Sommario
Considerazioni introduttive
I lavori della Commissione ministeriale
I principi ispiratori della riforma
Relazione sull' articolato
La legge penale
Il reato
Principi generali
Responsabilità per omissione
Le posizioni di garanzia
Posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse
Reati a mezzo stampa o radiotelevisione
Colpevolezza
Le cause di giustificazione
Delitto tentato
Concorso di persone nel reato
Pena
Sistema delle pene
Circostanze aggravanti e attenuanti
Commisurazione della pena
Concorso di reati
Sospensione condizionale della pena
Condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali
Non imputabilità e capacità ridotta
Non imputabilità
Capacità ridotta
Trattamento dei minori imputabili
Confisca e sanzioni
riparatorie
Confisca
Conseguenze civili del reato
Responsabilità
delle persone giuridiche
Disposizioni
di attuazione e coordinamento
Considerazioni
introduttive
I
lavori della Commissione ministeriale.
Con D.M. 1 ottobre 1998 il Ministro della Giustizia Giovanni Flick ha nominato una Commissione per la riforma del codice penale, presieduta dal Prof. Carlo Federico Grosso, e composta da cinque professori universitari (Proff. Francesco Palazzo, Paolo Pisa, Domenico Pulitanò, Sergio Seminara, Filippo Sgubbi), da quattro magistrati (Dott. Giovanni Canzio, Giovanni Silvestri, Giuliano Turone, Vladimiro Zagrebelsky), da quattro avvocati rappresentativi di organismi ufficiali della avvocatura (Avv. Fabrizio Corbi, Ettore Randazzo, Filippo Siciliano, Giampaolo Zancan), assistita da un Comitato scientifico1),
e chiamata ad operare con la partecipazione del Capo di Gabinetto, del Capo
dell'Ufficio Legislativo e del Direttore Generale degli Affari penali del
Ministero di Grazia e Giustizia. Tale Commissione aveva il compito di
provvedere, entro il 30 giugno 1999, alla stesura di un documento che approfondisse i temi della riforma del codice penale, tenendo conto dei lavori svolti da Commissioni Ministeriali e Parlamentari (Commissione Pagliaro, Comitato Riz), dei provvedimenti all'esame del Parlamento, delle elaborazioni in corso presso il Ministero su aspetti collegati, della più recente elaborazione della dottrina e della legislazione penale europea.
La Commissione, valutato che i tempi stretti concessi alla stesura del documento non consentivano una elaborazione in grado di affrontare con la medesima attenzione la parte generale e la parte speciale del codice penale, ha ritenuto di privilegiare la prima, e di riservare alla seconda considerazioni riguardanti soprattutto i criteri generali ai quali dovrebbe ispirarsi la relativa disciplina.
Il 15 luglio 1999 la Commissione ha consegnato al Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto il testo di un documento nel quale erano tracciate le linee di una possibile riforma della parte generale del codice penale ed impostati i problemi di necessario coordinamento con la parte speciale e la legislazione penale speciale.
Nel frattempo il Ministro, ritenendo opportuno che la Commissione si confrontasse con la Avvocatura, la Magistratura e le Università, in quanto la riforma di un codice non può costituire il mero risultato di una attività di studio di una ristretta Commissione ministeriale, ma deve essere aperta ad un ampio dibattito, e sostenuta dall'apporto costruttivo della cultura giuridica del Paese, con D.M. 22 giugno 1999 aveva proceduto a prorogare al 30 giugno 2000 la Commissione stessa, conferendole l'incarico di dare ampia diffusione al documento in via di completamento, e di attivare la discussione sui suoi contenuti.
Con lettera 29 settembre 1999 il Ministro, rilevate alcune reazioni positive alla pubblicazione del testo del documento 15 luglio 1999, ritenuto necessario procedere rapidamente alla predisposizione di norme che rivedessero la parte generale del codice penale Rocco, ha dato incarico alla Commissione di procedere altresì alla stesura del relativo articolato, tenendo conto delle osservazioni che fossero nel frattempo pervenute sul documento di base.
La Commissione ministeriale ha quindi attivato una serie di incontri con docenti universitari, magistrati ed avvocati, che si sono concretati in numerosi convegni sull'intera impalcatura della riforma della parte generale del codice, o su singoli suoi aspetti. La Corte di Cassazione e la Procura Generale presso la Corte di Cassazione, per parte loro, hanno fatto pervenire al Ministero della Giustizia due pareri sulla bozza di riforma, elaborati da Commissioni rispettivamente presiedute dal Presidente di Sezione Dott. G. Viola e dall'Avvocato Generale U. Toscani.
A partire dall'ottobre 1999 la Commissione ha, nel contempo, proceduto alla stesura dell'articolato della parte generale secondo lo schema predisposto nel documento del 15 luglio 1999, integrato per le per le parti da esso non trattate, e modificato in più punti anche alla luce dei suggerimenti e delle critiche emerse nel corso del dibattito che si era nel frattempo aperto sul testo del documento stesso.
Con D.M. 22 giugno 2000 il Ministro della Giustizia Piero Fassino, considerato che la Commissione stava completando la stesura dell'articolato della parte generale del codice penale, preso atto delle dimissioni presentate per ragioni personali dal Dott. Turone, ritenuta la opportunità di consentire che la Commissione operasse anche con la Prof. Cristina De Maglie limitatamente alla stesura definitiva delle norme riguardanti la responsabilità delle persone giuridiche, ha prorogato la Commissione stessa sino al 31 dicembre 2000, affinchè terminasse il lavoro concernente l'articolato della parte generale del codice e la redazione della relativa relazione esplicativa. Nel contempo la ha incaricata di verificare (successivamente) "la possibilità di un intervento, specie sull'apparato sanzionatorio previsto dalle norme della parte speciale, che consentisse di rendere immediatamente utilizzabili nella sua interezza l'articolato della parte generale".
Nella riunione del 22 luglio 2000 la Commissione ha licenziato il testo dell'articolato, dando mandato al Presidente di stendere la relazione esplicativa.
Il Presidente ha redatto la relazione con la collaborazione del Prof. Pulitanò, che ha steso le parti, recepite con poche variazioni, concernenti la causalità nei reati omissivi, le posizioni di garanzia, le pene, la non imputabilità, la confisca e le sanzioni riparatorie, la responsabilità delle persone giuridiche e le disposizioni di attuazione e di coordinamento.
La relazione e l'articolato della parte generale nella sua formulazione definitiva sono stati quindi approvati dalla Commissione nella seduta del 12 settembre 2000.
I principi ispiratori della riforma.
In via preliminare
e si osserva che, rispettando una
specifica indicazione contenuta nel decreto ministeriale 1 ottobre
1998, la Commissione ha dato ampio spazio a valutazioni di tipo comparativistico,
cercando di adeguare, per quanto possibile, la legislazione penale italiana a scelte che sono state compiute dalla più recente codificazione europea, o comunque confrontandosi con tali scelte; nella convinzione che soltanto seguendo questa strada sia possibile porre le premesse per ulteriori, più penetranti, tentativi di omogeneizzare lo spazio giuridico del paesi comunitari. Questo tipo di approccio allo studio dei problemi troverà specifico riscontro nella parte della relazione esplicativa dei singoli istituti, con riferimento ad alcuni dei quali una delle ragioni delle scelte compiute è ravvisabile proprio nella loro connotazione europea.
Fra gli obbiettivi primari della riforma si colloca la configurazione di un codice penale fortemente caratterizzato dalla impronta garantista della tradizione liberal-democratica.
Questo obbiettivo è stato perseguito innanzitutto prestando grande attenzione alla realizzazione dei principi di tipicità e certezza nella disciplina dei presupposti della responsabilità penale: non soltanto attraverso la enunciazione delle tradizionali norme generali di garanzia (principio di legalità, principio di stretta legalità, irretroattività della legge penale), ma soprattutto attraverso una definizione più tassativa di istituti tradizionalmente affidati ad una ampia discrezionalità giudiziale.
Come esempio significativo di questo orientamento può essere individuato, innanzitutto, lo sforzo compiuto nel tentativo di tipizzare le c.d. 'posizioni di garanzia', e di realizzare, attraverso questa operazione, una selezione dei reati omissivi ed una riduzione dei margini di discrezionalità che contraddistinguono la applicazione della causalità nei reati commissivi mediante omissione, oggi interamente affidata agli incerti confini del generico 'obbligo giuridico di impedire l'evento' di cui al comma 2 dell'art. 40 c.p. Il punto più delicato, ed in certo senso qualificante, della proposta è stato d'altronde il tentativo di tipizzare le posizioni di garanzia nell'ambito delle organizzazioni complesse, che si è concretata a sua volta nella doppia previsione di un catalogo di adempimenti cui tali organizzazioni sono obbligate allo scopo di prevenire che vengano commessi reati con violazione di norme pertinenti all'attività della organizzazione stessa, e di una articolazione delle posizione di responsabilità individuale al suo interno.
Si può ricordare, in secondo luogo, la nuova disciplina di tentativo e concorso di persone nel reato. Ancorando il primo al concetto di inizio di esecuzione, si è cercato di dotare di maggiore determinatezza una tipica norma di espansione della responsabilità penale: con una definizione che, pur non risolvendo ogni problema di riduzione dei margini di discrezionalità giudiziale, ha comunque il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento, e di impedire un arretramento eccessivo dell'inizio dell'attività punibile. Procedendo ad una moderata tipizzazione delle fattispecie di concorso di persone nel reato, si è cercato di lasciarsi alle spalle una disciplina che ha consentito una incontrollata, talvolta arbitraria, dilatazione giudiziale dell'ambito della responsabilità penale; prevedendo una articolazione normativa che, senza imporre schematismi eccessivi, costringe comunque il giudice a rilevare effettivamente, a vericare attentamente, ed a motivare, la presenza ed il tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente, si è imboccata la strada di un difficile, ma proficuo, equilibrio fra esigenze di tutela e necessità di una sufficiente tassatività dei presupposti della responsabilità penale.
Si può menzionare, ancora, la ricerca di intervenire sulla disciplina della pena, e soprattutto della sua applicazione in concreto, nel tentativo di ridurre ragionevolmente l'ambito della discrezionalità giudiziale nella commisurazione della pena, oggi smisuratamente ampio. E' vero che tale esigenza può essere soddisfatta soprattutto sul terreno della parte speciale, attraverso una adeguata riduzione della forbice fra minimo e massimo edittale di ciascun reato. Un buon risultato può essere ottenuto tuttavia già sul terreno della parte generale, attraverso un articolato complesso di interventi coordinati: criteri più precisi per la determinazione della pena in concreto, ma soprattutto modifica del regime delle circostanze del reato, del concorso di reati, della continuazione nel reato. In questa prospettiva la Commissione ha previsto una serie di modificazioni significative della normativa vigente: tendenziale diminuzione del numero delle circostanze, eliminazione delle circostanze attenuanti generiche, sottrazione delle circostanze ad effetto speciale al regime del bilanciamento, limitazione della entità dell'aumento e della diminuzione di pena collegata alle circostanze ad effetto ordinario, limiti più rigorosi negli aumenti di pena dipendenti dal cumulo giuridico delle pene.
Va da sé che questo tentativo di massima tipizzazione possibile doveva fare necessariamente i conti con i limiti logici di una disciplina penale 'ragionevole', ragionevolmente applicabile ai singoli casi. Vi sono infatti settori nei quali non si può andare oltre certi limiti di determinatezza se non si vuole privare il sistema penale di una sufficiente capacità di adattamento alla varietà dei casi concreti. Vi sono materie in cui la configurazione di una disciplina dettagliata rischierebbe addirittura di nuocere, ed in cui è giocoforza affidarsi alla prudente valutazione del giudice nella decisione sul singolo caso. La Commissione ha preso realisticamente atto di questa realtà, e dove non ha potuto, o ritenuto di non dovere entrare in eccessivi dettagli di disciplina lo ha fatto, spiegando le ragioni della scelta.
Il tentativo di rendere il codice penale conforme al modello di una legislazione contraddistinta dall'impronta garantistica di stampo liberale è stato ulteriormente perseguito attraverso una ampia realizzazione del principio di colpevolezza, secondo una linea su cui si erano già correttamente orientati i progetti Pagliaro e Riz.
Il nuovo progetto, scontata la necessità di eliminare ogni traccia di responsabilità oggettiva, si è peraltro preoccupato di cancellare anche ogni anomalia rispetto all'esigenza che vi sia piena corrispondenza fra forma di colpevolezza e titolo di responsabilità. In questa prospettiva sono stati eliminati, o profondamente modificati, gli istituti nei quali la responsabilità penale si fondava comunque sulla colpevolezza dell'autore, ma a costui, che aveva agito con colpa, veniva applicata la pena prevista per un delitto doloso (esempio tipico, la disciplina di cui al vigente art. 116 c.p. Rocco). Ed in sede di disciplina della commisurazione della pena si è stabilito che "la pena viene determinata dal giudice, entro il limite della proporzione con la colpevolezza per il fatto commesso".
Enunciato dunque come principio fondante di ogni forma di responsabilità penale che "la colpevolezza dell'agente è presupposto indefettibile della responsabilità penale" (art. 28 comma 1), la Commissione ha ritenuto conseguentemente superflue norme come quelle che prevedono la coscienza e volontà della condotta da un lato, il caso fortuito e la forza maggiore dall'altro, sulla cui previsione si basava sostanzialmente la responsabilità penale per rischio all'interno di un sistema fortemente caratterizzato dalla presenza di ipotesi di responsabilità senza colpa. E non ha esitato ad eliminare istituti quali la preterintenzione, l'aberratio delicti, la responsabilità ex art. 117 c.p., e ad auspicare la eliminazione dei delitti aggravati dall'evento, salva ovviamente la possibilità di fare fronte sul terreno della parte speciale a specifiche esigenze di tutela che dovessero emergere con riferimento a settori particolari dell'ordinamento (es., delitti contro la persona). Mentre istituti come la aberratio ictus, o la responsabilità per reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, pur conservati, sono stati comunque ricondotti nell'alveo di una rigorosa applicazione dei principi generali.
Dello stesso segno sono d'altronde talune delle innovazioni introdotte in materia di imputabilità e di non imputabilità, fra le quali in questa sede preme segnalare la totale cancellazione di ogni profilo di quella 'finzione di imputabilità' che tanto caratterizza il codice penale del 1930, anche su questo terreno poco attento a commisurare la responsabilità penale alla colpevolezza ed ai suoi presupposti.
Nelle parti relative alla legge penale e al reato, il progetto ha una sua autonomia e compiutezza, che teoricamente ne consentirebbero l'entrata in vigore anche indipendentemente dalla riforma del sistema sanzionatorio e di riforme di parte speciale. Si tratterebbe, ovviamente, solo dell'avvio di una riforma che è stata pensata come complessiva, e che anzi abbisogna di essere ulteriormente sviluppata con interventi sulla parte speciale.
Profilo di forte caratterizzazione della riforma è, per altro verso, il nuovo sistema delle pene. La Commissione ha disegnato un complesso di sanzioni profondamente rinnovato, muovendo dalla convinzione della urgenza di modificare il sistema punitivo vigente, giudicato deficitario sotto ogni aspetto: ineffettivo e, là dove efficace, vessatorio.
L'obbiettivo di fondo in vista del quale la riforma è stata pensata, è il potenziamento delle capacità di risposta alle esigenze di prevenzione generale (capacità dissuasiva dal commettere reati) e speciale (rieducazione, che ha trovato un forte riconoscimento nelle stesse norme sulla commisurazione della pena), nel rispetto dei principi di proporzione e di ragionevolezza delle pene e delle garanzie dei diritti della persona.
Sulla base di questa premessa sono state realizzate alcune scelte di fondo: necessità di ridurre la (inutile) gravità delle pene detentive; opportunità di affiancare, come pene principali oltrechè come pene accessorie, un articolato complesso di pene diverse (pene interdittive, detenzione domiciliare), alle tradizionali pene detentive e pecuniarie; tendenziale abbandono di un sistema di pene ancorato alla centralità del carcere, che, là dove non è necessario, bene può essere sostituito, già nella fase del giudizio di cognizione, dalla applicazione di pene diverse; ampia utilizzazione della pena pecuniaria, profondamente mutata nella sua struttura con l'introduzione del sistema delle 'quote giornaliere', il solo che teoricamente consente di raccordare misura della sanzione e condizioni economiche del condannato, favorendo di conseguenza maggiore equità e maggiore effettività.
A questo punto appaiono necessarie alcune ulteriori osservazioni.
In primo luogo occorre sottolineare che un sistema penale caratterizzato da cautela nel ricorso alla reclusione e da un elevato affidamento in pene diverse non è affatto per definizione un sistema penale più debole. E' sicuramente un sistema più umano, che, senza usare inutilmente il carcere, può esplicare una consistente efficacia preventiva mediante strumenti più articolati e più idonei allo scopo.
Fra questi strumenti va inserita anche la sospensione condizionale della pena, opportunamente rimodellata. Tale istituto è oggi applicato come un 'quasi-diritto' del condannato, in un'ottica di fuga dalla sanzione e secondo meccanismi pressochè automatici. Nel progetto è stato arricchito di contenuti positivi, con la imposizioni di obblighi quale condizione per la sua concessione, così da diventare strumento importante di rafforzamento dell'incisività di un sistema penale che utilizzi anche sanzioni diverse dalla reclusione.
In questa prospettiva il progetto prevede che la sospensione condizionale della pena abbia una autonoma collocazione e grande rilievo. Stabilito che in via di principio essa sia obbligatoriamente subordinata alle restituzioni ed al risarcimento del danno, alla consegna dei profitti del reato, alla consegna del prezzo del reato, ed in determinati casi ad altri obblighi qualificati, prevista (e per soli motivi di legittimità costituzionale) in una dimensione circoscritta nei confronti delle pene pecuniarie, il nuovo istituto dovrebbe dunque diventare uno dei cardini attorno al quale fare ruotare l'incisività del nuovo, profondamente cambiato, sistema di penalità.
E' d'altronde quasi superfluo osservare che la disciplina della nuova sospensione condizionale ha senso nella misura in cui si inserisca nel quadro interamente nuovo di forte mitigazione e di diversificazione qualitativa del sistema sanzionatorio previsto dalla riforma. Se dovesse essere estrapolata, ed innescata su trame di vecchi tessuti normativi, rischierebbe di produrre effetti distorcenti, se non addirittura di boomerang. Il che non vale certo per tutti i profili nuovi della riforma, ma sicuramente per quanto attiene una parte consistente della nuova disciplina delle sanzioni.
Ultima considerazione. E' evidente che il modello prospettato sul terreno della parte generale, pur rispondendo a precise indicazioni politico-legislative, e pur prevedendo ampi profili di disciplina, non è del tutto autoreferente. Presuppone invece, per diventare concretamente operativo, scelte coerenti quantomeno sul terreno della individuazione delle singole pene previste nei confronti di ciascun reato. Si può dire, anzi, che in un certo senso il volto effettivo e reale del nuovo sistema sanzionatorio dipenderà in larga misura dalla specificità di tali scelte. La Commissione, per il momento, dato il carattere del mandato conferitole, per valutare la praticabilità e le realizzazioni possibili delle opzioni di carattere generale compiute non ha potuto fare altro che simulare possibili discipline di parte speciale, riservandosi di entrare in maniera più penetrante nel vivo di questa problematica nell'adempimento del mandato ulteriormente ricevuto nell'ultimo decreto ministeriale di proroga.
Su altre innovazioni previste dalla riforma ci si limita, in questa sede preliminare, ad alcune indicazioni di carattere ancor più sintetico, rinviando alla lettura della relazione esplicativa delle singole norme. Soluzioni innovative sono state realizzate nella disciplina della non imputabilità, della capacità ridotta e del trattamento dei minori imputabili, con riferimento ai quali si è ritenuto di recepire nel codice i principi di fondo di una disciplina speciale fortemente contraddistinta dall'idea della risocializzazione. Si è, ovviamente, superato del tutto il c.d.sistema del doppio binario, utilizzando nei confronti dei soggetti a capacità ridotta pene fortemente connotate dai contenuti che avrebbero dovuto possedere le misure di sicurezza, e circoscrivendo comunque entro confini circoscritti la utilizzazione di misure penali nei confronti dei soggetti non imputabili.
Soluzione molto innovativa è stata compiuta in materia di confisca, che è diventato istituto a sé stante caratterizzato da una valenza di contrasto forte contro la criminalità con fini di lucro.
Nonostante la esistenza di divergenze fuori e dentro la Commissione, la maggioranza ha deciso di optare nel senso del riconoscimento di una responsabilità delle persone giuridiche, non penale, ma da disciplinare e trattare comunque in ambito penale. Essa ha ritenuto che il panorama europeo, dove la responsabilità penale delle persone giuridiche è ormai largamente riconosciuta, e le stesse iniziative legislative in corso per adeguare la legislazione italiana a direttive comunitarie, rendessero
pressoché 'vincolata' questa scelta. La ragione del modello prescelto, di una responsabilità non penale, il cui accertamento presuppone comunque la realizzazione di un reato, e viene compiuto dalla autorità giudiziaria penale, verrà illustrata in sede di spiegazione delle singole norme. In questa fase di primo approccio ai contenuti della riforma preme comunque sottolineare che la disciplina prevista tende non tanto a perseguire intenti specificamente sanzionatori, quanto ad assicurare, attraverso la imposizione di specifici ed adeguati 'programmi di organizzazione', la prevenzione contro la commissione di reati attraverso la attività di impresa; in un contesto in cui la minaccia della sanzione dovrebbe servire soprattutto a garantire l'attivazione di tali programmi.
Il progetto Pagliaro aveva indicato come uno dei cardini della riforma del codice penale, tanto da enunciarlo fra i 'principi di codificazione' all'inizio della parte generale, la necessità di ritornare ad una disciplina penale che restituisca al codice la tradizionale posizione di centralità normativa. Ciò allo scopo di evitare il proliferare di leggi penali speciali, disomogenee, scarsamente rispettose dei principi generali sulla responsabilità penale e di un impiego corretto delle tecniche della incriminazione.
Nel dibattito penalistico degli ultimi anni vi è stato chi, muovendo dal rilievo che non vi sarebbero, oggi, le condizioni per realizzare una nuova codificazione, ritiene che nella attività di doverosa riforma di molte delle discipline penali sia realistico rinunciare ad un modello unitario di disciplina codicistica, ed occorra operare invece per sottosistemi omogenei, settore per settore.
La Commissione, pur comprendendo le ragioni di questo orientamento, ritiene importante che il codice penale torni ad essere al centro del sistema di previsione dei reati e delle pene, quale testo in cui siano stabiliti e ordinati a sistema i principi e gli istituti fondamentali. Ritiene perciò necessario cercare di opporsi al proliferare di leggi penali speciali, disomogenee rispetto ai principi generali ed inadeguate sul terreno della tenica incriminatrice. In questa prospettiva, pur non riproponendo, perché giudicata irrealistica, l'idea di codificazione del progetto Pagliaro, ha tenuto ad enunciare comunque alcune norme di principio dirette a salvaguardare, per quanto possibile, omogeneità nelle regole generali sulla responsabilità penale. Ha così riproposto la disposizione di cui all'art. 16 c.p. Rocco, ha cercato di ostacolare la abrogazione tacita delle leggi penali, ha riformulato la norma, enunciata a livello costituzionale dalla Commissione Bicamerale, secondo cui "nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale ovvero se contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono".
Dopodiché, essa ha ritenuto che nulla osti ad una ricomposizione 'per gradi' della legislazione penale di parte speciale o di legislazione speciale (ovviamente per quanto possibile: ad esempio, la previsione di un modello sanzionatorio interamente nuovo presuppone comunque un intervento globale mirato a rivedere le pene dei singoli reati, e di ciò si è fatto carico il Ministro Fassino nel suo ultimo decreto di proroga). La Commissione è anzi convinta che vi siano materie che non sia opportuno, o addirittura possibile, inserire nel codice penale a cagione di molteplici fattori: la specificità del loro contenuto, il contenuto non ancora sufficientemente condiviso, la dipendenza dalla disciplina di riferimento, ecc. Ritiene tuttavia auspicabile che sia nella riforma per settori, sia nella disciplina di materie per loro natura estranee ad un processo di codificazione, trovino applicazione i principi generali enunciati in materia di presupposti della responsabilità penale: lo impongono, infatti, oltre che una evidente esigenza di omogeneità, ben più insopprimibili esigenze di rispetto delle garanzie.
Una ultima, sia pure rapidissima, riflessione esige l'osservazione secondo cui sarebbe metodologicamente scorretto affrontare la riforma della parte generale del codice sganciata da quella della parte speciale. La Commissione è convinta che, se esistessero le condizioni, sarebbe in effetti preferibile esaminare congiuntamente l'intero tessuto del codice penale, poiché le connessioni fra parte generale e parte speciale sono innegabili e numerose. Ritiene tuttavia che, non essendovi tali condizioni, di fronte ad una disciplina codicistica vigente di parte generale che, nonostante i ritocchi, rivela tutte la sue rughe, all'inerzia sia comunque preferibile l'avvio del lavoro: evidentemente sul presupposto che chi lavora non sia così sprovveduto dal non farsi costantemente carico dei possibili riflessi sulla parte speciale, prospettandosi possibili implicazioni e possibili scenari di soluzione.
In chiusura di questa parte introduttiva della relazione sembra opportuna una rapida illustrazione della struttura della parte generale. Essa è stata ripartita in sette titoli. Il primo dedicato alla legge penale, il secondo al reato, il terzo alle pene, il quarto alla non imputabilità ed alle situazioni di capacità ridotta, il quinto al trattamento sanzionatorio del minore imputabile, il sesto alla confisca e alle sanzioni riparatorie, il settimo alla responsabilità delle persone giuridiche. Seguono disposizioni di attuazione e coordinamento.
Tentativo e concorso di persone nel reato sono stati trattati nel titolo secondo.
Circostanze del reato e concorso di reati sono stati trattati nel titolo terzo, dedicato alle pene, dando prevalenza alla incidenza che i due istituti hanno sulla determinazione in concreto delle pene.
Per le ragioni che saranno spiegate in sede di analisi delle singole norme, nel linguaggio del codice non è stata utilizzata la categoria delle cause estintive del reato e della pena. Gli istituti in essa tradizionalmente compresi hanno conseguentemente ricevuto collocazioni diverse.
Relazione sull' articolato
La legge penale
Il principio di legalità è enunciato
come norma di apertura in tutti i codici penali europei. Nonostante la sua formulazione nell'art. 25 comma 2 Cost., la Commissione ha ritenuto di riformularlo esplicitamente anche a livello di legislazione ordinaria nella sua collocazione naturale, e cioè nell'art. 1, come segnale univoco della impronta liberal-garantista di derivazione illuministica al quale si intende ispirare la nuova codificazione.
Formulato nell'art. 1 comma 1 con riferimento al reato ed alla pena, per ragioni di completezza si è ritenuto di prevederlo nel comma 2 anche con riferimento alle misure di sicurezza (la cui natura giurisdizionale, e pertanto penale, costituisce ormai patrimonio acquisito della cultura giuridica italiana), nonostante che la rilevanza di tali misure sia stata fortemente ridimensionata.
Rispetto all'art.1 del codice penale Rocco, si è inserito nella formulazione del principio di legalità anche il principio di irretroattività, secondo cui le leggi che prevedono reato, pena e misure di sicurezza devono preesistere alla commissione del fatto. In ciò seguendo quanto statuiscono la Costituzione italiana, e i codici penali europei, sul presupposto che il principio di irretroattività della legge penale sia parte integrante di quello di legalità.
Il comma 3 dell'art.1 specifica, allo scopo di evitare ogni dubbio, che il principio di legalità e di irretroattività si applica anche alla confisca (che nel progetto assume una collocazione sistematica autonoma sia rispetto alle pene che alle misure di sicurezza) ed agli effetti penali della condanna, qualunque sia la loro qualificazione giuridica.
Subito dopo la enunciazione del principio di legalità sono state formulate norme in materia di applicazione della legge penale, il cui scopo è di indirizzare la attività ermeneutica secondo una impronta garantistica.
Nell'art. 2 comma 1 è stato previsto il divieto di analogia, secondo il modello dell'art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile. Si è specificato che soltanto le norme 'incriminatrici' non si applicano a casi diversi da quelli previsti per rendere manifesto che l'analogia può essere utilizzata nei confronti delle disposizioni di favore secondo quanto già oggi costituisce opinione pressochè pacifica.
Nel comma 2 si è trattato del principio di offensività. La Commissione, anche tenendo conto dei pareri espressi dalle Commissioni della Corte di Cassazione e della Procura Generale, dopo lunga discussione ha deciso di prevedere che 'le norme incriminatrici non si applicano ai fatti che non determinano una offesa del bene giuridico', e di collocare tale disposizione sotto la rubrica della applicazione della legge penale piuttosto che sotto quella di un autonomo principio di irrilevanza penale dei fatti tipici inoffensivi. In questo modo, riconducendo sostanzialmente la regola enunciata entro i confini della interpretazione, si è ritenuto di superare le eccessive tensioni con il principio di legalità che una collocazione diversa avrebbe rischiato di determinare.
Una parte della Commissione non era d'altronde aliena, sulle orme di quanto sostenuto dalla stessa Corte di Cassazione nel suo parere, dal prevedere altresì il principio generale della irrilevanza penale di fatti contraddistinti da contenuto offensivo esiguo, attribuendo alla magistratura la possibilità di dichiararli (a seconda della specifica scelta compiuta) improcedibili o non punibili. Perplessità di ordine sia teorico che pratico con riferimento ai principi di legalità e di obbligatorietà della azione penale, hanno indotto tuttavia a non avventurarsi lungo questa strada. La Commissione si è pertanto limitata a recepire, inserendolo nel codice, il corrispondente principio già previsto in materia di diritto penale minorile. Essa sottolinea comunque la necessità che il Parlamento valuti con attenzione opportunità e limiti della predisposizione di una disciplina di carattere generale.
Il comma 3 ripropone il contenuto dell'art. 16 c.p. vigente. Esso risponde alla finalità di mantenere, per quanto possibile, omogeneità di contenuti e principi applicativi all'intero ordinamento penale. In questo senso esso presenta una valenza generale che giustifica il suo inserimento fra le disposizioni di apertura di una parte generale del codice penale.
Il comma 1 dell'art. 3, conformandosi ad una esigenza espressa nell'art. 2 del Progetto Pagliaro, tende a contenere il fenomeno della decodificazione cercando di vincolare futuri interventi modificativi del codice penale ad una dichiarazione espressa concernente le singole norme abrogate o modificate.
Il comma 2 ripropone sul terreno della legislazione ordinaria quanto la Commissione Bicamerale aveva enunciato su terreno costituzionale: che nuove norme penali sono ammesse soltanto se modificano il codice penale ovvero se sono contenute in leggi disciplinanti organicamente l'intera materia cui si riferiscono. La previsione di questo principio a livello costituzionale avrebbe costituito un vincolo forte per il legislatore futuro, ma avrebbe rischiato di innescare numerose questioni di legittimità costituzionale, ed aveva pertanto suscitato in dottrina perplessità. La sua formulazione a livello di legislazione ordinaria rischia di assumere il segno di un semplice auspicio rivolto al legislatore. La Commissione ha ritenuto comunque importante enunciarlo per ragioni di principio, auspicando che esso possa servire ad indirizzare verso una progressiva modificazione di una situazione che vede una parte consistente della legislazione penale affidata alla casualità e disorganicità delle leggi speciali, all'impiego di tecniche incriminatrici poco confacenti con l'esigenza di una corretta tipizzazione dei reati, ed estesa sovente ad abbracciare fatti di scarsa rilevanza.
Il principio secondo cui la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale costituisce regola comunemente riconosciuta da tutte le legislazioni penali europee. Esso, tradizionalmente, si riferisce ai rapporti di c.d. specialità in astratto fra due o più norme penali. L'esperienza giurisprudenziale e dottrinale ha rivelato come il principio di specialità in astratto sia tuttavia inadeguato a rappresentare tutte le ipotesi in cui deve riconoscersi concorso apparente di norme coesistenti: la elaborazione dei criteri della sussidiarietà, dell'assorbimento e della consunzione da un lato, della specialità in concreto e della specialità bilaterale nelle sue diverse specificazioni dall'altro, stanno a dimostrare l'esigenza di impedire che il soggetto agente, pur in assenza di situazioni di specialità in astratto, sia chiamato a rispondere della violazione di più norme penali quando una di esse sia comunque in grado di comprendere per intero il disvalore del fatto (c.d. ne bis in idem sostanziale).
In questa prospettiva la Commissione, recependo quanto era già stato previsto dal progetto Pagliaro, ha ritenuto di prevedere nell'art. 4, a fianco del principio di specialità in astratto, che 'quando un medesimo fatto appare riconducibile a più disposizioni di legge, si applica quella che ne esprime per intero il disvalore', chiamando in questo modo l'interprete a valutare se, in mancanza appunto della prima ipotesi di concorso apparente di norme, una delle disposizioni in gioco sia in grado di rappresentare nella sua interezza la, o le offese, realizzate dal fatto posto in essere.
Enunciato il principio di irretroattività della legge penale quale articolazione del principio di legalità (art. 1), il Progetto di riforma nell'art. 5 regola il fenomeno della successione di leggi penali nel tempo nel caso in cui la legge successiva abroghi un reato o sia più favorevole al reo. Rimasta inalterata la disciplina della abolizione di una incriminazione preesistente, quella della successione di leggi modificative è stata ritoccata rispetto alla disciplina del c.p. Rocco, formalizzando quanto già ritengono pacificamente in via interpretativa dottrina e giurisprudenza, e cioè che la valutazione di maggiore favore della disposizione successiva deve essere operata 'unitariamente e in concreto'. Si è ritenuto di mantenere invece fermo il principio di intangibilità del giudicato soprattutto per ragioni pratiche (anche se il favor libertatis avrebbe potuto indurre a stemperare, sia pure in parte, la rigidezza del principio secondo le indicazioni del progetto Pagliaro), preferendo comunque parlare di 'pronuncia irrevocabile' anziché di 'sentenza irrevocabile' allo scopo di fare riferimento ad ogni ipotesi di decisione definitiva.
Ribadita la norma di cui all'art. 2 comma 4 del c. p. Rocco, per esigenze di chiarezza si è specificato che le leggi eccezionali e temporanee possono operare retroattivamente quando le disposizioni più favorevoli contenute in leggi successive hanno il medesimo oggetto.
Dato il meccanismo di funzionamento del decreto-legge non convertito o convertito con emendamenti e della legge dichiarata incostituzionale, che sfugge allo schema della successione delle leggi nel tempo, si è resa necessaria una considerazione espressa dei due fenomeni.
Nel primo caso, ferma restando la necessità di adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 51/85, la Commissione: a) preso atto della diversità di posizioni emerse in dottrina in ordine al problema della applicabilità del decreto-legge non convertito contenente norme penali più favorevoli ai fatti commessi sotto la sua vigenza, applicabilità che secondo taluni presupporrebbe una revisione dell'art. 77 comma 3 Cost., e consiglierebbe a tutt'oggi di astenersi da qualsiasi disciplina espressa; b) considerato che la assenza di una disciplina espressa aprirebbe comunque la strada a spazi di pericolosa incertezza interpretativa, in quanto l'interprete si troverebbe stretto fra una applicazione rigida del principio secondo cui i decreti-legge non convertiti nei termini perdono efficacia 'sin dall'inizio', e la spinta ad una estensione analogica dei principi di favor rei enunciati in materia di sopravvenienza di leggi penali più favorevoli; c) ha ritenuto, pur giudicando opportuna una revisione della formulazione del comma 3 dell'art. 77 Cost., di stabilire che le disposizioni enunciate in caso di successione di leggi penali nel tempo si applicano altresì nei casi di conversione di un decreto-legge con emendamenti, limitatamente alle norme emendate, o di mancata conversione di un decreto-legge, ferma tuttavia, per quest'ultimo caso, l'applicabilità della legge del tempo per i fatti commessi prima dell'emanazione del decreto-legge (soluzione già proposta dal progetto Pagliaro).
Analogamente, la Commissione ha ritenuto di richiamare i commi 1, 2, e 3 dell'art. 5 con riferimento ai casi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una legge penale, pur rilevando anche qui la opportunità di procedere ad una revisione della disciplina costituzionale (art. 136 Cost.).
La definizione di tempus commissi delicti agli effetti del fenomeno della successione di leggi penali nel tempo corrisponde a soluzioni ampiamente accettate, e risolve un problema oggi controverso a proposito dei reati permanenti.
L'art. 6 ripropone, con alcune modificazioni e semplificazioni, il contenuto degli artt. 3, 4 e 6 del c. p. Rocco, i quali nel loro insieme definiscono i reati che si considerano commessi nel territorio dello Stato, e risultano assoggettati alla legge italiana in forza del principio di territorialità.
Il comma 1 del nuovo testo ripropone il contenuto dell'art. 3 c.p. Rocco con alcune modificazioni: a) l'inciso "cittadini o stranieri" è stato omesso in quanto pleonastico; b) è stato ugualmente omesso il comma 2, che si limita ad anticipare la disciplina di cui ai successivi artt. 7-10 c.p. Rocco; c) la espressione "obbliga" di cui al comma 1, che evocava superate concezioni imperativistiche della legge penale, e rischiava di richiamare sopite dispute dogmatiche sul concetto di capacità penale, è stata sostituita con quella più neutra di "si applica".
