltre tutto di
diventare fonte di dispute interpretative (quando, ad esempio, la fornitura
di un'arma integra un contributo necessario o un'agevolazione?).
In questa prospettiva si propone la previsione di una circostanza attenuante,
di applicazione obbligatoria, riferita alle condotte "di rilevanza modesta"
3. La partecipazione omissiva nel reato commesso mediante azione
Posto
che il mancato impedimento di un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire
equivale alla sua causazione attiva (art. 40 cpv.), anche la consapevole inerzia
da parte del titolare di una posizione di garanzia dà vita ad una condotta causalmente
rilevante rispetto all'evento. Da ciò deriva la sicura possibilità di qualificare
come concorrente chi, nell'ambito di un piano criminoso concordato con altri,
si impegna ad astenersi dalla condotta per lui giuridicamente obbligatoria.
Qualche difficoltà si pone quando l'omissione del garante avviene al di fuori
di un previo accordo. In questa ipotesi l'affermazione di una responsabilità
concorsuale esige, in capo all'omittente, il dolo di concorso, cioè la volontà
di cooperare con altri alla realizzazione del fatto criminoso. Tuttavia, a causa
della peculiarità dell'elemento psicologico negli illeciti omissivi, tale volontà
finisce con il coincidere con quella di non impedire l'evento, da qualunque
ragione essa dipenda e qualunque sia l'atteggiamento del soggetto rispetto alla
verificazione dell'evento stesso; donde il rischio di una sfasatura tra il dolo
dell'omittente e il titolo del reato di cui è chiamato a rispondere. Né appare
decisiva l'osservazione che "per evitare certi rigorismi od oscillazioni giurisprudenziali,
occorre un attento accertamento dei requisiti soggettivi, cioè del dolo di concorso
(es.: se la madre abbia assistito, inerte, allo stupro della figlia infraquattordicenne
per paura o per compiacimento, cioè rifiutando o volendo il fatto)", giacché
il problema sorge ogni volta che, senza esservi costretto, il garante rimane
inerte (si noti che in tali ipotesi il dolo viene spesso desunto dal comportamento
successivo dell'omittente, es., la mancata denuncia del fatto, con l'ulteriore
rischio di un ricorso al c.d. dolo susseguente).
La questione non consente però alcuna via d'uscita sul terreno della partecipazione
criminosa, apparendo eccessivamente restrittiva sia la tesi che vorrebbe circoscrivere
il concorso mediante omissione ai reati causali puri, sia la tesi che vorrebbe
escluderlo in presenza di un dolo indiretto o eventuale, sia l'idea di attribuirgli
rilevanza esclusivamente nei casi di previo accordo.
Premessa la esigenza di carattere generale di delimitare il problema a monte
attraverso una consapevole individuazione degli obblighi giuridici di impedire
l'evento, la Commissione ritiene comunque opportuno prevedere un'ulteriore circostanza
attenuante (non obbligatoria ma facoltativa) per le condotte omissive, disponendo
che la pena può essere diminuita per le condotte omissive concorrenti nel reato
commissivo fuori dei casi di previo accordo.
4. Le circostanze ex artt. 111 e 112 c.p
Con riferimento all'oggetto
dell'art. 111 la Commissione riconosce l'opportunità di prevedere una norma
specifica al fine di evitare incertezze applicative, sottolineando l'esigenza
di raccordare la disciplina con quella cui si opterà rispetto agli attuali artt.
46, 48 e 54. Si conviene comunque sulla linea grosso modo tracciata dallo schema
di legge-delega Pagliaro: le disposizioni sul concorso di persone si applicano
anche se taluno dei concorrenti non è imputabile o non è punibile per cause
personali; la pena è aumentata per colui che determina al reato la persona non
imputabile o non punibile.
Con riferimento alle circostanze aggravanti si propone la sostituzione della
vigente ridondante previsione dell'art. 112 con una disciplina più semplice:
la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell'attività criminosa
nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o
di ridotta capacità.
5. Il concorso nei reati colposi
La Commissione a) considerato che
la previsione dell'istituto risulta confermata sia dal progetto Pagliaro sia
da quello Riz , mentre in dottrina è da tempo aperto il dibattito relativo alla
opportunità di una abrogazione della norma, b) ritenuto che le ragioni addotte
a sostegno del mantenimento non appaiono decisive, in quanto riguardano una
(presunta) funzione incriminatrice dell'art. 113 che risulta comunque adempiuta
dalla previsione generale del concorso di persone nel reato e dei reati colposi,
c) considerata altresì l'assoluta originalità della norma nel contesto europeo,
si è orientata nel senso della abrogazione.
A fronte delle univoche posizioni assunte sul punto dalla Cassazione, riterrebbe
altresì inopportuno prevedere un concorso colposo nel fatto doloso altrui.
6. Istigazione e accordo non seguiti dalla commissione del reato
La
Commissione ritiene utile mantenere la formulazione relativa all'impunità dell'istigazione
e dell'accordo non seguiti dalla esecuzione del reato, osservando che il tema
dovrebbe essere affrontato, unitamente a quello del reato impossibile, nella
prospettiva di una generale enunciazione del principio di necessaria offensività.
7. La responsabilità del partecipe per il reato da lui non voluto e
il concorso nel reato proprio
Si rinvia a quanto già esposto in materia nel capitolo
dedicato alla eliminazione delle ipotesi di responsabilità oggettiva o anomala
(parte III, n. 4.2).
8. La disciplina delle circostanze e delle cause di giustificazione
Lo
schema di legge-delega Pagliaro dispone all'art. 30: "prevedere che si comunichino
ai concorrenti soltanto le cause di giustificazione e le circostanze oggettive,
nonché le circostanze soggettive che siano servite ad agevolare l'esecuzione
del reato"; analoga statuizione si rinviene nel progetto Riz. Si tratta di una
opzione che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all'art. 118 e gli
esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, e deve dunque
essere condivisa attraverso la proposta di una norma - destinata a ricomprendere
i vigenti artt. 118 e 119 - grosso modo formulata nei seguenti termini: le cause
di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive
che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti
coloro che sono concorsi nel reato.
9. I reati associativi
La Commissione è concorde nel rilevare l'esigenza
di procedere ad una caratterizzazione del concetto di associazione attraverso
la sua idoneità a perdurare nel tempo. In sede di sessione plenaria alcuni commissari
hanno sostenuto, senza sollevare obbiezioni, che l'organizzazione criminosa
oltreché dalla sua idoneità a perdurare nel tempo dovrebbe essere caratterizzata
dalla sua idoneità a realizzare i reati scopo.
Per contro, si sono delineati diversi orientamenti rispetto alla possibilità
di restringere l'ambito applicativo della fattispecie di associazione per delinquere
mediante una specificazione delle tipologie dei reati per la cui commissione
è costituita l'associazione, ovvero attraverso un limite generale riferito al
massimo di pena edittale prevista per il reato-scopo.
Per quanto riguarda i rapporti intercorrenti tra il reato di associazione e
la problematica del concorso esterno, dopo ampia discussione la maggioranza
della Commissione ha ritenuto preferibile proporre una tipizzazione, conforme
ai risultati della più recente elaborazione giurisprudenziale e alle posizioni
di una parte della dottrina, delle nozioni di associato e di concorrente esterno.
In questa prospettiva ha pensato a formulazioni grosso modo di questo tipo:
è associato chi è inserito consapevolmente nella struttura organizzativa della
associazione; fuori dei casi di partecipazione all'associazione, le pene stabilite
sono applicabili a chi fornisce un rilevante contributo consapevole e volontario
al conseguimento dei fini della associazione o alla sua conservazione e stabilità.
Una parte della Commissione ha sostenuto invece che una formulazione di tipo
generale del concorso esterno non evita il pericolo di applicazioni eccessivamente
discrezionali da parte del giudice. Pur riconoscendo la serietà del problema
concernente coloro (politici, professionisti, imprenditori, ecc.) che, pur non
facendo parte della organizzazione criminale, favoriscono con il loro comportamento
il perseguimento dei fini della stessa o contribuiscono alla sua conservazione
e stabilità, ha affermato che esso deve essere affrontato sul terreno della
parte speciale attraverso la previsione di un complesso di specifiche, e quindi
più tassative, fattispecie di favoreggiamento.
Salvo talune proposte di modifiche formali, la Commissione non ritiene si debba
intervenire sulla vigente definizione dell'associazione di tipo mafioso, che
costituisce il frutto di una consolidata tradizione giurisprudenziale, essendo
comunque ovvio che a tale tipo di associazione dovranno applicarsi i criteri
generali di specificazione delineati per il reato associativo.
Dopo ampia discussione, nel corso della quale si sono delineati contrastanti
orientamenti a favore della soppressione o del mantenimento del vigente art.
416-ter, è prevalsa quest'ultima soluzione, arricchita peraltro dall'inserimento
della "promessa" e della "altra utilità", la cui assenza ha finora pregiudicato
l'operatività della fattispecie ("fuori dei casi di cui all'art. 416 bis, la
pena ivi stabilita si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista
dal comma 1 del medesimo art. 416 bis in cambio della erogazione o promessa
di denaro o altra utilità").
Per le fattispecie associative di tipo politico si rinvia alla trattazione
dei profili di riforma dei delitti contro lo Stato (parte XII).
VIII. Il sistema delle
pene
1. Gli obbiettivi della riforma del sistema delle pene
Con riferimento
al sistema delle pene la Commissione è stata unanime nel ritenere la assoluta
urgenza di una profonda revisione del sistema delle pene attualmente in vigore,
caratterizzato da una insostenibile situazione di incertezza e di 'imprevedibilità'
della sanzione concretamente scontata dal condannato; incertezza ed imprevedibilità
dovuta all'eccessivo potere discrezionale concesso al giudice penale in sede
di determinazione in concreto della pena, alla mancanza di criteri-guida affidabili
in ordine a tale determinazione, al sovrapporsi disordinato di interventi normativi
di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale penale in materia
di irrogazione ed esecuzione delle pene, al gioco spesso irrazionale e contraddittorio
di istituti premiali, di facili perdonismi, di istituti di prevenzione speciale
disciplinati con non sufficiente rigore nei presupposti della loro applicazione.
Sulla base di questa prima considerazione si è concordato che fra gli obbiettivi
primari di una riforma del sistema delle pene dovrebbero essere considerati:
a) la configurazione di un quadro normativo organico che attui una semplificazione
ed una razionalizzazione della legislazione vigente; b) la conseguente
delineazione di un sistema di sanzioni penali caratterizzato da requisiti di
certezza e prevedibilità dei risultati, e che circoscriva per quanto possibile
gli scarti fra quanto avviene al momento della irrogazione della pena e ciò
che si verifica al momento della sua esecuzione; c) quale presupposto primario
per ottenere questo risultato, un forte ridimensionamento del potere discrezionale
del giudice, che muova da una indicazione di carattere generale che imponga,
nella revisione della parte speciale, l'adozione di cornici edittali assai più
contenute di quelle attuali (in questo senso si era già pronunciato abbastanza
chiaramente lo schema di legge-delega Pagliaro: v. art. 58), per arrivare a
significative riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale in istituti
quali il concorso delle circostanze eterogenee, il concorso formale di reati
e la continuazione nel reato.
2. Una nuova articolazione delle pene
La Commissione è stata ugualmente
unanime nel ritenere che il sistema vigente delle pene, oltre a non consentire
certezza e prevedibilità della loro esecuzione, risulta caratterizzato dalla
assenza di una reale efficacia preventiva. Nel suo complesso è sistema astrattamente
punitivo, centrato su di un meccanismo che a livello di previsione e di applicazione
giudiziale privilegia la pena detentiva e prevede pene detentive astrattamente
molto pesanti, ma concretamente è poco temibile a causa di un complesso intrecciarsi
di istituti di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale che vanificano
la loro efficacia. Come si chiarirà meglio in seguito, il sistema delle pene
pecuniarie è a sua volta in larga misura privo di effettività. Di qui la necessità di un radicale cambiamento di rotta.
La Commissione a questo riguardo ritiene che la riforma dovrebbe orientarsi
lungo alcune direzione fondamentali. Mantenere la centralità della pena detentiva
quale risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque secondo
parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente. Prevedere
a fianco della pena detentiva un articolato complesso di pene diverse dalla
detenzione in carcere, intese quali pene principali che devono essere configurate
in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice
per i reati con riferimento ai quali esigenze di politica criminale consentono,
o addirittura consigliano la rinuncia, quantomeno in prima battuta, alla pena
detentiva. Punto qualificante della riforma dovrebbe essere che queste pene
dovranno essere applicate direttamente dal giudice di cognizione in sede
di giudizio, e non invece in fase di esecuzione da giudici diversi quali
alternative alla sanzione detentiva irrogata. Si ritiene infine importante evitare
che le pene siano preda troppo agevole di istituti vanificatori applicati con
automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale disciplina
della sospensione condizionale della pena).
Nel suo complesso questa disciplina dovrebbe condurre:
-
a ridurre, se non ad eliminare, lo scarto esistente fra temibilità astratta del sistema punitivo
e sua scarsa efficacia concreta, attenuando la durezza teorica delle sanzioni,
ma creando un sistema concretamente più temibile attraverso la applicazione
di un complesso di sanzioni effettivamente applicate;
-
a contribuire, attraverso una ampia previsione ed utilizzazione delle pene alternative,
ad una forte decarcerizzazione del sistema punitivo;
-
a rendere comunque, nel suo complesso, più efficace
il sistema di prevenzione generale.
La Commissione rileva che una proposta di questo tipo, che si discosta dagli
atteggiamenti tradizionali assunti dai progetti Pagliaro e Riz, è coerente con
le indicazioni, sia pure circoscritte, desumibili dalla legge sulla depenalizzazione
approvata definitivamente il 16 giugno 1999 (art. 10) e dal disegno di legge
in dirittura di arrivo sulla competenza penale dei giudici di pace (art. 16).
Ritiene che sul terreno di una proposta di largo respiro, sganciata dalle contingenze
degli accadimenti quotidiani, una scelta di mitigazione complessiva della pena
detentiva e di ampio uso di pene diverse dal carcere, nel quadro di un sistema
finalmente efficace sul terreno della esecuzione, realizzi in modo soddisfacente
le esigenze di prevenzione generale inseguite inutilmente dalle numerose leggi
che, nel passato più o meno recente, hanno ritenuto di fronteggiare i fenomeni
criminali emergenti con aumenti indiscriminati delle pene detentive.