Per quanto concerne il concetto di territorio dello Stato, si fa (implicito) ovvio riferimento alle norme (concernenti il suolo, il sottosuolo, lo spazio aereo sovrastante, le acque interne, il lido del mare, il mare territoriale) che si ricavano da altri settori dell'ordinamento e dal diritto internazionale.
Il comma 2, corrispondente alla disciplina della maggioranza dei codici europei, ripropone il testo dell'art. 4 comma 2 c.p. Rocco.
Il comma 3 ripropone con alcune variazioni il principio di ubiquità enunciato dall'art. 6 comma 2 c.p. Rocco, e sancito, sia pure in diversa misura, dalla quasi totalità dei codici penali europei. Le modifiche riguardano: a) la introduzione della clausola "salvo quanto stabilito in trattati internazionali in vigore per l'Italia"; b) la precisazione che il reato tentato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l'evento avrebbe dovuto verificarsi in tale territorio nella rappresentazione dell'agente; c) la specificazione che l'evento cui si fa riferimento è quello "naturalistico", allo scopo di evitare interpretazioni dirette a comprendere nel concetto di evento anche le circostanze aggravanti, o a dilatare tale nozione fino ad intenderla come lesione giuridica.
Il comma 4 tende a circoscrivere, seguendo il modello del codice francese, la dilatazione della responsabilità penale che il criterio della ubiquità produce in caso di concorso di persone nel reato ( punibilità secondo la legge italiana non solo di colui che realizza nel territorio italiano una condotta atipica di partecipazione ad un fatto principale commesso all'estero, ma anche del concorrente che, agendo all'estero, viene considerato come se avesse operato in Italia pure se il fatto da lui commesso non è punibile secondo la legge dello stato in cui ha agito, ovvero non sarebbe perseguibile se fosse stato interamente commesso all'estero, perché inferiore ai limiti edittali di cui all'art. 10 c.p. Rocco).
La Commissione ha ritenuto, infine, di non riproporre la anacronistica definizione di cittadino italiano di cui all'art.4 comma 1 c.p. Rocco, potendosi, agli effetti del concetto di cittadinanza italiana, fare più utilmente (implicito) rinvio alle norme della legge n. 91/92 che definiscono l'acquisto della medesima. Unico problema potrebbe risultare dalla mancata indicazione degli apolidi, considerati nel codice Rocco cittadini italiani "se residenti nel territorio dello Stato". In realtà, agli effetti della responsabilità penale generale la distinzione fra cittadini e stranieri assume rilievo esclusivamente con riferimento ai reati commessi all'estero, per cui a tale effetto pare sufficiente menzionare la posizione dell'apolide nei confronti di tale realizzazione all'estero (art. 8 comma 4 del nuovo testo normativo). In relazione alla estradizione, nei cui confronti viene in considerazione il problema della non estradabilità del cittadino (art. 26 comma 1 Cost.), come si chiarirà in seguito l'intera materia dovrebbe costituire oggetto di apposita legge organica all'interno della quale potrà essere appositamente considerata la posizione dell'apolide, mentre nelle more di tale legge organica il problema potrà trovare soluzione transitoria in una disposizione di attuazione e coordinamento. Problemi minori riguardanti norme penali che prevedono oggi come soggetto attivo esclusivamente il cittadino (artt. 242 e 246 c.p.) o la misura della espulsione dello straniero (art. 312 c.p.), potranno trovare a loro volta specifica soluzione in disposizioni di attuazione e coordinamento.
La Commissione ha discusso lungamente il problema concernente la punibilità in Italia di delitti commessi all'estero, che il c. p. Rocco aveva dilatato, nella prospettiva nazionalistica cui si ispirava la legislazione del 1930, utilizzando in diverso modo i criteri della universalità, della cittadinanza e della difesa.
Fra le contrapposte tendenze ad una riduzione consistente dell'area di punibilità, ed il mantenimento di una rilevante possibilità di intervento della giustizia penale italiana nei confronti dei reati commessi all'estero, ha prevalso la seconda linea. Si è giudicato infatti che fino a quando non si realizzerà la creazione di un ampio spazio di tutela penale internazionale, o quantomeno comunitaria europea, insopprimibili esigenze di protezione penale di interessi primari consigliano prudenza nel privarsi della possibilità di utilizzare giustizie penali nazionali per prevenire e reprimere anche reati commessi oltre confine. A favore di tale scelta ha d'altronde pesato la considerazione che numerosi codici penali europei non si sono preclusi la possibilità di intervenire penalmente nei confronti di reati commessi all'estero, ma anzi la hanno potenziata nella prospettiva della sopra menzionata esigenza di protezione di beni giuridici di rilievo.
La Commissione ha ulteriormente osservato che la perdurante assenza di una protezione giuridica autonoma degli interessi della Comunità Europea crea un vuoto di tutela che deve essere per il momento colmato attraverso la modificazione delle legislazioni nazionali, sia con norme di carattere generale nella parte dedicata alla disciplina della punibilità di reati commessi all'estero (in questo senso si è pronunciato il progetto Riz), sia nella parte speciale con la predisposizione di specifici strumenti di tutela.
Determinatasi a confermare, sia pure nel quadro di una ratio completamente diversa, e con alcune significative modificazioni rispetto alla disciplina del c.p. Rocco, la tendenza a non precludere la applicabilità della giustizia italiana nei confronti di reati gravi commessi all'estero, la Commissione si è orientata ad eliminare la normativa del codice penale Rocco concernente il delitto politico e la estradizione, in entrambi i casi superata dalla evoluzione del diritto internazionale. Sulle orme di quanto già statuito da numerosi codici penali europei, essa ha infatti ritenuto che si tratti di materie che devono essere disciplinate, piuttosto che dal codice penale, da specifiche leggi organiche in grado di assicurare, con una disciplina articolata, puntuale rispondenza alle convenzioni internazionali sui diritti umani ed agli artt. 10 e 26 Cost.
In materia di estradizione, la preoccupazione di non creare vuoti di disciplina che avrebbero potuto essere interpretati in senso ostativo alla applicabilità dell'istituto, hanno tuttavia indotto la Commissione ad inserire comunque nelle norme di attuazione e di coordinamento una disposizione di carattere transitorio destinata a regolare la materia fino al momento della entrata in vigore della sopra menzionata legge organica (art. 4 comma 2 disp. att. e coord.).
Nella prospettiva sopra menzionata, l'art. 7:
- nelle lettere a) e b) sancisce il principio di universalità della legge italiana con riferimento a gravissimi delitti 'contro le genti' (delitti in materia di prevenzione e repressione del genocidio; tratta, commercio, alienazione e acquisto di schiavi).
- nelle lettere c), d), e), f),g) h) utilizza il principio di difesa per tutelare rilevanti interessi italiani in parte coincidenti con quelli considerati dall'art. 7 nn. 1-4 del c. p. Rocco. Rispetto alla codificazione Rocco si possono tuttavia rilevare alcuni cambiamenti: 1) che nelle lettere c), d) e f) si dà rilievo agli interessi della Comunità Europea, ovviamente rinviando ad una modifica delle corrispondenti fattispecie incriminatrici; 2) che stante la profonda riforma cui dovrebbe essere sottoposto il titolo I del Libro II codice penale (v. documento di base 15 luglio 1999 di questa Commissione), il numero dei reati richiamati dalla lettera c) dovrebbe risultare, per quanto concerne i delitti contro lo Stato, drasticamente ridotto; 3) che nel testo della lettera f) l'espressione 'Stato', figurante nel n. 4 dell'art. 7 c.p. Rocco, è stata sostituita con quella 'pubblica amministrazione', più confacente ad una concezione moderna dei rapporti fra cittadino ed esercizio della attività pubblica; che ai pubblici ufficiali sono stati parificati gli incaricati di un pubblico servizio; che pubblici ufficiali e incaricati di un pubblico servizio sono stati considerati non soltanto sotto il profilo della commissione di reati, ma anche sotto quello di soggetti passivi; 4) che nell'intento di adeguare la disposizione in esame all'avvenuta integrazione del nostro sistema in una economia di mercato internazionale, sono state inserite, alla lettera g), le ipotesi di abuso di informazioni privilegiate e aggiotaggio attinenti a strumenti finanziari ammessi alla negoziazione nei mercati regolamentati italiani; 5) che nell'intento di tutelare rilevanti interessi di cittadini la lettera h) propone (secondo un suggerimento che era già presente nel progetto Pagliaro) la punibilità in Italia di delitti quali l'omicidio doloso, le lesioni dolose gravissime, il sequestro di persona a scopo di estorsione e violenza sessuale mediante congiunzione carnale in danno di un cittadino italiano.
- nella lettera i) prevede una formula di chiusura, idonea a dare rilievo a tutte le ulteriori ipotesi di reato per le quali speciali disposizioni di legge, trattati internazionali in vigore per lo Stato o regolamenti comunitari stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana.
Stante la particolare gravità dei reati considerati, si è ritenuto di non subordinare la loro punibilità in Italia né alla presenza del colpevole nel territorio dello Stato, né alla richiesta del Ministro della Giustizia.
Seguendo una scelta, come si è già rilevato, comune alla quasi totalità dei sistemi penali europei, la Commissione nell'art. 8 ha previsto la punibilità in Italia di altri reati posti in essere dal cittadino all'estero, sul presupposto che nei confronti di tale soggetto che si sia reso colpevole di reati all'estero, e si trovi nel territorio dello Stato, la collettività non può assumere un atteggiamento di indifferenza, ma deve optare per la applicazione di sanzioni in grado di neutralizzare la pericolosità del reo. Quando il reato assume un livello di particolare gravità, è sembrato giusto subordinare la procedibilità alla sola presenza nel territorio dello Stato (comma 1); nei casi di minore gravità, di subordinarla altresì alla richiesta del Ministro, ovvero alla istanza o querela della persona offesa (comma 2). Qualora il delitto sia stato commesso a danno di uno Stato estero o di uno straniero, allo scopo di evitare inutili doppioni di intervento giudiziario, si è altresì subordinata la procedibilità alla condizione che non abbia avuto luogo la estradizione del colpevole (comma 3).
Recependo il modello seguito da alcuni recenti codici penali europei, si è infine previsto che la punibilità in Italia scatti anche nei confronti di colui che abbia acquisito la cittadinanza italiana successivamente al fatto di reato. Ipotesi cui si è aggiunta quella del rifugiato o dell'apolide che abbia la sua residenza o dimora abituale nel territorio dello Stato, salvo che abbia avuto luogo la estradizione (comma 4).
Questa disciplina, pur riproducendo quella dell'art. 9 c.p. Rocco, introduce comunque alcune variazioni rispetto alla normativa vigente: a) la clausola di apertura di cui al comma 2 "salvo quanto stabilito in trattati internazionali", che mira ad evitare possibili contrasti fra la disciplina nazionale e quella internazionale; b) la previsione espressa, sempre nel comma 2, del requisito della presenza nel territorio dello Stato; c) la locuzione "salvo che abbia avuto luogo la estradizione" contenuta nei commi 3 e 4, che per un verso sopprime il riferimento alla desueta offerta di estradizione e, per altro verso, mira ad evidenziare con chiarezza che l'estradizione rappresenta solo un ostacolo alla punizione e non alla procedibilità dell'azione penale; d) la sopra menzionata disciplina di cui al comma 4; d) la circostanza che l'ipotizzato abbassamento dei valori edittali della reclusione avrà l'effetto di circoscrivere la punibilità in Italia svincolata dalla richiesta del Ministro della Giustizia.
Anche la punibilità dello straniero che commette reati all'estero trova la sua ratio nella opportunità che lo Stato non assuma un atteggiamento di indifferenza rispetto alla commissione di delitti gravissimi commessi da stranieri che si trovino nel territorio dello Stato, e dei quali non sia stata disposta la estradizione (comma 1 dell'art. 9), o da reati meno gravi commessi a danno di interessi italiani o di interessi stranieri, alle condizioni, rispettivamente, che il reo si trovi nel territorio dello Stato e vi sia stata richiesta del Ministro, ovvero istanza o querela della persona offesa (comma 3), o che si trovi nel territorio dello Stato, vi sia stata richiesta del Ministro e non sia stata disposta la estradizione (comma 4).
Con l'art. 10 comma 1 si è inteso chiarire che il requisito della presenza del reo nel territorio dello Stato costituisce una condizione di procedibilità e non una condizione di punibilità. L'ulteriore puntualizzazione che il requisito in parola deve sussistere al momento dell'esercizio dell'azione penale (salvo il disposto dell'art. 346 c.p.p.) tende a contrastare l'orientamento giurisprudenziale che ritiene sufficiente la sua ricorrenza prima della sentenza di primo grado, con un'evidente violazione delle garanzie di difesa. La formulazione proposta rende irrilevante che la presenza del reo sia venuta meno dopo l'inizio dell'azione penale.
In tema di richiesta del Ministro della giustizia per connessione di materia è stato collocato nell'art.10 quanto stabilito dall'art. 128 comma 2 c.p.Rocco ( comma 1 lettera b).
E' noto che sussistono ancora forti contrasti in ordine alla vigenza del principio della doppia incriminazione nei confronti delle ipotesi considerate dal c.p. Rocco (la sua operatività è pacifica solo nei confronti dell'art. 9 comma 3 c.p.). Tale principio è invece enunciato nella quasi totalità dei sistemi penali europei, e, come già aveva fatto il progetto Pagliaro, si è pertanto ritenuto di inserirlo nel codice penale (comma 1 lettera c). E' quasi superfluo affermare che la sua enunciazione comporta comunque, semplicemente, che il fatto sia genericamente qualificato come reato nel Paese in cui è commesso, senza una necessaria identità né di titolo giuridico, né di conseguenze penali.
In materia di computo della pena, al fine di prevenire ogni incertezza, l'art. 10 lettera d enuncia una regola precisa.
Quasi tutti i codici penali europei prevedono che le sentenze definitive rese da autorità giurisdizionali straniere e, in caso di condanna, l'esecuzione o la prescrizione della pena, operano come limite all'esercizio dell'azione penale per reati commessi all'estero. Lo stesso principio è stato previsto dai Progetti Pagliaro e Riz.
La Commissione ha recepito questo radicato orientamento nell'art.11 comma 1 del Progetto, prevedendo altresì, nel comma 3, che nel giudizio rinnovato nello Stato, la pena detentiva espiata e la custodia cautelare sofferta all'estero sono sempre computate.
Con riferimento ai reati parzialmente commessi nel territorio dello Stato (art. 6 commi 3 e 4) si è optato per rinnovare il giudizio a richiesta del Ministro della giustizia.
Il
reato
Principi generali.
La Commissione, seguendo una
opinione largamente condivisa nel dibattito seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 (v. ad esempio il parere formulato dalla Corte di Cassazione), ha optato per il mantenimento della dicotomia delitti-contravvenzioni, ritenendo prevalenti le considerazioni a suo tempo prospettate a sostegno di questa scelta: a) pericolo di un appesantimento della categoria dei delitti a fronte della difficoltà di realizzare una depenalizzazione che superi determinate soglie di incisività; b) persistente validità del modello contravvenzionale in ragione della sua specifica idoneità a recepire le esigenze di una configurazione dinamica delle fattispecie di reato (fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, con una tipicità soggettiva poco marcata e tale da giustificare la previsione indifferenziata, ecc.); c) esistenza di contravvenzioni non trasformabili agevolmente in delitti (es., contravvenzioni concernenti la sicurezza del lavoro), e che è opportuno sottrarre comunque alla depenalizzazione allo scopo di continuare a sottoporle al controllo giurisdizionale; d) validità del modello di reato contravvenzionale individuato dal progetto Pagliaro nelle tre categorie dei reati consistenti nella violazione di regole cautelari, dei reati integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo o vigilanza, e dei fatti di ridotta offensività.
Il tema del rapporto di causalità, che per ragioni di tempo non era stato affrontato nella prima fase dei lavori, ha costituito oggetto di una discussione particolarmente ampia da parte della Commissione.
La Commissione ha innanzitutto preso atto che la causalità, ed in particolare il modello nomologico-deduttivo (integrato dal rinvio alle leggi di copertura), sta attraversando una fase critica. Vi sono infatti materie in cui l'erosione da parte della giurisprudenza di tale paradigma causale appare evidente, e con riferimento alle quali tende ad affermarsi una ricostruzione della causalità ancorata a fattori di tipo prognostico-probabilistico, se non addirittura consistente nella rilevazione del rischio, o dell'aumento del rischio connesso all'esercizio di una determinata attività. Ciò si verifica, ad esempio, in settori quali: a) l'attività medica, dove, a fronte della pluralità dei fattori causali che sembrerebbero sovente entrare in gioco, lo strumento statistico e la epidemiologia sono spesso diventati indicatori decisivi agli effetti della rilevazione del rapporto causale; b) le alterazioni ambientali, in cui gli eventi (in genere macro-eventi) dipendono da una serie di condotte e situazioni, spesso differite nel tempo e concorrenti con fenomeni naturali, con riferimento alle quali risulta difficile risolvere il problema causale limitandosi a richiedere se non avere tenuto una di quelle condotte avrebbe evitato l'evento nelle dimensioni verificatesi; c) la fenomenologia del danno da prodotto, nei cui confronti è ricorrente la impossibilità di identificare con certezza, o anche soltanto con elevata probabilità, quale sia stato il fattore produttivo di nocumento.
La giurisprudenza che si sta orientando verso ricostruzioni della causalità centrate su mere rilevazioni di tipo probabilistico, o su mere correlazioni condotta-rischio (o aumento del rischio), coglie un aspetto sicuramente importante della società moderna, sempre più caratterizzata da attività complesse, professionalizzate, che presuppongono un alto livello di organizzazione, all'interno delle quali non è molte volte agevole provare rigorosamente l'esistenza di un rapporto di condizionalità necessaria. In questo senso essa risponde alla esigenza di rafforzare la tutela penale in materie che coinvolgono beni giuridici di rilevante spessore (vita, salute, ambiente, ecc.), introducendo una flessibilità applicativa delle norme sulla causalità che consentono di raggiungere livelli di intervento penale altrimenti impensabili in ragione della difficoltà della prova.
Il costo di scelte di questo tipo è tuttavia elevato sul terreno della salvaguardia del principio di legalità e di tipicità delle fonti di responsabilità penale, rischiando, nei casi più macroscopici, di attentare addirittura al principio di personalità della responsabilità penale. Come è stato giustamente rilevato, mentre la causalità ricostruita con il ricorso a leggi di copertura, e ancorata al metodo dell'accertamento nomologico-deduttivo, svolge una importante funzione delimitativa della punibilità, consentendo di selezionare nell'ambito delle fattispecie causalmente orientate le condotte tipiche, il superamento di questo modello allarga la sfera di applicabilità del precetto, attraendo nella sua orbita anche eventi che non possono essere ritenuti, dal punto di vista logico-scientifico, conseguenza della condotta. Il principio di tassatività-determinatezza e il principio di personalità della responsabilità, che conformano il sistema penale anche a livello di enunciato costituzionale, impongono pertanto di salvaguardare la funzione selettiva del nesso di causalità, e di formulare una disciplina per quanto possibile tassativa.
Determinatasi a riproporre una disciplina del rapporto causale improntata alla necessità di provare il nesso di condizionalità necessaria tra condotta ed evento, la Commissione ha esaminato diversi possibili modelli. Dopo ampia discussione, ha ritenuto di non discostarsi troppo dal testo del codice penale Rocco, al fine di sottolineare la continuità con una tradizione normativa consolidata ed idonea a fondare applicazioni corrette.
In questa prospettiva, la Commissione ha ritenuto superfluo precisare normativamente che 'nella ricostruzione del nesso di causalità il giudice deve tenere conto delle conoscenze scientifiche disponibili al momento del giudizio', come era stato suggerito in un primo momento da qualche componente della Commissione; e non ha recepito la discussa categoria dell'imputazione oggettiva dell'evento ('nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato quando l'evento, conseguenza della sua azione od omissione, non costituisca la realizzazione del pericolo illecitamente determinato dalla condotta').
La soluzione proposta risulta ispirata ai seguenti criteri:
- prevedere (art. 13 comma 1) come principio cardine che "nessuno può essere punito per un fatto previsto dalla legge come reato se la sua azione od omissione non è condizione necessaria dell'evento da cui dipende la esistenza del reato". Si tratta sostanzialmente della enunciazione del principio della conditio sine qua non, già enunciato nel comma 1 dell'art.40 c.p. Rocco, qualificato dal riferimento al concetto di 'condizione necessaria' (sostanzialmente conforme il progetto Riz, che con espressione un po' ridondante parla di condizione 'indispensabile e necessaria').
- separare, in ragione della evidente diversità di struttura, e della conseguente opportunità di formulare una disciplina specifica che tenga conto delle sue peculiarità, la c.d. causalità nei reati omissivi rispetto alla causalità materiale dei reati di azione, pur sottolineando nel comma 1 dell'art. 13 che in entrambi i casi il profilo di condizionalità necessaria costituisce requisito indispensabile.
- riproporre (art. 13 comma 2) il principio secondo cui "il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l'azione o l'omissione e l'evento", già previsto dall'art. 41 comma 1 c.p. Rocco.
- eliminare il contenuto dell'art. 41 comma 2 c.p. Rocco, in considerazione del coro unanime di critiche, del tutto condivisibili, che ha investito tale disposizione;
- prevedere (art. 13 comma 3) che 'la disposizione di cui al comma precedente si applica anche quando la causa preesistente o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui' (corrispondente al contenuto dell'art. 41 comma 1 c.p. Rocco).
- stabilire ( art. 13 comma 4) che 'l'imputazione dell'evento è comunque esclusa quando esso costituisce conseguenza eccezionale della condotta', attribuendo in questo modo rilevanza normativa alla c.d. 'causalità umana' (secondo la quale non può essere addebitato ad un soggetto ciò che secondo le regole normali sfugge al suo dominio), che, come aveva rilevato il progetto Pagliaro, appartiene ormai alla tradizione della dottrina italiana ed è recepita da una parte consistente della giurisprudenza.
Enunciata la disciplina del rapporto causale nei termini sopra menzionati, la Commissione sottolinea che essa, ponendosi in continuità con la tradizione, intende contrastare le tendenze a forzare il criterio della condizione necessaria e ad eludere le esigenze di rigoroso accertamento del nesso causale relativamente all'evento in concreto verificatosi. La Commissione è ben consapevole che tali tendenze si sono manifestate con riguardo a materie in cui sono in gioco esigenze di tutela di beni fondamentali (per es. la salute); ma ritiene che, di fronte a fenomeni che non si prestino ad essere ricondotti a un modello verificabile di causalità, strumenti di tutela adeguati vadano ricercati sul terreno della parte speciale: si pensi, in proposito, alla possibile introduzione di specifici e sufficientemente tipizzati 'delitti di rischio'.
Ultima considerazione. Di fronte alla difficoltà di fornire risposte adeguate al problema della delimitazione del rapporto di causalità, taluno ha avanzato l'ipotesi che, seguendo le orme del codice penale tedesco, si rinunciasse a disciplinare l'istituto. La proposta è stata unanimemente superata. Un codice penale muto nei confronti di un elemento fondamentale della teoria del reato come la causalità, mal si concilierebbe con la tradizione giuridica italiana, e proprio il silenzio in tema di causalità potrebbe d'altronde aprire davvero una stura senza limiti a prassi applicative basate sugli incerti confini della prognosi probabilistica e sul concetto del maggior rischio, come tali gravemente lesive del principio di legalità.
Sul problema della causalità nei reati omissivi, la Commissione ha ritenuto di dovere proporre una formulazione che, pur muovendosi nel solco del vigente art. 40 cpv., comporta una meditata presa di distanza dall'interpretazione che ne è data dalla giurisprudenza prevalente.
Secondo l'art.14 "non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, se il compimento dell'attività omessa avrebbe impedito con certezza l'evento" (s'intende, l'evento verificatosi hic et nunc, da individuare secondo i normali criteri in materia di causalità).
Il mantenimento della formula del codice Rocco, là dove fa riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento, intende facilitare la comprensione del principio affermato, mostrandone la continuità con l'ordinamento vigente, e ribadendo che la questione della causalità dell'omissione acquista rilievo penalistico soltanto in presenza dell'inadempimento di obblighi giuridici di attivarsi (i quali fondano non già la causalità, bensì la tipicità dell'omissione 'non impeditiva').
L'aggiunta apportata al vigente dettato normativo ha funzione restrittiva rispetto all'indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'omissione antidoverosa sarebbe causale quando l'impedimento dell'evento si sarebbe ottenuto con un grado di probabilità (apprezzabile), anche lontano dalla certezza. La Commissione è ben consapevole che tale ultimo indirizzo risponde ad esigenze condivisibili di reazione contro inadempimenti colpevoli anche gravi, ma ritiene che una soluzione che rinunciasse al requisito dell'impedimento certo si porrebbe in contrasto non semplicemente con il criterio della condizione necessaria, ma, soprattutto, con il principio di personalità della responsabilità (per l'atteggiamento critico nei confronti della sopra menzionata giurisprudenza è significativo il parere formulato dalla Commissione della Procura Generale).
Senza la certezza dell'effetto impeditivo (s'intende, quella probabilità confinante con la certezza che può ragionevolmente raggiungersi) è infatti logicamente contraddittorio attribuire all'omissione,
ancorché antidoverosa, il valore di condizione sine qua non dell'evento, non potendosi escludere che l'evento si sarebbe verificato anche se l'azione doverosa omessa fosse stata compiuta. In tal caso l'evento sarebbe, per l'omittente, un fatto altrui, che non può essere ascritto a suo carico pena la violazione dell'art. 27 Cost.
Ovviamente (anche se non sempre è chiaro alla giurisprudenza) all'accertamento della causalità dell'omissione è preliminare l'accertamento del nesso di causalità materiale, ovvero degli antecedenti positivi dell'evento, in relazione ai quali si pone il problema dell'eventuale obbligo d'impedimento (es., soltanto dopo che sia stata accertata l'eziologia 'professionale' di una data patologia sorge la questione dell'eventuale responsabilità omissiva dell'operatore).
La soluzione adottata è dunque volta a ricondurre l'ambito della responsabilità 'commissiva per omissione' entro limiti imposti da principi garantisti inderogabili, a prezzo di aprire lacune di tutela di fronte ad inadempimenti colpevoli ma dei quali sia dubbia la rilevanza causale ('non
impeditivà). Emerge qui un limite di funzionalità del modello del reato 'commissivo per omissione', che dovrebbe indurre il legislatore alla ricerca (già lo si è rilevato nel paragrafo che precede trattando in generale del rapporto causale) di alternative più idonee, come la previsione 'mirata' di figure di reato omissivo proprio, di mera condotta: tecnica che consentirebbe, a differenza del reato 'con
eventò, di anticipare l'intervento penale in funzione del pericolo derivante dall'antidoverosa omissione.
Del tutto nuova, rispetto al codice vigente, è la proposta di introdurre una disposizione in materia di pericolo concreto (art. 15).
Il testo proposto intende ovviare al deficit di determinatezza ed al rischio di applicazioni dilatate o incontrollabili di fattispecie le quali, in modo esplicito od implicito, assumono il pericolo (più o meno) concreto quale elemento di fattispecie, senza però dare indicazioni testuali sui criteri di determinazione concettuale (prima ancora che di accertamento) del pericolo. Il problema, allo stato, si pone in particolare nell'ambito dei delitti contro l'incolumità pubblica, ma ha portata più generale. La Commissione ha ritenuto che, in assenza di criteri affidabili di elaborazione dottrinale o giurisprudenziale, sia necessario un chiarimento legislativo, che aiuti a individuare, per così dire, una soglia tipica di concretezza del pericolo, cui riferirsi ogni volta che il testo normativo 'di parte speciale' non additi una soglia diversa.
Secondo il criterio proposto, "il pericolo concreto di un determinato evento dannoso deve ritenersi sussistere se la condotta ha determinato o sensibilmente aumentato il rischio del verificarsi dell'evento, e questo non si è verificato per la presenza di circostanze eccezionali o casuali, o per la mancanza di circostanze normalmente esistenti, ovvero si è verificato per altra causa".
Questa formula intende additare un elevato livello di concretezza del pericolo, limitando l'estensione delle fattispecie 'con evento di pericolo concreto' ai soli casi in cui l'evento di danno non si è verificato a causa di circostanze eccezionali o casuali (cioè sulle quali non si può fare affidamento). L'adozione di un criterio restrittivo poggia su esigenze garantiste, e lascia impregiudicata la possibilità del legislatore 'di parte speciale' di adottare, dovunque lo ritenga necessario, un criterio meno selettivo, purchè definito.
L'espresso riferimento all'ipotesi in cui l'evento di danno si è verificato per altra causa rende infine esplicito (ma ciò è implicito nei principi sulla causalità) che l'idoneità di una condotta ad aumentare il rischio (del verificarsi di un certo tipo di evento) non è e non può logicamente essere, di per sé, criterio di attribuzione causale.
Responsabilità per omissione.
Le posizioni di garanzia.
Un intero capo del titolo sul reato è dedicato alla responsabilità per omissione. E' questo uno dei punti di maggiore novità, e anche di maggiore complessità.
In materia di reati omissivi, la proposta della Commissione ha cercato di sviluppare l'indirizzo di fondo enunciato nel documento di base 15 luglio 1999: quello di una "forte selezione delle figure di reato omissivo, per la più penetrante incidenza dei comandi di agire nella sfera di libertà dei destinatari e per il peculiare rischio di forzatura dei criteri della responsabilità personale" (per un convinto apprezzamento di questa scelta v. parere della Commissione della Corte di Cassazione al documento di base 15 luglio 1999).
La peculiare intrusività dei comandi di agire (che non solo delimitano dall'esterno, come i divieti, ma vincolano internamente le scelte d'azione) pone l'intero capitolo dei reati omissivi, propri ed impropri, sotto il segno di una peculiare problematicità rispetto ai principi d'un ordinamento liberale. D'altra parte, per quanto si voglia limitare il campo della responsabilità per omissione, una estensione non piccola è sollecitata da esigenze e vincoli di solidarietà, o di comune appartenenza ad organizzazioni o comunità, o da esigenze di controllo di fonti di pericolo ormai ubiquitarie.
Il problema cruciale, per una disciplina 'di parte generale' dei reati omissivi, è quello della responsabilità 'commissiva per omissione'. Problema 'di parte generale' perché, secondo il modello di disciplina generalmente adottato (anche dal codice Rocco), tale figura viene costruita sulla base di una clausola generale che dà rilievo penalistico ad obblighi giuridici il cui fondamento sta al di fuori del diritto penale, e che, combinandosi con le fattispecie di parte speciale, ne estende la portata all'ipotesi dell'omesso impedimento dell'evento.
L'impegno dedicato dalla Commissione alla ricerca di soluzioni nuove ha preso le mosse dalla condivisa valutazione di inidoneità del sistema vigente a soddisfare ineludibili esigenze di determinatezza delle fattispecie legali e di controllabilità delle applicazioni.
Il rispetto del principio di legalità, e comunque esigenze di certezza del diritto esigono che le 'posizioni di garanzia' penalmente rilevanti abbiano fondamento legale e siano identificabili con sufficiente precisione. Di fatto, nel diritto vigente tali condizioni appaiono precarie. Il modello adottato dal codice Rocco comporta, formalmente, un rinvio del diritto penale ad altri settori dell'ordinamento, mediante una disposizione (l'art. 40 cpv.) costruita come clausola generale. Ma il rinvio è 'in bianco': la formula legislativa non riesce a dare all'interprete indicazioni sufficienti a risolvere i dubbi; il prezzo pagato, e denunciato dalla dottrina, è un deficit di determinatezza.
Di più: l'attestarsi su di una clausola generale di rinvio 'in bianco' - dal diritto penale ad altri settori dell'ordinamento, ai quali in definitiva è rimessa la scelta sostanziale - equivale a rinuncia, o comunque si presta ad essere interpretato come rinuncia a selezionare le posizioni di garanzia rilevanti secondo valutazioni specificamente penalistiche. Rispetto all'idea della tutela penale come extrema ratio, la tecnica normativa adottata dal codice Rocco è strumento di espansione dell'intervento penale secondo ragioni radicate al di fuori del diritto penale. E' parso perciò doveroso tentare una strada alternativa: quella di una tendenziale tipizzazione delle posizioni di garanzia rilevanti, operata dal diritto penale secondo suoi specifici criteri, e non in modo pedissequo a scelte pensate per altri settori dell'ordinamento (scelta anch'essa apprezzata dalla Commissione della Corte di Cassazione nel parere sopra menzionato).
Su queste premesse, è stato elaborato un catalogo di posizioni tipiche di garanzia, che sostituisca la tecnica della clausola generale di rinvio. L'utilizzazione del concetto di 'posizioni di garanzia', estraneo al linguaggio del codice Rocco, è stata ritenuta possibile ed utile, alla luce della ricca elaborazione dottrinale e ricezione giurisprudenziale; del resto, il contesto in cui è utilizzato è di per sé esplicativo.
La via della tipizzazione, imboccata dalla Commissione, è suscettibile di sviluppi sia entro la 'parte generale' - con l'individuazione di posizioni di garanzia, matrici di doveri di attivarsi - sia nella parte speciale, con la diretta formazione di nuove fattispecie di reati omissivi puri. Esigenze di continuità con la tradizione, necessarie a rendere comprensibile la svolta, hanno condotto a proporre nella parte generale un catalogo che aspira ad essere esaustivo, ma consapevole del possibile insorgere di esigenze di tutela non ancora considerate, e perciò aperto ad eventuali ulteriori apporti, da stabilirsi con disposizione espressa.
Ciò non esclude che, in determinate materie, possano risultare più idonee, per migliore capacità di tipizzazione, soluzioni 'di parte speciale', cioè la configurazione di nuove fattispecie omissive pure (per alcuni esempi, infra, n. 4 di questo n. 2. 2. 1).
Motivato da ragioni specifiche del diritto penale, che inducono a ricercare soluzioni penalistiche formalmente autonome, il tentativo di tipizzazione non può peraltro prescindere dallo sfondo normativo 'extrapenale', ogni volta che questo concorra a plasmare i rapporti giuridici e/o fattuali che danno luogo a problemi 'di garanzia'. La rivendicazione di non subalternità della tutela penale, rispetto a quella apprestata in altro modo, si accompagna ad un'esigenza di coerenza interna dell'ordinamento: coerenza fra la ultima ratio di tutela, quale l'intervento penale dovrebbe essere, e le strutture anche normative cui il 'penale' accede. L'autonomia del penale, nel definire le 'posizioni di garanzia', è una autonomia relativa: attiene alla selezione ultima degli oggetti e delle tecniche di tutela penale, ma deve fare i conti con tutto ciò che fa parte dello sfondo, anche normativo, nel quale le esigenze di tutela prendono corpo.
Per il diritto penale, il nesso con le discipline extrapenali costituisce un ulteriore criterio di delimitazione: i doveri di agire, nei quali si articolano le singole posizioni di garanzia, sono quelli determinati dalla disciplina speciale delle situazioni considerate. Il codice penale stabilisce la rilevanza penale della posizione di garanzia, ma ne recepisce i contenuti ed i limiti preformati dai diversi settori dell'ordinamento. E' questo il senso della disposizione dell'art. 16 comma 2, introdotta come espresso chiarimento di un principio generale di coerenza dell'ordinamento giuridico (art. 16 comma 1).
Va da sé che la disciplina delle posizioni di garanzia attiene all'aspetto oggettivo (alla tipicità) delle fattispecie, e non è l'unico, ma uno fra i presupposti della responsabilità penale 'commissiva per omissione'. Già sul piano oggettivo, viene in rilievo la questione della causalità dell'omissione. Infine, per fondare la responsabilità del 'garante' deve concorrere in ogni caso la sua colpevolezza, secondo i principi generali di cui al capo III del titolo II.
Ad una lettura superficiale, il catalogo delle posizioni di garanzia, con la sua inconsueta ampiezza, potrebbe dare l'impressione di avere esteso l'area della responsabilità penale. E' vero il contrario: la sostituzione della clausola generale con ipotesi più definite, a un minore livello di genericità, è strumento di restrizione dell'area della responsabilità penale per omissione. Un'area che è poi ulteriormente ristretta dagli altri
teste richiamati criteri di delimitazione, dal cui necessario convergere dipende l'affermazione di responsabilità nel caso concreto.
Per quanto concerne le 'posizioni di protezione', viene in considerazione, innanzi tutto, l'esigenza della protezione di soggetti incapaci di provvedere a se stessi, per età o per infermità. Le figure di garanti, che possono e debbono ragionevolmente essere recepite dal sistema penale, nascono dentro il diritto di famiglia e delle persone, e comunque dentro la realtà di rapporti personali elementari, dai quali scaturiscano aspettative di protezione meritevoli di riconoscimento e sanzione.