Né ritiene che un ampio abbandono della previsione della pena carceraria significhi
indebolimento del sistema punitivo. Per fare un esempio fra i tanti possibili,
si consideri l'omicidio colposo, e ci si domandi se a realizzare le esigenze
della prevenzione generale risulti più incisiva la applicazione di una pena
detentiva non elevata coperta da sospensione condizionale (accompagnata di regola
da una condanna ad un risarcimento dei danni coperta a sua volta dalla compagnia
di assicurazione), ovvero quella di una pena diversa (sospensione o ritiro della
patente in caso di reato commesso con violazione delle norme sulla circolazione
stradale; sospensione dalla professione in caso di reato commesso con violazione
delle norme di perizia professionale, ecc.) non (sempre) soggetta a sopensione
condizionale e pertanto effettivamente applicata al condannato.
3. La reclusione
La reclusione deve mantenere un ruolo di centralità
nei reati di un certo rilievo, soprattutto in quelli gravi (es., i delitti dolosi
contro la persona, contro lo Stato, dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, di criminalità organizzata, ecc).
La Commissione non ritiene di assumere posizione sul problema relativo alla
eliminazione della pena dell'ergastolo, che è all'attenzione del Parlamento,
ma comunque sottolinea la piena compatibilità di tale eliminazione con il nuovo
sistema penale. Evidenzia che, allo scopo di evitare una eccessiva attenuazione
della risposta sanzionatoria nei confronti dei reati più gravi, in caso di sua
abolizione occorrerà ripensare le condizioni di accesso alle misure alternative
alla detenzione e l'istituto della imprescrittibilità dei reati, che sganciato
dalla tipologia della pena dovrà necessariamente essere ancorato a criteri di
sostanza.
Ritiene che occorra comunque:
-
una profonda revisione delle cornici edittali,
in grado di eliminare l'eccessivo potere discrezionale del giudice nella determinazione
concreta della pena;
-
un ragionevole ridimensionamento dei massimi edittali
di pena, in assoluto (in tale direzione la schema Pagliaro ha previsto che la
pena detentiva non potesse superare i ventiquattro anni), e con riferimento
a ciascun reato, rendendo semmai più congrui i minimi.
Nella determinazione dei minimi e dei massimi edittali individuabili nei confronti
di ciascun reato si dovrebbero d'altronde introdurre criteri di razionalizzazione,
quali la previsione di "classi" di reati con cornici edittali standardizzate
(es., reclusione da due a quattro anni, da tre a cinque anni, da cinque ad otto
anni, ecc.), ovvero indicazioni di massima in ordine al rapporto che deve intercorrere
tra il minimo ed il massimo della pena (es., massimo non superiore al triplo
del minimo e comunque scarto non superiore ad un determinato ammontare di anni
o di mesi di pena detentiva). Ove l'ergastolo dovesse essere eliminato, la pena detentiva sostitutiva dovrebbe
essere comunque superiore alla misura massima stabilita per la reclusione (es.,
trenta anni).
Nel caso in cui venisse confermata la presenza delle contravvenzioni (sul problema
v. parte II), dovrebbe essere comunque eliminata la pena dell'arresto, secondo
le linee già realizzate dalla legge di depenalizzazione approvata recentemente.
4. Le pene diverse dalla reclusione
Nei confronti dei reati di minore
gravità, o con riferimento ai quali ragioni di politica criminale sconsigliano
comunque la utilizzazione della sanzione carceraria, la Commissione propone
la configurazione di un complesso articolato di pene principali diverse dal
carcere previste direttamente dalle singole norme penali incriminatrici con
riferimento a ciascun reato, ed applicate dal giudice di cognizione con la sentenza
di condanna. Alcune di queste pene potrebbero assumere esclusivamente la veste
di pena principale. Altre potrebbero essere configurate come pene principali,
ma essere altresì utilizzate, in ipotesi di reati puniti con la pena detentiva,
come pene accessorie.
Pene esclusivamente principali dovrebbero essere:
-
la reclusione (da sei mesi a ventiquattro anni),
-
la detenzione domiciliare (da un mese a due anni),
-
la multa (nonché l'ammenda ove si mantenga la distinzione fra delitti e contravvenzioni).
Pene che potrebbero assumere la veste di pene principali o di pene accessorie
potrebbero essere:
-
l'interdizione da uno o più pubblici uffici,
-
l'interdizione da una professione, arte o attività,
-
l'interdizione da uffici direttivi delle persone giuridiche o imprese,
-
l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione,
-
la sospensione dall'amministrazione di determinati beni,
-
la confisca,
-
il ritiro o la sospensione della patente di guida,
-
il divieto di espatrio o di allontanamento da un Comune o da una Provincia,
-
il divieto di ingresso in locali pubblici o aperti al pubblico,
-
il divieto di accesso a luoghi di svolgimento di manifestazioni sportive,
-
la pubblicazione o trasmissione della notizia di condanna,
-
la prestazione lavorativa non retribuita a favore della collettività o il lavoro
sostitutivo o socialmente utile.
La scelta di prevedere pene principali diverse dalla reclusione pone problemi
comuni e problemi specifici relativi ad alcune delle sanzioni non detentive
configurate. Comune è la individuazione della reazione dell'ordinamento alle violazioni
degli obblighi connessi alla esecuzione delle pene non detentive o interdittive
inflitte e non rispettate. Problema che la legge sulla depenalizzazione e il
disegno di legge sulla competenza del giudice di pace hanno risolto prevedendo
un autonomo delitto punito con pena detentiva nei casi di inosservanza grave
o di violazione reiterata degli obblighi, ma che può essere affrontato anche
in maniera diversa a seconda del tipo di sanzione di cui si tratta e del tipo
di infrazione commessa.
La Commissione ha approfondito specificamente il problema nei confronti della
pena principale della detenzione domiciliare, che nel quadro del sistema sanzionatorio
ipotizzato dovrebbe essere lo strumento più utilizzato di sostituzione della
pena carceraria.
La Commissione osserva incidentalmente che questo istituto:
-
nella sua qualità
di pena principale eviterebbe sia le obiezioni manifestate nei confronti delle
pene detentive brevi, in quanto sanzione eseguibile all'esterno del circuito
carcerario, sia quelle di modesta afflittività e di ridotta capacità di prevenzione
di cui è stata accusata la libertà controllata;
-
potrebbe assumere il contenuto
della attuale misura alternativa alla pena detentiva breve (il condannato alla
pena della detenzione domiciliare non può allontanarsi dalla propria abitazione
o da altro luogo di privata dimora o dal luogo pubblico di cura o di assistenza
indicato dal giudice, salva la autorizzazione ad allontanarsi per comprovate
esigenze di vita).
In tema di reazione dell'ordinamento alla violazione degli obblighi connessi
alla sua esecuzione la maggioranza della Commissione ha sostenuto che essa potrebbe
essere individuata nella sostituzione automatica con la reclusione per un periodo
pari alla durata della detenzione domiciliare ancora da espiare in caso di allontanamento
duraturo dal luogo di espiazione stabilito. Nei casi di allontanamento non duraturo,
o della violazione delle altre prescrizioni eventualmente impartite dal giudice,
si potrebbe prevedere che la trasformazione sia subordinata all'esito di una
valutazione in concreto della gravità della violazione, allo scopo di evitare
una conversione automatica a fronte di microviolazioni non sufficientemente
significative. Conversione automatica, o valutazione discrezionale, potrebbero
essere affidate al magistrato di sorveglianza, come avviene oggi per le sanzioni
sostitutive delle pene detentive brevi.
Con riferimento alla inosservanza delle prescrizioni implicite nella inflizione
delle pene interdittive (es., professionista sospeso che esercita la professione)
occorrerebbe pensare a soluzioni analoghe, riferite alla specificità ed alla
gravità di ciascuna infrazione, che potrebbero andare dalla previsione di un
autonomo reato in caso di infrazione punito a sua volta con la reclusione o
con una sanzione diversa (es., detenzione domiciliare), alla applicazione di
sanzioni minori quali una pena pecuniaria in aggiunta alla esecuzione totale
della pena interdittiva inflitta, o ad un incremento della durata della pena
interdittiva stessa.
Con riferimento alla pena della prestazione di attività lavorativa non retribuita
a favore della collettività o del lavoro sostitutivo o socialmente utile la
Commissione ritiene di dovere richiamare innanzitutto la attenzione sulle condizioni
cui dovrebbe essere comunque subordinata una proficua utilizzazione dell'istituto:
la approvazione di una specifica normativa ad hoc la quale preveda la regolamentazione
e/o la stipulazione di convenzioni con gli enti pubblici e privati che dovrebbero
essere coinvolti nella utilizzazione dei condannati, la previsione di una copertura
assicurativa per il caso di infortuni o danni cagionati a terzi o all'ente,
indicazioni sulla natura del rapporto di lavoro, sulle responsabilità connesse,
sugli obblighi di riferire alla autorità giudiziaria gli inadempimenti e le
violazioni commesse dal condannato, e quant'altro appaia utile per evitare che
la sanzione, pur prevista astrattamente, risulti di fatto impraticabile. Al
riguardo non è inutile ricordare che sulla carta il lavoro sostitutivo è già
previsto dalle norme sull'ordinamento penitenziario, ma è rimasto inattuato
proprio a causa della mancanza delle condizioni per il suo funzionamento.
Quanto al contenuto, taluno ha sostenuto che la prestazione dovrebbe essere
misurata in ore-lavoro/attività, con possibilità di svolgimento continuativo
o in un periodo 'concentrato' oppure diluito nel tempo libero e/o nel fine settimana,
allo scopo di soddisfare le esigenze di vita del condannato. In caso di inosservanza,
si potrebbe pensare alla sua conversione (dell'intero o del residuo) in detenzione
domiciliare, o alla previsione di un delitto punito con analoga pena.
Si può infine rilevare che l'istituto, oltre che essere previsto come pena,
può entrare a fare parte delle misure cui subordinare la concessione della sospensione
condizionale della pena, o essere considerato strumento di conversione della
pena pecuniaria non pagata.
Nel concludere, la Commissione osserva che la scelta compiuta a livello generale
di prevedere un ampio spettro di pene principali sostitutive della reclusione
dovrà trovare modalità e confini di realizzazione nelle opzioni di parte speciale.
Nell'impossibilità di affrontare in questa prima fase di lavoro i problemi connessi
a queste scelte, si limita a prendere atto di quanto è stato elaborato dalla
Sotto-commissione in via meramente esemplificativa, e senza nessuna pretesa
di definitività.
5. La pena pecuniaria
In tema di pena pecuniaria la Commissione rileva
innanzitutto la sua attuale pressoché totale inefficacia. Quando essa è sospesa
condizionalmente non esercita pressoché nessuna funzione preventiva (salva la
perdita di una possibilità nella reiterazione della sospensione stessa). Fuori
dai casi di oblazione, emerge che la multa e l'ammenda risultano in larghissima
misura ineseguite: dalle indicazioni statistiche desumibili dall'annuario 1997
del servizio informativo del casellario giudiziale si ricava che a fronte di
2.257 miliardi di pene pecuniarie da riscuotere, in sette anni sono stati riscossi
meno di 84 miliardi. Anche se questi dati sono condizionati dalla circostanza
che comprendono anche la condanna a multe elevate congiunte alle pene detentive
per reati con riferimento ai cui autori la riscossione è di regola impraticabile
(si pensi alla materia degli stupefacenti), essi sono comunque stupefacenti,
tanto più preoccupanti ove si consideri che a fronte dei costi affrontati dallo
Stato per la riscossione quest'ultima si conclude verosimilmente in una perdita
finanziaria per le casse pubbliche.
Muovendo da queste considerazione, la Commissione ritiene di potere procedere
ad un primo gruppo di proposte di riforma:
-
mantenere la pena pecuniaria, ma escludere, in via di principio, la applicazione
congiunta con la pena detentiva, secondo uno schema già proposto dal progetto
Pagliaro (con la precisazione che problema diverso concerne la, doverosa, ricerca
e recupero dei proventi della attività criminosa, che deve esser perseguita
con indagini patrimoniali e conseguente sequestro e confisca).
-
assegnare alla pena pecuniaria minimi edittali non irrisori e soprattutto escluderla dalla sfera di azione della sospensione condizionale della pena.
-
ammettere che la pena pecuniaria possa essere prevista in alternativa a
quella detentiva, nella prospettiva di un allargamento della oblazione ai delitti
puniti con pena pecuniaria alternativa.
-
prevedere forme di pagamento tempestivo della pena pecuniaria definitivamente
irrogata, con automatica trasformazione in sanzione diversa in caso di inadempimento.
In questa prospettiva la Commissione ipotizza la possibilità che al condannato
sia concesso un congruo termine (es., trenta giorni) per pagare, con possibilità
di ottenere una rateizzazione ove dimostri di non essere in condizioni economiche
che gli consentono di pagare in una unica soluzione; che trascorso tale periodo
la pena pecuniaria sia automaticamente convertita in libertà controllata o in
lavoro di utilità sociale (con eventuale possibilità di pagamento tardivo con
l'aggravio di spese ed interessi). Nel corso della discussione era emersa anche
l'ipotesi, superata, di prevedere un versamento anticipato da parte dell'imputato
prima del giudizio, o dopo la sentenza di primo grado (pendente l'appello),
di una somma a titolo cauzionale per garantire almeno in parte l'esecuzione
della pena definitiva, con restituzione in caso di assoluzione.
La Commissione ha ulteriormente discusso sulla opportunità di utilizzare il
meccanismo dei tassi giornalieri previsto dal progetto Pagliaro. Alcuni commissari
si sono dichiarati favorevoli alla introduzione di questo sistema, utilmente
sperimentato in alcune legislazioni europee. La maggioranza della Commissione,
pur ritenendo che in astratto si tratti di modello ineccepibile, ha espresso
forti perplessità sulla opportunità di inserirlo nel contesto italiano, stante
le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale che non è in grado di
assicurare certezza sui redditi.
Si è infine convenuto sulla opportunità di prevedere criteri di determinazione
in concreto della pena pecuniaria che tengano conto delle condizioni economiche
del condannato (v. oltre n. 9).