Qualsiasi interesse dell'incapace può teoricamente venire in rilievo. Nella prospettiva della responsabilità penale omissiva, è parsa peraltro opportuna una delimitazione agli interessi fondamentali della persona: vita, integrità fisica, libertà personale, integrità sessuale.
Il garante primario è stato ovviamente individuato (art. 17 comma 1) nel genitore esercente la potestà, o in chi lo abbia sostituito. La posizione di garanzia si configura altresì in capo a chi abbia assunto la custodia di un minore o di altra persona incapace, per infermità o per vecchiaia, di provvedere a se stessa (art. 17 comma 2).
Risolvendo una questione controversa in dottrina, la Commissione ha ritenuto che l'esigenza di piena responsabilizzazione sorga solo quando l'incapace sia stato concretamente preso in carico dal garante: solo in tal caso questi dà concreto affidamento nella effettività, efficienza e sufficienza della sua prestazione, e l'interesse tutelato resta completamente nelle sue mani.
Là dove la concreta presa in carico vi sia stata, ponendo la persona dell'incapace nelle mani del terzo, la posizione di garanzia deve ritenersi sorta sia nel caso in cui il terzo si sia a ciò contrattualmente impegnato, sia nel caso di 'assunzione volontaria' ma con carattere impegnativo e produttivo di affidamenti. Anche in questo caso, infatti, l'interesse in gioco (e si tratta dei più vitali interessi della persona) passa nelle mani di chi lo ha preso in carico, e non si può più accettare che questi, interrompendo la sua prestazione, lasci l'incapace senza più tutela in una situazione 'esposta'; ovviamente, la garanzia cessa legittimamente quando l'incapace sia stato preso in carico (in modo impegnativo) da altri.
Analoghi criteri sono stati adottati (art. 22) con riferimento alle funzioni di guida o di sorveglianza nello svolgimento di attività implicanti pericolo da parte di altri (esempio scolastico, quella della guida alpina). La disposizione è stata pensata con riferimento ad attività (implicanti pericolo) che non necessariamente sono di per sé pericolose, ma possono diventarlo in certe condizioni, o se tenute da persone non all'altezza.
Nell'ambito delle posizioni di protezione viene in rilievo anche l'esercizio delle professioni sanitarie (art. 18). Anche qui, il presupposto della garanzia è la concreta presa in carico, negli stessi termini e per le stesse ragioni che valgono in genere per posizioni di protezione aventi origine in scelte volontarie. Il medico (o l'esercente altra professione sanitaria) diviene garante della salute del paziente, dal momento in cui lo abbia effettivamente 'preso in carico'; e l'ambito della garanzia è segnato dai termini della concreta presa in carico e dei conseguenti affidamenti.
Per quanto concerne i casi di inadempimento di doveri legali di presa in carico da parte del medico o di una struttura sanitaria, una disciplina 'di parte speciale' appare più adeguata a tipizzare situazioni del genere, e a definire condizioni di rilevanza penale che possono anche prescindere da concrete conseguenze lesive, attestandosi sulla configurazione di fattispecie di mera condotta (omissiva).
Per la stessa ragione, si suggerisce una soluzione 'di parte speciale' per il caso di inadempimento di doveri di soccorso (caso paradigmatico, gli interventi in caso di incendio, o di calamità 'naturali').
A titolo esemplificativo, si potrebbe pensare a fattispecie di questo tipo:
- Rifiuto d'intervento terapeutico. Colui che, nell'esercizio della professione di medico o di altra attività terapeutica, pur essendovi tenuto, indebitamente rifiuta, omette o ritarda o comunque non assicura che altri effettui un intervento diagnostico e terapeutico necessario in una situazione di pericolo attuale per la salute, è punito con ...... Se il fatto è commesso in una situazione di pericolo per la vita, si applica anche la pena dell'interdizione fino a due anni dalla professione sanitaria nel cui esercizio è stato commesso il reato. Nel caso derivino morte o lesioni personali, si applicano le disposizioni in materia di omicidio o di lesioni personali.
- Rifiuto di soccorso. Colui che, essendo tenuto ad interventi di soccorso in occasione di incidenti o di calamità naturali, indebitamente rifiuta, omette o ritarda interventi necessari per la salvezza di persone coinvolte, è punito con .... Se il fatto è commesso in una situazione di imminente pericolo per la vita, si applica anche la pena .... Se dall'omissione o ritardo derivano eventi di morte o lesioni personali, o disastri previsti nel titolo dei delitti contro l'incolumità pubblica, si applicano le disposizioni in materia rispettivamente di omicidio, o di lesioni personali, o di disastri previsti nel titolo dei delitti contro l'incolumità pubblica.
Con riguardo all'esercizio di pubbliche funzioni, la Commissione, a maggioranza, ha ritenuto di dover prevedere nella parte generale (in alternativa a una ipotizzata soluzione 'di parte speciale') una posizione di garanzia degli appartenenti a forze di polizia (art. 19), nonché degli esercenti funzioni pubbliche di controllo su aspetti che interessano la sicurezza della persone o dell'ambiente (art. 20).
Ovviamente, le formule proposte vanno interpretate - alla luce del criterio generale di cui all'art. 16 comma 2 - come attribuzione selettiva di rilevanza penale ad obblighi derivanti dalla disciplina speciale delle funzioni considerate.
Per gli appartenenti alle forze di polizia, la responsabilità penale è limitata all'omesso impedimento di reati della cui programmazione od esecuzione abbiano conoscenza.
Per gli esercenti funzioni pubbliche di controllo, la delimitazione è per campi di materia: delitti contro la vita, l'integrità fisica, l'incolumità pubblica e l'ambiente.
In entrambi i casi, l'opzione per il modello 'di parte generale' della responsabilità 'commissiva per omissione', attribuendo rilevanza alla causalità rispetto ad eventi determinati, è mirata sui casi più gravi, coprendo un ambito più ristretto di quello che può essere assegnato a fattispecie omissive pure, di parte speciale.
Di particolare rilievo, nella prassi, è il tema delle posizioni di controllo su fonti di pericolo. Come interessi da tutelare vengono in rilievo, ancora una volta, la vita e l'incolumità delle persone, nonché l'integrità dell'ambiente. Gli eventi da impedire sono stati individuati nei reati di danno o di pericolo per la vita o l'incolumità personale, o nei disastri che, nel codice riformato, integrino delitti contro l'incolumità pubblica o contro l'ambiente.
Per quanto concerne l'individuazione dei garanti, secondo il criterio generale adottato è garante colui che abbia il controllo di cose pericolose o fonti di pericolo (art. 23), a qualsiasi titolo. Non necessariamente, dunque, il proprietario della cosa: a fondare l'esigenza di garanzia, e insieme a consentirne l'adempimento, non è un dato formale, ma il potere fattuale che taluno abbia sulla cosa.
Il controllo, cui qui ci si riferisce, si lega ad un potere diretto sulla cosa o fonte di pericolo, a differenza del 'controllo' di competenza di organi pubblici che è invece legato a un potere di verifica e di impartire disposizioni.
Non è stata inserita fra le posizioni di garanzia la situazione, su cui v'è controversia, della attività pericolosa precedente. Viene prospettata, al riguardo, una soluzione 'di parte speciale', selettivamente mirata sugli eventi più gravi: - Mancata eliminazione di una situazione di pericolo incolpevolmente cagionata. Colui che, dopo avere incolpevolmente determinato una situazione concretamente pericolosa per la vita o l'incolumità delle persone, non si adopera per eliminare il pericolo cagionato, risponde ai sensi dell'art. 23 degli eventi di morte o lesioni personali, o disastri previsti nel titolo dei delitti contro l'incolumità pubblica, che ne siano derivati.
Posizioni di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse.
Il punto più delicato e più qualificante della proposta è il tentativo di meglio tipizzare le
posizione
i di garanzia nell'ambito di organizzazioni complesse (sulla importanza di affrontare questo tema ha particolarmente insistito il parere della Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, apprezzando l'impostazione già allora data alla relativa problematica).
Questo tema si intreccia con altri snodi fondamentali per la costruzione di un adeguato sistema di responsabilità penale e non: da un lato, con la questione della responsabilità delle stesse organizzazioni, sulla quale la Commissione ha elaborato soluzioni innovative; dall'altro lato, con questioni attinenti ai presupposti 'soggettivi' della responsabilità, cioè alle condizioni nelle quali il verificarsi di eventi penalmente sanzionati possa essere attribuito a colpa del soggetto indicato dalla legge come garante. Come già si è detto, la tipizzazione delle posizioni di garanzia concerne semplicemente l'individuazione dei destinatari dei comandi di attivarsi, attiene cioè ai presupposti oggettivi di una potenziale responsabilità, che potrà divenire responsabilità effettiva esclusivamente nel caso di realizzazione colpevole di un reato.
La determinazione dell'ambito della garanzia, dovuta dai soggetti agenti entro organizzazioni complesse, è stata esplicitamente raccordata con la garanzia dovuta dalle organizzazioni stesse, con una disposizione di carattere generale (art. 24 comma 1): "le persone giuridiche, le associazioni non riconosciute, gli enti pubblici o privati, le imprese anche individuali debbono adottare e attuare modelli organizzativi idonei a evitare che vengano commessi reati con inosservanza di disposizioni pertinenti all'attività dell'organizzazione, o comunque nell'interesse dell'organizzazione da persone agenti per essa".
La formula proposta addita un duplice campo di applicazione: da un lato, i reati commessi con inosservanza di disposizioni pertinenti all'attività dell'organizzazione (per l'essenziale, i reati colposi in materia di ambiente e sicurezza); dall'altro, i reati commessi nell'interesse dell'organizzazione da persone agenti per essa (per l'essenziale, delitti economici). Anche su questo punto vi è corrispondenza con la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche.
I requisiti contenutistici e di idoneità del modello organizzativo saranno ovviamente diversi, in funzione della natura e delle dimensioni dell'organizzazione, e del tipo di attività svolta. L'art. 24 comma 2 delinea uno schema di articolato, pensato per le situazioni più complesse, e sufficientemente rigoroso da evitare il rischio che possano essere invocati a discolpa modelli inefficaci o non seriamente applicati.
La disposizione sui modelli organizzativi, inserita nel capitolo sulla responsabilità per omissione, è stata pensata con precipuo riferimento alla responsabilità dell'organizzazione, ed è richiamata (art. 126) nel titolo sulla responsabilità delle persone giuridiche, dove svolge un ruolo fondamentale. Rispetto alla responsabilità delle persone fisiche, essa costituisce una premessa: l'indicazione di un obiettivo cui i diversi garanti sono chiamati a cooperare, nell'ambito di ruoli e competenze differenziati, e quindi in misura che va ulteriormente definita in relazione alle singole posizioni.
Vediamo, brevemente, i contenuti del modello organizzativo idoneo, la cui adozione e concreta attuazione costituisce adempimento della garanzia dovuta dalla 'organizzazione complessa':
Verifica e valutazione delle situazioni che comportano rischi di violazione della legge penale. Questa indicazione recepisce e generalizza l'impostazione di base (non invece i dettagli tecnici) del sistema del d. lg. 626/94 in materia di sicurezza e igiene del lavoro, dove adempimento fondamentale del datore di lavoro è per l'appunto la valutazione dei rischi, e la conseguente redazione di un documento che rifletta gli esiti della valutazione e delinei programmi e procedure per il raggiungimento degli obiettivi di sicurezza. La disposizione proposta lascia libertà per quanto concerne le forme, mentre pone come vincolante l'esigenza della verifica e valutazione dei rischi, non solo per la sicurezza, ma con riferimento a qualsiasi rischio di violazione della legge penale che possa ragionevolmente essere ricollegato all'attività dell'organizzazione (per es., rischi di frode nei confronti di clienti).
Una adeguata articolazione di funzioni, che assicuri in particolare le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio. Questo punto verrà approfondito quando si parlerà della delega di funzioni (§ 6 di questo n. 2.2.2).
Una adeguata formazione e informazione del personale, sugli aspetti rilevanti ai fini dell'osservanza della legge nello svolgimento dell'attività dell'organizzazione. Anche questa indicazione è tratta dalla normativa in materia di sicurezza del lavoro.
Misure materiali e organizzative e protocolli di comportamento atti a garantire lo svolgimento dell'attività nel rispetto della legge, ed a scoprire ed eliminare tempestivamente eventuali situazioni irregolari. E' questo il punto d'approdo dell'analisi dei rischi, e l'elemento fondamentale per l'efficienza del modello organizzativo.
Un idoneo sistema di controllo sulla attuazione del modello organizzativo e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate.
Il riesame e l'eventuale modifica del modello organizzativo, quando siano scoperte violazioni significative della legge penale, o in relazione a mutamenti nell'organizzazione o nell'attività, o in relazione al progresso scientifico e tecnologico.
Queste due ultime indicazioni hanno riguardo, l'una all'esigenza di controllo quale condizione essenziale per la 'tenuta' del sistema, e l'altra alle esigenze di aggiornamento in funzione di eventi sia interni che esterni all'organizzazione.
Un adeguato sistema disciplinare. E' un requisito che l'esperienza addita come necessario per la credibilità, la tenuta e in definitiva la effettività del modello organizzativo
Nell'ordinamento vigente, la più articolata disciplina di 'soggetti responsabili' è quella in materia di sicurezza e igiene del lavoro. Le leggi speciali prevedono figure nominate di 'garanti', a diversi livelli (datore di lavoro, dirigenti, preposti, ecc.), e cercano di specificare l'oggetto della garanzia con la previsione di una ampia rete di regole cautelari, e con clausole generali di chiusura. Sull'individuazione in concreto dei garanti, sui rapporti fra le diverse sfere di garanzia e sui presupposti soggettivi della responsabilità, la prassi ha elaborato, anche se non senza incertezze e contrasti, una sorta di teoria della delega e degli effetti della delega di funzioni, in termini passabilmente omogenei. Ulteriori importanti indicazioni sono desumibili dal d. lg. 626/94 e successive modificazioni. Per l'elaborazione delle proposte qui presentate, disciplina ed esperienza in materia di lavoro hanno rappresentato il principale punto di riferimento.
La Commissione ha ritenuto opportuno, per esigenze di certezza e di coerenza sistematica, che i principi portanti sui 'soggetti responsabili' nelle organizzazioni complesse (impresa et similia) vengano definiti in via generale nel codice penale.
La selezione dei punti da inserire nel codice è stata oggetto di attenta riflessione, trattandosi di intervenire su materie che restano essenzialmente disciplinate da leggi speciali, per le quali potrebbero talora essere preferibili principi differenziati, e comunque si aprirebbero problemi di raccordo con il codice riformato. L'inserzione di disposizioni codicistiche intende essere una selezione mirata di 'principi portanti', in risposta a problemi di disciplina fondamentali, comuni ai diversi campi, e bisognosi di espressa soluzione al più alto livello di generalizzazione e di visibilità, così da lanciare un messaggio legislativo chiaro e certo.
Per la determinazione delle posizioni di garanzia nelle organizzazioni complesse, il criterio fondamentale seguito dalla Commissione è stato quello (peraltro già leggibile nel diritto vigente) della corrispondenza fra poteri e doveri. La garanzia dei beni in gioco, là dove esiga la statuizione di doveri di attivarsi, non può che essere affidata a soggetti i quali abbiano il potere (giuridico e fattuale) di assicurare l'adempimento. Correlativamente, i limiti del potere segnano, per ciascun obbligato, il limite invalicabile della garanzia esigibile.
Il testo proposto (art. 25) rende esplicita la pluralità delle posizioni di garanzia e la differenziazione obiettiva dei loro contenuti. Al livello più basso, ma anche più ravvicinato, la garanzia attiene alla esecuzione o al controllo immediato sulla esecuzione di determinate attività; al livello più lontano, ma anche più elevato, attiene alla predisposizione delle condizioni per così dire strutturali del rispetto della legalità (della sicurezza) nel complessivo modo di essere e di operare dell'organizzazione; a livello intermedio, sono pensabili svariate combinazioni fra i due poli dell'esecuzione diretta e della decisione a livello dirigenziale. Queste distinzioni, già leggibili in una razionale interpretazione del diritto vigente, sono state rese esplicite e (si confida) più certe.
La garanzia dovuta dal soggetto 'al vertice' (colui che, per legge o per statuto, abbia il potere di direzione dell'organizzazione) resta una garanzia a tutto campo per quanto concerne gli obiettivi. Tale non può essere, invece, quanto ad adempimenti 'personalmente dovuti'. Il garante 'al vertice', il più lontano dai luoghi della garanzia, è tenuto, come tutti gli altri a livelli sottoordinati, ad esercitare i propri poteri, quelli che consentono (esigono) di costituirlo come garante. Egli è dunque tenuto ad assicurare le condizioni di base dell'osservanza dei precetti legali, che dipendano dall'esercizio dei suoi poteri di direzione.
E' qui che la disciplina delle posizioni di garanzia entro l'organizzazione si salda con quella della responsabilità dell'organizzazione, là dove costituita in forma di persona giuridica. La garanzia è dovuta innanzi tutto dall'organizzazione, e dalle persone fisiche in quanto agenti per essa. La garanzia dovuta dal vertice è di assicurare che il sistema funzioni, secondo un modello organizzativo idoneo alla salvaguardia degli interessi penalmente protetti.
Va da sé che, pur essendo il soggetto al vertice tenuto ad assicurare l'adozione e attuazione del modello, non potrà essere reso responsabile di ogni e qualsiasi insufficienza del modello stesso, e men che meno di difetti nella sua attuazione, essendo in ogni caso decisiva, ai fini della responsabilità penale, la questione della colpevolezza soggettiva.
Fra gli aspetti qualificanti della garanzia dovuta (dall'organizzazione, e quindi da chi la dirige) vi è la costituzione di una adeguata rete di garanti, ai diversi livelli. Lungi dall'essere un fatto eccezionale e da considerare con disfavore, la delega di funzioni deve essere considerata, ed è considerata nella presente proposta, come modalità normale di adempimento.
Del sistema delle deleghe, il testo qui presentato definisce non la struttura, ma la funzione: un modello organizzativo idoneo deve prevedere un'adeguata articolazione di funzioni, che assicuri in particolare le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica e valutazione, la gestione e il controllo delle situazioni di rischio. L'adempimento di questo dovere di buona organizzazione è la matrice delle diverse posizioni di garanzia sottoordinate a quella del soggetto 'al vertice': tutte quante traggono fondamento nella attribuzione di poteri secondo le regole legali o statutarie o comunque operanti nell'organizzazione data. L'attribuzione di doveri ne è conseguenza legale.
E' dunque l'assunzione di un ruolo dentro l'organizzazione, caratterizzato da una data corona di poteri e doveri aventi a che fare con la sicurezza di terzi, che obbliga all'esercizio dei poteri inerenti al ruolo, a garanzia del bene in gioco. Per fondare la posizione di garanzia, l'assunzione del ruolo è condizione necessaria e, insieme, sufficiente.
Il sistema delineato consente modelli diversi di ripartizione di poteri. L'ammissione generalizzata della possibilità di delega, indipendentemente dalle dimensioni dell'organizzazione, intende riaffermare la discrezionalità tecnica di chi abbia i poteri di decisione, nella scelta fra modelli organizzativi diversi, all'unica condizione ch'essi siano idonei alla protezione degli interessi in gioco.
Ciò comporta la possibilità e legittimità di criteri diversi di ripartizione dei poteri (e conseguentemente dei doveri) fra delegante e delegato. Il topos talora affiorante in giurisprudenza, che vorrebbe un trasferimento pieno al delegato dei poteri del delegante, deve lasciare il campo alla possibilità ed alla uguale legittimità di deleghe di contenuto diversificato. Pensiamo, in particolare, alla questione dei poteri di spesa: non c'è bisogno di una puntuale enunciazione per concludere che, nel quadro del principio di correlazione fra poteri e doveri, limitazioni di poteri di spesa, in sede di delega, sono pienamente legittime, e non ostano alla valida attribuzione di altri poteri e dei correlativi doveri. Con l'ovvio risvolto che ogni riserva di poteri - di spesa o d'altro genere - definisce un ambito di residua garanzia dovuta dal delegante, vale dire, un ambito residuo di sua potenziale responsabilità.
La discrezionalità organizzativa, che il modello delineato riconosce, comporta anche la possibilità di modelli differenziati di vigilanza e controllo. Il testo qui presentato si limita a dire, in proposito, che la delega "non esclude i doveri di controllo in conformità al modello organizzativo adottato". Ciò, ad un tempo, riafferma che tali doveri sono parte di qualsiasi modello idoneo, e che la loro disciplina è rimessa alla discrezionalità tecnica dell'organizzazione, con il solo vincolo della funzionalità allo scopo, come ribadito nell'art. 24 comma 1.
Altro corollario che si è ritenuto opportuno esplicitare, è che il delegato è tenuto a segnalare al delegante eventuali necessità di intervento, ai fini dell'osservanza della legge, che eccedano i propri poteri (art. 25 comma 6).
E' controverso, in giurisprudenza, se la delega debba essere espressa. Non vi sono ragioni sostanziali che impongano forme particolari; solo esigenze probatorie, peraltro superabili là dove l'attribuzione di dati compiti sia evidenziata dall'effettivo e stabile svolgimento dell'attività corrispondente. Il silenzio sul punto, nel contesto di una positiva disciplina dell'istituto, dovrebbe inequivocabilmente significare non necessità di requisiti formali. E lo stesso dicasi per ogni altro eventuale aspetto che non fosse esplicitamente previsto, salve, s'intende, eventuali diverse statuizioni in discipline di settore.
Per inciso: non è requisito della delega - cioè della costituzione della posizione di garanzia in capo al delegato - nemmeno l'idoneità del delegato stesso. Il problema attiene, caso mai, al diverso profilo della eventuale culpa in eligendo del delegante, e non abbisogna di esplicita considerazione nel contesto d'una disciplina delle posizioni di garanzia sorte in base a delega.
La formula adoperata nell'art. 24 comma 2 lettera b) a proposito della ripartizione di funzioni, richiedendo che siano assicurati le competenze tecniche e i poteri necessari, evoca il problema dei rapporti fra potere e sapere, quali condizioni entrambe necessarie per l'adempimento della garanzia, ma di regola scisse fra di loro.
Il modello prospettato assume come inevitabile la scissione fra potere decisionale e sapere tecnico. La garanzia richiesta dal detentore di potere non passa per l'acquisizione, inesigibile e anche inutile, di un personale sapere specialistico in qualsivoglia campo, ma passa attraverso l'impegno di assicurare che i saperi specialistici occorrenti siano reperiti e funzionino.
Sorge, allora, l'esigenza di inserire inequivocamente anche i portatori di sapere, sui quali l'organizzazione della sicurezza faccia affidamento, nella rete dei garanti, accanto ai detentori di potere. A ciò si è provveduto con una apposita disposizione, relativa a coloro cui siano attribuite funzioni di consulenza tecnica, che implica anche il controllo tecnico (art. 25 comma 3).
E' appena il caso di notare che la posizione di garanzia del consulente - cioè del garante dell'apporto dei saperi - può e deve aggiungersi, ma non può ragionevolmente surrogare la garanzia dovuta dai detentori di potere, per la semplice ragione che anche l'attivazione dei saperi passa attraverso atti di esercizio di potere. Se il sapere è necessario ad individuare i contenuti ultimi della garanzia, il potere è il prius, per la stessa acquisizione e attivazione dei saperi. Ed è appunto questa priorità che resta alla base del modello che qui viene presentato.
Nel d. lg. 626/94, novellato nel 1996, alcuni adempimenti, dovuti dal datore di lavoro, sono espressamente dichiarati come non delegabili. Anche il documento di base 15 luglio 1999 ipotizzava che la determinazione della garanzia dovuta dal soggetto al vertice avvenga "mediante la selezione di un ristretto nucleo di adempimenti non delegabili propri del ruolo di direzione complessiva dell'organizzazione".
Parlando di 'non delegabilità', non si è ovviamente pensato ad obblighi di adempimento personale, in solitudine. Ciò sarebbe semplicemente assurdo, già per il solo fatto che gli adempimenti concernenti la programmazione e organizzazione generale esigono conoscenze scientifiche, tecniche e normative che il detentore del potere decisionale non possiede e non è tenuto a possedere. Di ciò il d. lg. 626 tiene conto, proprio nel disciplinare l'adempimento fondamentale e 'non delegabile' della valutazione dei rischi: il datore di lavoro vi deve provvedere "in collaborazione con il responsabile del servizio di prevenzione e protezione e con il medico competente nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria, previa consultazione del rappresentante per la sicurezza" (art. 4, comma 6, d. lg. n. 626).
La cooperazione di soggetti qualificati è dunque modalità necessaria - e resa obbligatoria - dell'adempimento 'non delegabile' nel sistema vigente. Ma le esigenze di cooperazione vanno ben oltre la partecipazione del responsabile del servizio di prevenzione alla valutazione del rischio. Tutti gli adempimenti, nei quali si articola il dovere del garante primario - di programmazione della sicurezza - sono adempimenti che per loro natura (per complessità tecnica, per complessità fattuale, per mole) esigono ampia cooperazione. Di più: sono adempimenti il cui stesso oggetto è, in gran parte, la costruzione di un idoneo modello di cooperazione dell'intera struttura (anche) rispetto all'obiettivo dell'osservanza della legge.
La formula utilizzata nell'art. 25 comma 1 sottolinea questo profilo, parlando di dovere di assicurare certi risultati: a tal fine, il garante di vertice deve fare il mestiere suo proprio, che è quello di adottare decisioni organizzative. Per tutte le questioni che richiedono il contributo di conoscenza, di esperienza, o anche semplicemente di puntuale lavoro di altri, il dovere del vertice non è (e sarebbe insensato che fosse) un dovere di fare da sé, ma un dovere di assicurare - esercitando il proprio potere decisionale - il contributo di chi sia in grado di darlo utilmente. Lo stesso vale per il dovere di chiunque eserciti funzioni dirigenziali ( art. 25 comma 2).
Porre limitazioni specifiche alla delega di ciò che altri possano fare, e fare meglio, sarebbe perciò senza senso. Resta fermo che, fino a che la posizione 'di vertice' venga mantenuta, non tutto è stato delegato: resta, per definizione, ciò che caratterizza tale posizione, vale a dire, il potere decisionale, e, correlato a questo, il dovere di esercitarlo in modo coerente con la garanzia dovuta.
In questo sistema, la posizione di garanzia del soggetto al vertice dovrebbe trovare, allo stesso tempo, un più solido ancoraggio ed una precisa delimitazione, rispetto al rischio di scivolamento verso una 'responsabilità di posizione'. Carenze di sicurezza, o esiti lesivi che ne siano derivati, potranno essere ascritti a responsabilità personale del soggetto al vertice, solo in quanto siano causalmente ricollegabili a carenze colpose nell'esercizio dei suoi poteri non delegati di decisione e organizzazione generale. Per il resto, entrano in gioco esclusivamente responsabilità a livello esecutivo.
Una indicazione innovativa, nel documento della Commissione, concerne l'identificazione dell'organizzazione cui riferire, ed in cui ricercare, la posizione di garanzia. Si propone di avere riguardo non alla forma giuridica di per sé considerata (struttura societaria) ma alla effettiva articolazione organizzativa e di potere, immutando schemi consolidati, che si attestano sul dato formale (sullo schermo) dell'autonomia della persona giuridica.
E' stata così aperta la strada per una diretta rilevanza anche penale della direzione unitaria di gruppi di società o di imprese: chi eserciti la direzione unitaria, relativamente ad aspetti che interessano la sicurezza delle persone o dell'ambiente, è reso garante degli adempimenti a ciò relativi nell'intero ambito su cui si esercita la sua direzione (art. 26).
Allo stato, la rilevanza della direzione unitaria, nella dottrina più autorevole e nei rari casi in cui il problema è affiorato in sede penale, è ammessa nei limiti dell'ingerenza: un criterio che, a ben vedere, attiene alla responsabilità ''commissiva", per le conseguenze dell'essersi ingerito. Ma quando l'ingerenza sia stabile, fondata su poteri di direzione effettivamente esercitati al di là dei confini della singola società, è ragionevole che - secondo il criterio generale più volte enunciato - sia ristabilita la corrispondenza fra potere e dovere, anche ai fini penali.
Reati a mezzo stampa o radiotelevisione.
Nel capo relativo alla responsabilità per omissione
è stata inserita una disposizione (art. 27) in materia di
omesso impedimento di reati commessi col mezzo della
stampa o della radiotelevisione
e, che sostituisce gli attuali artt. da 57 a 58-bis. c.p. Rocco. La collocazione nella parte generale si pone in continuità con il diritto vigente. Nei contenuti, si segnalano le modifiche.
Come 'garante' è indicato il soggetto tenuto al controllo della pubblicazione "in base alla legge o alle disposizioni organizzative dell'impresa editoriale o radiotelevisiva" (art. 27 comma 2). Ciò intende evitare l'indicazione di un modello rigido, in cui la responsabilità sia sempre e comunque concentrata sul direttore, e si coordina con il sistema adottato in via generale a proposito delle posizioni di garanzia entro organizzazioni complesse. In via sussidiaria è prevista la responsabilità dello stampatore (art. 27 comma 3), limitatamente al caso in cui né autore né l'editore siano indicati (stampa clandestina).
La responsabilità per colpa, alla quale soltanto si riferisce la disposizione in esame, è limitata all'ipotesi che l'autore del reato non sia indicato o non sia punibile per qualsiasi causa. La responsabilità penale per omesso controllo diviene così solo sussidiaria: ciò ne restringe di molto l'ambito di applicazione, e sottolinea la responsabilità primaria dell'autore. Ovviamente, resta ferma la possibilità di un concorso doloso nel reato: in tal caso, anche il concorrente risponde secondo le regole generali (come precisato, ad abbondanza, nell'art. 27 comma 1).
La pena resta agganciata a quella prevista per il reato commesso, ma con una diminuzione sensibile: della metà.
E' stata presa in esame la possibilità di estendere una soluzione di questo tipo ai reati commessi via Internet. La Commissione non ha ritenuto di potere avanzare al momento proposte. In assenza di una normativa ad hoc, vale ovviamente anche per Internet la regola della responsabilità dell'autore dei messaggi, secondo i principi generali. Quanto all'individuazione di ulteriori ipotesi di responsabilità, la materia è ancora oggetto di studio, anche a livello internazionale, e presenta una complessità tecnica che non consente, o non consente agevolmente nonostante alcune diverse prese di posizione giurisprudenziali, la pura e semplice trasposizione di criteri elaborati per gli altri tipi di comunicazione.
Se e quando verranno emanate normative di settore, anche non penali, esse potranno acquistare comunque rilievo penale, nella misura in cui concorrano a definire i presupposti di posizioni di garanzia entro organizzazioni complesse. Sarebbe in ogni caso da escludere la attribuzione di doveri di controllo - risolventisi in compiti di censura - in capo a chi svolga attività di mera gestione tecnica della rete.
Colpevolezza.
Che il principio di colpevolezza
costituisca uno dei principi fondamentali ed inderogabili di garanzia
del diritto penale costituisce opinione assolutamente pacifica in
dottrina. La
Commissione ha considerato la realizzazione piena di tale principio fra gli obbiettivi primari della riforma.
Realizzare fino in fondo il principio di colpevolezza significa eliminare non soltanto le ipotesi di responsabilità oggettiva, ma altresì le ipotesi di responsabilità anomala, nelle quali la sanzione è commisurata ad un grado di colpevolezza diverso da quello rinvenibile nel soggetto chiamato a rispondere penalmente (es., art. 116 c.p. Rocco, in forza del quale chi ha voluto un reato diverso da quello realizzato da taluno dei concorrente risponde con una pena, sia pure ridotta, prevista per un reato doloso, nonostante che la sua responsabilità si fondi sulla colpa), e bandire per quanto possibile dall'area del diritto penale ipotesi di responsabilità per rischio.
In questa prospettiva la Commissione, recependo l'orientamento già imboccato dai progetti Pagliaro e Riz, ma andando oltre le loro indicazioni, nel perseguire l'obbiettivo di salvaguardare sempre la correlazione fra grado di colpevolezza e specifica responsabilità penale cui il colpevole è chiamato a soggiacere ha eliminato la responsabilità oggettiva (art. 42 comma 3 c.p. Rocco) e la preterintenzione (art. 43 comma 2 c.p. Rocco); ha previsto di eliminare i delitti aggravati dall'evento; ha dettato una disciplina diversa delle condizioni oggettive di punibilità; pur non riuscendo ad abolirla del tutto, ha preveduto in una dimensione residuale ridotta la responsabilità penale colposa per omesso od inadeguato controllo sulla stampa e la radiotelevisione (retro, n. 2. 2. 3); ha eliminato l'aberratio delicti, ritenendo sufficiente la disciplina del concorso formale di reati, e cioè la responsabilità per il reato doloso se realizzato, e la responsabilità per il reato diverso a titolo di colpa nei soli casi in cui esso sia previsto come reato colposo; in tema di aberratio ictus ha stabilito che qualora oltre la offesa voluta il colpevole realizza l'offesa a danno di persona diversa si applicano le norme sul concorso di reati, con conseguente responsabilità per la seconda offesa soltanto nel caso in cui essa sia prevista come delitto colposo; ha disciplinato il reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti in modo assolutamente coerente alla necessità di una completa correlazione fra colpevolezza e responsabilità; ha abolito la disposizione contenuta nell'art. 117 c.p. Rocco, ritenendo che sia giusto che chi non possiede la qualifica richiesta per la commissione di un reato a soggettività specifica, per risponderne debba rappresentarsi di concorrere con persona che possiede tale qualifica.
In coerenza a quanto indicato, la parte concernente l'elemento soggettivo del reato inizia con la enunciazione secondo cui "la colpevolezza dell'agente per il reato commesso è presupposto indefettibile della responsabilità penale" (art. 28 comma 1). Indicazione netta, che dovrebbe troncare ogni perplessità in ordine ai limiti soggettivi della responsabilità penale.
Enunciato nei termini menzionati il presupposto soggettivo indefettibile della responsabilità penale, alla Commissione è d'altronde sembrato che fosse inutile continuare a prevedere la coscienza e volontà della condotta di cui all'art. 42 comma 1 c.p Rocco, ed il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico di cui, rispettivamente, agli artt. 45 e 46 c.p. Rocco. Esigere la coscienza e volontà della condotta come presupposto indispensabile di ogni forma di responsabilità penale aveva senso in un sistema che prevedeva la responsabilità oggettiva, una forma di responsabilità che, pur essendo 'altro' rispetto al dolo e alla colpa, presupponeva pur sempre la realizzazione di una condotta cosciente e volontaria; enunciato il principio di colpevolezza, e cioè una responsabilità necessariamente ancorata alla presenza del dolo o della colpa, è implicito che la condotta dovrà essere cosciente e volontaria, secondo i contenuti propri dell'uno o dell'altra. Ugualmente inutile è prevedere il caso fortuito, la forza maggiore ed il costringimento fisico. Il primo non significa infatti altro se non mancanza di colpa; il mancato insorgere della responsabilità penale in caso di forza maggiore e di costringimento fisico è a sua volta implicito nella enunciazione del principio di colpevolezza.
L'art. 28 commi 2 e 3 enuncia i due corollari del principio di colpevolezza in materia, rispettivamente, di delitti e di contravvenzioni. Con riferimento ai delitti stabilisce che "nessuno
può essere punito per tale tipo di reato
se non lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto colposo
espressamente preveduti dalla legge"; con riferimento alle
contravvenzioni che "nessuno può essere punito per un fatto previsto
dalla legge come contravvenzione se non lo ha realizzato con dolo o
con colpa". In materia di contravvenzioni non si è ritenuto di
prevedere che la realizzazione colposa può dare luogo a diminuzione di
pena (così invece il progetto Pagliaro), ritenendosi sufficiente ad adeguare la responsabilità al grado della colpevolezza un impiego corretto dei criteri di commisurazione in concreto della pena.
L'art. 29, recependo il contenuto della sentenza della Corte Costituzionale n. 364/88 in tema di errore sulla legge penale, dispone che "la colpevolezza è esclusa nel caso di errore sulla illiceità del fatto commesso, derivante da ignoranza o errore scusabile sulla legge penale". La Corte Costituzionale aveva parlato di errore 'inevitabile'; coerentemente il progetto Riz parla di errore che non può essere evitato, il progetto Pagliaro parla di errore 'invincibile'. La espressione 'scusabile',
con la sua lieve sfumatura di diversità, sottende che l'errore sul precetto penale deve essere valutato secondo lo stesso metro che, in materia di errore sul fatto, corrisponde ai principi sulla colpa, e non secondo un metro più severo. Si tratta dunque di una indicazione tendenzialmente 'ampliativa', coerente con quanto enunciato in linea generale in tema di realizzazione del principio di colpevolezza.
E' quasi inutile osservare che, fuori dai casi considerati, l'errore sul precetto penale non esclude la colpevolezza.
La Commissione, coerente con la impostazione del documento di base 15 luglio 1999, e considerato il consenso emerso nei confronti di tale orientamento, ha definito le nozioni di dolo e di colpa.
La definizione del dolo 'risponde a titolo di dolo chi, con una condotta volontaria attiva od omissiva, realizza un fatto costitutivo di reato: a) se agisce con la intenzione di realizzare il fatto, b) se agisce rappresentandosi la realizzazione del fatto come certa ovvero come altamente probabile' (art. 30), risponde alla esigenza di procedere ad una formulazione in grado di identificare le diverse possibili gradazioni del dolo. Il dolo intenzionale, interamente coperto dalla volontà dell'agente (che vuole la condotta e agisce con la intenzione di realizzare il reato); il dolo diretto, che si verifica quando l'agente vuole la condotta, rappresentandosi come certa (e quindi implicitamente volendo) la realizzazione del reato; il dolo eventuale, in cui l'agente vuole la condotta ma non si rappresenta come certa la realizzazione del reato.
Il punto più delicato della disciplina enunciata riguarda la configurazione del dolo eventuale (che il progetto Pagliaro aveva giustamente indicato come oggetto necessario di esplicita considerazione, ma non aveva specificamente definito) data la varietà di opinioni esistenti in dottrina e le oscillazioni rinvenibili nella prassi giudiziaria.
La Commissione, escluso di utilizzare formule inutilmente complicatorie talvolta affiorate in dottrina, ha ritenuto di confermare l'orientamento già enunciato nel documento di base 15 luglio 1999, e cioè che agli effetti della realizzazione della ipotesi marginale di dolo occorre una rappresentazione della realizzazione del fatto (ovviamente il fatto realizzato in concreto, e non una generica rappresentazione di qualcosa di illecito) in termini di probabilità. La indicazione della probabilità come 'alta', scelta dopo ampia discussione, tende a qualificare il dolo in termini restrittivi, opponendosi alle tendenze, non estranee alla giurisprudenza, a dilatare l'area del dolo eventuale sulla base di una generica previsione dell'evento come possibile.
La aggiunta 'accettandone il rischio', pur nella consapevolezza della sostanziale superfluità della specificazione, è stata inserita, dietro suggerimento di taluni commissari, da un lato per sottolineare ulteriormente, con una formula retorica comunque ricorrente nella elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, la necessità che la rappresentazione in termini di probabilità deve essere davvero qualificata; dall'altro per sottolineare che il dolo eventuale è comunque cosa diversa dal dolo diretto, dove non ci si accontenta di una accettazione di rischio, ma si esige la prova della certezza del verificarsi dell'evento. La Commissione auspica che con queste specificazioni risultino superate le obbiezioni di perdurante incertezza da un lato, e di rischio (parlando di 'alta' probabilità) di confondere dolo eventuale e dolo diretto dall'altro, prospettate dalle Commissioni della Cassazione e della Procura Generale nei loro pareri al documento di base 15 luglio 1999.
La Commissione non ha ritenuto di dare spazio alla indicazione del progetto Pagliaro secondo cui la definizione di dolo doveva 'esprimere in ogni caso la necessità del significato del fatto'. A prescindere dalla difficoltà di interpretare espressioni quali 'significato' del fatto, si è osservato che la circostanza secondo cui la legge penale non è applicabile a fatti che non determinano una offesa del bene giuridico (art. 3 comma 2) implica che il soggetto, per rispondere a titolo di dolo, deve volere e/o rappresentarsi comunque un fatto concreto dotato di offensività, e che questa volontà e/o rappresentazione è sufficiente ad esprimere la volontà dolosa penalmente rilevante.
La Commissione si è posta infine il problema se fosse necessario enunciare regole particolari in materia di dolo dei reati commissivi mediante omissione. Essa ha escluso che con riferimento a tale categoria di reati abbia senso negare rilevanza al dolo eventuale (come sembrerebbe suggerire la Commissione della Procura Generale nel suo parere), perché esso bene si concilia con numerosi casi di reati causalmente orientati (si pensi, fra i tanti prospettabili, a quello della infermiera cui sia stato affidato un paziente, che omette di somministrargli medicine prescritte rappresentandosi come altamente probabile che ne potrà scaturire una lesione personale). E si è piuttosto domandata se fosse opportuno richiedere esplicitamente il dovere di rappresentarsi la situazione di obbligo giuridico di impedire l'evento che costituisce presupposto perché la omissione acquisti efficacia causale. Dopo avere in un primo tempo prospettato una norma di questo tipo, ha valutato che essa sarebbe stata inutile, in quanto la soluzione è comunque desumibile dalla disciplina generale del dolo e dell'errore.
In tema di colpa il documento di base poneva una serie di interrogativi: scontato che la colpa consiste nella inosservanza di regole cautelari codificate o non codificate, si può ritenere esistente colpa, sulla base di un normale concetto di diligenza, imprudenza, imperizia (prevedibilità), anche in ipotesi di osservanza delle regole cautelari scritte? E' sufficiente, per valutare la colpa, il riferimento al criterio oggettivo dell'agente modello, diversificato per tipi di attività, o si può (o deve) riconoscere rilevanza a condizioni personali di incapacità? In materia di colpa professionale è opportuno introdurre il limite della colpa grave previsto dal codice civile? Quid iuris in materia di colpa nelle attività pericolose, dove la evidente insufficienza del criterio della prevedibilità ha indotto la prassi a cercare un difficile bilanciamento, caso per caso, tra l'interesse allo svolgimento della attività e la misura del rischio consentito in funzione della natura e probabilità del verificarsi di eventi lesivi? Nello stendere l'articolato si è dovuto ovviamente rispondere a questi interrogativi.
La formula proposta è la seguente (art. 31 comma 1): "risponde a titolo di colpa chi, con una condotta che viola regole di diligenza, o di prudenza, o di perizia, ovvero regole cautelari stabilite da leggi regolamenti, ordini o discipline, realizza un fatto costitutivo di reato che è conseguenza prevedibile ed evitabile dell'inosservanza della regola cautelare".
La norma riecheggia elementi presenti nella definizione di cui all'art. 43 comma 3 c.p. Rocco. Si discosta tuttavia da tale definizione in più punti significativi:
innanzitutto la colpa generica e la c.d. colpa specifica vengono unificate dal riferimento, in entrambi i casi, al concetto della 'violazione di regole';
si parla specificamente di regole 'cautelari', allo scopo di evitare (sempre possibili) allargamenti arbitrari delle regole la cui inosservanza può fondare la colpa (l'aggettivo 'cautelare' è stato formulato con riferimento alla sola colpa specifica, in quanto è implicito che la violazione in cui si sostanzia un comportamento negligente, imprudente o imperito sia violazione di una regola sociale di doverosa cautela);
si fa specifico riferimento alla realizzazione di un fatto costitutivo di reato che è conseguenza 'prevedibile ed evitabile dell'inosservanza della regola cautelare'. In questo modo si sottolinea da un lato espressamente che a fondare la colpa non è sufficiente la prevedibilità, ma occorre anche la evitabilità del reato; si chiarisce dall'altro che il fatto, per risultare colposo, deve essere conseguenza della inosservanza della regola cautelare.
I commi 2 e 3 dell'art. 31 cercano di dare risposta ad alcuni problemi inerenti alla disciplina di attività pericolose: tema cruciale nell'ambito della colpa, su cui la Commissione ha discusso approfonditamente, concludendo per l'inutilità di formule generiche, che sostanzialmente sarebbero di mero (superfluo) rinvio al criterio del bilanciamento d'interessi su cui fanno leva la dottrina e la giurisprudenza. Indicazioni concrete sono invece state ritenute possibili ed opportune con riguardo a questioni specifiche connesse alla previsione - o alla assenza di previsione - di regole cautelari specifiche.
L'art. 31 comma 2 affronta il problema se il rispetto delle regole cautelari scritte, dove esistenti, sia sufficiente ad escludere la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole. Recependo considerazioni sviluppate dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, il progetto accoglie il punto di vista secondo cui la regola cautelare scritta è comunque cristallizzazione normativa di giudizi di prevedibilità ed evitabilità ripetuti nel tempo, per cui normalmente la prevedibilità non può non ritenersi necessariamente assorbita nella violazione delle regole cautelari scritte, e il rispetto di queste costituisce, in via di principio, adempimento idoneo del dovere di diligenza nello svolgimento dell'attività regolata. Questa statuizione, che molti (ma non tutti) ritengono desumibile già dal diritto vigente, dovrebbe ridurre le incertezze nello svolgimento - e nella valutazione - di attività pericolose che siano state opportunamente fatte oggetto di una disciplina specifica di settore. E' parso peraltro necessario prevedere una limitata eccezione alla regola, per il caso, teoricamente non impossibile, che a causa del progresso scientifico e tecnologico le regole enunciate siano divenute obsolete. Si è perciò previsto che "il rispetto delle regole cautelari specifiche di cui al comma precedente esclude la colpa relativamente agli aspetti disciplinati da dette regole, salvo che il progresso scientifico e tecnologico, nel periodo successivo alla loro emanazione, non le abbia rese palesemente inadeguate".
L'art. 31 comma 3 concerne il problema della disciplina di attività che richiedono l'adozione di cautele, nell'ipotesi di inesistenza di regole cautelari formalizzate. Tali lacune di disciplina dovrebbero essere evitate, o comunque ridotte al minimo da un buon legislatore; d'altra parte, non appare ragionevole equiparare la eventuale mancanza di regole specifiche ad indifferenza rispetto alla tutela dei beni giuridici in gioco. Con tutti i rischi di insufficiente determinatezza che ciò comporta, è giocoforza trovare soluzioni sul terreno della colpa generica.
Secondo la soluzione prospettata, "relativamente agli aspetti non considerati da regole cautelari specifiche, non può essere ascritta a colpa l'adozione di misure di generale applicazione, salvo che esse siano riconoscibilmente inidonee". Questa soluzione, con il dare rilievo agli standard in concreto adottati nei diversi settori in un determinato momento storico, si muove nel solco delle indicazioni date dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 312/96, senza peraltro disperdere la dimensione normativa (non riducibile a mero dato della prassi) delle regole cautelari: la rilevanza delle prassi restando infatti condizionata ad una valutazione di non inidoneità.
Quanto al problema se il limite della colpa grave stabilito dal codice civile per le prestazioni professionali, che implicano la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, la Commissione, dopo ampia discussione, ha ritenuto opportuno non riprodurre una disposizione analoga a quella dettata dall'art. 2236 cod. civile., contrariamente a quanto previsto nel disegno di legge Riz, nel quale è contenuta una esplicita limitazione della responsabilità penale alla imperizia grave. Sarà compito della dottrina e della giurisprudenza specificare i limiti del grado di colpa per le ipotesi di prestazioni professionali, assumendo come necessari punti di orientamento il principio di unitarietà dell'ordinamento e le esigenze di coerenza interna del sistema, nella consapevolezza che, in mancanza di tali parametri di riferimento, le scelte interpretative risulterebbero contraddittorie e non ragionevoli, dato che si ammetterebbe l'illiceità penale di condotte colpose, qualificate da imperizia lieve, che, non costituendo illecito civile, non possono rappresentare titolo per i risarcimento del danno in favore della persona offesa dal reato, costituitasi parte civile nel processo penale. Peraltro, affidabili e convincenti indicazioni interpretative - seguite da talune decisioni, anche recenti, della Corte di cassazione - sono state offerte, nella materia in esame, dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 166 del 28 novembre 1973, con cui la coerenza del sistema è stata assicurata precisando che il limite della colpa grave ex art. 2236 cod. civ. concerne unicamente l'imperizia e non anche l'imprudenza e la negligenza.
Il problema del metro di valutazione della colpa è stato oggetto di discussione particolarmente ampia. Una parte della Commissione ha insistito nel rilevare la correttezza della posizione espressa (genericamente) dal progetto Pagliaro, secondo il quale occorrerebbe "formulare la definizione della colpa in modo che in tutte le forme di essa l'imputazione si fondi su di un criterio strettamente personale". Pur condividendo in linea di principio tale enunciato, la Commissione ha incontrato difficoltà ad enunciare una regola scritta che fosse in grado di individuare una linea di equilibrio di tipo generale fra la esigenza di configurare comunque un modello ideale cui ancorare il giudizio di riprovevolezza soggettiva, ed il grado di concretezza 'personalistica' del modello stesso. In particolare, è stata respinta la proposta di introdurre un'ipotesi di inesigibilità in concreto del seguente tipo: 'la colpa è esclusa, nonostante l'oggettiva inosservanza della regola cautelare, quando l'agente si è trovato costretto ad agire, senza sua colpa, in una situazione eccezionale di panico o di fortissimo stress emotivo, tale da rendere inesigibile l'osservanza della regola'. Alla maggioranza della Commissione una simile formulazione è sembrata introdurre profili di incertezza e discrezionalità applicativa incompatibili con il principio di stretta legalità.
In tema di errore che esclude il dolo e, se scusabile, anche la colpa, si è confermata la linea di fondo della disciplina del c.p. Rocco, introducendo tuttavia alcune significative modifiche formali tendenti a rendere più esplicito, e conseguentemente più chiaro, il contenuto dell'articolato.
In questa prospettiva:
sono stati trattati congiuntamente l'errore sul fatto e l'erronea supposizione di cause di giustificazione, così da evidenziare l'assoluta identità della disciplina delle due ipotesi;
si è precisato che 'esclude il dolo, e se scusabile anche la colpa, l'ignoranza o l'errore sulla sussistenza di elementi del fatto costituivo del reato, nonché la supposizione erronea della presenza di cause di giustificazione" (art. 32 comma 1), allo scopo di evidenziare esplicitamente l'efficacia specifica dell'errore di fatto;
in materia di errore sulla legge extrapenale si propone una modifica del testo normativo, allo scopo di rendere evidente che è applicabile a tale tipo di errore l'intera disciplina dell'errore di fatto (e pertanto anche la sua possibile fonte di responsabilità per colpa, se inescusabile), e soprattutto di cercare di superare finalmente la tenace interpretazione giurisprudenziale che attraverso il principio della incorporazione della norma extrapenale in quella penale ha abrogato di fatto l'art. 47 ult. cpv. c.p. Rocco. In questo senso, dovrebbe ritenersi inequivoca la formula adottata nell'art. 32 comma 2; essa chiarisce che "costituisce errore rilevante ai sensi del comma precedente l'ignoranza o l'errore su qualificazioni giuridiche di elementi del fatto costitutivo di reato, derivanti da errore su leggi diverse dalla legge penale violata". Si confida in questo modo di avere esplicitato in maniera sufficientemente univoca la volontà di dare rilievo ad ogni ipotesi di errore sulla legge extrapenale che determini un errore sul fatto (più specificamente, sulle qualificazioni giuridiche che caratterizzano i c.d. elementi normativi). La specificazione "leggi diverse dalla legge penale violata" serve altresì a chiarire che nel concetto di legge extrapenale rientrano anche le leggi penali richiamate da quella penale incriminatrice del reato del cui dolo si discute.
In conformità a quanto già indicato dal progetto Pagliaro, l'art. 32 comma 3 chiarisce che l'erronea rappresentazione di un elemento differenziale fra più reati comporta la responsabilità per il reato rappresentato soltanto se esso è meno grave, poiché non è consentito addebitare ad un soggetto fattori di maggiore gravità ai quali non corrisponde una loro reale realizzazione.
L'art. 33 prevede una disciplina della imputazione soggettiva delle circostanze diretta a salvaguardare anche nei confronti di tali elementi la applicazione del principio di colpevolezza. Riproducendo quanto già oggi disposto dall'art. 59 comma 2 c.p. (come modificato dalla legge n. 19/90), prevede che "le circostanze aggravanti sono valutate a carico dell'agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa".
La Commissione in un primo tempo aveva pensato di distinguere la disciplina dell'imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti ad effetto ordinario e di quelle ad effetto speciale. Rilevata l'eccessiva complicazione di tale normativa, ha preferito ribadire la disciplina unitaria, auspicando tuttavia nel contempo che in sede di redazione della parte speciale si proceda ad una drastica riduzione delle circostanze ad effetto speciale, optando per quanto possibile per la configurazione di titoli autonomi di reato.
Nonostante il diverso avviso di qualche commissario, la Commissione ha deciso di mantenere la previsione della aberratio ictus soprattutto per ragioni di chiarezza: evitare che, in assenza di una disciplina dell'istituto, in caso di realizzazione del reato in danno di persona diversa da quella cui l'offesa era diretta dottrina e giurisprudenza rischiassero di invischiarsi in complesse questioni interpretative in ordine allo specifico tipo di responsabilità cui tale situazione avrebbe dovuto dare luogo.
Poiché deve essere chiaro che in caso di offesa diretta contro una persona, e che si realizza invece nei confronti di persona diversa a causa di errore nei mezzi di esecuzione o per altra causa, il soggetto deve rispondere, e soltanto, per il reato che ha voluto e di fatto ha realizzato sia pure a danno di persona diversa (voleva cagionare la morte di una persona, e la ha comunque cagionata: responsabilità penale per omicidio volontario), si è appunto ritenuto opportuno riproporre la norma prevista nel comma 1 dell'art. 82 c.p. Rocco (art. 34 comma 1).
Il comma 2 dell'art. 34 si richiama, per i casi di aberratio ictus e di errore sulla persona dell'offeso, alla disciplina prevista dall' art. 60 c.p. Rocco.
Il comma 3 dell'art. 34 prevede una rilevante novità dispetto alla disciplina di cui all'art. 82 comma 2 c.p. Rocco. Allo scopo di eliminare ogni scarto tra responsabilità penale e colpevolezza dispone che "qualora oltre che l'offesa voluta, il colpevole realizza l'offesa anche a danno di persona diversa, si applicano le norme sul concorso di reati". Il che significa che della offesa a persona diversa il colpevole risponderà soltanto se il fatto è preveduto come reato colposo, e con la pena prevista per tale reato, calcolata secondo i principi del cumulo giuridico previsti in materia di concorso formale di reati.
Eliminato l'art. 44 c.p. Rocco, tautologico in quanto è ovvio che una condizione, se 'oggettiva', si applica indipendentemente dalla eventuale volontà e rappresentazione da parte dell'agente, la Commissione si è preoccupata di circondare di cautele formali l'eventuale ricorso a un tale istituto, che per sua natura pone problemi di compatibilità con il principio di colpevolezza.
Ad esigenze, ad un tempo, di certezza applicativa e di delimitazione garantista guarda la formula dell'art. 35 comma 1, secondo cui "condizioni oggettive di punibilità possono essere previste con disposizione espressa di legge, che utilizzi tale definizione". Alla luce di questa disposizione generale, se mancano le menzionate indicazioni l'elemento dovrebbe essere, interpretativamente, considerato costitutivo essenziale del reato.
La Commissione non ha ritenuto di specificare che la condizione oggettiva deve consistere in elemento estraneo all'oggetto della tutela penale (come aveva invece previsto il progetto Pagliaro), facendo affidamento sui vincoli costituzionali posti al legislatore dalla rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza. E' ovvio, infatti, che tale principio risulterebbe violato, ove mai il legislatore prevedesse condizioni oggettive di punibilità che interferissero significativamente con il bene giuridico tutelato.
L'art. 35 comma 2 risponde all'esigenza di evitare che attraverso una sorta di scambio delle etichette si sottraggano i presupposti di aumenti di pena ai principi di imputazione soggettiva. Non essendo prevista la categoria delle 'condizioni di maggior punibilità', si stabilisce che se alla sussistenza di un determinato elemento di fattispecie dovesse risultare collegato un aumento di pena, in via interpretativa esso dovrebbe essere considerato una circostanza aggravante, ed essere di conseguenza soggetto alla disciplina di cui all'art. 33.
Le cause di giustificazione.
La Commissione, in ciò confortata dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione, ha ritenuto di confermare la sua originaria posizione negativa sulla ipotesi, prospettata nel progetto Pagliaro, di distinguere la categoria delle esimenti in cause oggettive di giustificazione e cause soggettive di esclusione della colpevolezza. Nonostante che nel dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base, e nella più recente elaborazione dottrinale, non siano mancate voci favorevoli allo sdoppiamento, si è ritenuto che la suddivisione, forse corretta su piano teorico, sollevi eccessivi problemi pratici soprattutto con riferimento alla duplicazione dello stato di necessità, e non esiga comunque una rilevazione a livello di regolamentazione codicistica, che deve preoccuparsi della disciplina degli istituti più che del loro inquadramento dogmatico. Individuata una rubrica unitaria di 'cause di giustificazione', saranno poi la dottrina e la giurisprudenza a stabilire se sia possibile distinguere ipotesi che operano oggettivamente sul fatto (o sulla antigiuridicità) o soggettivamente sulla colpevolezza, ed in caso affermativo quando si tratti dell'una e quando dell'altra figura.
Anche in ciò confortata dal parere espresso dalla Commissione della Cassazione, è stata mantenuta posizione negativa in ordine alla introduzione di una nuova scriminante generale dell'esercizio della attività terapeutica e degli interventi chirurgici, che era stata invece prevista dal progetto Pagliaro.
L'articolo 36 disciplina l'esercizio di un diritto e l'adempimento di un dovere introducendo alcune modificazioni rispetto al testo dell'art. 51 c.p. Rocco.
Nel comma 1 esso prevede che "l'esercizio di un diritto o l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo dell'autorità esclude la punibilità"; nel comma 2 che "se un fatto costituente reato è commesso per ordine di un superiore, del reato rispondono sia chi ha dato l'ordine, sia chi lo ha eseguito".
La soppressione dell'inciso 'ordine dell'autorità' nel comma 1 e la sostituzione della locuzione 'superiore' a quella 'autorità' nel comma 2, rispondono alla esigenza di coinvolgere nella disciplina codicistica anche l'ordine impartito al di fuori di organizzazioni pubbliche. Come era già stato rilevato nel documento di base, è infatti opportuno che la disciplina generale coinvolga ogni ipotesi di ordine, poiché delle due, comunque, l'una: o il contenuto dell'ordine privato è conforme alle leggi, ed allora deve (o può) essere eseguito, o non è conforme alle leggi, ed allora in caso di esecuzione comporta responsabilità, a seconda dei casi civile o penale, sia a carico di chi lo ha impartito sia a carico di chi lo ha eseguito.
Il comma 3 dell'art. 36 ribadisce che "l'ordine illegittimo esclude la punibilità di chi lo esegue quando la legge non gli consente di sindacare la illegittimità dell'ordine", il che ovviamente avverrà con riferimento a specifici settori di attività pubblica. La Commissione ha ritenuto opportuno esplicitare altresì che "sono sempre sindacabili la competenza ad emanare l'ordine, la competenza ad eseguirlo, la forma in cui l'ordine deve essere impartita se richiesta dalla legge", formalizzando in questo modo una regola comunque già chiaramente recepita da dottrina e giurisprudenza.
Il comma 4 dell'art. 36 formalizza a sua volta il principio secondo cui "chi esegue l'ordine illegittimo non sindacabile è punibile quando la criminosità dell'ordine è manifesta o è comunque nota all'esecutore".
L'art. 37 comma 1 ripropone la formulazione dell'art. 50 c.p. Rocco in tema di consenso dell'avente diritto.
La Commissione non ha ritenuto di definire i requisiti di efficacia del consenso in relazione alla natura dell'atto, come in un primo tempo aveva pensato di fare sulle orme di quanto previsto nel progetto Pagliaro, e nonostante il parere favorevole manifestato dalla Commissione della Corte di Cassazione. Essa ha infatti valutato che, con riferimento sia ai vizi della volontà che all'età, indicazioni idonee possano essere desunte dal diritto civile, e in genere dalla disciplina specifica delle diverse situazioni che possano venire in rilievo.
Ha invece previsto che "non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto patrimoniale senza il consenso della persona che può validamente disporne, in una situazione di evidente ed oggettiva utilità della stessa e salvo che essa abbia manifestato dissenso all'intervento ed il dissenso sia noto all'autore" (art. 37 comma 2). E' stato dato in questo modo rilievo al consenso presumibile secondo una indicazione già emersa nel progetto Pagliaro.
La disciplina della difesa legittima è stata arricchita rispetto a quella dell'art. 52 c.p. Rocco allo scopo di risolvere normativamente alcuni problemi che si erano presentati alla attenzione della dottrina e della prassi. Precisamente:
il comma 1 dell'art. 38 prevede che non è punibile "chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale, percepito dall'agente, di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa". Con la aggiunta dell'inciso 'percepito dall'agente' la Commissione ha risolto il problema se la scriminante possa o non possa operare indipendentemente dalla consapevolezza della situazione di pericolo da parte dell'agente, risolvendo il problema nel secondo senso dell'alternativa.
il comma 2 prevede che "la proporzione deve essere valutata fra i beni contrapposti. L'interesse leso dalla reazione può essere moderatamente superiore rispetto a quello tutelato". L'indicazione relativa all'oggetto della proporzione mira a sancire definitivamente che essa deve essere valutata con riferimento ai beni contrapposti. La precisazione secondo cui la reazione può essere moderatamente superiore rispetto all'interesse contro cui si reagisce, tende a sua volta a considerare la posizione di minore dignità di tutela in cui si trova l'aggressore a cagione della sua condotta illecita; la formulazione specificamente configurata (reazione moderatamente superiore), nonostante la sua relativa elasticità è stata preferita ad altre (ad esempio quelle utilizzate nei progetti Pagliaro e Riz) allo scopo di contrastare, per quanto possibile, la legittimazione di reazioni smodate a tutela di interessi patrimoniali,
ancorché consistenti.
il comma 3 prevede che "chi interviene a difesa propria o altrui a parità di efficacia difensiva è obbligato a scegliere la difesa meno lesiva per l'aggressore". Con questa norma si è dato espressamente rilievo anche in materia di legittima difesa al principio secondo cui il pericolo non deve essere altrimenti evitabile, limitando tuttavia l'obbligo di impiegare il mezzo di difesa meno dannoso soltanto a parità di efficacia difensiva, in quanto è parso giusto che un aggredito innocente non sia costretto a subire un nocumento a causa della condotta di un ingiusto aggressore.
il comma 4 prevede che "qualora l'aggredito possa sottrarsi all'aggressione con la fuga senza correre nessun rischio per la sua persona, egli è tenuto ad evitare la reazione". In questo modo si sono superate le annose discussioni in ordine alla diversità di valutazione della fuga e del c.d. commodus discessus nella difesa legittima, recependo, anche in eventuale funzione 'educativa', un concetto moderno di onore agli effetti del quale fuggire di fronte ad un aggressore non deve essere considerato di per sé un disonore. Poiché l'aggredito non può essere costretto a subire danni, è stato comunque precisato che la fuga non deve fargli correre nessun rischio.
il comma 5 prevede, come già facevano i progetti Pagliaro e Riz, che "la difesa legittima non è applicabile a chi ha suscitato ad arte l'aggressione allo scopo di potere colpire impunemente l'aggressore".
L'art. 39 comma 1 configura lo stato di necessità con alcune rilevanti modificazione rispetto alla disciplina di cui all'art. 54 comma 1 c.p. Rocco:
come in tema di legittima difesa, per la medesima ragione, è espressamente richiesto che il pericolo deve essere 'percepito dall'agente'.
i beni la cui salvaguardia è stata legittimata risultano ridotti e tipizzati: anziché parlare genericamente di pericolo attuale di un danno grave alla persona, si parla infatti di 'pericolo attuale alla vita, alla integrità fisica, alla libertà individuale o alla libertà sessuale'.
il pericolo 'non deve essere volontariamente causato, né evitabile con una condotta in assoluto meno dannosa'. La precisazione 'in assoluto' è stata inserita per sottolineare che in materia di stato di necessità, che legittima penalmente la offesa di beni appartenenti a terzi innocenti, la persona in pericolo è comunque costretta a subire un nocumento quando la condotta reattiva (che non gli evita di subire tale danno) è in grado di neutralizzare il pericolo con un danno che è comunque meno rilevante di quello che sarebbe costretto a subire un terzo innocente ove fosse stata scelta una reazione diversa al pericolo.
nella indicazione della proporzione la espressione "sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo' di cui all'art. 54 c.p. Rocco è stata sostituita con quella 'sempre che il danno cagionato sia proporzionato al pericolo" per sottolineare che la proporzione deve essere valutata fra i beni contrapposti. Trattandosi di proporzione fra beni contrapposte di persone tutte innocenti, il giudizio di proporzione non può ammettere scompensi a favore di nessuno, come accade invece in materia di legittima difesa.
L'art. 39 comma 2, recependo quanto già aveva suggerito il progetto Pagliaro, allo scopo di superare la eccessiva rigidezza della disciplina di cui all'art. 54 comma 2 c.p. Rocco prevede che "questa disposizione non si applica a chi, essendo tenuto ad esporsi al pericolo, agisca per salvare un interesse proprio la cui superiorità non sia di particolare rilevanza".
Nonostante che alcuni commissari suggerissero di prevedere e disciplinare la ipotesi di 'dovere di soccorso', che secondo una parte della dottrina sarebbe desumibile dall'art. 593 c.p. Rocco, la Commissione ha ritenuto che i rapporti fra il soccorso di necessità previsto dall'art. 39 e l'eventuale rilevanza di una figura di dovere di soccorso potessero trovare comunque adeguata soluzione nel quadro dei principi generali concernenti il concorso di norme.
Non si è riprodotta la norma di cui all'art. 54 comma 3 c.p. Rocco ritenendo che essa, come le analoghe figure di cui agli artt. 48 e 86 c.p. Rocco, trovino adeguata soluzione nella applicazione delle norme generali sul concorso di persone nel reato.
In conformità a quanto è stato sostenuto da ampia parte della dottrina, l'uso legittimo delle armi è stato incisivamente ridisegnato rispetto al testo di cui all'art. 53 c.p. Rocco, come modificato dalla legge n. 152/75.
la rubrica è stata cambiata in "uso legittimo della coazione", allo scopo di sottolineare fin dalla intestazione della norma che l'uso delle armi deve costituire l'extrema ratio, per cui le armi possono essere utilizzate soltanto quando la violenza o la resistenza alla autorità non può essere vinta con mezzi meno pericolosi.
alla espressione "pubblico ufficiale" è stata sostituita quella "forza pubblica", allo scopo di delimitare l'ambito soggettivo delle persone cui è consentito l'uso della coazione, ed eventualmente delle armi.
alla espressione al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio' è stata sostituita quella "nell'adempimento di un dovere del suo ufficio", per chiarire che non è sufficiente il fine di adempimento, ma occorre una situazione oggettiva in atto di adempimento di un dovere di ufficio.
all'uso legittimo delle armi o di altro mezzo di coazione sono state imposte due condizioni: che "il fatto sia proporzionato alla situazione", che esso "non determini un concreto pericolo per la vita o per l'incolumità fisica di persone estranee".
è stata eliminata la parte della norma introdotta dalla legge di emergenza n.152/75 (i casi ivi considerati mantengono rilievo in quanto riconducibili alla legittima difesa);
non è stato riproposto, perché superfluo, il comma 2 dell'art. 53 c.p. Rocco, secondo cui la stessa disposizione si applica a qualsiasi persona che legalmente richiesta dal pubblico ufficiale gli presti assistenza.
L'art. 40 comma 2 specifica che 'l'uso delle armi non è consentito quando a realizzare l'obbiettivo è sufficiente l'impiego di un altro mezzo di coazione fisica meno pericoloso'. A fortiori deve ritenersi che in caso di uso legittimo delle armi, queste devono essere utilizzate nel modo meno dannoso possibile.
Qualche commissario ha proposto di specificare ulteriormente i limiti dell'uso delle armi o di altro mezzo di coazione in caso di inseguimento di un fuggitivo. La Commissione ha tuttavia ritenuto che tale situazione potesse già trovare adeguata soluzione nella previsione di cui ai commi 1 e 2 dell'art. 40.
L'art. 41 ripropone, semplificata, la disciplina dell'eccesso colposo previsto dall'art. 55 c.p. Rocco.
L'art. 42 dispone che, quando non è specificato altrimenti dalla legge (come ad esempio nei casi di cui agli artt. 38 e 39), le cause di giustificazione sono valutate a favore dell'agente anche se da lui non conosciute.
Delitto tentato.
Un inventario dei principali profili dell'istituto del tentativo suscettibili di riforma può essere redatto ordinandoli in quattro grandi gruppi. Profili attinenti: a) al campo di applicazione del tentativo; b) alla struttura del tentativo; c) al trattamento sanzionatorio; d) alla disciplina degli istituti connessi o interferenti col tentativo (desistenza volontaria, recesso attivo).
Con riferimento al campo di applicazione della norma sul tentativo, la Commissione ha confermato la posizione assunta nel documento di base 15 luglio 1999, e cioè di non introdurre nessuna delimitazione di carattere generale dell'area di applicazione del tentativo continuando a prevedere in linea di principio la punibilità a tale titolo di tutti i delitti.
Con riferimento alla struttura dell'istituto, la Commissione, valutate le osservazioni emerse nel dibattito sul documento di base 15 luglio 1999, dopo ampia discussione ha deciso di confermare l'orientamento già assunto.
La proposta di modificare la nozione di delitto tentato fornita dall'art. 56 c.p. Rocco risponde al proposito garantista di questo progetto di riforma di dotare di maggiore determinatezza possibile le norme di espansione della responsabilità, come appunto quelle sul tentativo e sul concorso di persone nel reato, mediante un più rigoroso ancoraggio a requisiti di tipicità oggettiva, senza comunque dimenticare che la capacità regolativa di norme siffatte è sempre mediata dall'insopprimibile opera della giurisprudenza.
La Commissione, convinta che i requisiti della idoneità e della univocità non siano in grado di fornire un criterio sufficientemente definito, e soprattutto oggettivo, di delimitazione dell'area della attività punibile, e consentono di fatto al giudice eccessiva libertà nella determinazione di contenuto e limiti dell'istituto e nella anticipazione dell'inizio della attività punibile, ritiene opportuno ritornare, in sostanza, alla formula dell'inizio di esecuzione prevista dai codici penali liberali. Pur non costituendo 'formula magica' utilizzando la quale ogni problema di riduzione dei margini della discrezionalità giudiziale risultano risolti, essa ha comunque il pregio di mutuare, per così dire, la tipicità del tentativo da quella della fattispecie di riferimento e di impedire un arretramento eccessivo dell'inizio della attività punibile.
Tale proposta nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 ha ricevuto critiche isolate.
Ciò non di meno occorre prenderle in considerazione in ragione del loro collegamento a principi fondamentali del sistema penale. Costituisce infatti opinione abbastanza diffusa che l'attuale norma sul tentativo esprima oggi adeguatamente una concezione del reato fondata sulla offesa del bene giuridico, che nel tentativo verrebbe appunto esplicitata attraverso il riferimento al pericolo insito nel requisito della idoneità, ed in quanto tale sarebbe in grado di soddisfare altrettanto adeguatamente alle esigenze di tipizzazione della fattispecie.
Se è vero che atto idoneo significa atto concretamente pericoloso, e pertanto teoricamente offensivo (in termini di pericolo) del bene giuridico, la Commissione dubita che nella realtà tale elemento sia tuttavia in grado di assolvere alle esigenze di sufficiente tipizzazione della fattispecie generale del tentativo, tanto più che il giudizio deve necessariamente avvenire ex ante sulla base degli incerti parametri dell'uomo medio di categoria, integrati dalle particolari capacità del singolo soggetto agente. E osserva che, essendo la idoneità riferibile pure a fattispecie di reato prive di contenuto offensivo per il bene giuridico, anche come indice di una concezione del reato necessariamente fondata sulla offesa del bene protetto la sua efficacia appare tutt'altro che sicura.
Il requisito della univocità si rivela d'altronde a sua volta inadeguato rispetto all'obbiettivo di una maggiore tipizzazione del tentativo. Invero, la nozione di univocità degli atti non solo si presta alla alternativa tra interpretazione in chiave oggettiva ed interpretazione in chiave soggettiva, ma anche affermandone la natura oggettiva il parametro di determinazione del grado di sviluppo esecutivo necessario e sufficiente alla esistenza del tentativo rimane concettualmente indeterminato.
Attenta considerazione merita, per altro verso, la proposta formulata in sede di dibattito sul documento di base 15 luglio 1999 di mantenere il requisito della univocità in aggiunta a quello dell'inizio di esecuzione. Ciò allo scopo di risolvere i casi in cui "persino l'inizio della condotta tipica può non denotare ancora il carattere oggettivamente non equivoco degli atti" (si fa l'esempio di una violenza che potrebbe essere esecutiva di una molteplicità di fattispecie). A tale considerazione si può tuttavia obbiettare che, in ogni caso, la constatazione della tipicità oggettiva della condotta di tentativo presuppone necessariamente l'accertamento della finalità criminosa, con la conseguente individuazione della fattispecie 'di riferimento'.
Determinatasi a costruire la fattispecie di delitto tentato sul modello dell'inizio di esecuzione, con l'ulteriore pregio di allineare così la legislazione penale italiana alla maggioranza delle legislazioni europee, la Commissione si è posta un ulteriore problema. Come è noto, il vantaggio rilevabile sul terreno di una maggiore delimitazione concettuale della condotta punibile viene in qualche modo controbilanciato dalla impossibilità di ricondurre all'inizio di esecuzione gli atti che, pur essendo totalmente atipici, sono però immediatamente antecedenti all'inizio di esecuzione, e con riferimento a molti dei quali si pone concretamente una esigenza di punibilità. Era stata d'altronde proprio la denuncia di questa esigenza (o di esigenze simili) a giustificare nel 1930 la scelta di abbandonare la formula dell'inizio di esecuzione utilizzata dal codice penale Zanardelli con quella della idoneità ed univocità degli atti.