6. La confisca
In merito alla collocazione ed all'oggetto della confisca
nel nuovo quadro sanzionatorio vi è stata ampia convergenza nel giudicare incongruo
il suo inquadramento fra le misure di sicurezza, trattandosi di situazioni in
cui più che di 'pericolosità sociale del reo' si dovrebbe parlare di 'pericolosità'
della cosa. Nel contempo, pur riconoscendo alla confisca una funzione preventiva,
alla maggioranza dei commissari non è sembrata accoglibile la proposta, avanzata
da taluno, di una utilizzazione dell'istituto per la neutralizzazione delle
risorse patrimoniali di ingiustificata provenienza: il trasferimento nel codice
di una normativa riecheggiante l'art. 12 sexies L. 7 agosto 1992 n. 356 (modificato
dalla L. 8 agosto 1994 n. 501) non è stato giudicato compatibile con le indicazioni
della Corte costituzionale, e comunque ammissibile oltre la discutibile realtà
delle misure di prevenzione. Questo precisato, la Commissione propone di considerare
la confisca non più come una misura di sicurezza, ma come una pena, a seconda
dei casi accessoria o principale, concernente singoli beni tassativamente indicati
dalla legge.
Quanto alle modalità di irrogazione la Commissione suggerisce l'abolizione
degli attuali ambiti di discrezionalità giudiziale, prevedendo sempre la sua
obbligatorietà, ed eliminando l'incongruità della differenza di disciplina fra
confisca del prezzo del reato e confisca del prodotto, profitto e delle cose
strumentali all'attività criminosa.
Quanto all'oggetto, salva, di regola, l'esclusione dell'istituto in caso di
appartenenza a persona estranea al reato, in ordine al 'profitto' la Commissione
giudica proponibile un'estensione a tutti i reati produttivi di profitto della
disciplina attualmente delineata dall'art. 644 u.c. c.p. in materia di usura:
stabilendo cioè che in caso di irreperibilità del prodotto o del profitto vero
e proprio del reato la confisca possa coinvolgere, per un importo pari al valore
del profitto realizzato, somme di denaro, beni od utilità di cui il condannato
abbia, anche per interposta persona, la disponibilità, salvi i diritti della
persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento.
7. La sospensione condizionale della pena
La maggioranza della Commissione
ritiene, sul solco di quanto previsto dallo schema di legge-delega Pagliaro,
che la sospensione condizionale della pena debba essere sottoposta a una o più
condizioni, in modo che il condannato avverta concretamente di avere subito
una condanna e di essere sottoposto ad una prova. In questa prospettiva da un
lato si propone che quando vi sia una persona danneggiata, anche in assenza
di costituzione di parte civile, la sospensione condizionale debba essere
subordinata al pagamento di un risarcimento del danno, parziale e provvisorio,
e che in caso di rifiuto da parte della persona danneggiata ad accettare tale
pagamento il giudice stabilisca il versamento di una somma equivalente su di
un istituendo fondo per le vittime dei reati. Dall'altro si sostiene che l'imposizione
di altri obblighi potrebbe avvenire sulla falsariga di quanto stabilito
in materia di affidamento in prova al servizio sociale (es., prestazione di
attività socialmente utili). Alcuni commissari hanno obbiettato che una disciplina di questo tipo sarebbe
eccessivamente rigorosa. In particolare, che la introduzione della problematica
del risarcimento del danno in materia di sospensione condizionale susciterebbe
problemi, specie nei casi in cui intervengano le compagnie di assicurazione;
che la imposizione di condizioni non dovrebbe comunque mai essere prevista obbligatoriamente,
ma essere valutata discrezionalmente dal giudice caso per caso; che, piuttosto,
si potrebbe prevedere la revoca della sospensione condizionale in caso di grossolane
ed ostinate violazioni delle prescrizioni eventualmente inflitte.
La Commissione è orientata a negare la sospensione condizionale delle pene
pecuniarie. Quanto al problema della sospendibilità delle pene accessorie, vi è consenso
generale sul fatto che l'estensione automatica introdotta con la novella del
1990 è d'ostacolo ad una opportuna graduazione delle risposta penale nei casi
in cui l'effettiva applicazione di sole pene accessorie appaia sufficiente a
realizzare i fini dell'ordinamento. In questa prospettiva una parte della Commissione
suggerisce la introduzione di un sistema elastico, che consenta, occorrendo,
di distinguere ai fini della sospensione tra pena principale ed accessoria;
altra parte auspica invece il ritorno alla vecchia disciplina. Si è altresì
convenuto sulla opportunità di prevedere limitazioni alla utilizzazione dell'istituto
nei confronti della restante gamma di pene principali diverse dalla reclusione,
tenendo conto delle situazioni specifiche in cui esse saranno chiamate ad operare. Per ciò che concerne l'ambito di applicazione, la Commissione rileva che i
suoi limiti devono essere individuati facendo riferimento ad un massimo di pena
coerente con la riduzione prevista dei limiti edittali. In materia di ripetibilità
essa concorda sulla conferma del sistema vigente (ripetibilità una seconda volta,
alle condizioni di cui all'art. 164 comma 1 e ultimo). Ove più sentenze di condanna
a pena sospesa siano pronunciate per reati unificabili in un unico cumulo giuridico,
la sospensione condizionale dovrebbe essere considerata concessa una sola volta.
Si propone infine di attribuire rilevanza all'intervenuta riabilitazione, eliminando
l'effetto ostativo previsto dall'art. 264 comma 2 c.p.
8.
L'oblazione
La Commissione rileva preliminarmente come l'istituto
della oblazione non trovi riscontro nei codici penali tedesco, austriaco, spagnolo,
portoghese e francese, il che dimostra il suo superamento da parte dei più recenti
ordinamenti penali europei. Per contro lo schema di legge-delega Pagliaro pone
l'oblazione tra le "cause di estinzione degli effetti penali", prevedendo "l'opportunità
di prevedere l'oblazione, sia in forma automatica sia in forma discrezionale,
non solo per le contravvenzioni ma anche per i delitti", mentre il progetto
Riz si limita a considerare la oblazione automatica come causa di estinzione
delle contravvenzioni.
Entrando nel merito del problema la Commissione osserva che una causa estintiva
automatica sul modello del vigente art. 162 c.p. presuppone la previsione di
reati lievi, al punto che la loro definizione giudiziale possa essere rimessa
alla volontà dispositiva dell'interessato. Nel quadro di un orientamento diretto
a realizzare un diritto penale inteso quale extrema ratio di tutela, il sistema
non dovrebbe annoverare fatti di entità minima, tali da giustificare la loro
automatica estinzione in un ambito transattivo delle pretese economiche della
amministrazione. Ciò significa che, se non vuole entrare in contraddizione con
sé stessa, una riforma ispirata ai canoni di sussidiarietà (extrema ratio) non
può prevedere fatti di reato suscettivi di essere sottoposti ad un regime di
oblazione automatica, che deve essere pertanto eliminata. Al riguardo non è
superfluo osservare che anche sul versante dell'illecito amministrativo si registra
una tendenza alla riduzione del c.d. pagamento in misura ridotta (art. 16 L.
n. 689/81): un recente esempio è offerto dagli artt. 188, 190 e 196 del D.Lgs.
n. 58/98.
Tali considerazioni non valgono per la vigente oblazione speciale regolata
dall'art. 162 bis c.p., il cui mantenimento futuro può trovare una giustificazione su piani diversi. La sopravvivenza di contravvenzioni sanzionate alternativamente con pene detentive
(detenzione domiciliare) o interdittive e pecuniarie consentirebbe di conservare
alla oblazione lo spazio operativo previsto dall'attuale art. 162 bis c.p. In
ogni caso, la Commissione ritiene che siano maturi i tempi per proporre l'estensione
dell'area di operatività dell'istituto ai delitti puniti con pena pecuniaria,
eventualmente alternativa a pena detentiva o interdittiva, alla condizione che
la pena pecuniaria sia astrattamente determinata in misura tale da svolgere
la sua connaturata funzione preventiva anche in ipotesi di estinzione del reato
mediante oblazione.
Ipotizzato il mantenimento del modello disciplinato dall'art. 162 bis c.p.,
la Commissione ritiene opportuno confermare, nonostante le perplessità manifestate
da una parte della dottrina in ordine al rispetto dei principi di legalità e
certezza del diritto, il potere-dovere del giudice relativo al previo accertamento
della inesistenza e della eliminazione di conseguenze dannose o pericolose del
reato e della non particolare gravità oggettiva del fatto.
Così ridefinita la portata della oblazione, è evidente che essa verrebbe a
svolgere, al di là della sua oggettiva funzione deflattiva dei processi penale,
una specifica funzione incentivante rispetto al soddisfacimento delle pretese
risarcitorie della vittima ovvero alla restaurazione del bene offeso, ed in
questa prospettiva potrebbe anche trovare una collocazione diversa da quella
attuale.
9. La commisurazione della pena
La Commissione rileva che la disciplina
in vigore, caratterizzata da una opzione teorica apparentemente ispirata ad
un modello di discrezionalità vincolata (artt. 132 e 133), ma da una situazione
concreta contraddistinta da una discrezionalità incondizionata del giudice,
elude le più elementari esigenze di legalità e di certezza del diritto.
Le cause di questa situazione sono individuabili da un lato nella stessa legislazione
penale, che:
-
nell'art. 133 c.p. enuncia criteri di carattere onnicomprensivo,
e pertanto già di per sé poco orientativi;
-
non indica chiavi di lettura finalistiche
degli stessi, consentendo quindi possibili utilizzazioni di segno diverso;
-
prevede limiti edittali di pena troppo ampi, consentendo margini eccessivi di
discrezionalità già con riferimento alla determinazione della pena in concreto
per i singoli reati;
-
con le riforme introdotte a partire dagli anni settanta
(novella del 1974, riforma penitenziaria, legge 689/81) ha dilatato il potere
discrezionale del giudice rendendolo in molti casi arbitro della pena in concreto.
Dall'altro nell'instaurarsi di una prassi nella quale l'obbligo di motivazione,
pur previsto, è largamente eluso, per cui i criteri seguiti concretamente dal
giudice non sono di regola leggibili. Ulteriore elemento distorcente è ravvisabile
nello squilibrio delle pene, rispetto alla cui severità l'intervento giudiziario
si è posto spesso in chiave di (problematica, e soprattutto casuale) correzione
equitativa.
La Commissione ritiene che presupposto indispensabile di una disciplina
accettabile sia la rimozione delle cause a monte della sopra menzionata discrezionalità
non vincolata: la riduzione (nel quadro di una generalizzata diminuzione del
carico sanzionatorio previsto per ciascun reato) dello scarto fra minimo e massimo
edittale e la eliminazione degli istituti che hanno aumentato la discrezionalità
giudiziale in materia di determinazione in concreto della pena (revisione della
disciplina del concorso di circostanze eterogenee, del concorso di reati e della
continuazione: v. oltre). Nel corso della discussione plenaria è anche emersa
la opportunità di segnalare, anche se non si tratta di materia afferente alla
disciplina del diritto penale sostanziale, le distorsioni che la determinazione
in concreto della pena subisce nei casi di patteggiamento. Con riferimento ai criteri ai quali ancorare la utilizzazione del potere discrezionale
entro i confini assai più circoscritti che dovrebbero scaturire dalle testé
menzionate modificazioni legislative, la Commissione, pur concordando sulla
necessità di superare la disciplina dell'art. 133 c.p. sia con riferimento alle
indicazioni di cui al primo, sia soprattutto con riferimento a quelle di cui
al secondo comma, nella discussione plenaria ha rivelato un certo scetticismo
in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta
univocità il giudice. Ritiene comunque possibile proporre una formulazione che,
recependo le indicazioni desumibili dalla più moderna dottrina penalistica e
dalle scelte operate da alcuni recenti codici penali europei (tedesco, austriaco,
portoghese, spagnolo, francese), per la determinazione in concreto della pena
faccia perno sui seguenti elementi:
-
primato del principio di colpevolezza per il fatto commesso,
-
considerazione, agli effetti di una possibile attenuazione
della responsabilità penale individuata tenendo conto della colpevolezza per
il fatto, delle finalità di prevenzione speciale enunciate dall'art. 27 comma
3 Cost.
Con l'ulteriore precisazione che deve essere esclusa la considerazione
della prevenzione generale, che può sicuramente porsi come criterio fondamentale
di configurazione delle fattispecie di reato e delle relative pene astratte,
ma non come legittimo criterio di commisurazione della pena. Su questa base
potrebbe essere suggerita una formula di questo tipo: il giudice determina la
pena con riferimento alla colpevolezza per il fatto; essa può essere ulteriormente
diminuita in considerazione delle esigenze di prevenzione speciale.
E' appena il caso di rilevare la diversità tra l'enunciazione proposta del
criterio di colpevolezza come base della commisurazione della pena e la formulazione
del progetto Riz (che ricalca la disciplina vigente) e dello stesso schema di
legge-delega Pagliaro (art. 39.1), anche se la distanza fra la impostazione
proposta e quella formulata da Pagliaro si stempera considerando che l'art.
39.2 ammette la operatività dei "fattori oggettivi di aggravamento della pena"
(in quanto tali non ricollegabili alla colpevolezza "solo in quanto riflessi
nella colpevolezza".
Un ulteriore criterio, previsto per ragioni non commisurative in senso stretto
bensì perequative, deve essere individuato per la determinazione della pena
pecuniaria, rispetto alla quale il giudice deve tenere conto delle condizioni
economiche del reo, con facoltà di aumentarla fino al triplo, ovvero di diminuirla
fino ad un terzo, al fine di renderla, rispettivamente, nei limiti del possibile
efficace o non eccessivamente gravosa.
10. Le circostanze del reato
Rilevata l'eccessiva discrezionalità giudiziale
conseguente alla disciplina vigente del calcolo delle circostanze, la Commissione
propone:
-
una tendenziale diminuzione delle circostanze del reato previste nella parte
speciale del codice penale, la rivalutazione delle circostanze ad effetto speciale
(con particolare attenzione alle ricadute della loro previsione sulla prescrizione),
l'eventuale eliminazione delle circostanze attenuanti generiche;
-
il superamento del sistema vigente di calcolo delle circostanze eterogenee:
conformemente alle indicazioni dello schema di legge-delega Pagliaro si ritiene
che tutte le circostanze debbano essere valutate, e che si debba prevedere un'apposita
disciplina per il computo delle circostanze che determinano effetti diversi
sulla pena;
-
la valorizzazione della recidiva, con la eliminazione della sua facoltatività,
anche se accompagnata da un ridimensionamento dei suoi effetti e da una eventuale
cancellazione della recidiva generica.