Il diritto comparato offre tuttavia esempi di soluzioni legislative che tendono a conciliare le contrapposte esigenze di tipizzare le fattispecie penali attraverso la utilizzazione del criterio dell'inizio di esecuzione della condotta tipica, e di non creare vuoti di tutela utilizzando in una dimensione troppo rigida tale criterio. Nel codice tedesco del 1975 ed in quello austriaco del 1974, ad esempio, il criterio base di individuazione della condotta rilevante come tentativo continua ad essere costituito dal concetto di 'esecuzione della fattispecie', ma la soglia di punibilità è anticipata agli atti che precedono 'direttamente' e 'immediatamente' quelli esecutivi; analogamente il codice portoghese equipara agli atti esecutivi 'quelli che, secondo la comune esperienza, sono di natura tale da far prevedere che ad essi seguano' gli atti esecutivi.
La Commissione ha ritenuto che questa sia la strada preferibile, in grado di conciliare le sopramenzionate contrapposte esigenze, optando per il criterio sussidiario della 'immediatezza' in quanto dotato, più di altri possibili, di efficacia delimitativa.
Nella scelta è stata attentamente considerata, per la autorevolezza della fonte, la posizione manifestata dalla Commissione della Cassazione. Dimostrato "favore al ritorno alla formula dell'inizio di esecuzione", condiviso "il rilievo sulla insufficienza della proposta contenuta nello schema Pagliaro della semplice aggiunta dell'avverbio 'oggettivamente' ai requisiti degli atti idonei diretti in modo non equivoco", essa ha soggiunto che "può ritenersi, in questo contesto, superabile la preoccupazione che siffatta scelta lasci fuori dell'area della punibilità atti che, pur essendo atipici, sono però immediatamente antecedenti all'inizio dell'esecuzione, posto che una tale conseguenza costituisce conseguenza calcolata ed inevitabile di una scelta di garanzia operata e posto, peraltro, che una qualche soluzione di intervento 'sanzionatorio' potrebbe essere in tali casi individuata sul terreno del ricorso alle misure di sicurezza (in conformità a quanto previsto per le ipotesi di reato impossibile)".
La Commissione, pur riconoscendo che quanto enunciato riflette una posizione di massima garanzia per l'imputato, ritiene che esigenze di difesa sociale inducano ad optare comunque per la soluzione proposta (leggermente) estensiva dell'area di punibilità a titolo di delitto tentato. Soggiunge che fare riferimento alla applicazione di misure di sicurezza contraddirrebbe d'altronde scelte chiaramente operate, in generale oltre che nei confronti del reato impossibile, di eliminazione, o comunque di forte riduzione, dell'impiego di tale tipo di sanzione penale.
L'art. 43 comma 1, per il quale "chi intraprende l'esecuzione di un atto previsto dalla legge come delitto, o si accinge ad intraprenderla con atti immediatamente antecedenti, risponde di delitto tentato se l'azione non si compie o l'evento non si verifica" costituisce il risultato delle riflessioni predette.
In materia di dolo la Commissione si è limitata a prendere atto che vi è consenso
pressoché generalizzato, in giurisprudenza come in dottrina, circa la incompatibilità fra dolo eventuale e tentativo, il che, secondo il parere espresso dalla Commissione della Cassazione sul documento di base 15 luglio 1999, "consente di evitare una specifica previsione normativa".
L'art. 43 comma 2 prevede che "il colpevole è punito con la pena prevista per il delitto consumato diminuita da un terzo alla metà". La sostituzione della indicazione dei due terzi con quella della metà risponde all'orientamento generale di circoscrivere per quanto possibile la discrezionalità giudiziale nella commisurazione della pena.
L'art. 43 comma 3 prevede che "la punibilità per delitto tentato è esclusa quando, per l'inidoneità della condotta o per l'inesistenza dell'oggetto di essa, è impossibile la consumazione del delitto". La riproposizione della norma sul reato impossibile (limitata ai delitti, e specificamente inserita all'interno della disciplina del tentativo) è apparsa utile allo scopo di contribuire ulteriormente alla delimitazione dell'area della punibilità, enunciando formalmente che se la consumazione del delitto risulta impossibile a causa della inidoneità (ex ante) della condotta, o della inesistenza dell'oggetto materiale della stessa, il soggetto non può essere comunque soggetto a pena, anche se ha iniziato la esecuzione di una condotta tipica. Nel quadro di una scelta generale in tema di utilizzazione delle misure di sicurezza, si è comunque eliminata la norma prevista nel comma 3 dell'art. 49 c.p. Rocco.
Per quanto concerne gli istituti della desistenza volontaria e del recesso attivo, è parso cogliere un consenso generalizzato, avallato pure dal parere della Commissione della Corte di Cassazione, alla loro parificazione sul terreno della non punibilità. In questa prospettiva, anche considerato il panorama europeo, in cui tale parificazione costituisce principio ampiamente riconosciuto, la Commissione ha formulato l'art. 44 comma 1, che prevede che "la punibilità per delitto tentato è esclusa quando l'autore volontariamente desiste dalla condotta o impedisce la realizzazione dell'evento".
Considerato il panorama europeo, in cui pure è diffusa la previsione della non punibilità nei casi in cui, nonostante il ravvedimento dell'autore, il reato non sia venuto a consumazione per altre cause, la Commissione ha formulato l'art. 44 comma 2, che prevede che "la punibilità è altresì esclusa quando, in presenza di un volontario ed idoneo ravvedimento dell'autore, l'evento non si realizza per altra causa".
L'art. 44 comma 3 si preoccupa di precisare che "resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato".
Concorso di persone nel reato.
La Commissione ha affrontato il problema di una relativa tipizzazione delle condotte punibili a titolo di concorso di persone nel reato. Costituisce infatti opinione largamente condivisa che l'accoglimento della soluzione causale nei termini generici espressi dall'art. 110 c.p. Rocco ha dato luogo a pessima prova, determinando un eccessivo deficit di tassatività e di tipicità delle fattispecie concursuali, ed una corrispondente eccessiva discrezionalità applicativa del giudice nella individuazione delle condotte penalmente rilevanti, con il risultato di una eccessiva, talvolta incontrollata ed arbitraria, dilatazione della responsabilità a titolo di concorso di persone nel reato. Una discrezionalità che, come ha osservato la Commissione della Cassazione che ha espresso un parere sul documento di base 15 luglio 1999, rischia "addirittura di far ritenere passibile di eccezione di costituzionalità l'intero capo III del titolo IV nel nostro codice". Occorre dunque procedere ad una tipizzazione delle condotte punibili che, pur evitando schematismi eccessivi, i quali rischierebbero, all'eccesso opposto, di escludere dall'area della responsabilità penale contributi causali alla realizzazione del reato che sarebbe fuori luogo lasciare impuniti, costringa comunque il giudice a rilevare effettivamente, verificare con attenzione, e motivare adeguatamente, la presenza e il tipo di apporto causale alla realizzazione del reato di ciascun concorrente.
In questa prospettiva la Commissione ha riproposto la definizione che aveva già indicato in via esemplificativa nel documento di base: "concorre nel reato chiunque partecipa alla sua esecuzione, ovvero determina o istiga altro concorrente, o ne agevola l'esecuzione fornendo aiuto o assistenza" (art. 45 comma 1), ritenendo che essa configuri tipi di concorso sufficientemente elastici, tali da non rischiare di circoscrivere arbitrariamente l'area della punibilità creando vuoti di tutela, comunque idonei ad assicurare quella esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo che costituisce presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato. Avendo, in questa scelta, il conforto autorevolissimo del parere predisposto dalla Commissione della Corte di Cassazione. La Cassazione infatti, giustamente preoccupata della eccessiva rigidezza di un sistema di 'dettagliata elencazione' dei tipi di concorso che poteva trasparire dalla lettura di parte del documento di base, ha significativamente osservato che "la soluzione prospettata 'in via esemplificativa' può costituire (invece) una soluzione senz'altro accettabile sul terreno di una ragionevole mediazione fra esigenze di (un minimo di) determinatezza ed inevitabili margini di prudenziale genericità nella configurazione delle condotte concursuali. Non può certo affermarsi che la formula proposta contenga -come in premessa richiesto- una 'dettagliata' elencazione dei 'tipi' di condotta concorrente (restando innegabile la persistente genericità delle formule della 'partecipazione', della 'agevolazione', del 'rafforzamento', ecc.), ma non vi è dubbio che essa appaia sufficientemente esaustiva sul piano di quel minimo di determinatezza necessario ai fini del rispetto del principio di tassatività e tipicità legale".
Questa tipizzazione è, da un lato, sufficientemente elastica per non creare vuoti di tutela, e nel contempo sufficientemente 'orientativa' in sede di applicazione della legge penale: alla sua stregua il giudice sarà infatti in ogni caso obbligato a provare la esistenza di una reale determinazione o istigazione di altro concorrente, ed a motivare tale esistenza; sarà obbligato a provare la presenza di una agevolazione che si sia concretata in specifiche condotte di 'aiuto o assistenza', e motivare tale esistenza, ecc.
L'art. 45 comma 2 prevede che "ciascun concorrente risponde nei limiti della sua colpevolezza". In questo modo la Commissione ha recepito la posizione, ormai pressochè pacifica, che esclude che fra i concorrenti debba esservi identità di elemento soggettivo, e ritiene che, verificata oggettivamente la realizzazione di un reato in conseguenza dell'apporto di più persone, nel momento in cui si verifica la posizione di responsabilità penale di ciascuna di esse ciascuna risponderà appunto nei limiti della sua colpevolezza individuale.
L'art. 45 comma 3 prevede che "le disposizioni sul concorso di persone si applicano anche se taluno dei concorrenti non imputabile o non è punibile per cause personali". Si tratta di una disposizione che conferma la linea
teste evidenziata della diversità dei piani in cui si pone il problema della individuazione se si è verificata una situazione oggettiva di concorso di persone nel reato e quello della individuazione della responsabilità penale dei concorrenti.
La Commissione non ha ritenuto di prevedere espressamente che colui che determina persona non imputabile o non punibile "ne risponde" (così, invece, art. 111 comma 1 parte 1 c.p. Rocco), valutando che la responsabilità si ricavi direttamente dalla applicazione dell'art. 45 comma 1, che configura la responsabilità penale di ogni ipotesi di dolosa "determinazione o istigazione di altro concorrente" (per analoga soluzione nei confronti delle norme previste dagli artt. 48, 54 comma 3, 86 c.p. Rocco, v. retro, n. 2.4., § 4).
A differenza di quanto previsto dai progetti Pagliaro e Riz, ha ritenuto di non riproporre neppure la figura della cooperazione nel delitto colposo, in quanto la punibilità in tali casi si ricava agevolmente dal combinato disposto della norma che prevede il concorso di persone e di quelle che prevedono i singoli reati colposi; nonché di non prevedere una figura di concorso doloso in fatto colposo altrui, che trova anch'essa adeguata soluzione nella applicazione dei principi generali in materia di concorso di persone nel reato e di responsabilità soggettiva, ed una figura di concorso colposo in fatto doloso altrui, la cui specifica rilevanza è negata da univoche prese di posizioni assunte dalla giurisprudenza.
In tema di trattamento sanzionatorio la Commissione ha ritenuto che, in conformità a quanto previsto dalla maggioranza dei codici penali europei, occorra differenziare la pena a seconda del tipo di partecipazione alla realizzazione del reato. In linea generale lo specifico tipo di apporto prestato rileverà sul terreno della determinazione in concreto della pena entro i limiti edittali previsti. Come aveva già previsto il progetto Pagliaro, pare tuttavia opportuno collegare a specifiche modalità concrete di operare del concorrente la previsione di circostanze attenuanti e aggravanti, che consentono di parametrare in modo più penetrante la pena applicabile in concreto allo specifico apporto prestato all'esecuzione criminosa.
In questa prospettiva l'art. 46 comma 1 prevede che "la pena è diminuita per le condotte attive di rilevanza oggettivamente modesta"; questa formula è stata ritenuta più adatta del concetto di 'minima importanza' utilizzato dall'art. 114 comma 1 c.p. Rocco a rappresentare la natura del contributo personale che giustifica una speciale diminuzione di pena ( parere conforme della Commissione della Cassazione sul documento di base). L'art. 46 comma 3 prevede a sua volta che "la pena è aumentata a carico degli organizzatori e dirigenti dell'attività criminosa, nonché di coloro che abbiano determinato al reato persone a loro soggette o totamente o parzialmente incapaci", sostituendo in questo modo la ridondante disciplina delle circostanze di cui al c.p. Rocco con una disciplina più semplice, ed eliminando la figura del numero delle persone, che senza risultare particolarmente utile aveva determinato una serie di problemi interpretativi ed applicativi con riferimento a numerosi reati.
L'art. 46 comma 2 prevede che "la pena può essere diminuita per le condotte omissive di concorso nel reato commissivo doloso, fuori dei casi di previo accordo". La Commissione, rilevato che la consapevole inerzia da parte del titolare di una posizione di garanzia rispetto alla realizzazione di un reato rileva penalmente secondo i principi generali anche al di fuori di previo accordo con gli autori del reato, ha considerato espressamente tale ipotesi nel capo relativo al concorso di persone nel reato disponendo che essa, a cagione della sua potenziale marginalità, possa dare luogo ad una specifica diminuzione di pena. Questa posizione è stata condivisa dalla Commissione della Procura Generale presso la Cassazione nel parere sul documento 15 luglio 1999.
Trattando dell'istituto del reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, nel documento di base la Commissione aveva affermato che la disciplina vigente di cui all'art. 116 c.p. Rocco, pur interpretata secondo le indicazioni della sentenza n. 42/64 della Corte Costituzionale, costituisce espressione tipica di responsabilità penale anomala. In questa prospettiva aveva suggerito la eliminazione dell'istituto di parte generale, affidando eventualmente a disposizioni di parte speciale la salvaguardia di specifiche esigenze di tutela penale che dovessero profilarsi in materie quali i delitti contro la persona, la rapina, o altre ipotesi 'nominate'. Se proprio si volesse "mantenere una (sostanzialmente inutile) disciplina di carattere generale, aveva soggiunto, essa non potrebbe che riflettere i principi generali sulla responsabilità soggettiva (ciascuno dei concorrenti risponde nei limiti della sua colpevolezza; se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando nel suo comportamento sia ravvisabile la colpa, ed il fatto sia previsto come reato colposo)".
In sede di stesura dell'articolato, dopo ampia discussione, avendo percepito alcune reazioni alla posizione abolizionista della disciplina della responsabilità penale di chi ha voluto un reato diverso da quello realizzato dai concorrenti, la Commissione ha deciso a maggioranza di inserire comunque nel codice una disposizione di parte generale concernente tale situazione. La norma enunciata, conformandosi doverosamente al principio di colpevolezza, non fa tuttavia altro che riflettere quanto sarebbe risultato in ogni caso sulla base della applicazione dei principi generali sulla responsabilità penale: l'art. 47 comma 1 prevede infatti che "se è commesso un reato diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, questi ne risponde quando il reato sia a lui imputabile a titolo di colpa, sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come reato colposo", l'art. 47 comma 2 prevede a sua volta che "se oltre il reato diverso risulta commesso anche il reato voluto, si applica la disciplina del concorso di reati".
La Commissione ha confermato la prevista eliminazione della norma contenuta nell'art. 117 c.p. Rocco.
L'art. 48 riafferma espressamente, per ragioni garantiste, il principio di non punibilità dell'accordo per commettere un reato non seguito dalla commissione dello stesso e della istigazione a commettere un reato quando l'istigazione è stata accolta ma il reato non è stato commesso. Seguendo quanto già stabilito con riferimento al reato impossibile (retro n. 2.5, § 7), non ha tuttavia previsto la applicabilità di misure di sicurezza, ipotizzata invece dall'art. 115 c.p. Rocco con una disposizione rimasta priva di applicazioni concrete.
In tema di ravvedimento del concorrente il quadro europeo rivela, analogamente a quanto accade con riferimento agli istituti della desistenza volontaria e del recesso attivo, una accentuazione dell'ambito della non punibilità, riconosciuta non solo quando si sia determinato l'impedimento del reato, ma anche quando il concorrente si sia limitato ad attivarsi in modo serio senza riuscire nell'intento. In questa prospettiva l'art. 49 comma 1 prevede che "la punibilità è esclusa per il concorrente che volontariamente desiste, neutralizzando del tutto gli effetti della propria condotta"; l'art. 49 comma 2 prevede che "la punibilità è altresì esclusa per il concorrente che abbia posto in essere un volontario e idoneo ravvedimento, quando il reato non viene a consumazione per altra causa"; l'art. 49 comma 3 prevede che "resta salva la punibilità degli atti compiuti che costituiscono un diverso reato"; l'art. 49 comma 4 dispone che "qualora il concorrente si adoperi volontarimente e in modo idoneo per impedire la consumazione del reato, ma questo sia nondimeno consumato, la pena è diminuita".
L'art. 50 ripropone in tema di applicazione delle circostanze e delle cause di giustificazione la disciplina configurata dai progetti Pagliaro e Riz, prevedendo che "le cause di giustificazione e le circostanze oggettive, nonché le circostanze soggettive che sono servite ad agevolare la commissione del reato, hanno effetto per tutti coloro che sono concorsi nel reato". Si tratta di una scelta che recepisce le critiche rivolte dalla dottrina all'art. 118 c.p. Rocco e gli esiti interpretativi cui è pervenuta la più recente giurisprudenza, coinvolgendo in una disciplina unitaria quanto il c.p. Rocco disciplinava negli artt. 118 e 119.
La Commissione non ha ritenuto di disciplinare nella parte generale del codice penale l'istituto del c.d. concorso esterno in reato associativo, lasciando spazio alla applicazione delle norme generali sul concorso di persone, e condividendo l'opinione manifestata in particolare dalla componente forense della Commissione secondo cui una eventuale disciplina specifica della materia possa trovare una previsione più confacente alle esigenze di tipicità nella eventuale configurazione di fattispecie di favoreggiamento nella parte speciale del codice.
Nonostante il suggerimento della Commissione della Corte di Cassazione, la Commissione non ha ritenuto di procedere ad una disciplina specifica dell'agente provocatore, ritenendo che si tratti di ipotesi in cui una regolamentazione rischierebbe di creare rigidezze non funzionali ad una razionale soluzione dei casi concreti.
Pena
Sistema delle pene.
La Commissione ha elaborato il disegno di un sistema sanzionatorio largamente rinnovato, muovendo dalla condivisa convinzione della assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema punitivo vigente, ritenuto deficitario sotto ogni aspetto: ineffettivo e (là dove applicato) vessatorio.
L'obiettivo fondamentale, in vista del quale la riforma del sistema sanzionatorio è stata pensata, è quello di potenziare la capacità di risposta alle esigenze di prevenzione generale (capacità dissuasiva) e speciale ('risocializzazione'), nel rispetto dei principi di proporzione e di uguaglianza, e delle garanzie dei diritti della persona che costituiscono il fondamento inviolabile dell'ordinamento giuridico.
Il disegno che qui viene presentato sottende un chiaro distacco dalla aspirazione autoritaria a realizzare una giustizia 'assoluta' (sciolta da scopi) e vede nel diritto penale uno strumento di difesa delle condizioni di una civile e libera convivenza fra uomini di uguale dignità e con uguali diritti. La pena non è considerata come un valore o un fine in sé, ma come strumento, che in tanto si legittima in quanto necessario per la 'tenuta' del sistema legale.
I valori guida del sistema sanzionatorio - giustizia e certezza della risposta al reato - sono anch'essi visti come legati all'esigenza di tenuta e di credibilità del sistema, ed al rispetto del principio d'uguaglianza. La certezza da perseguire è, innanzi tutto, quella del law
enforcement, come accertamento effettivo di reati e responsabilità. Quanto ai contenuti 'di giustizia', gli istituti proposti intendono apprestare la cornice normativa di una prassi sanzionatoria i cui risultati siano:
razionali rispetto agli scopi di prevenzione generale e/o speciale;
accettabili come giusti, in relazione alla gravità dei fatti, alla colpevolezza dell'agente e agli altri elementi che possano venire in rilievo nel definire meritevolezza e bisogno di pena;
prevedibili, sulla base di criteri legali capaci di delimitare e orientare la discrezionalità giudiziale.
Sotto tutti gli aspetti, la proposta si iscrive dunque entro l'orizzonte della tradizione liberaldemocratica, di matrice illuministica, con sviluppi coerenti con esigenze e principi del moderno Stato sociale (finalità 'risocializzatrice' assegnata alla pena).
Su tutti i punti la Commissione ha discusso in modo approfondito, con piena consapevolezza dei bisogni 'di sicurezza' provenienti dalla società (ma anche del peso di fattori emotivi e talora francamente irrazionali) e della complessità dei problemi. Costruire un sistema di strumenti idonei di prevenzione e repressione dei reati è un compito che non può mai ritenersi risolto una volta per tutte. Esso implica scelte di valore e bilanciamenti fra interessi contrapposti; i principi della Costituzione pongono vincoli e indirizzi, ma lasciano aperte alternative diverse alla discrezionalità politica (oltre che tecnica) del legislatore. Sul piano tecnico, una progettazione razionale esige conoscenze approfondite della realtà su cui si va a incidere, e prognosi d'efficacia degli strumenti progettati; il prodotto che si può offrire è una scommessa sul futuro, che chiede di essere fondata su buone ragioni, ma è sempre esposta alla verifica dei fatti.
Le premesse del lavoro si ritrovano nel documento di base presentato nell'estate 1999, che peraltro non esauriva tutti gli argomenti, e lasciava aperte talune opzioni anche di rilievo. Durante i lavori diversi orientamenti sono stati motivatamente rettificati, anche alla luce delle osservazioni emerse nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento.
Nella maggior parte dei casi sono maturate soluzioni condivise, talvolta di mediazione fra approcci diversi. Su qualche punto, anche di rilievo, le decisioni sono state adottate a maggioranza. Il disegno complessivo della riforma è comunque frutto di un lavoro comune e di una comune assunzione di responsabilità; esso viene sottoposto alla discussione come avvio di un processo aperto, che ha bisogno di verifiche, integrazioni ed eventuali correzioni.
Si è già rilevato che, mentre le riforme della disciplina generale della legge penale e del reato hanno una loro autosufficienza, le riforme in materia di sanzioni sono indissolubilmente legate a interventi sulla parte speciale. La parte generale, individuando e disciplinando i diversi tipi di pena, costruisce modelli a disposizione del legislatore 'di parte speciale'; è dall'uso che questi ne farà, che dipenderà in ultima analisi il nuovo volto del sistema penale. Peraltro, già l'elaborazione dei modelli implica precise opzioni di politica del diritto, oltre che vincoli di coerenza per gli ulteriori, necessari interventi legislativi.
Fra le opzioni di fondo, unanimemente condivise, della revisione del sistema sanzionatorio c'è il superamento del sistema del 'doppio binario' (pene e misure di sicurezza) che caratterizza, sulla carta, il codice Rocco.
Dal binario delle misure di sicurezza sono stati recuperati, con consistenti modifiche, solo gli istituti relativi al trattamento dei soggetti non imputabili, e la confisca, cui viene riconosciuta una collocazione autonoma e di grande rilievo. Per il resto, il sistema delle misure del codice Rocco è stato abbandonato. Esso prefigurava interventi molto penetranti, svincolati dal criterio della proporzione con il reato; nella prassi non si è mai dimostrato vitale, ed è stato poi sostanzialmente svuotato dal superamento delle 'presunzioni di pericolosità'. E' perciò parso naturale abbandonare istituti che uniscono una teorica potenzialità vessatoria a una pratica ineffettività.
La risposta al reato - quale fatto offensivo di beni giuridici, colpevolmente commesso - è affidata alla sola pena, classicamente (e garantisticamente) intesa come reazione delimitata dalla proporzione con il reato, ma anche in grado di assumere le finalità (di prevenzione speciale) legittimamente assegnabili a misure 'di sicurezza'.
Il catalogo delle pene è strutturato in modo diverso che nel codice vigente (artt. 51 e 52), e si caratterizza per i seguenti aspetti, largamente innovativi:
eliminazione dell'ergastolo, che viene sostituito con la reclusione speciale da 25 a 30 anni;
riduzione dei limiti edittali massimi della reclusione (fino a 18 anni) e previsione di limiti edittali ragionevolmente moderati per tutti i tipi di pena;
introduzione della detenzione domiciliare come nuova pena principale;
introduzione del lavoro di pubblica utilità come pena sostitutiva;
eliminazione della pena detentiva per le contravvenzioni;
strutturazione della pena pecuniaria secondo il sistema delle quote giornaliere, adottato in tutti i codici europei recenti;
ampia gamma di pene interdittive, che possono essere applicate sia come pene principali che come pene accessorie.
La determinazione dei limiti delle diverse specie di pena risulta, come nel codice vigente, da un complesso di disposizioni, relative rispettivamente ai limiti minimo e massimo delle pene edittali che possano essere comminate nella parte speciale (art. 53), ai limiti modificati da eventuali circostanze aggravanti (art. 70), ai limiti in caso di concorso di reati (art. 78).
Come si è sopra osservato, per la concreta riforma del sistema sanzionatorio un nuovo catalogo delle pene non è che un punto di partenza: un arsenale di strumenti a disposizione del legislatore 'di parte speciale', per le scelte relative a ogni singolo reato. Ciò non toglie che già le indicazioni della 'parte generale' - con il proporre un catalogo ampio ed aperto di tipi di pena, e col ridurre i limiti edittali - additino un preciso indirizzo di politica sanzionatoria, verso un sistema che cerchi di prendere sul serio l'idea del punire come extrema ratio, e riduca al minimo, in particolare, il ricorso alla pena carceraria, sia con riferimento alla qualità ed al numero dei reati cui essa risulterà applicabile, sia con riferimento alla quantità della sua irrogazione (che si vorrebbe generalmente meno elevata già sul terreno della previsione edittale, e caratterizzata da una minore forbice fra minimo e massimo).
Funzionale a questo indirizzo è anche il tentativo di rivitalizzare la pena pecuniaria, con una profonda modifica strutturale che dovrebbe renderla, ad un tempo, più equa e più effettiva.
Le applicazioni 'di parte speciale' potranno essere diverse, anche in funzione delle scelte relative ai diversi campi di materia (ai diversi interessi da tutelare). La novità del modello proposto ne accentua inoltre, per così dire, il profilo 'sperimentale': saranno le concrete applicazioni di parte speciale a consentire una verifica della funzionalità dei singoli istituti, e in particolare della congruità dei diversi tipi di pena rispetto alle diverse tipologie d'illecito.
Va da sé che in assenza di indicazioni generali di segno contrario, il legislatore di parte speciale sarà libero di prevedere nei confronti dei singoli reati una sola pena, ovvero pene diverse congiunte o alternative.
La questione dell'ergastolo è stata oggetto di viva discussione. Il documento di base aveva lasciato aperta l'alternativa fra il mantenimento dell'ergastolo e la sostituzione con una pena detentiva a scadenza definita, più severa della 'normale' reclusione. L'esigenza di pervenire ad una proposta compiutamente delineata ha indotto a sciogliere l'alternativa.
Entro la Commissione sono state sostenute posizioni diverse: agli estremi opposti, l'opinione della illegittimità costituzionale dell'ergastolo, per asserito contrasto con il principio della rieducazione, e quella della necessità non solo di mantenerlo come pena edittale, ma di renderne effettiva l'esecuzione. La maggioranza della Commissione ha ritenuto che il principio della rieducazione richiede comunque la possibilità che la pena venga a cessare, in funzione di progressi del condannato sulla via della effettiva 'rieducazione'. Purché sia fatto salvo questo principio, il mantenimento dell'ergastolo potrebbe risultare costituzionalmente legittimo, ovviamente alle condizioni che lo hanno fatto ritenere tale dalla Corte Costituzionale (sent. n. 168/94). Posta la necessità di prevedere comunque, a condizioni ben definite, la possibile cessazione dell'esecuzione, l'alternativa fra l'ergastolo e una pena detentiva lunghissima appare questione di rilievo prevalentemente simbolico.
L'opzione per la abolizione dell'ergastolo è parsa preferibile, a larga maggioranza, appunto come indicazione simbolicamente forte e chiara a favore di un sistema sanzionatorio fondamentalmente ispirato all'idea di una risocializzazione possibile, anche con riguardo agli autori dei delitti più gravi, e contro ogni irrigidimento secondo criteri astrattamente 'retributivi', che rischiano in realtà di veicolare istanze di pura vendetta.
Alla proposta di abolire l'ergastolo, la Commissione è pervenuta pur nella consapevolezza dei rischi che essa non sia ben compresa, o non accettata per timori di indebolimento della difesa dai delitti più gravi. Il testo presentato dovrebbe porre al riparo da simili timori. La pena formalmente 'a vita' è sostituita (sul modello del disegno di legge all'esame del Parlamento) con una pena di lunghissima durata, formalmente differenziata dalla 'normale' reclusione: una 'reclusione speciale' da 25 a 30 anni, che equivale praticamente alla previsione di una pena a vita, e che anche sul piano simbolico dovrebbe essere idonea a veicolare la valutazione di 'massima gravità' dei delitti per i quali sia stabilita.
La Commissione segnala al legislatore 'di parte speciale' l'esigenza che una pena così prolungata abbia un ambito di applicabilità ristrettissimo: per es., gravissimi delitti contro lo Stato che abbiano comportato atti di volontaria aggressione contro la vita delle persone; omicidio premeditato, o commesso con crudeltà, o legato da nesso teleologico con altri reati. Resta esclusa in ogni caso l'applicabilità ai minori di 18 anni (art. 92 comma 3).
A proposito delle pene detentive, si è ritenuto opportuno proclamare espressamente nel codice penale alcuni principi cardine, relativi alle modalità e alle finalità dell'esecuzione, dalla cui scrupolosa osservanza dipende la civiltà del sistema penitenziario (art. 54).
Viene previsto, in via generale, che le pene detentive debbono essere espiate negli stabilimenti a ciò destinati, separati da quelli destinati all'esecuzione di misure cautelari.
Gli stabilimenti destinati all'esecuzione delle pene detentive debbono essere idonei ad assicurare il rispetto della dignità e della riservatezza personale. Il regime di esecuzione deve rispettare la dignità e la riservatezza della persona. Non sono ammesse restrizioni dei diritti del condannato fuori dei casi e dei limiti stabiliti dalla legge.
Precise indicazioni finalistiche nel senso della funzione rieducativa sono date dalle disposizioni in materia di commisurazione della pena e di altre decisioni discrezionali del giudice (artt. 71 e 72), nonché nelle disposizioni relative al trattamento dei minori e delle altre persone in stato di capacità ridotta (artt. 87 e 91).
La concreta attuazione dei principi posti dal codice richiede scelte coerenti in sede di ordinamento penitenziario e di concreta politica penitenziaria, anche al di là di quanto possa essere ricondotto a categorie giuridiche ben definite. Le disposizioni di principio, peraltro, dovranno essere considerate dagli applicatori come norme di legge vincolanti, dalle quali derivano precisi diritti dei condannati, e doveri di conformazione dell'esecuzione penale che l'ordinamento penitenziario ha il compito di concretizzare in disposizioni più specifiche.
Di nuovo inserimento, nel catalogo delle pene, è la detenzione domiciliare: istituto nato nell'ordinamento penitenziario, e recentemente recepito nello schema di legge delega sulla competenza del giudice di pace.
La proposta di farne una pena principale, ritenuta adatta per reati di non elevata ma non insignificante gravità, trae origine dalla condivisa preoccupazione di ridurre l'ambito di applicazione della pena carceraria.
In seno alla Commissione su questa proposta vi sono stati dissensi (come dissensi si erano d'altronde manifestati nel corso del dibattito che era seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999): dissensi non
sulla utilizzazione come modalità esecutiva in situazioni soggettive particolari, sì invece sull'uso come pena edittale. In alternativa, si è prospettata l'ipotesi di introdurre la reclusione saltuaria o del fine settimana, sul modello di codici stranieri recenti. La Commissione ha scartato questa ipotesi, ritenendola poco praticabile, e ha tenuto ferma la proposta della detenzione domiciliare, già presentata nel documento di base. A conforto di questa scelta sta l'orientamento già maturato in sede di ordinamento penitenziario. A suo fondamento, l'esigenza pressante di 'decarcerizzare' quanto più possibile.
Secondo il testo proposto (art. 55) la detenzione domiciliare comporta l'obbligo di permanenza continuativa nella propria abitazione, o in altro luogo indicato dal giudice. Quest'ultima possibilità tiene conto della condizione di chi non abbia un domicilio idoneo, ma possa essere altrimenti ospitato (per es., in comunità). Il giudice è legittimato ad autorizzare deroghe alla permanenza nel luogo indicato in ragione di inderogabili esigenze di vita del condannato.
Per il caso di allontanamento dal luogo di permanenza obbligata, la soluzione preferibile è parsa quella di stabilire che la pena residua si converte automaticamente nella pena della reclusione.
La Commissione tiene a precisare ulteriormente che nella disciplina della esecuzione della detenzione domiciliare occorrerà introdurre norme che tengano conto delle garanzie già oggi offerte dalle figure di cui agli artt. 47-ter ord. penitenziario e 284 c.p.
Per quanto concerne la pena pecuniaria, anche tenuto conto di alcune osservazioni critiche emerse nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base sulla disciplina prevista delle pene pecuniarie e sul ruolo che sembrava loro assegnato, il progetto di riforma recupera (art. 56) il modello della determinazione 'per quote giornaliere', adottato nei codici europei recenti.
La struttura del sistema emerge nelle disposizioni sulla commisurazione della pena (art. 73): il giudice determina il numero delle quote giornaliere (per così dire, la 'durata' della pena pecuniaria) secondo le disposizioni generali in materia di commisurazione della pena, mentre determina l'importo della quota giornaliera in ragione delle condizioni economiche del condannato.
Questa soluzione si è imposta nel corso dei lavori della Commissione, come la sola che teoricamente consente il raccordo fra la misura della sanzione e le condizioni economiche del condannato; dovrebbe quindi favorire, ad un tempo, una maggiore equità e una maggiore effettività. L'opzione per il sistema 'a quote giornaliere' è perciò scaturita, pur nella consapevolezza delle difficoltà applicative che potrebbe comportare, dal tentativo di ricostruire un modello di pena pecuniaria che consenta di superare l'attuale grave crisi di effettività, e di fare della pena pecuniaria uno dei pilastri del rinnovato sistema sanzionatorio.
La considerazione delle condizioni economiche concorre a determinare una misura della pena la cui afflittività per il condannato sia proporzionata al reato commesso. Sarebbe improprio attribuirvi valenza di misura correlata all'illecito arricchimento; a tal fine soccorre il diverso istituto della confisca. Nel sistema qui delineato, le comminatorie di pene pecuniarie elevatissime, che caratterizzano diversi recenti interventi legislativi, non hanno spazio né ragion d'essere.
Sulla misura delle quote giornaliere, sono stati indicati un minimo di lire 5 mila (scendere al di sotto sarebbe eccessivamente lassista) e un massimo di un milione di lire, ritenuto idoneo a coprire le ipotesi di maggiore ricchezza.
Rispetto alla situazione attuale, la determinazione degli importi delle quote giornaliere costituisce un problema nuovo e non facile, che coinvolge la discrezionalità del giudice, e per il quale è parso opportuno indicare qualche criterio orientativo. Si è perciò previsto (art. 73 comma 2) che la quota giornaliera deve essere determinata in modo tale da non pregiudicare le condizioni elementari di vita del condannato, e secondo un criterio di progressività in relazione alle condizioni economiche dello stesso. Non può essere determinata in misura tale che la pena inflitta incida sulle condizioni economiche del condannato in modo sproporzionato rispetto alla gravità del fatto.
Coerente con la nuova struttura della pena pecuniaria è il criterio di ragguaglio con altre pene: una quota giornaliera di pena pecuniaria corrisponde a un giorno di pena detentiva o interdittiva.
E' prevedibile che, nelle applicazioni concrete, la determinazione delle quote giornaliere si attesterà prevalentemente sui livelli bassi, adeguati alle condizioni economiche della maggior parte della popolazione.
Tendenzialmente, il sistema delle quote giornaliere comporta ammontari di pena pecuniaria non insignificanti per il condannato, ma sostenibili in relazione alla 'durata'. Si è perciò ritenuto opportuno prevedere (art. 74) come normale il pagamento rateale della pena pecuniaria eccedente le 30 quote giornaliere, ogni volta che il condannato ne faccia domanda. Al fine di facilitare il più possibile il pagamento, si è prevista anche la possibilità di una ulteriore diluizione della rateazione. Per converso, il mancato pagamento di una rata comporta la scadenza di tutte le rate residue.
Al fine di recuperare un buon livello di efficienza della pena pecuniaria, si è infine imposto un ripensamento dei meccanismi di conversione per il caso di insolvibilità del condannato. Attualmente, la pena pecuniaria è una pena ineffettiva, e il meccanismo di conversione in libertà controllata è del tutto evanescente. Il testo proposto prevede (art. 75) una disciplina differenziata, secondo che l'insolvenza sia colpevole o incolpevole. Nel primo caso, si ritiene opportuno, e non illegittimo, un meccanismo di conversione che assicuri l'effettività della pena, e quindi una percepibile valenza di prevenzione generale e speciale. Come pene 'da conversione' si è pensato alla semidetenzione, e (subordinatamente al consenso del condannato) al lavoro di pubblica utilità (art. 63).
La Commissione ritiene che la disciplina proposta regga al controllo di legittimità costituzionale, in quanto la conversione è fatta dipendere dal fatto colpevole del condannato: non sarebbe più, dunque, una discriminazione in danno dei più poveri, come era invece nel sistema su cui è giustamente intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 131/79; ma sarebbe una conseguenza che chiunque è in grado di evitare, e che appare giustificata perché necessaria ad assicurare l'effettività della minaccia penale e della condanna.
Per il caso (che dovrebbe essere l'eccezione) di insolvenza incolpevole perdurante nel tempo, la Commissione non ravvisa ragioni per una soluzione diversa da quella dell'estinzione della pena per decorso del tempo, secondo la regola generale.
Le pene interdittive possono essere, nel testo proposto, sia pene principali che pene accessorie. Il senso della distinzione si precisa nella disposizione dell'art. 65, che nel porre il principio di tassatività delle disposizioni sulla pena (ciascuna specie di pena si applica solo nei casi in cui sia espressamente stabilita) ne prevede una specificazione o deroga, con la individuazione di ipotesi nelle quali certe pene interdittive 'sono sempre applicate come pene accessorie', in aggiunta alla pena principale prevista dalla disposizione di parte speciale.
Questa disposizione ha lo scopo evidente di assicurare alle pene interdittive un campo 'naturale' di applicazione, in aggiunta a pene di natura diversa, indipendentemente da opzioni del legislatore di parte speciale sulla loro utilizzazione come pene principali in alternativa alle altre.
Le pene interdittive sono di regola temporanee. Sono perpetue solo nei casi espressamente stabiliti dalla legge. La loro commisurazione segue le regole generali (art. 71 comma 1), e non il sistema 'automatico' previsto dal vigente c.p. Rocco.
La categoria delle pene interdittive per i delitti comprende l'interdizione da uno o più uffici pubblici, l'interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese, l'interdizione da una professione o mestiere, l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione. Comprende inoltre il ritiro o sospensione della patente di guida; il divieto di allontanamento dal territorio dello Stato, o di una Regione, o di una Provincia, o di un Comune; il divieto di accesso a determinati luoghi.
Pena interdittiva per le contravvenzioni è la sospensione da uno o più uffici pubblici, o da una professione o mestiere, o dagli uffici direttivi di persone giuridiche o imprese. La differente terminologia adoperata serve a tenere fermo il tradizionale criterio 'formale' di distinzione fra delitti e contravvenzioni, ma non comporta alcuna differenza di disciplina: 'interdizione' e 'sospensione' sono disciplinate unitariamente, negli artt. 57, 58 e 59.
I contenuti delle pene interdittive sono stati disciplinati sulla falsariga del diritto vigente, non senza modifiche.
L'interdizione o sospensione temporanea dai pubblici uffici (art. 57) può essere limitata ad uffici nominativamente indicati (nella sentenza), e non comprende cariche elettive, se non nei casi specificamente previsti dalla legge. L'interdizione perpetua comprende invece qualsiasi ufficio pubblico, e comporta anche la perdita del diritto di elettorato passivo e la decadenza da qualsiasi carica pubblica.
L'interdizione o sospensione da una professione o mestiere (art. 58) riguarda (salvo che la legge disponga diversamente) la professione o mestiere nel cui esercizio è stato commesso il reato.
L'interdizione o sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese (art. 59) priva il condannato della capacità di svolgere attività d'impresa, e di esercitare qualsiasi ufficio che comporti poteri di direzione, controllo o rappresentanza della persona giuridica, o di rappresentanza dell'imprenditore, o di direzione o controllo nell'impresa.
L'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione (art. 60) priva il condannato della capacità di stipulare contratti con i quali assuma la fornitura di beni o servizi alla pubblica amministrazione o ad imprese, in qualsiasi forma costituite, controllate dalla pubblica amministrazione. Priva altresì della capacità di ricoprire uffici direttivi in imprese o in società le quali abbiano posto in essere i contratti sopra indicati.
Questi quattro tipi di pena interdittiva trovano una disciplina unitaria nella già citata disposizione (art. 74), che ne consente la applicazione come pene accessorie nel caso di condanna per reati commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, o a un ufficio direttivo delle persone giuridiche o imprese, o a una professione o mestiere. In ciascuno di tali casi le pene sopra indicate possono essere applicate congiuntamente o disgiuntamente: ciò per la considerazione che gli abusi di potere o violazioni di dovere, caratterizzanti il reato commesso, possono essere significativi per tutte le attività cui le pene interdittive si riferiscono.
Più ristretto è lo spazio delle altre pene interdittive. Il ritiro e la sospensione della patente si applicano nel caso di condanna per delitti commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale (art. 65). Il divieto di accesso a determinati luoghi ha il suo ambito tipico di applicazione (anche come pena accessoria) nel caso di condanna per reati la cui causa od occasione sia specificamente legata ad un determinato luogo (per es., la dimora di una certa persona) o a un determinato tipo di luogo (per es. gli stadi sportivi). In tal caso (art. 61) il divieto concerne i luoghi nei quali è stato commesso il reato, o nei quali abbia dimora o svolga la propria attività la persona offesa (fino a poter comprendere il territorio del comune).
Una più ampia utilizzazione del divieto di accesso come pena principale, con riguardo a luoghi pubblici o aperti al pubblico destinati a manifestazioni sportive, spettacoli, attività ricreative di qualsiasi genere, dipende da scelte sanzionatorie puntuali del legislatore di parte speciale.
Non è stata prevista una pena interdittiva relativa alla potestà dei genitori, essendosi preferito lasciare la materia degli interventi sulla potestà a provvedimenti del Tribunale per i minorenni nell'esclusivo interesse del minore.
Completa il sistema delle pene la pubblicazione della sentenza di condanna (art. 62). Essa si applica, come pena accessoria, nel caso di condanna per delitti commessi col mezzo della stampa o di altro mezzo di comunicazione rivolta al pubblico o accessibile al pubblico. Si esegue in un sito appositamente costituito su di una rete telematica accessibile al pubblico dall'intero territorio nazionale, oltre che mediante pubblicazione, per estratto o per intero, su uno o più giornali che abbiano diffusione nel luogo del commesso reato, o mediante comunicazione del dispositivo via radio o televisione.
Oltre che come pena, la pubblicazione della sentenza di condanna viene in considerazione come modalità di riparazione dell'offesa (art. 122 comma 3).
La Commissione è stata concorde sulla proposta di introdurre nell'arsenale sanzionatorio il lavoro di pubblica utilità, come pena sostitutiva delle pene detentive non superiori ad un anno e delle pene pecuniarie (art. 63).
La qualificazione come pena sostitutiva presuppone la richiesta dell'imputato.
Si tratta di istituto che, se bene attuato, potrebbe risultare appetibile, e acquistare uno spazio d'applicazione ampio, entro una fascia di reati non gravi per i quali appare risposta adeguata.
La misura della prestazione 'sostitutiva' è data dal criterio di ragguaglio con le pene di specie diversa: 4 ore di lavoro per giorno di pena 'sostituita' (per es.: la sostituzione di una pena pecuniaria di 60 quote giornaliere comporterebbe 240 ore di lavoro sostitutivo).
Ciò non significa che la prestazione debba essere effettuata nella misura di 4 ore giornaliere. Sulle modalità di esecuzione, viene proposto un modello flessibile: il giudice determina, col consenso del condannato, i tempi di svolgimento e le modalità della prestazione in modo che non ne risulti pregiudicata la normale giornata lavorativa e non ne derivi un carico di lavoro eccessivo.
In caso di inosservanza, la pena sostitutiva si riconverte nella pena sostituita.
In materia di lavoro di pubblica utilità non sono state al momento previste le necessarie norme di attuazione perché dovrebbe essere quanto prima emanata, con D.M., apposita normativa con riferimento all'analogo istituto previsto dalla legislazione in materia di competenza penale del giudice di pace, disciplina che potrà essere mutuata, o comunque adattata, nei confronti dell'istituto previsto dall'art. 63 c.p.
Una disposizione di mero rinvio alle leggi speciali è stata introdotta con riferimento all'espulsione dello straniero (art. 64). L'argomento è di viva attualità, in quanto connesso con il problema dell'immigrazione. In sede di parte generale del codice penale, è parso opportuno segnalare che l'istituto, già previsto da leggi speciali, viene considerato un istituto 'normale' del sistema, e definirne la natura di pena accessoria o pena sostitutiva.
Circostanze aggravanti e attenuanti.
Il testo proposto contiene, in continuità con la tradizione, una disciplina 'di parte generale' delle circostanze aggravanti e attenuanti. In considerazione della funzione dell'istituto, esso è stato collocato (a costo di qualche improprietà) nel titolo sulla pena, in stretto raccordo con il tema della commisurazione.
L'elaborazione della disciplina delle circostanze si è dimostrata di notevole complessità tecnica.
L'obiettivo della riforma è stato concordemente individuato nella riduzione degli attuali amplissimi spazi di discrezionalità giudiziale. Esso è stato perseguito in più modi.
A livello di fattispecie, si è cercato di realizzare uno sfoltimento del catalogo delle circostanze 'di parte generale'.
Di particolare rilievo è l'eliminazione delle attenuanti generiche, la cui originaria funzione 'equitativa' è stata sfigurata dalla prassi in un indulgenzialismo gestito in modi non uniformi e non controllabili.
Quanto agli effetti delle circostanze, è stato introdotto, per le circostanze ad effetto ordinario, un criterio assai più restrittivo dell'attuale (art. 69 comma 2): gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti a una circostanza ad effetto ordinario sono fino a un quarto della pena che il giudice applicherebbe in assenza di circostanze; se concorrono due o più circostanze aggravanti, ovvero due o più circostanze attenuanti, ad effetto ordinario, gli aumenti o le diminuzioni di pena sono complessivamente fino alla metà.
La Commissione sottolinea con forza che queste proposte sono state pensate per un sistema sanzionatorio rinnovato, caratterizzato da cornici edittali più contenute e più conformi all'attuale sentire. Non possono intendersi come un possibile correttivo del sistema vigente, ma come avvio di una riforma che deve toccare l'intero sistema delle pene edittali.
Un catalogo di circostanze, aggravanti e attenuanti, 'di parte generale', è stato mantenuto in conformità alla tradizione e per evitare lacune, nel contesto di un disegno che non tocca la parte speciale. E' un catalogo complessivamente più ristretto di quello previsto dal vigente c.p. Rocco: sono state considerate soltanto ipotesi ben profilate, nelle quali appare plausibile l'opportunità di andare oltre i limiti edittali, mentre la valutazione di altre situazioni è stata lasciata alla discrezionalità del giudice entro la 'normale' cornice della commisurazione della pena,
Come circostanze aggravanti (art. 66) vengono considerati, in continuità con il diritto vigente, elementi che denotano una particolare gravità del reato: le finalità di più spiccato significato criminale (terrorismo, mafia, discriminazione razziale; nesso teleologico con altri reati); nei delitti che offendono il patrimonio, la particolare gravità del danno cagionato; nei delitti dolosi contro la persona, o comunque commessi con violenza alla persona, l'avere agito per motivi abietti o futili, o con sevizie; nei delitti colposi, l'avere agito nonostante la previsione dell'evento (questa ipotesi aggravante è stata mantenuta in ragione della soluzione restrittiva introdotta a proposito di dolo eventuale).
Del sistema delle circostanze aggravanti fa parte anche la disciplina della recidiva (art. 67). L'effetto di aumento sulla pena è peraltro, nel sistema delineato, assai meno importante di altre conseguenze dell'avere già riportato condanna (vedi disciplina del concorso di reati e della sospensione condizionale).
La maggior parte delle circostanze attenuanti comuni (art. 68) sono situazioni in cui è ridotta la colpevolezza dell'agente. Sono recuperate innanzi tutto le classiche ipotesi dell'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale, o dell'avere reagito in stato d'ira determinato dal fatto ingiusto altrui (provocazione). Vengono poi introdotte ipotesi parzialmente nuove: l'avere commesso il reato
perché indotto da persona alla cui autorità l'autore del reato era sottoposto; l'avere, nell'esercizio di una prestazione lavorativa subordinata, commesso il reato perché condizionato da disposizioni impartite da un superiore; l'avere commesso il fatto per evitare un pericolo grave di danno alla persona o al patrimonio, in una situazione particolare nella quale era sensibilmente diminuita la possibilità di tenere un comportamento conforme alla norma. Vengono qui evidenziate situazioni parzialmente scusanti che, nel diritto vigente, non trovano riconoscimento (se non eventualmente come ragione di concessione delle 'generiche'), ma che appaiono meritevoli di specifica considerazione.
Vi sono poi la classica figura attenuante del danno lieve, e le circostanze relative a condotte successive al reato. Accanto alla tradizionale ipotesi del risarcimento, o dell'efficace attivarsi per elidere o attenuare le conseguenze del reato, si è ritenuto di poter dare rilievo attenuante, in termini generali, alla collaborazione con l'autorità inquirente nella raccolta di elementi decisivi per la individuazione o la cattura degli altri autori del reato, ovvero per il recupero delle cose che costituiscono il prezzo, prodotto o profitto del reato.
Per quanto concerne gli effetti delle circostanze, si è cercato di elaborare soluzioni tecniche atte ad evitare i difetti dell'attuale procedimento di commisurazione della pena, che è frammentato in una aritmetica sanzionatoria in cui non è dato ravvisare alcun contenuto razionale. A tal fine, in un primo momento è stata presa in considerazione l'idea di fissare sui limiti edittali l'incidenza di tutte le circostanze, comprese quelle 'ad effetto ordinario' (la formula è nuova, ma autoesplicativa), e di recuperare il significato delle circostanze nell'ambito di un unitario procedimento di commisurazione, quali criteri 'nominati'. Difficoltà tecniche, e anche rischi di fraintendimento di un tale sistema, hanno infine portato a recuperare (per le circostanze ad effetto ordinario) il modello tradizionale degli aumenti o diminuzioni sulla pena in concreto inflitta (sia pure in misura più contenuta che nel diritto vigente)
Per il caso di concorso di circostanze sia aggravanti che attenuanti, la Commissione era partita dall'idea dell'integrale superamento del sistema del bilanciamento. L'alternativa ipotizzata era quella della applicazione integrale di tutte le circostanze, con successivi aumenti e diminuzioni di pena. Come ha rilevato, fra gli altri, la Commissione della Procura Generale nel suo parere al documento di base 15 luglio 1999, tale soluzione è parsa però impraticabile, in quanto avrebbe esaltato i difetti della aritmetica sanzionatoria, frammentando (e complicando) eccessivamente il procedimento di commisurazione della pena. Per esclusione, si è recuperato parzialmente il sistema del bilanciamento (art. 69 commi 6 e 7): una soluzione non ottimale, ma che è parsa meno problematica e più facilmente comprensibile delle altre venute in discussione, e che alla luce della disciplina complessiva delle circostanze (eliminazione delle attenuanti generiche, sfoltimento delle circostanze generali, riduzione degli aumenti e delle diminuzioni di pena collegati alla presenza di circostanze, esclusione dal bilanciamento delle circostanze ad effetto speciale) evita gli eccessi di discrezionalità giudiziale che caratterizzano la disciplina vigente.
Con una sorta di ritorno al sistema originario del codice Rocco, sono state riportate fuori del bilanciamento le circostanze ad effetto speciale: quelle per le quali l'aumento o diminuzione di pena è determinato in maniera autonoma, o in misura superiore al quarto. E' stata quindi ripristinata la regola secondo cui, se una circostanza ad effetto speciale concorre con una o più circostanze ad effetto ordinario, gli aumenti o diminuzioni di pena corrispondenti alle circostanze ad effetto ordinario si applicano sulla pena in concreto determinata con riferimento alla circostanza ad effetto
speciale.
Un criterio nuovo è stato introdotto per l'ipotesi (forse solo teorica) che concorrano più circostanze aggravanti, ovvero più circostanze attenuanti, ad effetto speciale: si applica la circostanza che comporta l'aumento o la diminuzione maggiore, e le altre circostanze vengono applicate come se fossero circostanze ad effetto ordinario. Per il caso (forse pur esso solo teorico) che ricorrano circostanze ad effetto speciale sia aggravanti che attenuanti, e la legge non disponga diversamente, si è previsto che anche le circostanze ad effetto speciale possano eccezionalmente rientrare nel bilanciamento.
Completa la disciplina delle circostanza la statuizione dei limiti di pena per il reato circostanziato (art. 70).
Il testo proposto non contiene disposizioni relative allo spinoso problema della distinzione fra reato circostanziato e titolo autonomo di reato. Tale problema dovrebbe, peraltro, risultare sdrammatizzato dalla nuova disciplina delle circostanze aggravanti ad effetto speciale: la sottrazione al 'bilanciamento' rende stabile l'effetto aggravante.
Commisurazione della pena.
La riforma proposta si prefigge l'obiettivo di ricostruire un rapporto equilibrato fra vincolo legale e discrezionalità giudiziale, e di assicurare la coerenza delle scelte sanzionatorie rispetto alle funzioni del sistema penale.
Attualmente, la prassi della commisurazione della pena (sia in senso stretto, avendo cioè riguardo alla misura della pena inflitta, sia in senso ampio, avendo riguardo alle diverse scelte sanzionatorie) è dominio di una amplissima e difficilmente controllabile discrezionalità giudiziale. All'opzione per un modello di discrezionalità vincolata, pur leggibile negli artt. 132 e 133 del c.p. Rocco, corrisponde una prassi nella quale l'obbligo di motivazione è largamente eluso, e poco o punto leggibili sono i criteri seguiti dal giudice. Il rispetto del principio di legalità appare precario.
Questa situazione, che la dottrina è unanime nel deplorare, è il frutto di cause molteplici, in parte radicate nel codice (carattere onnicomprensivo, e perciò ben poco orientativo, dei criteri 'fattuali' enunciati dall'art. 133, e mancata indicazione di criteri finalistici), in parte aggravate dalle riforme dagli anni '70 in avanti (novella del 1974, riforma penitenziaria, legge n. 689/81) che hanno dilatato al massimo gli spazi di discrezionalità del giudice. Un effetto distorcente è infine ravvisabile nella struttura squilibrata delle pene edittali, rispetto alla cui severità l'intervento giudiziario si è posto spesso in chiave di (problematica) correzione equitativa.
In conformità ad indirizzi dottrinali largamente condivisi, il testo proposto individua nella 'colpevolezza per il fatto' il limite garantista invalicabile nella commisurazione della pena (art. 71 comma 2), e ne sottolinea il significato con la riaffermazione espressa che le valutazioni e decisioni sulle scelte sanzionatorie non possono essere piegate a esigenze di 'esemplarità punitiva' o di risposta ad un ritenuto 'allarme sociale' (art. 72 comma 2).
Certo, il criterio della proporzione con la colpevolezza non è sufficiente a definire una misura punitiva 'giusta' in assoluto. Ma potrà non essere (come non deve essere) una delega in bianco al giudice, se le cornici edittali 'di parte speciale' sapranno definire tipi e livelli di pena adeguati a comprendere e differenziare le 'gravità relative' dei reati commessi.
I presupposti 'fattuali' della commisurazione della pena recepiscono (art. 71 comma 3) alcune indicazioni del diritto vigente. Sono state eliminate categorie ambigue come il riferimento alla 'capacità a delinquere'. Il giudice dovrà valutare, innanzi tutto, la gravità del reato e delle sue conseguenze dannose, in quanto riflesse nella colpevolezza. Vengono in considerazione, a tal fine, l'intensità del dolo o il grado della colpa, e i motivi che hanno determinato la commissione del reato. Possono venire in rilievo le eventuali condotte di riparazione totale o parziale dell'offesa che il colpevole o altri per esso abbia tenuto dopo il fatto; i comportamenti del colpevole anteriori al reato, e le sue condizioni di vita al momento del fatto; i comportamenti successivi al reato, e le attuali condizioni di vita, possono essere presi in considerazione nella misura in cui siano rilevanti rispetto alle finalità di prevenzione speciale.
Pur non essendo un criterio 'finalistico', il riferimento alla gravità del fatto e della colpevolezza offre una griglia di base per la commisurazione della pena secondo un criterio di graduazione razionale, entro la cornice segnata dalla determinazione legislativa delle pene edittali (e delle eventuali ragioni di aggravamento o diminuzione). Come criterio finalistico della commisurazione della pena, indicazioni desumibili dalla Costituzione (art. 27, comma 3) additano il primato della prevenzione speciale: nei casi in cui il commesso reato indichi un bisogno di 'rieducazione' (sotto qualsiasi forma possa presentarsi: istruzione, terapia, formazione al lavoro, ecc.) il perseguimento della finalità 'rieducativa' deve essere il criterio finalistico fondamentale della commisurazione della pena, e in genere delle scelte rimesse al giudice.
Tale criterio, peraltro, incontra limiti segnati da altri principi e funzioni dell'ordinamento penale.
Da un lato, il limite garantista segnato dal principio di colpevolezza: il perseguimento di obiettivi di 'rieducazione' può giustificare un distacco dal criterio della proporzione fra pena e colpa, esclusivamente a favore del condannato.
Dall'altro lato, un limite più flessibile è segnato dall'esigenza di tenuta del modello della prevenzione generale. Anche se, secondo il prevalente orientamento dottrinale, condiviso dalla Commissione, la prevenzione generale non può essere un criterio legittimo di commisurazione della pena, sta di fatto che essa è criterio fondamentale di legittimazione dell'ordinamento penale; e la Corte Costituzionale ha affermato che "tra le finalità che la Costituzione assegna alla pena non può stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione" (Corte Cost. n. 306/93).
Individuare i punti di equilibrio fra prevenzione generale e prevenzione speciale rientra fra le scelte di politica del diritto rimesse alla discrezionalità del legislatore; e le soluzioni possono essere diverse per fasce di reati o di situazioni. Nella parte generale, esigenze di 'tenuta' del modello generale preventivo si concretizzano nella posizione di limiti di applicabilità degli istituti finalizzati alla prevenzione speciale.
Per tutte le valutazioni non di carattere 'commisurativo' in senso stretto, ma relative alla applicazione o meno di istituti 'alternativi', è stato posto come esclusivo il criterio della prevenzione speciale, con una disposizione (art. 72 comma 1) che nel nuovo sistema aspira ad un ruolo chiave, e che, additando una precisa direzione finalistica, dovrebbe poter sfuggire allo svuotamento pratico cui è andato incontro il vigente art. 133 c.p. Rocco.
Va da sé che la finalità di prevenzione speciale è, innanzi tutto, quella che la Costituzione definisce 'rieducazione', e che il testo proposto definisce reintegrazione del condannato nella società. Essa comprende, peraltro, anche l'effetto di ammonimento che la sentenza dovrebbe avere nei confronti del condannato; esige dunque attenzione alla persona del condannato, ma non si identifica affatto in indulgenzialismo, né si contrappone alle esigenze di prevenzione generale, rettamente intese.
Alcune disposizioni consentono, a particolari condizioni, sostituzioni o esclusioni di pena.
Recependo in parte un'indicazione dello schema Pagliaro, viene prevista (art. 76) la possibilità di esclusione facoltativa di pene concorrenti con la pena detentiva, "quando quest'ultima risulti sufficiente in relazione alla colpevolezza del reo e alle finalità di prevenzione speciale" (non si è prevista la possibilità di esclusione facoltativa della pena detentiva: è parso sufficiente prevedere la possibilità di non applicazione, nell'ambito e nei limiti della sospensione condizionale).
L'art. 80 disciplina istituti relativi alla sostituzione di pene. La reclusione fino a un anno si esegue di regola in regime di semidetenzione; ciò può essere disposto anche per pene fino a due anni. Inoltre, il condannato a pena detentiva non superiore a un anno può ottenere (non più di due volte) che la pena detentiva sia sostituita con una prestazione di pubblica utilità, o con la pena pecuniaria, per un periodo di durata uguale alla pena detentiva inflitta.
La disciplina di questi istituti è strettamente coordinata con quella della sospensione condizionale della pena, stante l'analoga funzione e l'incidenza nel medesimo campo. Per evitare incongruenze, si applicano alle pene sostitutive i medesimi obblighi che il nuovo sistema prevede per la sospensione condizionale della pena (art. 80, comma 6). I commi 7, 8 e 9 dell'art. 80 dettano regole sui rapporti fra sostituzione e sospensione della pena, in modo da evitare, da un lato, che la condanna a pena sostituita sia d'ostacolo alla condizionale, e dall'altro che la sostituzione di pena possa essere disposta in casi in cui la sospensione condizionale debba essere revocata.
S'intende che, in forza del principio generale stabilito dall'art. 72, anche i provvedimenti in materia di sostituzione di pene debbono essere orientati alla finalità di prevenzione speciale. La discrezionalità ampia, che il sistema delineato comporta, è parsa giustificata dall'esigenza di prevedere istituti che consentano, fin dove possibile, di sostituire la pena detentiva con alternative ritenute idonee.
Così ristrutturati i meccanismi di sostituzione delle pene detentive, viene meno la ragion d'essere delle pene sostitutive di cui alla legge 689/81: istituti dimostratisi poco vitali, di cui si propone l'abrogazione (art. 7 delle disposizioni di coordinamento).
Concorso di reati.
Nel capo relativo al concorso di reati, il testo messo a punto dalla Commissione, sciogliendo una alternativa lasciata aperta nel documento di base, propone il superamento del criterio del cumulo materiale, e la generalizzazione del criterio del cumulo giuridico, secondo la linea di tendenza prevalente nei codici europei recenti.
L'adozione, nel codice Rocco, del cumulo materiale (temperato 'dall'esterno', nel massimo, dal limite del quintuplo della pena per il reato più grave) è stata una scelta di grandissimo rigore, effettuata in coerenza con una complessiva concezione autoritaria, diversa da quella oggi prevalente nel movimento internazionale di riforma; una scelta, peraltro, largamente svuotata dalla novella del 1974, che ha riportato all'area del cumulo giuridico il concorso formale ed il 'nuovo' reato continuato eterogeneo.
Ragioni di equità, rilevanti anche sul piano della prevenzione speciale, additano l'esigenza di sostituire al criterio rigido del cumulo materiale criteri più flessibili, che consentano, ove occorra, di ricondurre il carico sanzionatorio complessivo entro limiti sostenibili, in rapporto alla qualità dei reati compresi nel cumulo, alla colpevolezza dell'agente e al corrispondente 'bisogno di pena'.
Storicamente, il superamento del sistema del codice Rocco in punto di concorso di reati è già stato avviato dalla novella del 1974, con la fortissima dilatazione dell'ambito di applicazione del cumulo giuridico, che ha inglobato l'area del concorso formale e la nuova figura del reato continuato eterogeneo.
Da un rapporto da eccezione a regola fra il principio del cumulo materiale e la limitata deroga del reato continuato omogeneo, siamo passati ad una ripartizione paritaria, fra due principi di uguale dignità e di ambito applicativo consistente, ma fra i quali è incerto e insoddisfacente il regolamento di confini. La persistenza di tensioni irrisolte è chiaramente leggibile nello slabbramento giurisprudenziale della figura del reato continuato, mediante interpretazioni estensive dell'unità di disegno criminoso.
La tendenza, largamente diffusa fra i giudici di merito, ad una estrema dilatazione del reato continuato - cioè dell'ambito di applicazione del cumulo giuridico - sottende una chiara resistenza ad applicare il criterio del cumulo materiale, ritenuto di eccessiva severità e rigidezza. Ed è una tendenza tanto più significativa, come indice di un sentire diffuso fra gli operatori di giustizia penale, quanto più precaria ne è la base normativa, e percepibile il rischio che, con la dilatazione applicativa del reato continuato, si finisca per dare un trattamento privilegiato a situazioni nelle quali il c.d. disegno criminoso unitario, sganciato da contesti decisionali ben definiti e stemperato in una generica scelta di delinquere, potrebbe caso mai costituire la base di un rimprovero di maggiore colpevolezza.
Per tutte queste ragioni, la Commissione ritiene necessaria una riforma, fondata sulla generalizzazione del criterio del cumulo giuridico.
La disciplina proposta per il concorso di reati, imperniata sul principio del cumulo giuridico, è delineata nell'art. 77.
Il criterio di base è quello attualmente valido per il concorso formale e il reato continuato: nel caso di condanna per più reati si applica la pena corrispondente alla violazione in concreto più grave, aumentata fino al triplo, e comunque non oltre la somma delle pene corrispondenti a ciascun reato. Di fronte alla irrisolta controversia se la violazione più grave, per la quale applicare la pena base, sia da determinare in astratto (con riguardo alla pena edittale) o in concreto, con riguardo alla pena inflitta, si è optato per quest'ultima soluzione, in quanto più adeguata al reale disvalore dei reati commessi.
E' parso opportuno stabilire che gli aumenti di pena si effettuino sulle diverse specie di pena corrispondenti ai diversi reati per cui è pronunciata condanna. E' da escludere, dunque, che dal cumulo possano derivare trasformazioni di una specie di pena in un'altra.
In conformità a un'indicazione che il documento di base riferiva al reato continuato, ma che è stata trasferita all'ambito complessivo del cumulo giuridico, si è prevista una misura minima dell'aumento corrispondente a ciascun reato unificato nel cumulo. Esso non può essere inferiore alla quarta parte del minimo (fermo restando il limite massimo del triplo). Ciò intende introdurre un elemento di relativa rigidezza, al fine di evitare prassi applicative eccessivamente lassiste, e circoscrivere in una certa misura la discrezionalità giudiziale.
Per ogni effetto giuridico diverso dalla pena si ha riguardo ai singoli reati per i quali è stata pronunciata condanna (comma 4).
Anche nel nuovo sistema sono state mantenute (art. 78) le figure del reato continuato e del concorso formale, quali ipotesi 'privilegiate' rispetto alla normale disciplina del cumulo giuridico, secondo una linea già adottata nel progetto Pagliaro.
L'esigenza sottesa è di evitare l'applicabilità dell'aumento minimo obbligatorio per ciascun reato satellite, in situazioni che possono ragionevolmente valutarsi come un fatto unitario cui corrisponde, tendenzialmente, un significato criminale minore e un minore bisogno di pena. Tali situazioni sono state identificate nel concorso formale (reati commessi con un'unica azione o omissione) e nel reato continuato, definito però in termini restrittivi: non soltanto dall'unità di disegno criminoso, ma altresì dalla unità di contesto temporale. Non si è ulteriormente precisato questo criterio, apparendo preferibile lasciare spazio all'elaborazione giurisprudenziale.
Oltre che nella esclusione del limite minimo degli aumenti per i reati 'satelliti', il trattamento 'privilegiato' si esprime nella apposizione di un tetto più basso per l'aumento complessivo (fino alla metà, invece che fino al triplo). Inoltre, ai fini del cumulo giuridico con altri eventuali reati, reato continuato e reati in concorso formale si considerano come un reato unico (vale a dire, comportano un unico aumento di pena nella misura obbligatoria ex art. 77 comma 3).
L'adozione del criterio del cumulo giuridico trae con sé l'esigenza di consentirne l'applicazione, ogni volta che ne sussistano i presupposti sostanziali, anche nel caso in cui i reati rientranti nel cumulo siano stati oggetto di procedimenti separati. A ciò provvede l'art. 77 comma 6: le disposizioni sul cumulo giuridico si applicano anche quando una persona, già condannata per uno o più reati, riporta una nuova condanna per uno o più altri reati, commessi prima della precedente sentenza di condanna.
Tale disposizione segna anche il limite entro il quale vale l'opzione per il cumulo giuridico: questa non è incondizionata, ma delimitata entro un preciso ambito temporale, come nei codici che hanno già introdotto tale principio.
L'ambito di ragionevole unificazione del trattamento sanzionatorio è quello dei reati che siano giudicati con unica sentenza, o anche con più sentenze, quando la stessa persona, già condannata per uno o più reati, riporti una nuova condanna per uno o più altri reati, commessi prima (quanto meno) della precedente sentenza di condanna. Fare rientrare nel cumulo anche fatti commessi successivamente potrebbe portare ad annullare del tutto, per questi ultimi fatti, la reazione penale, e quindi la stessa efficacia generalpreventiva della minaccia legale.
Sotto questo aspetto, è il codice Rocco che detta una disciplina lassista, là dove, nell'art. 80, rende applicabili le disposizioni sul cumulo delle pene - e in particolare quelle sui limiti massimi che temperano il rigore del cumulo materiale - anche nel caso in cui, dopo la prima condanna, "si deve giudicare la stessa persona per un altro reato commesso anteriormente o posteriormente alla condanna medesima".
La portata amplissima di questa disposizione è stata ristretta dalla giurisprudenza, con una interpretazione che esclude dal limite del quintuplo i reati commessi dopo l'inizio dell'esecuzione della precedente sentenza: un correttivo che la dottrina giustamente reputa inadeguato, rispetto all'esigenza di sottrarre dal cumulo tutti i reati commessi successivamente alla prima sentenza.
Come soglia temporale ultima, oltre la quale il cumulo giuridico non è più possibile, è parso preferibile scegliere - per ragioni di praticabilità e di equilibrio - la sentenza anche non definitiva che, per la prima volta, abbia accertato la responsabilità penale per taluno dei reati.
Per i reati successivi alla soglia temporale di riferimento, si ritorna al cumulo materiale con le pene per i reati precedenti: è una disciplina più severa di quella vigente, e coerente con il rilievo attribuito nella bozza, in via generale, alla recidiva quale presupposto di risposte sanzionatorie più rigorose.
Completa la disciplina del concorso di reati la determinazione dei limiti massimi delle diverse specie di pena in caso di cumulo (art. 79).
Sospensione condizionale della pena.
Autonoma collocazione e grande rilievo, nel riformato sistema sanzionatorio, ha la sospensione condizionale della pena.
Alla conservata denominazione corrisponde un istituto largamente trasformato, caratterizzato non semplicemente 'in negativo' (pena sospesa) ma da contenuti positivi. La sospensione condizionale è stata pensata come strumento atto ad evitare l'applicazione di pene detentive e/o interdittive, in situazioni nelle quali, pur in presenza di reati di qualche gravità, le finalità di prevenzione speciale possano essere meglio perseguite evitando l'applicazione della pena corrispondente alla gravità del reato, ma anche senza le attuali cadute in un indifferenziato indulgenzialismo.
Per le pene pecuniarie, la sospensione condizionale è stata prevista nei limiti in cui è parso necessario per rispettare il principio d'uguaglianza. A tal fine, si è ritenuto sufficiente ammettere la sospendibilità (a richiesta dell'interessato) nel caso di condanna alla sola pena pecuniaria. Quando questa concorre con la pena detentiva o interdittiva, la mancata sospensione della pena pecuniaria non comporta alcun problema di discriminazione, che invece sorgerebbe ove non venisse ammessa la sospensione della pena pecuniaria inflitta in via esclusiva: in tale ipotesi, il condannato per un reato di minore gravità in concreto (quello punito con la pena pecuniaria) si troverebbe sottoposto a un trattamento deteriore (pena da eseguire in ogni caso) rispetto al condannato per reati più gravi, puniti con pena detentiva o interdittiva.
L'ambito di applicazione della sospensione condizionale è strutturalmente lo stesso che nel codice vigente. Effetti di ampliamento potranno derivare dalla adozione di limiti edittali più contenuti nella auspicata riforma della parte speciale.
L'art. 81 comma 1 prevede che l'esecuzione della pena detentiva o interdittiva inflitta, non superiore a due anni, possa essere sospesa quando - in assenza di precedenti condanne a pena detentiva non sostituita o a pena interdittiva per delitto doloso, per le quali non sia intervenuta la riabilitazione - l'affermazione di responsabilità, accompagnata dalle ulteriori statuizioni di cui al presente capo, appare sufficiente a realizzare le finalità di prevenzione speciale.
Per i reati commessi da persona in stato di capacità ridotta, o di età inferiore ai 21 anni, o maggiore di 70 anni, può essere sospesa la pena detentiva o interdittiva non superiore a tre anni (art. 81 comma 2).
La sospensione condizionale della pena può altresì essere concessa a chi abbia riportato una precedente condanna a pena detentiva o interdittiva non sospesa, qualora la pena da infliggere, cumulata con la precedente, non superi i limiti di cui ai commi precedenti.
Il venir meno, a seguito della riabilitazione, dell'effetto ostativo di precedenti condanne a pena detentiva, è parso un criterio equilibrato, atto ad assicurare un campo di applicazione ragionevole.
Innovando rispetto alla rigidità della normativa introdotta nel 1990, si è previsto che la sospensione della pena detentiva possa essere disposta separatamente dalla sospensione della pena interdittiva, e viceversa (art. 81 comma 4).