11. La disciplina sanzionatoria del concorso di reati
Rilevata la eccessiva
discrezionalità giudiziale conseguente alla disciplina vigente del cumulo giuridico
delle pene in tema di concorso formale dei reati e di continuazione nel reato,
che determina fra l'altro fenomeni di aumenti insignificanti per i reati ulteriori
alla infrazione più grave, la maggioranza della Commissione ritiene che il regime
vigente debba essere modificato fissando un limite minimo di aumento per
ciascun reato in concorso (es., un quarto della pena edittale minima, o della
pena da irrogare in concreto); fermi restando il limite massimo del triplo della
pena per la violazione più grave, ed i limiti generali delle singole sanzioni.
Con particolare riferimento alla materia della continuazione nel reato la maggioranza
della Commissione suggerisce altresì di formalizzare i fatti interruttivi della
medesimezza del disegno criminoso: ad esempio, considerando interruttiva l'emissione
di un provvedimento del giudice (rinvio a giudizio, condanna di primo grado,
ecc.), salva la possibilità che l'interessato dimostri che la mancata conoscenza
non dipende da suo dolo o colpa.
Considerando le incertezze giurisprudenziali emerse anche di recente, la maggioranza
della Commissione ritiene infine opportuno che il legislatore chiarisca che
il cumulo giuridico debba essere effettuato:
-
individuando la violazione più grave in concreto,
-
operando gli aumenti di pena in termini omogenei
alla previsione del legislatore (se il reato più grave è punito con pena detentiva,
l'aumento per il reato satellite deve essere effettuato con riferimento alla
pena, es. pecuniaria, prevista per quest'ultimo).
Secondo il parere di alcuni componenti della Commissione occorrerebbe invece
superare l'attuale disciplina della continuazione generalizzando il cumulo giuridico
secondo l'orientamento che vanifica il contenuto del requisito della medesimezza
del disegno criminoso, e che, pur fra contraddizioni, sembra ormai saldamente
radicato nella giurisprudenza. Occorrerebbe cioè tenere presente che la più
elevata articolazione delle sanzioni penali spinge necessariamente verso sistemi
di cumulo giuridico che rimettono a criteri normativi o alla valutazione del
giudice la composizione complessiva della pluralità delle sanzioni da irrogare;
e che si dovrebbe comunque prevedere -come avviene attualmente in sede di cumulo-
l'aggiornamento della sanzione complessiva in considerazione dell'eventuale
sopravvenire di nuove condanne, nonché prevedere un limite alla confluenza di
nuove condanne nel cumulo precedentemente effettuato.
12. Cenni sulla revisione della disciplina delle misure alternative
alla reclusione
In breve:
-
l'affidamento in prova al servizio sociale
dovrebbe recuperare la sua funzione originaria, ed essere circoscritto a pene
non superiori a tre anni (o alla minor pena coerente con l'abbassamento complessivo
del livello sanzionatorio) inflitte con la sentenza di condanna, e non coinvolgere
residui di pene più elevate (nei confronti delle quali opererebbe la liberazione
condizionale);
-
la liberazione condizionale (con contenuti arricchiti) dovrebbe risultare
applicabile nei confronti di residui di pena non superiori ad un certo limite
(attualmente individuato in cinque anni, ma che dovrebbe essere rapportato al
nuovo livello sanzionatorio complessivo);
-
la semilibertà dovrebbe costituire misura propedeutica alla liberazione
condizionale o un'alternativa all'affidamento in prova; dovrebbe essere mantenuto
il limite della espiazione di almeno della metà della pena, con un residuo non
superiore a sette anni (o meno, a seconda delle scelte concretamente effettuate
in tema di liberazione condizionale);
-
la liberazione anticipata (che non costituisce una vera misura 'alternativa')
dovrebbe continuare a svolgere il ruolo attuale, ma dovrebbe essere ridimensionata
sul piano degli effetti (es., trenta giorni di riduzione per semestre).
-
13. Incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa
La Commissione
ritiene che in un sistema in cui la reazione penale è strumento di tutela sostanziale
dei beni giuridici, e non di astratta retribuzione, meriti di essere considerata
la possibilità di modulare le risposte anche in funzione di comportamenti successivi
al reato, in modo da stimolare con la previsione di un trattamento più favorevole
la reintegrazione di interessi non ancora irrimediabilmente pregiudicati.
Le tecniche utilizzabili per raggiungere questo scopo sono individuabili nella
previsione di circostanze attenuanti ovvero di non punibilità, configurate in
modo tale da assicurare comunque un equilibrio con le esigenze di prevenzione
generale. Nell'ambito delle circostanze attenuanti il margine di manovra appare
più ampio, poiché si può trovare spazio per un rilievo attenuante di condotte
risarcitorie o riparatorie al di sopra della misura normale senza che la tenuta
generalpreventiva del sistema risulti vanificata a causa dell'esito comunque
sanzionatorio. Per quanto concerne la previsione di eventuali cause di non punibilità
l'esclusione della pena potrebbe essere collegata, senza porre a rischio la
tenuta generalpreventiva del sistema, a condotte di riparazione dell'offesa
realizzate entro soglie temporali che assicurino una reintegrazione 'utile',
perché tempestiva, dell'interesse offeso dal reato, e consentano di ravvisare
nella condotta riparatoria un ritorno all'osservanza del precetto violato.
Questa impostazione pone comunque un rilevante problema di raccordo con la
disciplina del recesso attivo, che oggi, e nello schema di legge-delega Pagliaro,
consente una mera diminuzione di pena. Come già rilevato (parte VII, n. 2),
la Commissione non è tuttavia ostile ad ammettere la non punibilità in caso
di recesso attivo, considerando che tale opzione, oltre ad avvicinare il nostro
sistema a quelli europei, verrebbe a privare del loro carattere eccezionale
le cause di non punibilità previste dal codice per condotte successive all'offesa
del bene e in grado di consentire una piena neutralizzazione di essa (ritrattazione
nella falsa testimonianza, impedimento della contraffazione, alterazione di
monete, ecc., ritiro dalla radunata sediziosa). Accogliendo la soluzione della non punibilità del recesso attivo, diviene d'altronde
possibile riflettere sulla praticabilità del modello adottato dal § 167 del
codice austriaco, che sotto la denominazione di "ravvedimento operoso" esclude
la punibilità di numerosi reati contro il patrimonio (furto, sottrazione di
energie, infedeltà, appropriazione, truffa, usura, ecc.) se il reo, prima che
l'autorità abbia avuto notizia del fatto, volontariamente risarcisce interamente
il danno da lui cagionato o si obbliga contrattualmente a risarcirlo entro un
determinato periodo di tempo.
Per le condotte riparatorie 'tardive' (successive alla scoperta della responsabilità)
la loro rilevanza può essere ammessa nei limiti di una attenuante qualificata
o come premessa per l'applicazione di istituti che conducano alla non punizione
con qualche ulteriore costo. Con riferimento a queste condizioni ulteriori un
modello è offerto dal codice portoghese, il cui art. 74 stabilisce che per i
reati meno gravi il giudice può dichiarare il reo colpevole, senza applicare
la pena, se
-
l'illiceità del fatto e la colpevolezza appaiono diminuite,
-
il danno è stato risarcito,
-
alla dispensa dalla pena non si oppongono ragioni
di prevenzione. Nella medesima prospettiva si può utilizzare la estensione dei
reati procedibili a querela (es., rendendo procedibili a querela tutti i furti
eccettuati quelli realizzati con violenza o minaccia o in danno dello Stato
o di un altro ente pubblico).
14. Astensione dalla pena
La maggioranza della Commissione non ha giudicato
opportuno introdurre istituti che consentano di astenersi dall'infliggere la
pena in casi in cui le conseguenze del fatto commesso abbiano gravemente colpito
lo stesso soggetto agente, a cagione dell'eccessivo scarto dai principi generali
che un istituto siffatto comporterebbe. Alcuni componenti della Commissione
hanno invece sostenuto la opportunità di verificare praticabilità e limiti di
tale istituto, ritenendolo una utile valvola di sicurezza per situazioni-limite.
Una soluzione di questo tipo, introdotta, al di sotto di una certa soglia di
gravità, dal codice penale tedesco, è stata recepita ed ampliata dallo schema
di legge-delega Pagliaro: possibilità di astenersi dall'infliggere la pena,
nei reati colposi, quando il reo abbia subito gli effetti pregiudizievoli del
reato in misura tale da far risultare sproporzionata (in rapporto alla colpevolezza
e alle esigenze di prevenzione speciale) l'applicazione della pena (es., incidente
causato a persona cara), e nei delitti dolosi quando gli effetti dannosi si
siano verificati soltanto a carico del reo.
15. Cenni sulla prescrizione
La durata della prescrizione dovrà essere
commisurata al nuovo livello ed alla nuova tipologia delle sanzioni. Attenzione
dovrà essere prestata al problema della individuazione dei reati imprescrittibili,
problema sul quale in Commissione sono emerse posizioni diverse, rispettivamente
estensive e restrittive dell'area della imprescrittibilità.
16. La funzione rieducativa della pena
Si tratta di principio fondamentale,
che deve connotare la intera disciplina della pena, nella fase della sua previsione
generale astratta come in quella della sua commisurazione ed esecuzione. Uno
dei commissari avvocati ha insistito, giustamente, perché si prestasse particolare
attenzione alla realizzazione di questo principio. La Commissione, pur essendo
concorde nel ritenere la sua fondamentale importanza, non giudica di dovere
entrare nei dettagli della sua realizzazione in un documento riassuntivo delle
linee di tendenza del nuovo codice penale, ritenendo implicito che il principio
in questione dovrà trovare concretamente la più estesa applicazione. Tiene comunque
a sottolineare che le proposte formulate sono ampiamente ispirate all'idea della
prevenzione speciale: basti pensare alla ampia utilizzazione di pene (anche
principali) diverse dalla reclusione, a quanto rilevato in materia di criteri
di commisurazione in concreto della pena (dove il principio di rieducazione
costituisce parametro fondamentale di mitigazione della pena determinata in
ragione della colpevolezza per il fatto), al mantenimento (e potenziamento)
di sanzioni alternative specificamente finalizzate alla esigenza della rieducazione.
Nel concludere la parte relativa al sistema sanzionatorio si deve dare altresì
atto che due magistrati componenti della Commissione hanno sostenuto che la
limitazione della discrezionalità giudiziale che scaturisce dal complesso delle
innovazioni proposte condurrebbe, a loro avviso, ad un eccessivo irrigidimento
del sistema delle pene, e che alcuni commissari hanno manifestato qualche preoccupazione
in ordine all'eccessiva durezza che scaturirebbe dalle eccezioni previste all'operare
della sospensione condizionale della pena e dalla previsione di onerose condizioni
per la applicazione di tale istituto.
IX.
L'imputabilità.
1. Necessità di mantenere la distinzione fra soggetti imputabili e non
Pur nella consapevolezza degli aspetti di crisi dell'istituto dell'imputabilità,
il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili appare
irrinunciabile per un diritto penale garantista.
Definita (a livello formale) l'imputabilità come assoggettabilità a pena, i
problemi di disciplina attengono, innanzi tutto, alla individuazione di categorie
di soggetti nei cui confronti un rimprovero di colpevolezza non può essere mosso
per le loro condizioni soggettive di incapacità, e nei cui confronti non ha
senso l'inflizione di una pena commisurata alla colpevolezza. La rilevazione di situazioni soggettive di 'incapacità di colpevolezza' è una
costante degli ordinamenti penali moderni, con soluzioni, peraltro, anche fortemente
differenziate. Negli anni '80 è stata avanzata la proposta di abolire la non
imputabilità degli infermi di mente con l'intento di riconoscere la loro pari
dignità nello spirito della riforma avviata dalla legge 180/78; anche tale proposta,
peraltro, recupera momenti di rilevanza dell'infermità quale criterio di differenziazione
nell'esecuzione della pena, che per l'infermo si vuole abbia un contenuto terapeutico.
La idea di affermare in via generale l'imputabilità dell'infermo di mente si
rivela in realtà una scelta ideologica: la previsione di una differenziazione
di situazioni soggettive e di corrispondenti modelli differenziati di risposta
non può essere eliminata.
2. Questioni d i tecnica legislativa
L'effetto delle condizioni inabilitanti,
cui si ricollega la non imputabilità, è definito sia nel vigente codice che
nelle proposte Pagliaro e Riz come 'incapacità di intendere e di volere'. Resta
nel vago l'oggetto dell'intendere e del volere, che invece è esplicitato da
formulazioni più 'mirate' di altri codici. La formula del codice tedesco, ripresa
da codici più recenti (spagnolo e portoghese) è incentrata sul nesso fra incapacità
e fatto commesso: incapacità di comprendere il contenuto illecito del fatto,
e di agire in conformità a tale rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione
raggiungibile in sede di interpretazione, appare opportuno esplicitarla nel
testo del codice.
Per quanto concerne l'individuazione delle condizioni produttive di incapacità,
sul piano della tecnica legislativa si prospettano le possibilità di una disciplina
fondata sulla clausola generale dell'incapacità e/o di una tipizzazione di specifiche
fattispecie di esclusione dell'imputabilità. Il codice Rocco fa uso di entrambe. Per la scelta del tipo di disciplina, vengono in rilievo esigenze in qualche
misura divergenti.
Da un lato, le esigenze di certezza appaiono meglio soddisfatte da una disciplina
che -presupposta in via normale l'imputabilità dell'adulto- indichi le condizioni
nelle quali essa sia esclusa (il che impegna il legislatore ad una tipizzazione
delle cause di esclusione dell'imputabilità, atta a vincolare l'interprete più
di quanto non possano fare, di per sé sole, le clausole generali della capacità
o incapacità). D'altra parte, le indicazioni legislative dovrebbero essere,
per quanto possibile, esaustive rispetto all'esigenza di ricomprendere le diverse
situazioni che, alla luce del sapere scientifico e di criteri di valutazione
storicamente acquisiti, appaiono incompatibili con la possibilità d'un rimprovero
di colpevolezza. A tal fine appare necessario utilizzare concetti 'aperti',
che nel rispetto del principio di legalità definiscano in modo chiaro i parametri
di riferimento, consentendo un adeguamento al mutare delle conoscenze scientifiche.
3. Infermità di mente ed altre anomalie
Il primo e fondamentale campo
problematico, per la disciplina della (non) imputabilità, è quello delle situazioni
soggettive di 'non normalità psichica'. E' qui che in dottrina si è ravvisata
una crisi dell'istituto dell'imputabilità, per il venire meno di antiche (illusorie)
certezze (il paradigma medico-nosografico) nelle scienze che si occupano della
psiche, dell'infermità e del disagio psichico. Mentre il legislatore credeva
di poter trarre indicazioni univoche, le applicazioni del diritto riflettono
invece le incertezze della scienza psichiatrica attorno alla malattia di mente,
al punto che si è potuto rilevare che il concetto di infermità di mente, utilizzato
dal codice, sarebbe divenuto privo di connotazione semantica, essendo diventato
inconsistente il parametro esterno di riferimento.
Quanto ai contenuti, la linea di tendenza nelle applicazioni giurisprudenziali
è stata, non senza incertezze, verso un cauto allargamento delle condizioni
rilevanti ai fini dell'esclusione (o riduzione) dell'imputabilità: soluzioni
diverse da quelle 'pensate' dal legislatore decenni addietro, ma consentite
dalla 'apertura' dei concetti di malattia o infermità. Allo stesso modo i codici
penali più recenti (spagnolo, portoghese) hanno introdotto formule che allargano
i presupposti della non imputabilità, elencando accanto alla infermità psichica
altre condizioni ritenute idonee ad incidere sulla capacità di intendere e di
volere. Le proposte di riforma del codice italiano, pur con modalità diverse,
hanno imboccato la medesima strada. Lo schema Pagliaro aggiunge all'infermità
il riferimento ad 'altra anomalia', e introduce la clausola di chiusura della
'altra causa'. Il disegno Riz mantiene una elencazione tassativa di cause di
esclusione, allargata alla 'gravissima anomalia psichica'. Entrambi aboliscono
la proclamata (art. 90) irrilevanza, ai fini dell'imputabilità, degli stati
emotivi e passionali: è un'indicazione di apertura a soluzioni diverse, peraltro
già prospettate nei casi in cui lo stato emotivo abnorme possa ritenersi radicato
in una situazione patologica.Nei dibattiti sulle proposte di riforma è emerso
un orientamento critico verso l'impostazione del progetto Pagliaro che, dopo
una elencazione formalmente tassativa di cause di esclusione dell'imputabilità,
la rende onnicomprensiva con la previsione di chiusura di 'altra causa' tale
da escludere la capacità di intendere e di volere. Ad avviso della Commissione
l'idea guida deve essere l'adeguamento al sapere scientifico, il che fa propendere
per un approccio legislativo cauto, che non allarghi, ma nemmeno blocchi in
modo troppo rigido le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità.
Esclusa l'adozione di clausole generali o troppo generiche, il testo legislativo
dovrebbe utilizzare concetti in grado di rendere controllabile l'adeguamento
ai saperi scientifici di riferimento.
Secondo alcuni studiosi potrebbe anche ritenersi sufficiente la formula del
codice vigente, incentrata sul concetto di infermità, alla luce dell'evoluzione
giurisprudenziale cui essa ha dato luogo. La Commissione ritiene tuttavia preferibile
un chiarimento legislativo, mediante l'introduzione, accanto alla infermità,
della formula della grave anomalia psichica: ciò renderebbe più sicura la strada
per una possibile rilevanza quali cause di esclusione dell'imputabilità di situazioni
oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati momentanei di profondo
disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero
di colpevolezza.
Alla preoccupazione che ciò possa indebolire la 'tenuta' generalpreventiva
del sistema penale si può rispondere che nessuna patente di irresponsabilità
si vuole dare automaticamente a realtà in cui sia mancato un controllo esigibile
di impulsi emotivi: le situazioni di possibile rilevanza ai fini dell'imputabilità
sono situazioni riconoscibilmente abnormi.
4. Ubriachezza e intossicazione da stupefacenti
La disciplina vigente
è caratterizzata dall'imputabilità del fatto commesso in stato di ubriachezza
o intossicazione da stupefacenti non accidentale, che abbia provocato una incapacità
piena, e dalla rilevanza, come causa di esclusione dell'imputabilità, dell'intossicazione
cronica.
La disciplina dell'ubriachezza non accidentale è oggetto di critica da parte
della dottrina, che vi ravvisa una finzione di imputabilità contrastante con
il principio di colpevolezza, e dettata da preoccupazioni di prevenzione generale
e speciale che si ritiene potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Una diversa
posizione era stata espressa nella lontana sentenza (n. 33 del 1970) con la
quale la Corte Costituzionale ha respinto questioni di legittimità costituzionale
dell'art.92 c. p., sollevate con rif. agli art. 3 e 27 Cost., ritenendo la norma
in esame non irragionevole in relazione al fine. Secondo la Corte, "l'ubriaco,
che abbia commesso un reato, risponde per una condotta antidoverosa, cioè per
essersi posto volontariamente o colposamente in condizione di commetterlo";
il titolo della colpevolezza, peraltro, sarebbe da individuare, in conformità
alla giurisprudenza corrente, "sulla base dell'atteggiamento psicologico assunto
dall'ubriaco al momento nel quale commise il fatto".
Questa motivazione evidenzia i punti di frizione con il principio di colpevolezza:
da un lato, viene asserita l'antidoverosità dell'ubriacarsi, nella cui natura
volontaria o colposa sarebbe da ravvisare il fondamento della responsabilità;
dall'altro, il coefficiente psicologico che sorregge il fatto commesso è assunto
a 'titolo della colpevolezza', con conseguente possibilità di affermare un 'titolo
di colpevolezza' più grave di quello ricollegabile al fatto dell'ubriacarsi.
La struttura di una simile disciplina non è quella della colpevolezza per il
fatto, ma quella del versari in re illicita. Concordemente condivisa la necessità di una riforma, le soluzioni proposte
sono diverse.
Lo schema Pagliaro suggerisce che il soggetto "risponda per dolo se, quando
si è posto nello stato di incapacità, ha agito almeno con dolo eventuale rispetto
al fatto di reato, oppure per colpa, se il fatto era da lui, in tale momento,
concretamente prevedibile come conseguenza di tale stato". Questa proposta,
intesa a recuperare il rispetto del principio di colpevolezza, è stata anch'essa
sottoposta a critica proprio con riferimento a tale principio: si tratterebbe,
si è detto, di una variante del modello del versari in re illicita, che
apre problemi probatori le cui soluzioni finirebbero per seguire schemi presuntivi.
Una soluzione del tutto diversa è quella, adottata dal codice tedesco, della
costruzione di una fattispecie di parte speciale che incrimini il mettersi in
stato di incapacità, condizionatamente alla commissione di un reato e con pena
di una certa consistenza, che però non superi quella prevista per il reato commesso.
Tale modello propone uno schema formale che non corrisponde alla sostanza della
disciplina. Solo nella forma la condotta incriminata è il mettersi in stato
di incapacità, posto che la punizione è condizionata e commisurata al reato
commesso. Ma questo elemento, decisivo nel fondare e delimitare la reazione
penale, è configurato come condizione obiettiva di punibilità: una frode delle
etichette, che rende solo apparente il rispetto del principio di colpevolezza.
Chi proponga di introdurre disposizioni specifiche sui reati commessi in stato
di ubriachezza ha l'onere di rispondere a due questioni: trattandosi di derogare
a principi generali, si pongono questioni di legittimità delle eventuali deroghe
e di loro necessità o (quanto meno) opportunità. Il problema reale resta in
ogni caso quello che il codice del 1930 ha (bene o male) risolto in modo non
ipocrita con le 'finzioni' di imputabilità: se, e a quali condizioni, prevedere
una responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità, e perciò
commisurata a quel fatto.
Quanto ad eventuali soluzioni specifiche, prima di pensare a soluzioni che
estendano la responsabilità penale, occorre saggiare la portata dei principi
generali rispetto ai quali si pone la questione dell'eventuale deroga. Schematizzando,
dai principi generali deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale
per il fatto commesso in stato di incapacità piena:
-
quando l'incapacità sia stata preordinata (e il fatto sia poi stato commesso nel modo preordinato);
-
quando l'essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa
essere considerato infrazione di una regola cautelare rispetto al fatto poi
realizzato, e questo sia stato realizzato (volontariamente o con obbiettiva
violazione di regole di buon comportamento) 'a causa' dello stato di procurata
incapacità. In tali ipotesi, appare possibile considerare il mettersi in stato
di incapacità come condotta causale e colpevole rispetto al fatto poi realizzato.
Nell'incapacità preordinata il titolo della colpevolezza dovrà essere individuata
nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi l'imputazione dovrà avvenire
per colpa, anche quando il fatto sia stato poi (nello stato di incapacità piena)
commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell'inosservanza
della regola cautelare del 'non assumere alcool o droghe' in quella data situazione
'di pericolo'.
Relativamente all'ipotesi colposa, si pongono le seguenti questioni:
-
se il mettersi in stato di incapacità possa essere considerato dal legislatore,
al livello del 'pericolo astratto', come inosservante in ogni caso di una regola
cautelare;
-
se la pena prevista per i reati colposi si possa ritenere adeguata
nei casi in cui il fatto sia stato realizzato volontariamente, sia pure in condizioni
di incapacità piena;
-
se occorra prevedere estensione di responsabilità anche
per delitti dei quali sia prevista solo la forma dolosa.
Quanto al punto sub a), ravvisare sempre la violazione di una regola cautelare
non è né ragionevole né supportato da indicazioni di politica criminale; vi
sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa è possibile e plausibile:
situazioni in cui taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto
'pericoloso' in relazione alla attività da svolgere (es., ubriacarsi prima di
mettersi alla guida di veicoli). Quanto al punto sub b), rispetto a fatti aggressivi
commessi volontariamente dall'incapace non accidentale (ma rimproverabili a
titolo di colpa), appare giustificata la previsione di un aumento di pena commisurato
alla pena edittale per il delitto colposo. Quanto al punto sub c) potrebbe essere
introdotta una disciplina ad hoc, con la previsione di pene meno severe di quelle
previste per la realizzazione propriamente dolosa.
L'eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti
su cui poggia la vigente disciplina dell'ubriachezza o intossicazione abituale,
e rende superflua una disposizione sull'intossicazione cronica (necessaria invece,
per riaffermarne il rilievo di causa di esclusione dell'imputabilità, ove si
mantenga per l'intossicazione occasionale una disciplina differenziata: così
lo schema Pagliaro). Gli artt. 94 e 95 del codice Rocco, che dettano una disciplina
differenziata dell'intossicazione abituale e di quella cronica, sono stati oggetto
di una questione di legittimità costituzionale, centrata sulla ritenuta impossibilità
di distinguere le due ipotesi, e sulla conseguente natura discriminatoria delle
differenze di trattamento. La Corte Costituzionale, nel rigettare la questione
(sent. n. 114/98), ha esplicitamente richiamato gli auspici di una profonda
revisione della materia, e sottolineato come anche le proposte di riforma mantengano
l'ipotesi della cronica intossicazione come causa di non imputabilità ulteriore
e autonoma rispetto all'infermità.
Al di là delle incertezze circa l'individuazione dei casi in cui l'intossicazione
ha inciso sulla capacità del soggetto, l'eventuale incapacità per intossicazione
cronica esclude comunque una responsabilità collegata alla capacità rilevata
al momento dell'assunzione di alcool o stupefacenti.
5. Minorenni
Le proposte di riforma Pagliaro e Riz mantengono lo schema
attuale, che fissa la soglia minima dell'imputabilità ai 14 anni, e fra i 14
e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di
presunzioni in un senso o nell'altro. Il disegno Riz specifica che la non imputabilità
dell'infradiciottenne dipende da accertata immaturità. Sulla soglia minima dell'imputabilità, nei codici più recenti si registrano
soluzioni diverse: 14 anni nel codice tedesco; 16 anni in quello portoghese;
per il codice spagnolo, i minori di 18 anni non sono penalmente responsabili
a norma del codice stesso, salvo quanto disponga la legge che disciplina la
responsabilità dei minorenni.
Il sistema del codice Rocco intende essere un contemperamento fra esigenze
di certezza, meglio soddisfatte dalla fissazione di soglie di età, ed esigenze
di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta
più problematica. Pur nella consapevolezza di quanto di arbitrario v'è nella
fissazione di soglie d'età, e della vaghezza dei criteri per il giudizio 'in
concreto', non si ravvisano indicazioni a favore di soluzioni diverse.
6. Trattamento dei soggetti non imputabili
Il riconoscimento di situazioni
di non imputabilità lascia aperto il problema della applicazione di eventuali
misure di natura non punitiva. La questione non è di etichette, ma di sostanza:
misure per i 'non imputabili', comunque denominate, non possono legittimamente
essere strutturate secondo criteri 'retributivi', né in vista di fini di prevenzione
generale. Resta uno spazio legittimo per misure specialpreventive: e di questo
tipo sono (pretendono di essere) le misure previste dal codice Rocco e da altri
codici anche recenti.
La denominazione in uso in Italia evidenzia la finalità 'di sicurezza'; altre
denominazioni aggiungono quella del 'miglioramento', peraltro implicita nel
carattere riabilitativo che dovrebbe caratterizzare i contenuti delle misure
anche nel sistema del codice Rocco. In questo sistema le misure di sicurezza
erano pensate come risposta generale al fatto del non imputabile, affidata alle
istituzioni di giustizia penale, su un presupposto (la pericolosità sociale)
largamente presuntivo. Venute meno le presunzioni di pericolosità, ritenuta
necessaria la eliminazione degli istituti connessi previsti dal codice Rocco,
resta aperta la questione se e quale spazio sia opportuno lasciare ad istituti
'di giustizia criminale' nei confronti delle diverse situazioni tipiche di incapacità
(minore età, infermità di mente, altre eventuali situazioni di handicap).