Come nel diritto vigente, si prevede (art. 81 comma 2) che la sospensione condizionale possa essere concessa una seconda volta, qualora la nuova condanna, cumulata con la precedente, non superi il limite massimo di pena sospendibile.
Per evitare casuali (e perciò discriminatorie) difformità di trattamento, si prevede che, qualora per reati unificabili in un unico cumulo giuridico siano pronunciate separate sentenze di condanna, ai fini della sospensione condizionale si considerano come un'unica sentenza (art. 81 comma 3).
Il nucleo della nuova disciplina è costituito dalla previsione di obblighi (artt. 83 e 84) diretti ad assicurare, nella misura del possibile, la riparazione del danno, e comunque la adeguatezza dell'istituto rispetto alle finalità di prevenzione generale e speciale.
In via di principio si è previsto (art. 83 comma 1) che la sospensione della pena sia obbligatoriamente condizionata alle restituzioni o al risarcimento del danno, di cui le persone danneggiate abbiano fatto richiesta; alla consegna del profitto del reato, di cui il condannato abbia beneficiato; alla consegna del prezzo del reato.
Per il caso che il danneggiato non ne abbia fatto richiesta, si è prevista la possibilità di imporre il risarcimento o restituzione nell'ambito degli obblighi qualificati di cui all'art. 84, sulla base di una valutazione discrezionale del giudice. La non obbligatorietà è motivata da considerazioni di ordine pratico (difficoltà di procedere senza eccessivo dispendio di attività ad una attendibile quantificazione) e dall'opportunità di riconoscere rilievo a libere scelte del danneggiato. La possibilità di imporre comunque un risarcimento non richiesto è stata prevista pensando a possibili casi in cui il danneggiato si sia astenuto dal chiederlo perché intimidito.
Il risarcimento (se richiesto), la riparazione delle conseguenze del reato e la perdita del profitto da reato sono parse alla Commissione le condizioni di base perché il condannato possa essere ammesso al 'beneficio' della sospensione condizionale. E' parso peraltro realistico ed opportuno tenere conto di situazioni in cui un integrale adempimento dell'obbligazione risarcitoria e/o riparatoria non sia possibile. Per tale ipotesi è stata cercata una via intermedia fra le opposte alternative (entrambe inaccettabili) dell'imposizione di un onere inesigibile e della rinuncia al risarcimento. La soluzione proposta è elastica: potrà essere ritenuto sufficiente un risarcimento o pagamento nei limiti di quanto esigibile, seguito da un concreto attivarsi per integrare il risarcimento o pagamento nel periodo di sospensione condizionale, nei termini di un impegno previamente assunto dal condannato e ritenuto idoneo dal giudice (art. 83 comma 2).
Nel sistema delineato, gli obblighi di riparazione sono condizione necessaria, ma non sempre sufficiente per l'ammissione al beneficio. Obblighi qualificati sono previsti per il caso in cui ciò sia ritenuto necessario per finalità di prevenzione speciale (viene qui in primo piano il profilo dell'ammonimento insito nella sanzione), e comunque nel caso di sospensione di una pena detentiva superiore a un anno di reclusione, o di seconda concessione della condizionale.
L'imposizione di obblighi qualificati è, sussistendone le premesse, obbligatoria nell'an, ma è discrezionale l'individuazione delle prestazioni, entro l'elenco di cui all'art. 84.
L'arco di possibilità è ampio, e comprende prestazioni anche di una certa severità, corrispondenti a specie di pena diverse dalla detentiva. La sospensione condizionale si allontana in tal modo decisamente dall'ottica indulgenziale, e acquista caratteri che la avvicinano ad istituti di probation.
Si è previsto che l'imputato possa richiedere di svolgere, in sostituzione di taluno degli obblighi indicati dalla legge, altre prestazioni che il giudice ritenga equivalenti rispetto alle finalità di prevenzione speciale. Anche qui emerge la linea dell'affidamento in assunzioni di autoresponsabilità, sempre, s'intende, sotto il controllo del giudice.
Per il caso di seconda sospensione della pena pecuniaria, non potendosi introdurre obblighi più onerosi della pena sospesa, si è previsto (art. 86 comma 2) che la sospensione debba essere limitata a una parte della pena, non eccedente la metà della pena inflitta.
Durata ed effetti della sospensione condizionale sono disciplinati dall'art. 85. La durata del periodo di sospensione è stata prolungata a sette anni, nel caso di condanna a pena detentiva per delitto doloso (ciò fra l'altro, lascia a disposizione più tempo per gli adempimenti di cui all'art. 83). Negli altri casi il termine è stabilito dal giudice, fra un minimo di tre e un massimo di cinque anni. E' di tre anni nel caso di sospensione della pena pecuniaria.
Si è previsto (comma 3) che delle condanne a pena condizionalmente sospesa non sia fatta menzione nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati, non per ragioni di diritto elettorale. L'attuale beneficio della 'non menzione' diviene in tal modo una conseguenza tipica della sospensione condizionale.
La revoca della sospensione condizionale è disciplinata secondo i medesimi criteri del diritto vigente, con l'aggiunta dell'ipotesi del grave inadempimento degli obblighi cui il beneficio sia stato condizionato (comma 4).
Al fine di evitare che, in caso di revoca, il regime della sospensione condizionale si traduca in un aggravio, si è introdotta (comma 5) la regola della detrazione, dalla pena da espiare, di un periodo corrispondente agli adempimenti di cui all'art. 84 comma 1, consistenti nel pagamento di una somma di denaro a favore dello Stato o in una prestazione di pubblica utilità. Si è rimessa al giudice la possibilità di disporre una ulteriore detrazione, non superiore a un mese, in ragione dell'adempimento di altri obblighi.
Per il caso di esito positivo, la pena sospesa si estingue. L'opzione per l'estinzione della pena, con l'abbandono della attuale configurazione come causa di estinzione del reato, esclude formalmente che l'istituto costituisca un 'colpo di spugna' su una responsabilità (per reati non bagatellari) che esso presuppone accertata, e ne sottolinea la funzione tutta interna al sistema sanzionatorio.
Condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali.
Nel capo intitolato 'condizioni di procedibilità e di estinzione degli effetti penali' sono disciplinati istituti alla cui presenza è subordinata la procedibilità del reato (querela, richiesta, istanza), che il codice vigente colloca in un capo dedicato alla persona offesa del reato, ed istituti (remissione di querela, oblazione, prescrizione, amnistia) che il codice vigente raggruppa, insieme ad altri, nella categoria delle cause di estinzione del reato.
Tale seconda categoria non è più utilizzata, nel linguaggio del codice, per gli istituti che possono essere applicati indipendentemente da un compiuto accertamento del reato. Gli istituti in essa tradizionalmente compresi hanno ricevuto collocazioni diverse. La sospensione condizionale della pena è stata qualificata come causa di estinzione della pena, e disciplinata in un separato capo del codice. In una disposizione di coordinamento è stata trasferita l'ipotesi della morte dell'imputato (non più del 'reo'): l'espunzione dal codice intende sottolineare che, in un sistema penale fondato sulla 'personalità' della responsabilità, la morte dell'imputato è questione esclusivamente processuale, la cui soluzione, assolutamente ovvia, è l'improcedibilità dell'azione.
Gli istituti che restano raggruppati nel capo in esame hanno, per tradizione, la comune caratteristica di potere essere applicati indipendentemente da un compiuto accertamento del reato e delle responsabilità conseguenti. Dal mantenimento di tale caratteristica discende che essi trovano applicazione, oltre che quando un reato è stato commesso, anche in casi in cui il reato è stato solo ipotizzato, ma di fatto non sussiste (è per questa ragione che la prescrizione e l'amnistia debbono essere rinunciabili, pena l'illegittimità costituzionale).
La formula della 'estinzione del reato', che sarebbe appropriata nei casi in cui il reato c'è e l'imputato ne è responsabile, negli altri è fuorviante e comporta una carica impropria di stigmatizzazione. E' per questo che si propone di eliminarla (nello stesso senso si era orientato il progetto Pagliaro).
Ciò che viene meno in ogni caso, e perciò definisce la normale operatività degli istituti, è la procedibilità o proseguibilità dell'azione penale, in applicazione, peraltro, di regole relative non al procedimento, ma a fatti la cui rilevanza è stabilita dal diritto sostanziale. Malgrado il loro carattere anfibio, fra il processuale e il sostanziale, gli istituti in esame fanno dunque parte, per funzione e per nessi sistematici, del complesso degli istituti relativi alla risposta 'sostanziale' al reato. Da ciò la loro naturale collocazione nel codice penale, e segnatamente nel titolo relativo alla pena.
Le soluzioni proposte per i singoli istituti in esame recepiscono (in una riscrittura che vorrebbe essere di semplificazione) le linee di fondo della disciplina vigente, peraltro con innovazioni di rilievo, non solo nella sistematica ma anche nei contenuti.
In materia di querela e di remissione di querela, gli artt. 87 e 88 seguono sostanzialmente la disciplina vigente.
E' stato mantenuto, per la querela, il termine di tre mesi dalla notizia del fatto, con la specificazione che, qualora la persona offesa si trovi in una oggettiva situazione di soggezione nei confronti dell'autore del reato, il termine non decorre fino a che perduri lo stato di soggezione.
Innovativa rispetto al codice Rocco è la previsione della scindibilità degli effetti sia della querela (art,. 87 comma 7) che della remissione della querela (art. 88 comma 4). Ciò è stato ritenuto opportuno al fine di dare rilievo ad accordi anche separati (con un possibile e auspicabile effetto di incentivazione).
Per la remissione e l'accettazione della remissione si prevede che debbano essere fatte in forma espressa.
Anche in materia di richiesta ed istanza è stata mantenuta la disciplina vigente.
L'oblazione è stata ridisegnata (art. 89) in coerenza con le indicazioni del documento di base: eliminazione della oblazione 'automatica' e mantenimento della figura dell'oblazione discrezionale, condizionata all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato.
L'eliminazione della forma tradizionale di oblazione (quella automatica) poggia sulla premessa (sulla attesa) di una drastica restrizione dell'area dell'illecito penale, in coerenza con i principi ispiratori della auspicata riforma dell'intero sistema penale. Espunte dall'orizzonte penalistico le fattispecie 'bagatellari', un meccanismo di deflazione automatica non avrebbe più ragione d'essere, e risulterebbe anzi in contrasto con le ragioni sottese alla opzione penalistica.
L'oblazione 'discrezionale', invece, risponde ad una funzione che il disegno di riforma ritiene importante e da potenziare: quella dell'incentivazione di condotte di riparazione dell'offesa, perseguibile mediante istituti lato sensu premiali.
La disciplina proposta è modellata sulla falsariga del vigente art. 162-bis, con modifiche in parte legate all'inserimento in un nuovo sistema, in parte ad esigenze di una migliore strutturazione dell'istituto.
L'ambito tipico di applicazione resta quello delle contravvenzioni punite con l'ammenda. Poiché la pena dell'arresto viene eliminata, l'oblazione diverrebbe applicabile alla generalità delle contravvenzioni, e in tale ambito potrebbe (auspicabilmente) diventare una modalità preferenziale di definizione dei procedimenti.
E' stata rimessa al legislatore di parte speciale la possibilità di stabilire l'applicabilità dell'oblazione a delitti puniti con la multa, anche alternativa o congiunta ad altra pena non detentiva, ovvero alternativa a una pena detentiva. Non si è ritenuto di andare oltre, perché un'ipotetica applicabilità generalizzata dell'oblazione potrebbe indebolire l'opzione per un uso largo della pena pecuniaria. La soluzione prospettata lascia perciò a valutazioni puntuali del legislatore, relative a singole materie, la scelta se e come valorizzare, a un livello per così dire intermedio fra la attenuazione della pena e l'esonero da qualsiasi conseguenza sanzionatoria, condotte di riparazione dell'offesa nell'ambito dei delitti (per es., di delitti patrimoniali anche perseguibili d'ufficio).
Viene mantenuta le regola secondo cui la domanda di oblazione deve essere presentata prima dell'apertura del dibattimento. Essa è integrata da alcune nuove disposizioni volte ad assicurare l'applicabilità dell'istituto nel caso di nuove contestazioni in corso di dibattimento (comma 4) e quando, pur essendo stato contestato un reato non suscettibile di oblazione, l'imputato ritenga applicabile l'oblazione, in base a una diversa qualificazione giuridica o ad elementi di fatto non considerati nell'imputazione (comma 5).
In quest'ultima ipotesi, è onere della difesa indicare la qualificazione giuridica ritenuta corretta, e le eventuali prove dei fatti affermati nella domanda. Tale sistema (il cui funzionamento richiede una effettiva difesa tecnica) è parso il più idoneo a conciliare esigenze di non facile conciliazione: evitare che l'applicabilità dell'oblazione sia preclusa dalla formulazione di contestazioni non fondate, ma anche evitare qualsiasi sfondamento del termine per la presentazione della domanda.
L'oblazione non è ammessa quando non sia stato risarcito il danno o permangano conseguenze dannose o pericolose del reato eliminabili da parte di chi abbia chiesto di essere ammesso all'oblazione. E' questa la regola fondamentale, che definisce la funzione dell'istituto.
Altre ragioni di diniego dell'oblazione sono strutturate in chiave discrezionale. La domanda di oblazione può essere respinta quando sia stata chiesta da persona già condannata a pena detentiva, o in caso di recidiva specifica, nonché avendo riguardo alla gravità del fatto, qualora la pena pecuniaria sia prevista congiuntamente ad altra pena, ovvero in alternativa a una pena detentiva.
L'importo della somma da pagare a titolo di oblazione è stato fissato nel terzo del massimo edittale. Entro il sistema delle 'quote giornaliere' anche la determinazione di detto importo passa attraverso valutazioni rimesse al giudice. Di ciò tiene conto la disciplina degli aspetti processuali dell'istituto (comma 9). Col provvedimento che ammette l'oblazione, il giudice determina l'importo della quota giornaliera, ed assegna un termine, non superiore a 15 giorni, per il deposito della prima rata mensile e delle spese del procedimento. Il pagamento è rateizzato, secondo le medesime regole concernenti la pena pecuniaria; ciò trae con sé l'esigenza di stabilire che il procedimento è sospeso (e quindi la prescrizione non decorre) dalla data del provvedimento che ammette l'oblazione alla data del pagamento dell'ultima rata. Il mancato pagamento anche di una sola rata entro il termine dovuto comporta di diritto la revoca dell'ammissione all'oblazione.
In materia di prescrizione, in seno alla Commissione vi è stato un vivace dibattito, fra posizioni che hanno accentuato l'uno o l'altro dei diversi poli del problema. Una ragionevole disciplina dei termini e degli effetti della prescrizione deve infatti contemperare esigenze tendenzialmente contrapposte:
da un lato, evitare una persecuzione penale troppo lontana dal fatto, quando l'interesse alla repressione del reato sia venuto meno;
dall'altro lato, evitare che l'istituto della prescrizione si risolva in strumento di denegata giustizia verso interessi sia pubblici che privati (compreso quello dell'imputato innocente).
Anche il criterio della ragionevole durata dei processi, reso esplicito nel 'nuovo' art. 101 Cost., comporta l'esigenza di evitare che la prospettiva della prescrizione (che dovrebbe essere un rimedio eccezionale) possa essere realisticamente assunta a obiettivo di strategie difensive, con effetti pratici di appesantimento e prolungamento dei processi.
Insomma: l'istituto della prescrizione risponde a esigenze di giustizia, che saranno tanto meglio soddisfatte quanto più esso solleciti e favorisca il funzionamento efficace di altri istituti del sistema penale, in modo che i processi siano definiti in tempi brevi e le declaratorie di prescrizione siano ridotte al minimo.
La congruità dei termini di prescrizione non può perciò essere valutata in astratto, ma solo in connessione con gli altri istituti del sistema penale, e sullo sfondo di una realistica considerazione del sistema processuale.
Il testo proposto (art. 90) mantiene, nei tratti essenziali, la struttura della disciplina vigente, con una tendenziale riduzione dei termini di prescrizione. Questa linea potrebbe apparire poco realistica rispetto alla attuale capacità di lavoro delle istituzioni di giustizia penale. La Commissione, a maggioranza (poiché alcuni commissari avrebbero preferito un allungamento consistente dei termini della prescrizione), ha tuttavia inteso dare un segnale: la situazione attuale non è sostenibile, un efficiente funzionamento del sistema penale esige la capacità di pervenire in tempi più rapidi a sentenze definitive ed eseguibili.
Eliminata le pena dell'ergastolo, la previsione di imprescrittibilità è rimasta per i delitti contro l'umanità, e i delitti di strage e di omicidio doloso aggravato commessi per finalità di terrorismo o di mafia. Il termine di 20 anni è stato limitato agli altri casi di omicidio doloso. Per gli altri reati, sono previste le fasce dei 15, 10 e 5 anni, rispettivamente per: delitti puniti con la reclusione superiore nel massimo a 10 anni; con la reclusione superiore nel massimo a 5 anni; con pena detentiva non superiore nel massimo a 5 anni, o con pena non detentiva, e per le contravvenzioni.
Agli effetti della prescrizione si tiene conto delle circostanze ad effetto speciale. Non si tiene conto delle altre circostanze. Questa proposta intende eliminare qualsiasi influenza, sui termini di prescrizione, del bilanciamento fra circostanze. Per raggiungere tale risultato, è stato necessario prevedere inoltre che nel caso di concorso di circostanze aggravanti e attenuanti ad effetto speciale si tiene conto delle sole aggravanti.
Verrebbe così posto rimedio a uno degli aspetti più difettosi della attuale disciplina, la quale finisce per attribuire alla decisione sul bilanciamento di circostanze l'effetto improprio di poter determinare discrezionalmente l'estinzione del reato, rendendo aleatori l'an e il quando della prescrizione. Il sistema proposto dovrebbe assicurare una maggiore prevedibilità, e, soprattutto, l'indipendenza assoluta dei termini di prescrizione da decisioni discrezionali del giudice.
L'esclusione di influenza delle circostanze attenuanti è compensata dallo spostamento di fasce di delitti verso un termine di prescrizione più rapido (ciascun termine di prescrizione si riferisce ai delitti puniti con pena massima superiore, invece che non inferiore a una data durata).
Per le contravvenzioni, il termine di prescrizione è stato portato a 5 anni, essendo stato ritenuto ingiustificato mantenere un termine più breve di quello previsto per l'illecito amministrativo. Si è inoltre considerato che per le contravvenzioni non è più prevista la pena detentiva, e che il nuovo sistema 'punta' fondamentalmente sull'oblazione, donde la necessità di non indebolire tale prospettiva con il mantenimento di termini di prescrizione tropo stretti.
Sul decorso della prescrizione si è conservata la disciplina vigente, anche per quanto concerne le cause di sospensione e interruzione. Per queste ultime si è peraltro preferita una formula sintetica, invece che un rinvio pedissequo ad atti processuali 'nominati': interrompono il corso della prescrizione gli atti del procedimento contenenti l'enunciazione del fatto contestato, e le sentenze di condanna.
E' stata mantenuta la regola - determinante per la struttura dell'istituto - secondo cui il termine di prescrizione, che dopo l'interruzione ricomincia a decorrere da capo, non può essere prolungato oltre la metà.
E' stata pure mantenuta la regola secondo cui la sospensione e l'interruzione della prescrizione hanno effetto per tutti coloro che hanno commesso il reato. E' stato escluso l'effetto sui reati connessi previsto dal vigente art. 161 c.p. Rocco.
Secondo la nuova impostazione sistematica, si è stabilito che il decorso del termine di prescrizione comporta l'improcedibilità o improseguibilità dell'azione penale.
E' stata infine espressamente statuita la rinunciabilità della prescrizione, in conformità alle indicazioni della Corte Costituzionale.
Nel corso dei lavori della Commissione, è stata avanzata la proposta di considerare come causa di estinzione della pena la prescrizione maturata dopo la sentenza di primo grado. Tale proposta è stata respinta per l'aggravio di lavoro che ne deriverebbe.
In materia di amnistia e indulto viene proposta una disciplina sussidiaria, ridotta al minimo, che non incide (né lo potrebbe) sulle scelte di competenza della legge che emani il provvedimento di clemenza, ma intende comunque delineare un modello orientativo di base, tendenzialmente restrittivo (art. 91 e 92).
Completano il titolo le disposizioni sull'estinzione della pena per decorso del tempo (art. 93), sulla non menzione della condanna (art. 94), e sulla riabilitazione (art. 95), istituto, quest'ultimo, che potrebbe assumere un rilievo maggiore dell'attuale anche in ragione del più limitato effetto (estinzione della pena, e non del reato) previsto per la sospensione condizionale.
Non
imputabilità e capacità ridotta
Non imputabilità.
La Commissione ha già espresso nel documento di base la ferma opzione per il mantenimento della distinzione fra soggetti imputabili e non imputabili, cioè fra soggetti cui possa o non possa essere mosso un rimprovero di colpevolezza, in ragione delle loro condizioni soggettive al momento del fatto.
Discostandosi dal codice vigente, la disciplina proposta rinuncia a definire 'in positivo' l'imputabilità, limitandosi a disciplinare le condizioni inabilitanti, in presenza delle quali l'imputabilità (l'assoggettabilità alla pena) è esclusa.
Resta ferma la struttura formale delle fattispecie di non imputabilità, articolata nella individuazione di particolari situazioni incapacitanti, e nella determinazione del tipo di incapacità, conseguente a quelle situazioni, che esclude la colpevolezza e l'assoggettabilità a pena.
L'effetto cui si ricollega la non imputabilità è definito nel vigente codice come 'incapacità di intendere e di volere'. Tale formula lascia nel vago l'oggetto dell'intendere e del volere, che invece è esplicitato da formulazioni più 'mirate' di altri codici. Il codice tedesco, seguito dai più recenti codici spagnolo e portoghese, parla di incapacità di comprendere das Unrecht (il contenuto illecito) del fatto, e di agire in conformità a tale rappresentazione. Pur trattandosi di soluzione raggiungibile (e raggiunta) in sede di interpretazione razionale, è parso preferibile esplicitarla nel testo normativo (art. 96). Ciò rende chiaro in tal modo che l'incapacità (d'una data persona in un dato momento) potrebbe essere affermata o esclusa in relazione a fatti diversi.
Per quanto concerne le modalità di individuazione delle condizioni inabilitanti, l'esigenza di tipizzazione si combina con quella di indicazioni, per quanto possibile, esaustive delle diverse situazioni che, alla luce del sapere scientifico e di criteri di valutazione morale storicamente acquisiti, appaiano incompatibili con la possibilità di un rimprovero di colpevolezza e rendano irragionevole il ricorso alla pena.
A tal fine si è scelto di utilizzare concetti 'aperti', che, nel rispetto del principio di legalità, consentano un flessibile adeguamento al mutare (al progresso) delle conoscenze scientifiche e in genere delle concezioni pertinenti.
Il primo e fondamentale campo problematico, per la disciplina della (non) imputabilità, è quello delle situazioni soggettive di 'non normalità psichica' (con riferimento al momento del commesso reato).
Le applicazioni del diritto vigente riflettono le incertezze e le divergenze di opinione nel mondo della scienza psichiatrica attorno alla malattia di mente e alle sue implicazioni. Di fronte alla diversità di paradigmi nel dibattito scientifico, e al coesistere di tendenze sia all'allargamento che alla restrizione dei casi di non imputabilità, la Commissione ha ritenuto che la scelta legislativa più ragionevole sia quella di assicurare le condizioni di adeguamento del sistema giuridico al sapere scientifico, evitando prese di posizione troppo rigide e adottando formule atte a recepire la possibile rilevanza dei diversi paradigmi cui nel dibattito scientifico sia riconosciuta serietà e consistenza
In questa prospettiva, è parso utile introdurre, accanto alla infermità, la formula della grave anomalia psichica, con l'intento di rendere più sicura la strada per una possibile rilevanza - come eventuali cause di esclusione dell'imputabilità - di situazioni oggi problematiche, come le nevrosi o psicopatie, o stati momentanei di profondo disturbo emotivo, che fossero tali da togliere base ad un ragionevole rimprovero di colpevolezza.
La formulazione del criterio in forma di clausola generale (art. 96) fa affidamento, qui come altrove, sulla capacità della giurisprudenza di elaborare criteri applicativi adeguati e scientificamente fondati. L'aggettivo 'grave' intende comunque dare un preciso segnale di cautela.
Innovativa è la proposta di ricondurre ai principi generali la disciplina delle ipotesi di ubriachezza e di intossicazione da stupefacenti.
Nel documento di base sono state richiamate le ragioni di critica verso la disciplina vigente, caratterizzata - con riferimento all'ipotesi normale di ubriachezza o intossicazione non accidentale - da quelle che vengono definite 'finzioni di imputabilità', contrastanti con il principio di colpevolezza, e dettate da preoccupazioni di prevenzione generale e speciale che potrebbero essere altrimenti soddisfatte. Considerazioni critiche sono state svolte anche verso le soluzioni alternative proposte da altri codici (come la soluzione 'di parte speciale' del codice tedesco) e da progetti di riforma.
La Commissione ritiene che una soluzione adeguata non solo al principio di colpevolezza, ma anche alle esigenze di prevenzione generale e speciale, possa venire fondata sulla coerente applicazione dei principi generali.
Schematizzando, dai principi deriva la possibilità di affermare la responsabilità penale per il fatto commesso in stato di incapacità piena:
quando l'incapacità sia stata preordinata, e il fatto sia poi stato commesso nel modo preordinato (art. 96 comma 2);
quando l'essersi messo (non accidentalmente) in stato di incapacità possa essere considerato un comportamento inosservante di una regola cautelare, rispetto al fatto poi realizzato, e questo sia stato realizzato (volontariamente o con obiettiva violazione di regole di buon comportamento) 'a causa' dello stato di procurata incapacità (art. 96 comma 3).
In tali ipotesi, appare senz'altro possibile considerare il mettersi in stato di incapacità come condotta causale e colpevole rispetto al fatto poi realizzato.
Nell'ipotesi di incapacità preordinata, il titolo della colpevolezza sarà da individuare per l'appunto nella dolosa preordinazione. Fuori di tale ipotesi, l'imputazione non potrà essere che per colpa, anche quando il fatto sia poi (nello stato di incapacità piena) commesso volontariamente: il titolo di colpevolezza dovendo ravvisarsi nell'inosservanza (causale rispetto al fatto realizzato) della regola cautelare del 'non assumere alcool o droghe' in quella data situazione 'di pericolo'.
Ritenere, con presunzione assoluta, che il mettersi in stato di ubriachezza costituisca sempre e comunque la violazione di una regola cautelare, non sembra ragionevole, né sostenuto da reali indicazioni di politica criminale. Vi sono, peraltro, situazioni in cui un rimprovero di colpa appare possibile e plausibile: per es., quando taluno si sia messo in stato di incapacità in un contesto riconoscibilmente 'pericoloso', in relazione ad attività da svolgere (per es., prima di mettersi alla guida di veicoli), o avendo riguardo ad altri elementi della situazione concreta.
La Commissione ha ritenuto perciò inutile, oltre che di dubbia compatibilità col principio di colpevolezza, mantenere una indiscriminata disciplina derogatoria sull'imputabilità di fatti commessi in stato di ubriachezza o intossicazione non accidentale.
L'eliminazione delle finzioni di imputabilità fa venire meno i presupposti su cui poggia la vigente disciplina dell'ubriachezza o intossicazione abituale, e rende superflua una disposizione sull'intossicazione cronica. Tale soluzione va incontro all'auspicio di una profonda revisione della materia, espresso dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 114/98.
Per quanto concerne i minorenni, la Commissione ritiene che non vi siano ragioni per abbandonare il sistema vigente, che colloca a 14 anni la soglia minima dell'imputabilità, e per gli adolescenti fra i 14 e i 18 anni impone un accertamento in concreto della capacità, al di fuori di presunzioni in un senso o nell'altro (art. 97).
Questo sistema è un contemperamento - certo, non l'unico possibile - fra esigenze di certezza, meglio soddisfatte dalla fissazione di soglie di età, ed esigenze di adeguamento ai casi singoli, di cui si tiene conto nella fascia di età ritenuta più problematica.
Le soglie d'età indicate, pur con quanto d'arbitrario v'è in esse, rappresentano un ragionevole punto d'equilibrio nella ricerca delle condizioni di una possibile responsabilizzazione dei minori, né eccessivamente prematura né lassisticamente tardiva.
Per gli autori di reato non imputabili si pone il problema di eventuali misure non punitive. La questione non è di etichette, ma di sostanza: misure per i 'non imputabili', comunque denominate, non possono legittimamente essere strutturate secondo criteri 'retributivi' di proporzione con la colpevolezza, né in vista di fini di prevenzione generale.
Resta uno spazio legittimo per misure specialpreventive, per le quali la Commissione propone l'etichetta di misure di sicurezza e riabilitative, sulla falsariga di denominazioni adottate altrove (Sicherung und Besserung).
L'opzione di fondo è quella di una riduzione delle eventuali misure al minimo strettamente indispensabile: extrema ratio rispetto agli istituti orientati alla risocializzazione o alla terapia, che del resto caratterizzano la legislazione più recente (in ambito psichiatrico, la svolta avviata dalla legge 180/78; in ambito minorile, i nuovi istituti introdotti con la c.d. procedura penale minorile. DPR 448/88).
La risposta al 'bisogno di trattamento' del non imputabile deve essere affidata, in prima istanza, ad istituti e istituzioni diversi da quelli della giustizia penale, e competenti a operare per il superamento delle situazioni di disagio e incapacità (terapia, riabilitazione, rieducazione, e simili). In quest'ottica si prevede (art. 98 comma 4) che non si fa luogo alla applicazione di una misura, e la misura applicata viene revocata, quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico.
Escluso il ricorso alla pena, la giustizia 'penale' ha motivo di occuparsi dei non imputabili soltanto in quanto sia necessario il ricorso a forme di coercizione personale. Le misure 'di sicurezza e riabilitative' coprono uno spazio ristretto e residuale, trovando applicazione solo in presenza di esigenze comprovate e prioritarie di prevenzione di delitti gravi, tali da rendere insufficiente l'affidamento ai 'normali' approcci e istituti miranti alla riabilitazione, e da fare apparire non sproporzionato il recupero di momenti di coercizione, peraltro da inserire comunque nell'ottica riabilitativa.
In questa prospettiva, l'art. 98 comma 1 stabilisce che misure di sicurezza e riabilitative possono essere applicate agli autori di delitto, che siano stati prosciolti perché non imputabili, quando la misura risponda a un bisogno di trattamento o di controllo, determinato dal persistere delle condizioni di incapacità che hanno dato causa al delitto.
Vengono poi fissati i tipi di misura per le diverse categorie di soggetti:
per i non imputabili per infermità o altra grave anomalia, o per ubriachezza o intossicazione da stupefacenti: il ricovero in una struttura chiusa o aperta con finalità terapeutiche o di disintossicazione; l'obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie; l'obbligo di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie o di presentazione periodica ai servizi sociali (art. 98 comma 2).
per i minori: il collocamento in una comunità chiusa o aperta, e l'affidamento al servizio sociale (art. 98 comma 3).
I presupposti per l'applicazione delle misure sono disciplinati dagli articoli 99 e 100.
Le misure più invasive (ricovero in una struttura chiusa) sono agganciate alla commissione di delitti gravi di aggressione all'incolumità personale o pubblica, e ad esigenze di prevenzione, non altrimenti soddisfacibili, di delitti analoghi. Per i minori, l'elenco è esteso ai delitti concernenti la disciplina delle armi o delle sostanze stupefacenti, e a quelli commessi nell'ambito di una associazione criminale.
Per le misure non coercitive (trattamenti in libertà) è previsto un ambito d'applicabilità più ampio. Esse possono essere disposte se è stato commesso un diverso delitto per il quale sia prevista la pena della reclusione, sempre che persista lo stato di incapacità e vi sia concreto pericolo che il soggetto, in assenza della misura, commetta nuovamente un delitto doloso o colposo contro la persona o contro l'incolumità pubblica, o un delitto contro il patrimonio.
Per il caso di grave o reiterato inadempimento delle prescrizioni inerenti alla misura, si prevede possa essere disposto il ricovero in una struttura chiusa per il tempo strettamente necessario, e comunque non oltre sei mesi.
Per quanto concerne le regole 'di garanzia', il testo proposto (art. 101) delinea il seguente modello:
con la sentenza che accerta il reato e la non imputabilità dell'autore, il giudice valuta la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura, con riferimento al momento del giudizio, e determina la specie e la durata minima della misura. Questa, di regola, sarà compresa fra 6 mesi e un anno; fino a due anni nell'ipotesi più grave, quella dei delitti di aggressione commessi dall'infermo di mente. La determinazione delle ulteriori condizioni di esecuzione delle misure compete al magistrato di sorveglianza, sentiti i servizi presso i quali o sotto il cui controllo la misura debba essere eseguita. Il nesso con tipologie circoscritte di delitti - realizzati e temuti - dovrebbe dare al giudizio di pericolosità, il cui fondamento empirico è molto controverso, un ancoraggio meno aleatorio.
le misure, anche di ricovero, vengono eseguite preferibilmente presso strutture terapeutiche, o con finalità educativa o riabilitativa, facenti parte del normale circuito assistenziale.
alla scadenza del termine fissato in sentenza, il giudice verifica se persistano i presupposti per il mantenimento della misura, e ne dispone la cessazione se ne risulta venuta meno la necessità. Può modificare la specie di misura, in conformità ai criteri di cui all'articolo precedente. Nel caso di prosecuzione della misura, indica un nuovo termine per il riesame, che però dovrà essere effettuato anche prima, quando sussistano elementi che ne facciano apparire venuta meno la necessità. Esigenze di proporzione e di garanzia hanno indotto ad introdurre un termine massimo per le misure sia restrittive che non. Per i non imputabili per infermità o altra anomalia, la durata massima è di 5 anni; tale limite potrà essere eccezionalmente superato, per il tempo strettamente necessario, in presenza di un pericolo concreto e non altrimenti fronteggiabile di atti gravemente aggressivi contro la vita o l'incolumità delle persone. Per le misure nei confronti dei non imputabili per età minore è parso congruo il limite di 3 anni.
Capacità ridotta.
Il testo proposto mantiene una disciplina differenziata di ipotesi (tipo 'seminfermità') di ridotta capacità, individuandone i presupposti in situazioni sovrapponibili o comunque vicine a quelle che possono dare luogo a incapacità piena, e distinguendo poi in ragione della diversa incidenza (esclusione totale o grande riduzione) sulla capacità di comprendere l'illiceità del fatto o di agire in conformità a tale valutazione (art. 102 comma 1).
Escluso per gli imputabili il 'doppio binario' (pena più misura di sicurezza), in conformità alle indicazioni prevalenti in dottrina e alle più recenti proposte di riforma, per i casi di capacità grandemente ridotta è stato delineato un modello unitario di risposta, che, per essere rivolto a soggetti imputabili, è formalmente costruito in termini di pena, ma assume su di sé le funzioni assegnate dal codice Rocco alla misura di sicurezza, ed è strutturato in modo più flessibile, in vista del migliore perseguimento degli obiettivi di prevenzione speciale.
Per i semi-imputabili per infermità o altra anomalia, i tratti essenziali del sistema sono i seguenti:
orientamento marcatamente specialpreventivo: qualsiasi provvedimento deve essere essenzialmente finalizzato al superamento delle condizioni di ridotta capacità esistenti al tempo del commesso delitto (art. 102 comma 2).
previsione di una pena diminuita, così da proporzionare la pena alla minore colpevolezza conseguente allo stato di ridotta capacità ( art. 102 comma 3).
nei casi in cui possa essere concessa la sospenzione condizionale della pena, e un trattamento terapeutico o riabilitativo sia possibile o opportuno, il beneficio è subordinato alla accettazione, da parte del condannato, di un programma di trattamento in libertà (art. 103).
possibilità di pronunciare sentenza di condanna con rinuncia alla pena, qualora, per la modesta gravità del fatto commesso in stato di ridotta capacità e/o per essere venute meno le condizioni soggettive che lo hanno determinato, non sussistono esigenze di prevenzione generale o speciale tali da richiedere una qualsiasi misura nei confronti dell'autore del fatto (art. 104). Su questo punto, alcuni componenti della Commissione hanno espresso riserve.
Per alcuni degli istituti sopra richiamati si propone (art. 105) l'estensione, anche indipendentemente dall'incidenza sulla capacità d'intendere e di volere, al caso di condanna per reati commessi da persona in stato di tossicodipendenza o di alcoolismo abituale, o in grave difetto di socializzazione o di istruzione. In tale ipotesi, i programmi di trattamento sono rivolti al superamento della specifica condizione deficitaria.
Trattamento dei minori
imputabili
Per quanto concerne le sanzioni per i minori imputabili, il testo proposto intende riaffermare e sviluppare un orientamento primariamente e fortemente orientato alla 'rieducazione' del minore che abbia violato la legge.