L'indicazione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al
minimo strettamente indispensabile: extrema ratio rispetto agli istituti orientati
alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la legislazione
più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla legge 180/78; in
ambito minorile, i nuovi istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile,
DPR 448/88). La risposta al 'bisogno di trattamento' del non imputabile dovrebbe
competere cioè in prima istanza ad istituzioni diverse da quelle della giustizia
penale. Escluso il ricorso alla pena, la giustizia 'penale' dovrebbe occuparsi
dei non imputabili eccezionalmente, quando si ritenga assolutamente necessario
il ricorso a forme di coercizione personale.
Appunto nella prospettiva di una restrizione dei presupposti delle misure di
sicurezza si muove lo schema Pagliaro, sia nel proporre un criterio restrittivo
di pericolosità sociale (art. 36, n. 1), sia nella preferenza per la misura non
detentiva. Senz'altro opportuna è la precisazione che il reato commesso può
giustificare la misura a condizione che sia "manifestazione della causa di non
imputabilità". Lo stesso dovrebbe aggiungersi con riferimento ai delitti temuti:
anch'essi temuti in quanto probabile manifestazione del protrarsi (o ripetersi)
dello stato di incapacità. Quanto alla 'particolare gravità' dei fatti (così
lo schema di delega), è un criterio che dovrà essere specificato dal codice
con l'individuazione di una cerchia selezionata di delitti, a seguito dei quali
e per la cui prevenzione appaia congrua la possibilità di disporre una misura
di sicurezza. Con riferimento ai minori, il DPR 448/88 già contiene una specificazione dei
delitti, in relazione ai quali sia consentito applicare una misura di sicurezza,
in via definitiva (art. 36) o provvisoria (art. 37). Analoga specificazione
dovrà essere introdotta anche nei confronti delle altre categorie di soggetti
incapaci, avendo in particolare riguardo ai delitti 'di aggressione' contro
la incolumità o la libertà personale e ai delitti contro il patrimonio di una
certa gravità.
E' diffusa in dottrina l'istanza di sostituire al criterio della pericolosità
(ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del 'bisogno di trattamento'.
Tale proposta merita accoglimento, sia sul piano terminologico (evitando così
il messaggio stigmatizzante in termini di 'pericolosità), sia su quello sostanziale
della determinazione dei presupposti e del contenuto delle misure: ciascuna
costruita e da applicare come risposta ad un particolare e comprovato bisogno
di trattamento (terapeutico, educativo, disintossicante, e simili).
L'inserzione dell'orizzonte penalistico nella prospettiva del trattamento deve
tenere comunque conto della nuova prospettiva conseguente, fra l'altro, alla
ridefinizione dei presupposti di applicazione della 'misura/riabilitazione':
nel senso che il trattamento potrebbero anche essere tendenzialmente affidato,
in assenza di controindicazioni, ad istituti di riabilitazione non specificamente
connotati in senso penalistico (in questo senso, ad esempio, la conservazione
di misure di sicurezza per infermi di mente non dovrebbe significare necessariamente
il mantenimento dell'ospedale psichiatrico o di altri luoghi di trattamento
separati da quelli della 'normale' assistenza psichiatrica).
Per quanto concerne le regole 'di garanzia', modello idoneo appare quello dello
schema Pagliaro:
-
accertamento concreto del bisogno del trattamento al momento
del fatto e al momento dell'applicazione della misura; il nesso con tipologie
circoscritte di delitti dovrebbe dare al giudizio del bisogno del trattamento,
il cui fondamento empirico è molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio;
-
riesame periodico di tale bisogno; piuttosto che prevedere un termine rigido,
sembrerebbe preferibile prevedere che il termine sia fissato di volta in volta
dal giudice entro un limite massimo, fermo in ogni caso il riesame anche prima
della scadenza quando la ragione della misura appaia venuta meno;
-
cessazione della misura quando sia accertata la cessazione del bisogno di trattamento;
nel caso di infermità psichica o di intossicazione cronica da alcool o stupefacenti,
cessazione della misura quando sia cessato lo stato di incapacità del quale
il delitto commesso sia stata manifestazione.
Esigenze di proporzione potrebbero portare ad introdurre un termine massimo
per le misure detentive e non detentive, che potrebbe essere parametrato ai
limiti edittali di pena per il commesso delitto. Una misura più prolungata (indeterminata
nel massimo?) potrebbe ritenersi non sproporzionata soltanto in presenza di
un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi
contro la vita o l'incolumità delle persone.
7. Mantenimento di fattispecie di capacità ridotta?
Le proposte di
riforma del codice italiano mantengono ipotesi di ridotta capacità, individuandone
i presupposti in situazioni vicine a quelle che danno luogo ad incapacità piena,
e distinguendole poi in ragione della diversa incidenza sulla capacità d'intendere
e di volere (esclusione totale o grande riduzione).
La questione cruciale concernente i casi di c.d. capacità ridotta è se, entro
la cerchia dei soggetti imputabili, vi siano categorie per le quali appaia più
adeguato un trattamento differenziato, in relazione a determinati deficit di
capacità. La risposta affermativa appare plausibile, con riferimento a situazioni
soggettive abnormi non al punto da dare luogo a incapacità piena. E ragionevole
appare la tipizzazione usuale di tali situazioni, con riferimento agli stessi
criteri adottati per definire le situazioni di non imputabilità, ed all'effetto,
che ne sia derivato, di sensibile riduzione della capacità di intendere e/o
di volere. In tali ipotesi, alla capacità ridotta corrisponde una minore colpevolezza
e/o un minore bisogno sociale di reazione, e/o l'esigenza di trattamenti differenziati,
orientati in chiave specialpreventiva (terapeutica, riabilitativa, rieducativa).
Escluso per gli imputabili il 'doppio binario' (pena più misura di sicurezza),
occorre delineare un modello unitario di risposta che, per essere rivolto a
soggetti imputabili, sarà formalmente incentrato sulla previsione di una pena,
ma dovrà assumere su di sé le funzioni terapeutiche, riabilitative, rieducative,
ed essere fondamentalmente strutturato in vista del migliore perseguimento degli
obiettivi di prevenzione speciale.
Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del
sistema potrebbero essere i seguenti:
-
previsione di una pena diminuita nel
massimo e nel minimo edittale (ciò appare coerente con l'esigenza di proporzionare
la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità);
-
previsione di modalità di esecuzione della pena orientate alla riabilitazione
del condannato (terapia, disintossicazione, e simili); possibilità, in caso
di successo del trattamento, di disporre la semilibertà o la liberazione condizionale
anche in un momento anticipato rispetto alla regola generale (il periodo minimo
di pena espiata andrà stabilito in coerenza con il sistema complessivo);
-
per pene brevi, fino a x anni (4 anni?), previsione di misure sostitutive di
carattere terapeutico o riabilitativo, subordinatamente al consenso del condannato,
sul modello di quanto attualmente previsto dal TU sugli stupefacenti,
art. 90s. (regole possibili: in caso di esito positivo del trattamento, estinzione
del residuo di pena da espiare; ove possa essere concessa la sospensione condizionale
della pena, e un trattamento terapeutico o riabilitativo appaia opportuno, subordinare
il beneficio alla accettazione di un programma di trattamento in libertà; quando
un trattamento terapeutico o riabilitativo sia stato disposto come misura sostitutiva
della pena, prevedere la revoca della misura nel caso in cui il condannato si
sottragga in modo non irrilevante agli impegni relativi al trattamento stesso);
-
una parte della Commissione ha altresì suggerito la possibilità di pronunciare
sentenza di condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità
del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o per essere venute meno le
condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione
generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell'autore
del fatto.
Nei confronti dei minori imputabili, si pongono esigenze analoghe, legate alla
minore colpevolezza e alla priorità della prevenzione speciale. Senz'altro giustificata
la previsione di una diminuzione di pena, la questione fondamentale è individuare
le misure entro le quali il giudice può scegliere quella più adeguata, in una
prospettiva che, pur presupponendo il rimprovero di colpevolezza, nella scelta
delle risposte sia esclusivamente orientata all'obiettivo della 'rieducazione'
(meglio, educazione) del minore.
Sotto questo aspetto, la c.d. procedura penale minorile (DPR n. 448/98) ha
introdotto significative novità di diritto sostanziale: l'istituto del non luogo
a procedere per irrilevanza del fatto, "quando l'ulteriore corso del procedimento
pregiudica le esigenze educative del minorenne", e, soprattutto, la messa alla
prova, che può essere disposta per qualsivoglia reato, anche il più grave, in
presenza di idonee indicazioni. Si tratta di soluzioni molto 'spinte', che danno
al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata
dalla finalità rieducativa. In sede di riforma si potrebbero affrontare prospettive
di razionalizzazione e di coordinamento fra i diversi istituti previsti dal
codice penale e dal DPR 448, e di cauta espansione (con restrizioni atte a salvaguardare
irrinunciabili esigenze generalpreventive) nei confronti di 'giovani adulti'
dell'ambito di applicazione di istituti di diritto penale minorile.
X. La
responsabilita' delle persone giuridiche
1. Il 25 marzo 1999 è stato approvato dalla Camera in prima lettura
il DDL governativo di ratifica della Convenzione sulla lotta contro la corruzione
internazionale, che contiene (art. 6) una delega al Governo per la disciplina
della responsabilità delle persone giuridiche, relativamente ai reati di cui
alla legge di ratifica (concussione e corruzione). Il disegno è ora all'esame
del Senato (n. 3915S). Nel prendere atto della scelta allo stato prefigurata
a favore di una responsabilità 'non penale', si deve rilevare che gli istituti
dei quali si prospetta l'introduzione sono direttamente raccordati al presupposto
penalistico della commissione di reati, ed hanno contenuti corrispondenti a
sanzioni e misure del diritto penale classico, con il quale pongono problemi
di raccordo.
2. L'introduzione di un sistema sanzionatorio (penale o non penale)
per le persone giuridiche in un ambito più ampio di quello imposto dalla ratifica
della convenzione sulla corruzione internazionale appare condizione necessaria
per la razionalizzazione di diversi istituti del diritto penale d'impresa:
-
Misura delle pene pecuniarie. Nel diritto penale d'impresa i limiti
edittali della pena pecuniaria sono pensati in relazione a un patrimonio cospicuo,
tale supponendosi quello dell'impresa. Emblematico l'art. 21 della c.d. l. Merli,
novellata nel 1995: si arriva a massimi edittali di 150 e 250 milioni di lire,
che rispetto alle persone fisiche dei dirigenti o dipendenti appaiono irrealistici.
Di fatto è l'imprenditore (persona fisica o persona giuridica) che di regola
si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente
obbligato ex art. 197 c. p. La previsione di una sanzione pecuniaria per la
persona giuridica consentirebbe una opportuna revisione delle cornici edittali,
aprendo la strada alla possibilità di risposte differenziate: la persona giuridica
titolare dell'impresa potrà essere destinataria di sanzioni pecuniarie anche
(ma non necessariamente) molto elevate, in proporzione alla gravità del fatto
ed al patrimonio dell'ente, mentre le sanzioni pecuniarie (penali) per le persone
fisiche dei funzionari dell'impresa andrebbero opportunamente dimensionate secondo
criteri più realistici e più equi.
-
Oblazione. L'attuale disciplina dell'oblazione 'discrezionale' (art.
162 bis c.p.) è inadeguata rispetto alle situazioni nelle quali è in gioco un'attività
d'impresa. In esse l'eliminazione delle conseguenze del reato può essere deliberata
e realizzata solo dalla persona giuridica che gestisce 1'impresa: il contravventore,
anche se tuttora alle dipendenze dell'ente, non è in grado di farlo (o almeno,
non autonomamente da decisioni e investimenti dell'impresa). Anche il pagamento
dell'oblazione (un costo, di regola, più pesante di quello di una sentenza di
condanna), quando sia agganciato a massimi edittale elevati è possibile solo
alla persona giuridica. E dovrà essere pagato tante volte quanti sono i dipendenti
imputati. In breve: sia con riguardo al costo dell'oblazione, sia con riguardo
alla condizione 'riparatoria', le chiavi del meccanismo delineato dal codice
vigente stanno nelle mani della persona giuridica. e non del 'contravventore'.
Questa incongruenza, che incide negativamente sulla funzionalità dell'istituto,
e può comportare effetti discriminatori, può essere sanata accollando alla persona
giuridica il costo dell'oblazione, e condizionandone l'ammissione a condotte
'riparatorie' che la persona giuridica (e non i1 contravventore) abbia la possibilità
di realizzare. Ovviamente, essendo l'oblazione una facoltà e non un obbligo,
ciò presuppone la previsione d'una sanzione pecuniaria a carico della persona
giuridica. Per gli imputati persone fisiche il meccanismo dell'oblazione potrà
esssere opportunamente alleggerito, sia escludendo la condizione 'riparatoria',
trasferita a carico dell'ente, sia con 1'aggancio a massimi edittali meno severi.
-
Patteggiamento. Nella prassi, 1'accettazione del patteggiamento viene
spesso condizionata a condotte riparatorie o risarcitorie. In presenza di danni,
di regola ingenti, connessi ad illeciti 'd'impresa', tale collegamento fa dipendere
la sorte degli imputati da comportamenti dell'ente. Come nel caso dell'oblazione,
si determina un intreccio ambiguo fra giudizio penale nei confronti di persone
fisiche e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio
nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Questo intreccio,
inaccettabile, potrà essere sciolto senza pregiudizio né per l'interesse dell'imputato
al patteggiamento, né per gli interessi offesi dal reato, se il collegamento
fra sanzione e riparazione potrà essere riferito direttamente alla posizione
della persona giuridica.
-
Confisca e misure interdittive. La possibilità di disporre la confisca
a carico della persona giuridica consentirebbe di inseguire il profitto dell'illecito,
quando beneficiaria ne è stata la persona giuridica, presso il soggetto che
di fatto lo ha conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti
ai quali la responsabilità penale delle persone giuridiche è estranea (codice
austriaco). Del pari, la previsione di eventuali misure interdittive (comunque
denominate) a carico della persona giuridica consentirebbe di incidere, se e
in quanto opportuno, direttamente sul contesto di attività di cui 1'illecito
è espressione.
3. Le osservazioni suesposte evidenziano come 1'introduzione di un sistema
di sanzioni applicate direttamente alle persone giuridiche sia sollecitata da
ragioni interne al sistema penale. Solo 1'introduzione di una responsabilità
(penale o amministrativa) di tali soggetti, di contenuto assimilabile a sanzioni
penali, consente un riassetto razionale delle sanzioni e di altri istituti fondamentali
del diritto penale dell'impresa.
Già attualmente, le persone giuridiche sono coinvolte nel sistema penale come
soggetti civilmente obbligati per il pagamento delle pene pecuniarie e per il
risarcimento del danno. Nella prassi il coinvolgimento va oltre (ipotesi di
oblazione 'condizionata' e di patteggiamento per reati d'impresa). I costi sono
talora assurdamente moltiplicati, in proporzione del numero degli imputati.
Una razionalizzazione del sistema, con 1'introduzione di sanzioni dirette per
la persona giuridica, consentirebbe il superamento di tali distorsioni.
4. Il 'diritto sanzionatorio' per le persone giuridiche dovrebbe coprire
1'intera gamma di situazioni nelle quali l'applicazione di sanzioni in capo
alla persona giuridica, in aggiunta alle sanzioni penali per le persone fisiche,
appaia necessaria per il riequilibrio razionale degli istituti del sistema sanzionatorio.
Fondamentalmente, vengono in rilievo le seguenti situazioni:
-
reati commessi 'a favore', 'nell'interesse', 'per conto' della persona giuridica, da parte
di soggetti competenti a impegnarla (sul modello di quanto previsto nel DDL
di ratifica della convenzione sulla corruzione);
-
reati costituenti inadempimento
di una garanzia dovuta nell'interesse di terzi o della collettività da soggetti
operanti per l'organizzazione.
Al primo gruppo appartengono prevalentemente
delitti dolosi con implicazioni di carattere patrimoniale. Il secondo gruppo
comprende i settori fondamentali del diritto penale d'impresa: ambiente, sicurezza
del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le norme
del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti (es., delitti contro
l'incolumità delle persone) o che possano essere introdotti nel codice penale.
Pare ragionevole considerare come soggetti competenti a impegnare la persona
giuridica (ai fini della applicazione delle sanzioni) non solo coloro che abbiano
la legale rappresentanza, ma tutti coloro che, in forza di poteri attribuiti
nell'ambito dell'organizzazione, siano titolari di una posizione di garanzia
penalmente rilevante, o titolati ad instaurare rapporti con terzi nell'interesse
della persona giuridica.
Per quanto concerne la qualificazione delle sanzioni per le persone giuridiche,
non si ravvisano ostacoli né di legittimità né di opportunità alla formale inserzione
nel sistema penale, che avrebbe anzi l'effetto di assicurare l'applicabilità
di più rigorosi principi garantisti (principi di legalità, di offensività, di
colpevolezza). E' questa la soluzione adottata in recenti riforme di altri paesi
europei (Francia, Norvegia). La questione appare peraltro secondaria rispetto
alla determinazione dei contenuti della disciplina. Il legislatore potrebbe
anche, volendo, adottare un'etichetta neutra, come quella di sanzioni accessorie:
accessorie rispetto ad illeciti che potrebbero avere natura sia penale che amministrativa.
Verrebbe in tal modo evidenziata la specificità di un diritto sanzionatorio
delle persone giuridiche, quasi tertium genus fra il penale e 1'amministrativo,
e insieme additata la sua possibile connessione con l'uno e l'altro sistema.
5. La tipologia delle sanzioni non può che essere quella del DDL 3915S:
sanzioni pecuniarie, confisca, misure interdittive in senso lato. Le questioni
attengono alla loro misura e agli ambiti e presupposti della loro applicazione.
Si tratta di questioni 'di parte speciale', da risolvere nel contesto delle
scelte di incriminazione e sanzionatorie nei singoli settori di intervento.
Come indirizzi di carattere generale possono prospettarsi i seguenti:
-
prevedere limiti massimi edittali per le sanzioni pecuniarie maggiori di quelli previsti
per le persone fisiche, evitando peraltro irrigidimenti eccessivi;
-
prevedere la confisca (obbligatoria) dei profitti che alla persona giuridica siano derivati
dal reato (e che non debbano essere altrimenti oggetto di risarcimento);
-
disciplinare i presupposti e la durata delle eventuali misure interdittive,
prevedendone 1'applicazione come discrezionale, in funzione di concrete esigenze
di prevenzione, e in modo da evitare effetti eccessivamente gravosi anche per
interessi di terzi.
Per ragioni di prevenzione generale e speciale, si segnala la opportunità considerare
come presupposto di forti riduzioni delle sanzioni pecuniarie l'adozione da
parte della persona giuridica di modelli organizzativi ed operativi idonei a
prevenire reati (sistema americano).
Sotto l'aspetto processuale la stretta connessione fra il sistema delle sanzioni
per le persone giuridiche (comunque qualificate) e il sistema penale suggerisce
di ricondurre entro il processo penale anche l'accertamento dei presupposti
della responsabilità della persona giuridica e l'applicazione delle conseguenti
sanzioni. Ne guadagnerebbero non solo gli interessi legati all'efficienza del
modello processuale, ma anche quelli legati al diritto di difesa della persona
giuridica: questa, che già può essere parte del processo penale come responsabile
civile, vi sarebbe parte fin dall'inizio ad ogni effetto, e potrebbe in quella
sede espletare anche in condizioni più favorevoli ogni attività difensiva.
XI.
Struttura del codice ed indicazioni dei beni giuridici
1. La centralità del codice
Un programma di ricodificazione penale
deve porsi il problema della c.d. 'centralità del codice'. Pensare che il codice
possa nei tempi attuali aspirare ad una totale onnicomprensività della materia
significherebbe ignorare le complesse esigenze e dinamiche di produzione del
diritto penale odierno. Rinunciare quantomeno a contenere il fenomeno erosivo
della "decodificazione" significherebbe tuttavia pregiudicare in partenza i
vantaggi che può recare lo strumento codicistico. Di questa esigenza è consapevole
il progetto Pagliaro, che all'art. 2, dedicato ai 'principi di codificazione',
stabilisce che il codice "deve porsi come testo centrale e punto di riferimento
fondamentale dell'intero ordinamento penale, in modo da contrastare il pericolo
di decodificazione". Condiviso l'obbiettivo, occorre verificare quali siano
gli strumenti adeguati allo scopo, tenendo conto che si sconta comunque una
discrepanza tra l'evoluzione delle dinamiche di produzione giuridico-penale
e i rimedi disponibili per assicurare la centralità del codice.
I problemi suscitati dalla c.d. "centralità del codice" sono fondamentalmente
due. Da un lato si tratta di verificare se e quali siano le materie la cui tutela
penale conviene rimanga fuori dal codice; la decisione, implicante valutazioni
ad alto tasso di politicità, deve tenere conto del fatto che quando si opta
per una tutela extra codice è verosimile che la specialità della materia spinga
verso la creazione di un "sottosistema" caratterizzato da un certo grado di
scollamento rispetto ai principi generali di garanzia. Dall'altro occorre valutare
se ed in quale misura è possibile contenere il fenomeno del profluvio delle
leggi speciali che prevedono reati che, senza avere una reale giustificazione
razionale, traggono origine da fattori casuali e producono l'effetto di sovrapporsi
disordinatamente al codice ponendo numerosi problemi, dal concorso di norme
alla tecnica di tipizzazione delle fattispecie, alla stessa conoscibilità delle
disposizioni esistenti. Il primo fenomeno pone problemi di omogeneità dei principi
ispiratori dell'intero sistema penale, con il corollario di possibili cadute
delle garanzie fondamentali, il secondo problemi di razionalità, di certezza
e legalità dell'ordinamento, e di violazione del principio di 'essenzialità'
del diritto penale.
Le soluzioni tecniche proposte per assicurare la centralità del codice, ed
una tendenziale riduzione della legislazione penale speciale, sono, ad oggi,
fondamentalmente tre:
-
il progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, licenziato
il 4 novembre 1997 dalla c.d. Commissione Bicamerale, ha previsto una "riserva
di codice" e "di legge organica", disponendo che "nuove norme penali sono ammesse
solo se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti
organicamente l'intera materia cui si riferiscono" (art. 129.4). Si tratta di
una indicazione dalla efficacia fortissima, perché enunciata a livello costituzionale,
e destinata ad operare verso il futuro vincolando il legislatore con riferimento
alla collocazione delle norme penali;
-
lo schema di legge-delega Pagliaro ha escogitato un interessante meccanismo,
rivolto verso il passato, e diretto a razionalizzare e semplificare il sistema
penale. L'art. 13 delle disposizioni di attuazione dispone che "nei casi in
cui il fatto è preveduto come reato dal codice e da leggi speciali preesistenti",
il legislatore delegato dovrà "stabilire la non applicabilità di queste, salvo
che siano state confermate con leggi delegate, da emanare nel tempo indicato
per l'entrata in vigore del codice medesimo". La relazione al progetto chiarisce
che tale proposta "superando il principio che una legge generale successiva
non deroga alle leggi speciali preesistenti, viene a disporre che le disposizioni
contenute nel codice penale escluderanno l'applicabilità delle leggi penali
incriminatrici preesistenti, anche quando queste ultime siano, per contenuto,
speciali rispetto ad esse. Unico requisito è che le disposizioni del codice
e le disposizioni delle leggi incriminatrici preesistenti prevedano in qualche
modo lo stesso fatto".
-
si pone infine la tradizionale soluzione predisposta dal vigente art. 16
c.p.: "le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate
da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti", che,
sebbene caratterizzata dai limiti evidenziati dal processo di decodificazione
sotto gli occhi di tutti, ha il pregio di tendere ad una "espansione contenutistica"
della disciplina e dei principi codicisti.
La Commissione, data per scontata la utilità di una disposizione quale quella
enunciata nell'art. 13 disp. trans. dello schema di legge-delega Pagliaro, ritiene
soprattutto utili, in prospettiva, criteri idonei ad indirizzare, per quanto
possibile, il legislatore futuro verso scelte razionali di collocazione legislativa
e di selezione degli illeciti penali, nonché indicazioni di natura contenutistica
in grado di assicurare omogeneità di principi di garanzia e di tecnica delle
incriminazioni all'intera disciplina penale. Pur ritenendola, data la sua natura,
sicuramente efficace, esprime invece perplessità in ordine alla scelta di prevedere
principi di questo tipo a livello costituzionale. La proposta della Commissione
Bicamerale, ad esempio, potrebbe spingere il legislatore ordinario ad inserire
comunque nel codice qualunque modifica penale, anche se sostanzialmente estranea
alla trama codicistica, per mettersi al riparo da censure di incostituzionalità,
ma rischiando così di trasformare il codice in un raccoglitore di norme eterogenee;
mentre la difficoltà di individuare una nozione precisa di "legge organica"
potrebbe determinare a sua volta un incremento del contenzioso costituzionale.
Vi sono d'altronde, in determinati settori (specie amministrativi), esigenze
di disciplina che si manifestano in modo frammentario e progressivo, che sarebbe
difficile soddisfare con l'inserimento nel codice o in una inesistente legge
organica.
Pur rendendosi conto dei limiti necessariamente connessi alla scelta di operare
con lo strumento della legge ordinaria, che potrebbe essere derogata agevolmente
da qualsiasi legge speciale, la Commissione ritiene dunque preferibile operare
con norme di tale livello, auspicando che enunciati generali esplicitati in
maniera forte, pur non vincolanti, potrebbero costituire comunque utili criteri
di indirizzo per il legislatore. Per rendere più cogenti possibile tali enunciati
si potrebbe d'altronde pensare di emanare una sorta di 'normativa-cornice' di
carattere generale della materia. Posto che il suo rango non potrebbe che essere
quello della legge ordinaria, essa ben potrebbe essere derogata dal legislatore
successivo. Tuttavia, se per un verso si può immaginare una maggiore cautela
di quest'ultimo ad allontanarsi disinvoltamente da una normativa del tipo di
quella suggerita, per altro verso la presenza di una serie di norme-guida potrebbe
rendere più penetrante un eventuale sindacato della Corte costituzionale sotto
il profilo della "ragionevolezza" e della uguaglianza di trattamento della (futura)
norma in deroga. Quanto ai possibili contenuti da inserire nella normativa di carattere generale,
la Commissione, senza alcuna pretesa di esaustività, ha pensato ad alcune specificazioni
possibili.
La prima potrebbe ispirarsi al modello utilizzato dall'art. 1 della l. n. 4
del 1929 in materia finanziaria: "le disposizioni del codice non possono essere
abrogate o modificate da leggi posteriori se non per dichiarazione espressa
del legislatore con specifico riferimento alle singole disposizioni abrogate
o modificate". Su piano formale una norma di questo tipo perseguirebbe un obbiettivo
di certezza, e contribuirebbe alla conoscibilità del precetto penale; su piano
sostanziale tenderebbe a contenere il fenomeno di un allontanamento non sufficientemente
meditato dal tessuto dei principi codicistici. Il rango di norma ordinaria non
assicurerebbe a tale disposizione la cogenza che meriterebbe; la chiara indicazione
del principio potrebbe costituire tuttavia garanzia avverso una normazione disordinata,
soprattutto ove si consideri che essa concretizza un'istanza direttamente riconducibile
al complesso delle previsioni costituzionali in materia penale.
La seconda potrebbe ripetere, rafforzandolo, il contenuto dell'attuale articolo
16 c.p.: "le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate
da altre leggi penali". Si tratterebbe di una disposizione destinata a marcare
che anche nei confronti delle norme penali previste extra codice devono valere
i principi fondamentali di garanzia enunciati dal codice: legalità, tassatività,
offensività, colpevolezza, tipologia e carico sanzionatorio, ecc., e finalizzata
pertanto ad operare nei confronti di tecniche di incriminazione, di selezione
degli interessi tutelati, di modalità della loro protezione, ecc.
Secondo una parte della Commissione, a queste due disposizioni generali se
ne potrebbe aggiungere una terza avente lo stesso contenuto di quella suggerita
dalla Commissione Bicamerale in tema di riserva di codice o di legge organica,
norma che operando a livello di legislazione ordinaria eviterebbe i rischi di
un incremento del contenzioso costituzionale. Tale norma avrebbe una indubbia
funzione sul terreno della certezza del diritto penale, tendendo ad evitare
per il futuro l'attuale proliferazione di norme penali disordinatamente previste
dalla legislazione speciale. Pur condividendo gli obbiettivi positivi della
innovazione, altra parte della Commissione ha manifestato la preoccupazione
che essa anziché contrastare, potrebbe al limite incoraggiare la previsione
di sottosistemi penali caratterizzati, data la loro natura, da una relativa
autonomia di disciplina rispetto a quella generale codicistica, innescando di
conseguenze possibili contraddizioni con la esigenza di omogeneità in ordine
ai principi generali che si tenderebbe invece a realizzare con le indicazioni
precedentemente menzionate.
Quanto ad ulteriori contenuti, la 'normativa cornice' dovrebbe arricchirsi
da un lato di norme destinate a risolvere operativamente i più ricorrenti problemi
sollevati dalle leggi speciali (e talvolta anche da norme contenute nella parte
speciale del codice penale), dall'altro di criteri di tecnica legislativa.
Sotto il primo profilo si potrebbe pensare, a titolo puramente esemplificativo,
a norme:
-
destinate ad introdurre meccanismi di accertamento automatico della
natura circostanziata delle fattispecie punite con pena diversa dalla fattispecie-base;
-
che aiutassero ad individuare la natura permanente o meno di determinati
reati, quali ad esempio gli omissivi puri;
-
che consentissero di individuare la natura scriminante, scusante o di mera causa di
non punibilità in senso stretto;
-
che tipizzassero in forma generale le posizioni e gli obblighi di garanzia penalmente rilevanti;
-
che individuassero classi prestabilite di pena quanto
a gravità edittale, o introducessero altri sistemi diretti a rendere più agevole
il rispetto del principio di proporzione da parte del legislatore.
Sotto il secondo profilo si potrebbe riassumere la disposizione del progetto
Pagliaro con la quale si dettano criteri per la configurazione delle contravvenzioni
(ammesso che la categoria sia destinata a sopravvivere), prevedere le contravvenzioni
in contiguità con i delitti rispetto ai quali costituiscono tutela avanzata,
riprendere e perfezionare alcuni dei criteri di scelta sanzionatoria e di tecnica
legislativa contenuti nelle due circolari della Presidenza del Consiglio di
Ministri del 19 dicembre 1983 e del 5 febbraio 1986 , od utilizzati nelle più
recenti leggi comunitarie.
2. La organizzazione della parte speciale del codice
Per quanto concerne
la strutturazione della parte speciale sembra innanzitutto opportuno ribadire
l'obbiettivo, enunciato dal Ministro nello stesso decreto di nomina della Commissione,
di una più ampia possibile delimitazione dell'ambito dell'intervento penale.
La recente legge di delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori
e modifiche al sistema penale tributario, approvata definitivamente il 16 giugno
1999, rappresenta una tappa importante nella direzione indicata. Per quanto
concerne specificamente il contenuto del codice penale, scontato che una profonda
opera di delimitazione e ristrutturazione debba essere compiuta nel settore
dei delitti contro lo Stato (sul punto v. oltre, parte XII), e che altri settori
esigono una opera di semplificazione e razionalizzazione (es., delitti contro
il patrimonio, delitti contro la persona, delitti contro la fede pubblica, delitti
contro la amministrazione della giustizia, ecc.), o di soluzione di nodi tuttora
irrisolti (es., delitti contro la pubblica amministrazione), oggetto privilegiato
di scelte incisive di depenalizzazione continuerà a rimanere la (attuale) materia
contravvenzionale, soprattutto quella prevista nella legislazione speciale.
Per quanto riguarda la strutturazione della parte speciale, la Commissione
condivide l'orientamento espresso dallo schema di legge-delega Pagliaro, secondo
il quale la classificazione dei reati deve imperniarsi sul bene giuridico tutelato,
nonché l'idea di organizzare la "parte speciale" secondo una prospettiva nella
quale il punto di riferimento è la persona umana e non lo Stato. Pure la ripartizione
nelle quattro grandi aree:
-
dei reati contro la persona (comprensiva dei reati contro il patrimonio individuale),
-
contro i rapporti civili, politici ed economici,
-
contro la comunità,
-
contro la Repubblica, merita apprezzamento, anche in considerazione del fatto che essa
consente il non trascurabile vantaggio di un'eventuale tecnica di 'inserimento progressivo'
in ciascuna di tali aree di reati che, non inseribili in un primo momento nel codice per ragioni specifiche,
dovessero successivamente risultare maturi per tale inserimento, sul modello
di quanto è accaduto ad esempio nella legislazione tedesca e francese.
La Commissione ritiene, per altro verso, che non sia opportuno imboccare la
strada di una immediata 'onnicomprensività' del codice, tenendo conto della
inopportunità di coinvolgere sul terreno della legge penale fondamentale materie
che presuppongono scelte politiche ancora fortemente conflittuali (es., reati
in materia di bioetica), o reati con riferimento ai quali è in corso una attività
di ridefinizione legislativa, e che sarebbe pertanto opportuno inserire eventualmente
nel codice soltanto una volta verificati i risultati del lavoro parlamentare,
e la loro compatibilità con una disciplina di tipo codicistico (è il caso, ad
esempio, dei reati fiscali, con riferimento ai quali il Parlamento ha già deciso
una forte depenalizzazione ed ha delegato il Governo a configurare un ristretto
numero di delitti identificati per gravità di offesa e oggetti tassativamente
indicati; dei reati societari, con riferimento ai quali è in corso di elaborazione
una nuova strutturazione da parte di apposita commissione governativa; dei reati
ambientali, con riferimento ai quali sono stati predisposti articolati progetti
di riforma ).
Secondo una impostazione di doverosa prudenza, si ritiene pertanto opportuno
iniziare dalla ridefinizione delle materie di radicata collocazione codicistica,
prevedendo un impianto comunque idoneo ad essere progressivamente arricchito
da nuove materie, nel quadro di una linea politica di fondo che dovrebbe comunque
tendere ad assicurare al codice penale una posizione di reale centralità nella
disciplina dei settori penalmente significativi.
Una parte della Commissione ritiene che la creazione di 'sottosistemi penali'
affidati alla disciplina della legislazione speciale non sia comunque del tutto
eliminabile, e talvolta potrebbe addirittura apparire opportuna, osservando
che vi sono settori che difficilmente potranno trovare collocazione nel codice
penale:
-
quando non sia possibile scindere in modo sufficientemente netto
l'apparato sanzionatorio penale dalla disciplina extrapenale di riferimento,
-
quando la natura "specialistica" della materia dovesse nettamente prevalere,
-
quando si tratti di interventi penali ancora troppo legati alla contingenza
dei tempi per potere essere formalizzati nel testo della legge penale fondamentale.
La maggioranza della Commissione, pur concordando con queste riflessioni, ritiene
di dovere ribadire che nelle materie regolate da leggi speciali dovrebbero comunque
trovare applicazione i principi di garanzia elaborati nella parte generale del
codice penale, ed essere utilizzate le tecniche di una corretta configurazione
delle fattispecie penali, fino ad oggi troppo sovente neglette dal legislatore
nella disordinata configurazione di reati di legislazione speciale.
XII. Esemplificazione di riforma della parte speciale:
una nuova tipologia dei delitti contro lo stato
1. Tecnica di incriminazione e tipologia dei delitti contro lo Stato
previsti dal codice penale Rocco devono essere profondamente cambiate. Esso
utilizza infatti modelli di anticipazione non controllata dell'intervento penale,
configura reati sganciati dalla prospettiva della offesa degli interessi, colpisce
indiscriminatamente opinioni ed associazioni (dissenzienti) senza adeguati ancoraggi
a comprovate necessità di difesa sociale.
Pur rendendosi conto che la politicità della materia potrebbe giustificare
deviazioni rispetto al rigoroso rispetto ai principi di tipicità e di necessaria
offensività, vi sono limiti che una legislazione penale ispirata a criteri liberal-democratici
non può comunque superare. In questa prospettiva si tratta di trovare il giusto
contemperamento fra le esigenze contrapposte di tutela degli interessi fondamentali
delle istituzioni democratiche e di rispetto delle garanzie individuali.
2. Passando al piano delle singole scelte di incriminazione, la Commissione
conviene sulla opportunità di eliminare tutte le numerose fattispecie politiche
di istigazione, di apologia e di propaganda, e di mantenere nel codice la previsione
di una sola fattispecie generale di istigazione a delinquere, contemplata fra
i delitti contro l'ordine pubblico (o comunque si intenda ridenominare tale
classe di reati), purché essa sia caratterizzata dalla pubblicità reale della
condotta (con conseguente necessità di ridefinire l'attuale concetto di pubblicità
rilevante agli effetti penali) e dall'ancoraggio alla pericolosità concreta
in ordine alla realizzazione dei reati oggetto di istigazione.
Per quanto concerne i delitti di attentato, la Commissione si riporta a quanto
già rilevato nella parte dedicata alle ipotesi di anticipazione della attività
punibile (parte VI, n.3). Nella ipotesi in cui politicamente si optasse per
il mantenimento della categoria, il che quantomeno in alcuni casi sarebbe assolutamente
necessario, la esigenza di (maggiore) tipizzazione delle fattispecie dovrebbe
essere realizzato facendo riferimento a modelli non necessariamente unitari,
ma individuati nella parte speciale considerando le specifiche esigenze delle
diverse categorie di attentati giudicati meritevoli di previsione legislativa
(v. appunto parte VI, n. 3).
Per quanto concerne i delitti di vilipendio, che il progetto Pagliaro ha sostanzialmente
confermato sotto il profilo della "offesa al prestigio delle istituzioni", e
con una riduzione degli oggetti della offesa penalmente rilevante, la Commissione
ritiene che il problema se mantenere o cancellare questa categoria di illeciti
sia squisitamente politico, trattandosi di valutare se lo Stato debba tutelarsi
dalle offese che gli provengono dalle parole che gettano discredito sui suoi
emblemi o sulle istituzioni più importanti, ovvero debba interessarsi esclusivamente
delle offese 'materiali'. Al riguardo si limita pertanto ad osservare: che la
tutela contro le offese al prestigio delle istituzioni è prevista come reato
da pressoché tutte le legislazioni penali europee; che se si dovesse optare
per la soluzione conservativa, la tipologia proposta dalla Commissione Pagliaro
potrebbe costituire una utile base di disciplina, con l'unica eccezione della
esplicita previsione dello 'scopo politico' con il quale l'offesa pubblica al
prestigio della istituzione dovrebbe essere commessa, essendo esso in re
ipsa data la natura della condotta.
Quanto ai reati associativi la Commissione ritiene che occorra abrogare la
congerie di fattispecie associative politiche oggi configurate in modo disordinato
e poco tassativo, e sostituirla con un sistema snello di fattispecie chiare.
In questa prospettiva la semplificazione prevista dallo schema di legge-delega
Pagliaro nell'art. 127 può costituire un utile punto di avvio. Sembra infatti
giusto prevedere due fattispecie associative fondamentali: una prima consistente
nel promuovere, costituire, organizzare o dirigere una associazione volta a
perseguire una delle finalità indicate nell'art. 122 n. 1 o nell'art. 125 n. 1,
o una qualsiasi altra finalità politica, anche di carattere internazionale,
mediante l'uso della violenza o della minaccia, o mediante una organizzazione
di carattere militare; una seconda consistente nel promuovere, costituire, organizzare
o dirigere una associazione volta a perseguire, per una finalità politica, fuori
dei casi di violenza, minaccia, o di utilizzazione di una organizzazione di
carattere militare di cui alla fattispecie precedente, la commissione di un
delitto contro lo Stato.
Sembra anche giusto affiancare a queste due figure una fattispecie di associazione
segreta, assumendo la segretezza come una connotazione criminale di valenza
oggettivamente politica. Nei confronti di quest'ultima ipotesi si tratta tuttavia
di affrontare il problema, squisitamente politico, se davvero sia opportuno
circoscrivere (come ha fatto il progetto Pagliaro) la rilevanza penale alla
circostanza che si tratti di associazione segreta "diretta ad interferire sull'esercizio
delle funzioni di organi costituzionali, di rappresentanze diplomatiche, di
organi giudiziari, di amministrazioni od enti pubblici, o sull'attività di pubblici
servizi", ovvero sia necessario sanzionare penalmente di per sé la violazione
della norma costituzionale (art. 18 Cost.), che stabilisce senza mezzi termini
che "sono vietate le associazioni segrete".
3. Per quanto riguarda l'impianto generale di un titolo di reati dedicato
ai delitti contro lo Stato depurato dal gran numero di fattispecie obsolete
e poco garantistiche delle quali si è fatto cenno sub 2), la Commissione osserva
che l'analisi dei codici penali europei rivela una grande articolazione di soluzioni,
tanto in materia di organizzazione dei reati, quanto in materia di loro numero
e di loro specifico contenuto, sia pure con alcune costanti con riferimento
ai temi della salvaguardia della sicurezza interna dello Stato, della pace,
dei segreti di Stato e dei diritti elettorali. Il lavoro compiuto dalla Commissione Pagliaro può comunque costituire, anche
qui, un utile punto di avvio. Sembra corretto prevedere una prima parte in cui
si considerano i reati posti a tutela dell'ordinamento democratico della Repubblica
e i reati contro gli organi costituzionali, fra i quali si considerano i tradizionali
delitti posti a garanzia della Costituzione, della integrità e della indipendenza
della Repubblica, del libero funzionamento degli organi costituzionali, del
corretto funzionamento delle funzioni costituzionali e dei comandi militari,
nonché gli attentati contro il Presidente della Repubblica e contro gli organi
costituzionali ed i reati elettorali; ed una seconda parte in cui si considerano
i reati contro la sicurezza della Repubblica e le relazioni internazionali,
nella quale figurano a loro volta le tradizionali fattispecie della guerra alla
repubblica, delle intelligenze con un stato estero, del conflitto armato, della
violazione dei segreti di stato, delle attività spionistiche, delle infedeltà
in affari di Stato e delle offese a Capi di Stato esteri, a organi costituzionali,
ecc., corrispondenti alle previsioni degli attentati previsti nei confronti
del Presidente della Repubblica e degli organi costituzionali italiani.
Roma, 15 luglio 1999
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