L'ordinamento vigente già prevede un ampio arsenale di misure, entro cui il giudice può scegliere quella che appaia più adeguata. Accanto a istituti disciplinati nel codice penale (perdono giudiziale) vengono in rilievo quelli introdotti nel c.d. codice di procedura penale minorile (d. lg. 448 del 1988, artt. 27 e 28): non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, "quando l'ulteriore corso del procedimento pregiudica le esigenze educative del minorenne", e sospensione del processo con messa alla prova, che può essere disposta per qualsivoglia reato, anche il più grave, in presenza di idonee indicazioni.
Formalmente costruiti come 'processuali', questi istituti hanno però valenza sostanziale, nel senso che pongono le regole alla cui stregua si determinano gli esiti del procedimento. Si tratta di soluzioni molto 'spinte', che danno al vigente diritto penale minorile una caratterizzazione totalmente dominata dalla finalità rieducativa, fino a poter sacrificare completamente l'aspetto propriamente 'punitivo', anche in presenza di reati gravi.
La Commissione ritiene opportuno che tutti gli istituti del diritto penale minorile siano raggruppati in un corpus normativo unitario. Da ciò l'inserzione nel codice penale degli istituti che attualmente ne sono fuori. Le disposizioni sono state riscritte in un linguaggio più consono a un codice penale, senza incidere sostanzialmente sui contenuti; relativamente alla messa alla prova si è cercato di meglio precisare i presupposti, e di prevedere tempi di durata che ne assicurino l'effettività.
Nel corso del lavoro di stesura degli articoli è emersa l'esigenza, non considerata nel documento di base, di adattare il sistema delle sanzioni alla particolare condizione dei minorenni. Il testo proposto si caratterizza per diversi aspetti innovativi.
L'esigenza di una risposta meno severa si traduce nella esclusione, per i minori, della reclusione speciale. Resta inoltre ferma, per la reclusione, la previsione di una diminuzione di pena (art. 107 comma 3).
Caratterizzano il nuovo sistema (art. 107 comma 1) l'eliminazione della pena pecuniaria, non adeguata per soggetti che ancora non hanno capacità di agire, e la previsione di sanzioni (collocamento in comunità aperta o chiusa, e affidamento al servizio sociale) di contenuto corrispondente a quello delle misure per i minori non imputabili.
Ne risulta un sistema omogeneo di risposte, decisamente orientate alla prevenzione speciale, nel quale dovrebbe (fra l'altro) risultare sdrammatizzato il vessato problema dell'imputabilità dei minori fra i 14 e i 18 anni.
Sul piano tecnico, si sono rese necessarie regole sull'ambito di applicabilità delle sanzioni tipiche del diritto minorile (art. 107 Commi 2 e 4). Il collocamento in una comunità e l'affidamento al sevizio sociale si prevedono applicabili, in alternativa alla pena detentiva, in tutti i casi in cui la legge prevede una pena detentiva non superiore nel minimo a 4 anni, e dovrebbe inoltre costituire la pena per i minori, per i reati per cui sia prevista una pena pecuniaria o altra pena ad essi inapplicabile. Per tali sanzioni si propone una durata da 6 mesi a 3 anni.
L'affidamento al servizio sociale (art. 108) dovrebbe divenire colonna portante di un sistema che resta sì 'sanzionatorio', ma fondamentalmente orientato alla persona del minore. La gestione dell'istituto è affidata ai servizi minorili dell'amministrazione della giustizia, o ai servizi socio-sanitari degli enti locali, o ad altri enti idonei indicati dal giudice.
L'affidamento si esegue sulla base di un programma elaborato dall'ente affidatario, che deve in ogni caso prevedere le modalità di coinvolgimento del minore, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita; gli impegni specifici che il minore assume; le modalità di partecipazione al progetto degli enti e degli operatori cui il minore sia affidato.
Possono essere previste, se ciò appare possibile per il minore, ed utile per il conseguimento della finalità rieducativa, eventuali modalità di riparazione delle conseguenze del reato ed iniziative tendenti a promuovere la conciliazione con la persona offesa. Questa disposizione, nel riconoscere uno spazio per pratiche di 'mediazione', del tipo attualmente sperimentato in alcuni uffici, ne segna anche presupposti, limiti, e una finalità centrata in ogni caso sul minore, non sulla persona offesa.
Per il caso che il minore si renda gravemente inadempiente agli obblighi, è parso necessario prevedere che la pena residua si converta nel collocamento in una comunità aperta o chiusa.
Dal codice penale viene recepito l'istituto del perdono giudiziale, con modifiche volte a evidenziare formalmente un contenuto che è pur sempre di affermazione di responsabilità. Di detto istituto viene ribadita la finalità specialpreventiva; è indicato uno spazio d'applicazione abbastanza ampio; è prevista la applicazione non più di una volta (art. 110).
Dalla c.d. procedura penale minorile sono recepiti gli istituti del non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, applicabile a fatti di particolare tenuità (art. 109) e della messa alla prova, applicabile invece a qualsiasi reato (art. 111).
Il testo proposto chiarisce che la messa alla prova presuppone elementi sufficienti per l'affermazione di responsabilità. Ne evidenzia la finalità 'rieducativa'. Non richiede formalmente la confessione né il consenso del minore, che non costituiscono dunque presupposti vincolanti, ma potranno essere presi in considerazione nella valutazione prognostica sulla idoneità della misura, da effettuare "avendo riguardo alla personalità e alla situazione familiare e sociale del minorenne".
Nei contenuti, la messa alla prova è strutturalmente analoga all'affidamento al servizio sociale. Considerata peraltro l'applicabilità anche ad autori di delitti gravi, si sono previste possibilità di ricorso a modalità coercitive, corrispondenti alle misure cautelari previste dalla legge processuale, o alle misure di sicurezza e riabilitative previste per i minori non imputabili.
La durata della prova è determinata dal giudice, fra un anno e quattro anni nei casi in cui si proceda per delitti puniti con la reclusione non inferiore nel massimo a 10 anni; negli altri casi è fra i sei mesi e i tre anni.
L'esito positivo della prova, verificato dal giudice, comporta l'estinzione del reato. Questa disposizione intende evidenziare (analogamente a quanto previsto per il perdono giudiziale) il carattere sostanziale dell'istituto, che, se pure non passa per una formale pronuncia di condanna, presuppone pur sempre un accertamento del reato commesso. Il messaggio per il minore deve essere, pur nella rinuncia a punire, un messaggio capace di fare appello al senso di responsabilità.
Confisca e sanzioni
riparatorie
Confisca.
La confisca assume, nel sistema delineato, una collocazione sistematica autonoma, e riceve una disciplina articolata, che dovrebbe farne un istituto di centrale importanza nel contrasto alla criminalità con fini di lucro.
La ragione della collocazione autonoma (fuori del catalogo delle pene) non è astrattamente 'dogmatica', ma di chiarezza. I presupposti e la funzione della confisca sono diversi da quelli delle pene in senso stretto. Alla funzione specifica di ablazione dei profitti del reato corrisponde una struttura diversa da quella della pena: la confisca non è commisurata alla colpevolezza (può avere senso anche nei confronti di soggetti non imputabili o non punibili), e nemmeno alla gravità del reato, trovando (di regola) fondamento e limiti nel profitto da reato, che è cosa diversa dalla gravità del reato e della colpevolezza. Proprio per questa caratteristica, la confisca è l'istituto che meglio si presta a contrastare lo sfruttamento dell'illecito a fini di lucro. La correlazione con il profitto da reato, piuttosto che con la colpevolezza, consente interventi più penetranti, ma pur sempre sulla base di un ragionevole criterio di legittimazione.
La disciplina proposta, assai più articolata di quella vigente, cerca di distinguere le diverse ipotesi di confisca, cui corrispondono funzioni in parte diverse, e di proporre una soluzione per i principali problemi derivanti dalla molto maggiore importanza che l'istituto dovrebbe acquistare.
Vengono separatamente disciplinate le seguenti ipotesi:
Confisca dello strumento del reato (art. 112). E' tendenzialmente obbligatoria in caso di condanna, se la cosa appartiene a uno degli autori del reato. Può non essere disposta nel caso di contravvenzione, o se si tratta di cose di valore insignificante. Non viene disposta qualora, per il valore della cosa, e tenuto conto anche della pena inflitta, risulterebbe sproporzionata alla gravità del fatto: questa delimitazione tiene conto della valenza 'punitiva' di questo tipo di confisca, non commisurato al profitto derivante dal reato.
Qualora, per espressa disposizione di legge, la confisca sia ammessa anche su cose appartenenti a persona diversa dall'autore del delitto, può essere disposta soltanto se la destinazione o utilizzazione della cosa per la commissione del reato è dovuta a colpa del proprietario.
Un caso particolare e più delicato è quello delle cose destinate ad attività produttiva (art. 113). Qui l'esigenza fondamentale è il ripristino delle condizioni di corretta utilizzazione, e a tal fine si prevede che, se il reato è stato realizzato mediante cose, impianti o macchinari sprovvisti di requisiti di sicurezza richiesti dalla legge, nell'esercizio di attività soggette ad autorizzazioni o controlli dell'autorità amministrativa, l'autorità amministrativa impartisce le prescrizioni opportune per la messa in sicurezza. La confisca è disposta solo in seconda battuta, ove mai le cose vengono nuovamente utilizzate senza che sia stata data attuazione alle prescrizioni dell'autorità o comunque alla messa in sicurezza.
Confisca del profitto, prodotto, prezzo del reato (art. 114). E' disposta a carico del condannato o del prosciolto perché non imputabile. Del profitto del reato è confiscata la parte che non debba essere restituita al danneggiato.
Di centrale importanza è la previsione che la confisca può essere eseguita su di una somma di denaro o su altri beni di valore equivalente a quello delle cose che costituiscono il prezzo o il prodotto o il profitto del reato. Qualora il valore del prezzo, prodotto o profitto del reato non sia più, in tutto o in parte, a disposizione del condannato, la confisca viene disposta limitatamente all'importo disponibile, e a quello che possa prevedersi disponibile da parte del condannato in un prossimo futuro; non viene disposta, o viene disposta in misura ridotta, qualora ciò sia necessario per evitare di incidere in modo sproporzionatamente gravoso sulle condizioni elementari di vita della persona colpita.
La possibilità di confisca per equivalente, e il rilievo dato alle prevedibili disponibilità future, dovrebbe assicurare una migliore, più ampia e più temibile applicazione dell'istituto.
Per ovvie ragioni di economia dei mezzi rispetto al fine, si prevede che possa non essere disposta la confisca del profitto del reato che abbia valore insignificante, se la sua esecuzione appare difficoltosa. L'esigenza di far sì che 'il delitto non paga' fonda la previsione che la confisca del profitto, prezzo o prodotto del reato è disposta anche a carico della persona, estranea al reato, che ne abbia beneficiato, nei limiti in cui il valore corrispondente sia disponibile, se il beneficiario poteva rendersi conto della provenienza illecita del profitto conseguito.
Infine, il tipo di confisca in esame può cadere anche su beni passati in proprietà di persona diversa dall'autore del reato, per diritto successorio. In tal caso la confisca è disposta limitatamente ai beni dei quali l'erede abbia l'attuale disponibilità.
Confisca di cose intrinsecamente illecite (art. 115). Segue il modello del codice vigente.
Confisca di beni di provenienza non giustificata (art. 116). Viene inserite nel codice una disposizione di rinvio a norme particolari. Allo stato, viene in considerazione l'art. 12-sexies del d. l. 306/92.
Scioglimento di organizzazioni illecite e confisca (art. 117). La drastica misura colpisce le società o associazioni le quali siano state utilizzate esclusivamente o prevalentemente per la realizzazione di attività delittuose.
Per assicurare una adeguata operatività all'istituto, si è resa esplicita (art. 118) l'irrilevanza di una eventuale intestazione fittizia: ai fini della confisca, i beni che l'autore del reato abbia intestato fittiziamente a terzi, o comunque possieda per interposta persona, sono considerati come a lui appartenenti.
Evidenti esigenze di garanzia fondano infine la statuizione (art. 119) che la confisca non pregiudica i diritti di terzi in buona fede sulle cose che ne sono oggetto.
Conseguenze civili del reato.
Per quanto concerne le conseguenze civili del reato, la Commissione ha ritenuto sufficiente una normativa sobria (art. 121 e 122), la quale si limita sostanzialmente a richiamare il principio che il reato - quale fatto ingiusto - se è produttivo di danno obbliga alle restituzioni e/o al risarcimento secondo le regole generali.
Nessuna disposizione specifica è parsa necessaria, salvo la riaffermazione che l'obbligo di risarcimento del danno da reato si estende al danno non patrimoniale. E' parso utile stabilire - nel tentativo di ridurre l'amplissima discrezionalità prevista in materia - che il danno non patrimoniale viene determinato dal giudice in via equitativa, con motivazione espressa, tenendo conto della sofferenza cagionata dal reato e della natura dolosa o colposa di questo.
Merita ricordare che, nel sistema delineato, il risarcimento del danno acquista un forte rilievo, come condizione dell'ammissione a trattamenti 'di favore' (sospensione condizionale ecc.), in una prospettiva che vede nella riparazione del sacrificio sofferto dalla vittima un obiettivo di tutela prioritario.
In vista della riparazione delle conseguenze del reato, è parso inoltre opportuno assicurare il collegamento della giustizia penale con le competenze di altre autorità. Il sistema delineato, incentrato su obblighi di trasmissione della sentenza anche non definitiva, sottolinea la priorità, per quanto concerne la 'gestione' degli interessi offesi dal reato, degli interventi delle autorità cui quegli interessi sono affidati.
Fuori dei casi di competenza di altre autorità, con la sentenza di condanna il giudice può impartire al condannato disposizioni volte ad eliminare, per quanto oggettivamente possibile e soggettivamente esigibile, eventuali conseguenze dannose o pericolose per l'interesse pubblico offeso dal reato, non riparabili mediante restituzione o risarcimento.
E' stata infine mantenuta la previsione della pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del condannato, come modalità di riparazione del danno, o di reintegrazione dell'interesse offeso dal reato.
Responsabilità delle
persone giuridiche
Fra i punti più innovativi della proposta qui presentata c'è la previsione di un sistema di responsabilità delle persone giuridiche, ancorata al diritto e al processo penale
ancorché non qualificata e allo stato non qualificabile come responsabilità penale.
La questione della responsabilità delle persone giuridiche è ritornata d'attualità anche sul terreno politico-legislativo, in sede di ratifica di atti internazionali (convenzioni sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, e sulla lotta contro la corruzione internazionale) che sollecitano una positiva presa di posizione del legislatore nazionale sulla responsabilità (non altrimenti aggettivata) delle persone giuridiche, con riferimento ai reati oggetto delle convenzioni. Il disegno di legge all'esame del Parlamento, nei diversi testi via via approvati, ha optato per un sistema di responsabilità definita amministrativa, affidandone peraltro l'applicazione al giudice penale. Sul punto della responsabilità delle persone giuridiche, si tratta di una legge delega, contenente principi direttivi analitici.
La Commissione ha assunto come riferimento importante, per i suoi lavori, l'indirizzo emergente dai lavori parlamentari, fermo restando l'impegno di ricerca di soluzioni tecniche coerenti con il complessivo disegno di riforma.
Uno sguardo comparatistico mostra una sempre più diffusa ammissione della responsabilità penale delle persone giuridiche (così, per restare all'Europa, in Francia, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Svezia, Finlandia).
Nella discussione pro e contro l'introduzione di un sistema di responsabilità penale delle persone giuridiche, pesano fortemente aspetti simbolici. La Commissione ha preferito guardare alla sostanza dei modelli di disciplina, e ai principi che si ritiene di dover seguire. L'etichettatura dell'istituto è stata ritenuta di secondaria importanza, al punto da poter evitare una esplicita qualificazione entro gli schemi tradizionali.
Le riflessioni della Commissione muovono dai problemi, per i quali la responsabilità delle persone giuridiche viene in discussione. Essi sorgono dentro il terreno penalistico: la questione della responsabilità delle persone giuridiche è direttamente raccordata al presupposto penalistico della commissione di reati. Da ciò l'esigenza di un raccordo coerente fra le diverse risposte che si ritenga opportuno dare alla commissione del reato.
Anche gli strumenti sanzionatori che vengono in predicato, come sanzioni per le persone giuridiche, sono istituti corrispondenti a sanzioni e misure del diritto penale classico. Per tale contenuto pongono problemi 'di garanzia', corrispondenti a quelli cui sono rivolti i principi fondamentali del diritto penale (in questa prospettiva l'art. 124 prevede che "alla responsabilità della persona giuridica si applicano le disposizioni dell'ordinamento penale, in quanto compatibili").
La eventuale responsabilità 'da reato' delle persone giuridiche trova dunque collocazione, sia per i suoi presupposti, che per gli strumenti disponibili, in ambiente penalistico. Per tale ragione, è stata ritenuta una materia di competenza del codice penale, indipendentemente dalla etichetta ritenuta appropriata, e tale da porre in ogni caso la serie di problemi, soprattutto di garanzia, che la natura penalistica dei presupposti e il contenuto fortemente sanzionatorio traggono con sé.
Contro la responsabilità penale delle persone giuridiche, viene invocato da parti non trascurabili della dottrina italiana (e non solo) il principio di personalità della responsabilità, nella dimensione pregnante che esige, quale presupposto indefettibile della responsabilità penale, la colpevolezza del soggetto punibile. Nel corso del dibattito che è seguito alla pubblicazione del documento di base 15 luglio 1999 sono state in effetti numerose le posizioni critiche assunte anche soltanto nei confronti della progettata previsione di una responsabilità (non necessariamente penale) degli enti collettivi ( fra queste si colloca sostanzialmente la posizione assunta dalla Commissione della Procura Generale nel parere sul documento; di ben diverso tenore è stata tuttavia la posizione assunta dalla Commissione della Corte di Cassazione, sensibile ai profili positivi di una previsione della responsabilità delle persone giuridiche). Ed anche all'interno della Commissione sono emerse, nelle parole e nei documenti di taluni commissari, le perplessità sopra menzionate.
Le questioni in tal modo sollevate rimettono in discussione, a ben vedere, non semplicemente i limiti garantisti del diritto penale, ma le stesse condizioni di razionalità di un corpus normativo rivolto alle persone giuridiche, che intenda adempiere a funzioni di prevenzione generale mediante la tecnica della posizione di precetti e sanzioni, amministrative o penali esse che siano. Gli ordinamenti giuridici dei paesi più importanti, le convenzioni internazionali, la legge di ratifica in corso di approvazione in Italia, presuppongono la razionalità e utilità di un sistema di forme di responsabilità penale o amministrativa delle persone giuridiche.
La maggioranza della Commissione ha condiviso tale indirizzo, ritenendo realistico ipotizzare la sussistenza di condizioni di funzionalità generalpreventiva, atte a legittimare un modello di disciplina di tipo penalistico, rivolto alla persona giuridica. Questa viene considerata, indipendentemente da schemi di astratta dogmatica giuridica, quale autonomo centro d'interessi e di rapporti giuridici, punto di riferimento di precetti di varia natura, e matrice di decisioni ed attività dei soggetti che operano in nome, per conto o comunque nell'interesse dell'ente.
L'esperienza ha evidenziato le potenzialità 'criminogene' di strutture organizzate, rispetto all'agire di chi vi sia implicato. Spesso l'illecito è frutto di condizionamenti sull'agire del singolo, connessi all'operare per l'organizzazione: condizionamenti che possono derivare, e di regola derivano, da vincoli organizzativi, stili di comportamento, 'politiche' imposte o additate ai portatori di determinati ruoli.
Sotto altro aspetto, l'ordinamento giuridico conosce varie e importanti tipologie di illeciti che, penalisticamente riferiti a persone fisiche, costituiscono violazione di doveri che per l'ordinamento giuridico complessivo fanno capo all'ente. Le disposizioni proposte in materia di responsabilità per omissione hanno espressamente evidenziato questo aspetto.
Appare perciò ragionevole supporre che sanzioni comunque significative, rivolte alla persona giuridica, possano venire in rilievo per le decisioni e le attività dei soggetti che, associati nella persona giuridica, o comunque operando entro la persona giuridica, sono il tramite necessario per l'adempimento dei doveri gravanti sulla persona giuridica stessa, e debbono assumere e assumono gli interessi della persona giuridica fra i criteri (non certo secondari) di orientamento della propria attività.
Per quanto concerne il rispetto del principio di personalità, l'identità fra autore dell'illecito e destinatario della sanzione può ritenersi assicurata (in via di prima approssimazione) quando la persona fisica autore dell'illecito sia un soggetto che ha 'agito per' la persona giuridica, avendo 'competenza a impegnarla'. I requisiti di questo doppio legame, del fatto e dell'autore, con la persona giuridica possono essere diversamente disciplinati; ma la possibilità di individuare un legame rilevante appare tutt'uno con la stessa possibilità di identificare la persona giuridica come soggetto di diritto e protagonista di concrete vicende nella vita della società (quanto alle condizioni di un possibile rimprovero di colpevolezza nei confronti della persona giuridica, infra, n. 6).
Infine, la sanzione applicata alla persona giuridica colpisce il medesimo centro d'interessi che ha dato causa alla realizzazione dell'illecito. Alla personalità dell'illecito corrisponde la personalità della sanzione.
La maggioranza della Commissione è dell'avviso che le considerazioni sopra menzionate consentirebbero di sostenere la piena legittimità della introduzione nel sistema giuridico italiano di un modello penalistico della responsabilità delle persone giuridiche. Per non forzare una situazione che appare a tutt'oggi oggetto di discussioni aperte anche all'interno della Commissione stessa, ha tuttavia scelto di non utilizzare tale modello. Il sistema delineato, che evita di parlare anche di responsabilità amministrativa, introduce una sorta di tertium genus, che è sì ancorato a presupposti penalistici (commissione di un reato) e governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto al diritto penale classico presenta inevitabili diversità, dovute alla diversità dei destinatari.
La soluzione tecnica adottata è sembrata d'altronde alla Commissione pienamente coerente con l'indirizzo della legge di ratifica. Nei contenuti, vi è sostanziale corrispondenza di disciplina: le sanzioni per la persona giuridica sono le stesse, collegate a un commesso reato, e applicate dall'autorità giudiziaria nel processo penale. Le differenze nelle concrete soluzioni sono differenze tecniche, delle quali verrà data puntuale motivazione.
Per quanto concerne le ragioni a sostegno della responsabilità delle persone giuridiche, il documento di base è partito da ragioni interne al sistema penale, e segnatamente di razionalizzazione di diversi istituti del sistema sanzionatorio penale.
Vengono in rilievo, innanzi tutto, esigenze di riequilibrio delle sanzioni pecuniarie del diritto penale d'impresa, là dove (e ciò accade con frequenza nell'ordinamento vigente) esse attingono limiti edittali elevatissimi, chiaramente pensati in relazione a un patrimonio cospicuo: quello dell'impresa, e non quelli dei dirigenti o dipendenti sui quali si appunta la responsabilità penale.
Di fatto, è l'impresa che si accolla il costo delle sanzioni pecuniarie penali, cui è comunque sussidiariamente obbligata. In concreto, dunque, già oggi un sistema sanzionatorio rivolto in via di principio a persone fisiche, ma costruito pensando a pingui patrimoni di imprese, viene di fatto a gravare largamente su persone giuridiche.
Con l'introduzione della responsabilità diretta delle persone giuridiche, il sistema diviene più trasparente, oltre che più equo. Il sistema delle 'quote giornaliere' ne consente la strutturazione più adeguata.
Effetti di razionalizzazione si avrebbero poi in relazione ad istituti (come l'oblazione discrezionale) ed a prassi (es., in materia di 'patteggiamento') che sollecitano all'autore del reato comportamenti di riparazione dell'offesa. Là dove sullo sfondo vi siano attività d'impresa, tali comportamenti possono essere di fatto realizzati dall'impresa, in genere una persona giuridica; non, di regola, dall'imputato, sia o non sia più un dipendente dell'organizzazione. Da ciò deriva una vistosa sfasatura fra il modello formale dell'istituto e le condizioni fattuali del suo funzionamento.
Il linkage fra riparazione dell'offesa, non possibile per l'imputato, e conseguenze favorevoli per l'imputato (ammissione all'oblazione o al patteggiamento) fa dipendere la sorte dell'imputato da comportamenti di altri: è un intreccio ambiguo ed iniquo fra giudizio penale nei confronti di persone fisiche, e interessi risarcitori o reintegratori il cui soddisfacimento, proprio nei casi di maggior rilievo, eccede le possibilità degli imputati. Sciogliere questo intreccio inaccettabile, senza pregiudizio per interessi tutti importanti e meritevoli di tutela, diviene fattibile là dove il collegamento fra sanzione, riparazione e conseguenza 'premiale' sia riportato entro l'ambito della responsabilità della persona giuridica.
Per quanto concerne infine la confisca, la possibilità di disporla a carico della persona giuridica consente di inseguire il profitto dell'illecito, quando beneficiaria ne sia stata la persona giuridica, presso il soggetto che di fatto lo abbia conseguito. In questa direzione si sono mossi anche ordinamenti ai quali la responsabilità penale delle persone giuridiche è estranea.
Sono dunque ragioni interne al sistema penale, che premono per l'introduzione di una responsabilità diretta delle persone giuridiche. Non si tratta semplicemente di introdurre istituti nuovi. Si tratta, anche, di raddrizzare istituti esistenti, che la mancata previsione di una diretta responsabilità della persona giuridica espone a uno stress gravemente deformante, con costi (in termini di denaro e di sperequazioni di trattamento) che ricadono non solo sulle persone fisiche autori di reato, ma anche sulle persone giuridiche, la cui estraneità al sistema penale è già oggi, di fatto e di diritto, mera apparenza.
Nella costruzione del modello di responsabilità della persona giuridica, i punti cruciali sono stati così identificati: definizione dell'ambito oggettivo di responsabilità; individuazione dei soggetti del sistema; questione della 'colpevolezza' della persona giuridica; sistema delle sanzioni.
La responsabilità della persona giuridica è prevista (art. 125 comma 1) come aggiuntiva e non sostitutiva di quella di persone fisiche. Questo punto non è oggetto di discussione: il coinvolgimento delle persone fisiche resta in ogni caso necessario dal punto di vista della prevenzione generale.
Per quanto concerne l'individuazione dei soggetti, viene proposto un criterio che, da un lato, estende la responsabilità anche alle associazioni non riconosciute, e dall'altro lato la delimita agli enti che svolgono attività economica (art. 123 comma 2). Questa delimitazione, fondata su esigenze di garanzia, vale anche ad indirizzare l'intervento penale nelle direzioni nelle quali vi è un maggior bisogno di controllo. E' stata prevista inoltre l'esclusione, in conformità ai modelli di altri paesi, di Stato, Regioni, enti pubblici territoriali e Autorità indipendenti. Pur potendo ciò apparire un privilegio non del tutto giustificato, valutato negativamente da una parte della Commissione, la maggioranza ha ritenuto che altre soluzioni sarebbero pericolose e poco comprensibili.
Per il caso che il fatto sia stato commesso nell'ambito di una attività sottoposta alla direzione o controllo da parte di altra persona giuridica, si prevede che la responsabilità si estenda alla persona giuridica che esercita la direzione o il controllo. E' la medesima soluzione adottata con riferimento alle posizioni di garanzia, e per le medesime ragioni.
Ulteriori disposizioni riguardano il caso di trasformazione della persona giuridica (la responsabilità resta ferma) e quello di cessione dell'unità organizzativa, nell'attività della quale è stato commesso il reato. Ferma la responsabilità della persona giuridica cedente, si propone di rendere il cessionario civilmente obbligato in solido al pagamento della sanzione pecuniaria, se era o poteva essere a conoscenza del commesso reato. Si tratta di una disposizione, per così dire, antielusiva, dalla quale non derivano, per il cessionario, oneri di diligenza maggiori di quelli che un contraente avveduto normalmente esercita nel proprio interesse. Resta scoperto il problema dello scioglimento della persona giuridica, per il quale la Commissione non ha individuato soluzioni idonee.
Resta infine fuori dal sistema della 'responsabilità delle persone giuridiche' l'utilizzazione dello schermo della persona giuridica nell'ambito della criminalità organizzata. Per tali casi, viene previsto uno strumento 'mirato' più energico: scioglimento dell'organizzazione ai sensi dell'art. 117, e conseguente confisca del patrimonio residuo.
Per quanto concerne l'ambito di responsabilità, viene proposto (art. 123 comma 1) un duplice criterio:
delitti dolosi commessi 'per conto o comunque nell'interesse specifico' della persona giuridica stessa, da parte di soggetti competenti a impegnarla;
reati realizzati nello svolgimento dell'attività della persona giuridica, con inosservanza di disposizioni pertinenti a tale attività, da persone che ricoprono una posizione di garanzia nell'ambito dell'organizzazione (esclusi i reati commessi in danno della persona giuridica).
La legge delega ha optato per una elencazione nominativa di reati, che comprende la maggior parte delle ipotesi più significative riconducibili ai criteri sopra indicati. La Commissione, che pure si è posta, discutendolo ampiamente, il problema se prevedere un elenco tassativo, ha optato per le clausole generali sopra indicate, ritenute idonee a selezionare al meglio, con precisione e senza rischi di lacune, i casi nei quali l'attribuzione di responsabilità alla persona giuridica appaia giustificata.
Il criterio dell'agire 'per conto o nell'interesse specifico', introdotto in una normativa che si riferisce ad enti che svolgono attività economica, è pensato essenzialmente per forme aggressive di criminalità economica, anche se non necessariamente contro il patrimonio (si pensi per es. alla corruzione). Può ragionevolmente comprendere anche delitti d'altra natura, immediatamente strumentali all'agire dell'ente nel 'traffico giuridico' (per es., falsità documentali o reati societari), o riguardanti attività tipiche dell'ente (per es., reati a mezzo stampa nel caso di imprese editoriali). Non potrà invece comprendere delitti d'altra natura: per es., l'ipotesi di scuola dell'omicidio su commissione, per eliminare un temuto concorrente, non rientra nel criterio dell'interesse, correttamente inteso in senso oggettivo.
Il secondo criterio copre il medesimo ambito nel quale si pone il problema delle responsabilità entro organizzazioni complesse, già esaminato nel capitolo relativo alle posizioni di garanzia. Rientrano in quest'ambito, in particolare, i settori fondamentali del diritto penale d'impresa: tutela dell'ambiente, sicurezza del lavoro e della collettività, tutela dei consumatori; e non solo le norme del diritto penale speciale, ma anche delitti già previsti nel codice penale (es., delitti contro l'incolumità delle persone) o che potrebbero esservi introdotti (es., delitti contro l'ambiente). Per l'essenziale, si tratta di reati colposi.
Il sistema delineato instaura uno stretto rapporto fra il piano delle responsabilità entro l'organizzazione, e quello della responsabilità dell'organizzazione, qualora questa sia un autonomo soggetto di diritto. I presupposti della responsabilità vengono fatti tendenzialmente coincidere, nel senso che la persona giuridica risponde in tutti i casi in cui sia in gioco una qualsivoglia posizione di garanzia relativa alla sua attività, fondata su poteri (e correlativi doveri) nell'ambito dell'organizzazione.
Il riferimento alle posizioni di garanzia non intende delimitare la responsabilità della persona giuridica ad ipotesi di responsabilità 'omissiva' del garante, ma serve a identificare i soggetti, la cui eventuale commissione di un reato d'un certo tipo (commissivo o omissivo, non fa differenza) possa essere ascritta alla persona giuridica come inadempimento di doveri propri di questa.
Per ragioni di garanzia, si è ritenuto necessario agganciare la responsabilità della persona giuridica a presupposti idonei a fondare un addebito di colpevolezza. Modificando parzialmente la soluzione prospettata nel documento di base, il testo proposto prevede la soluzione più garantista: quella che delimita la responsabilità della persona giuridica ai casi in cui il reato sia dipeso da un difetto di organizzazione o di 'politica d'impresa'.
Il cuore della disciplina sta dunque nel rilievo attribuito (alla luce dell'esperienza americana dei compliance programs) alla adozione ed efficace attuazione, da parte della persona giuridica, di modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati. L'effetto di esonero da responsabilità (art. 126) significa che l'adozione e attuazione di un modello organizzativo idoneo è per la persona giuridica l'adempimento di un dovere, e il mancato adempimento fonda il rimprovero di colpevolezza per il reato che ne sia derivato (non impedito).
I requisiti contenutistici e di idoneità del modello organizzativo (che dovrà ovviamente adattarsi alla natura e alle dimensioni dell'organizzazione, e al tipo di attività svolta) sono previsti nel capo relativo alla responsabilità per omissione (retro, n. 2.2.2).
Lo schema è stato pensato per le situazioni più complesse, e vuole essere sufficientemente rigoroso da evitare il rischio che possano essere invocati a discolpa modelli inefficaci o non seriamente applicati.
Non vi è esclusione di responsabilità (art. 126 comma 3) se l'autore del reato aveva poteri di direzione della persona giuridica, o di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e tecnico-funzionale, o ne esercitava di fatto la direzione. Ciò perché, in tali ipotesi, l'elevato livello di poteri e di responsabilità dell'autore del reato, per il ruolo dirigente ricoperto nell'organizzazione, consente di identificare nella sua colpa la colpevolezza dell'organizzazione stessa.
Rispetto alla legge delega, questa disciplina rappresenta un affinamento tecnico, che risponde alle medesime esigenze di garanzia, e alla Commissione appare più funzionale e più coerente con il complessivo sistema del codice.
La disciplina in esame fa salva l'esclusione da responsabilità nel caso (espressamente considerato dalla legge delega) che l'autore del reato abbia agito nell'esclusivo interesse proprio o di terzi, e non della persona giuridica. Entrambi i criteri di cui all'art. 123 comma 1, tagliano fuori tale ipotesi.
Sia la legge delega, sia il sistema qui delineato, si preoccupano di individuare criteri di delimitazione della responsabilità qualora il reato, pur obiettivamente ascrivibile all'attività dell'ente, non risalga a soggetti muniti di poteri dirigenziali. Nel sistema della legge delega, la responsabilità della persona giuridica sussiste se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza di obblighi connessi a funzioni di direzione o controllo: un tale modello sembra legare strettamente la responsabilità della persona giuridica a quella di persone fisiche. La Commissione ha invece ritenuto preferibile un sistema che consenta di valutare in modo autonomo le diverse posizioni: ciò è più garantista per le persone fisiche, e più coerente con la logica del sistema centrato sull'adozione di idonei modelli organizzativi. La colpevolezza che fonda la responsabilità della persona giuridica non necessariamente si identifica con la colpevolezza di persone fisiche (art. 125), ma sta nel deficit dell'organizzazione o dell'attività, rispetto al modello cui è tenuta la persona giuridica nel suo insieme.
Le esigenze sottese alla soluzione tecnica della legge delega (individuazione di un ragionevole criterio di collegamento della persona giuridica con il reato) sono dunque compiutamente recepite e salvaguardate nel sistema del codice.
Per quanto concerne la tipologia delle sanzioni, il documento di base ha seguito il disegno di ratifica delle convenzioni internazionali: sanzione pecuniaria, confisca, misure interdittive in senso lato. Nel testo qui proposto è stata aggiunta la pubblicazione della sentenza di condanna; la confisca, in conformità al sistema delineato, è considerata come misura sui generis.
Non è stato dato ingresso ad altre misure, pur prospettate da più parti, quali l'assoggettamento della persona giuridica a sorveglianza giudiziaria, o a prescrizioni volte a prevenire la reiterazione dell'illecito. E' stato infatti ritenuto opportuno evitare di attribuire al giudice penale poteri formali d'ingerenza in campi rimessi in via di principio all'autonomia privata. Nella prospettiva della prevenzione di illeciti futuri, sono parsi senz'altro preferibili strumenti che, anche formalmente, non abbiano carattere sanzionatorio, ma siano interamente costruiti nell'ottica della valorizzazione dell'autonomia e autoresponsabilità della persona giuridica, per quanto attiene ai propri problemi gestionali ed alla adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi.
Potranno venire in rilievo, ove previsti in relazione a date attività, provvedimenti e controlli dell'autorità amministrativa. Per interventi sulla struttura di comando della persona giuridica, resta, occorrendo, a disposizione il penetrante strumento di cui all'art. 2409 c. civ.
L'art. 127 contiene le disposizioni sulla struttura del sistema delle sanzioni. Si prevede innanzi tutto che le sanzioni per la persona giuridica sono disciplinate dalle disposizioni sulle corrispondenti specie di pena, in quanto applicabili; le disposizioni che seguono riguardano punti su cui è parso opportuno differenziare o chiarire qualcosa.
La prevista inapplicabilità (art. 127 comma 2) della sospensione condizionale alle persone giuridiche si lega alla valorizzazione di altri istituti aventi analoga struttura 'premiale' e funzione di incentivazione di comportamenti di riparazione dell'offesa (oblazione, circostanza attenuante di cui all'art. 132, lett. c). D'altra parte, anche per le persone fisiche la sospensione condizionale della pena pecuniaria viene prevista in termini assai ristretti.
Di mero chiarimento è la specificazione che i termini di prescrizione sono identici a quelli stabiliti x per la persona fisica autore del reato. La normale connessione dei procedimenti fa apparire incongrua (se non pericolosa) la previsione di termini differenziati. La diversa soluzione della legge delega, che fa rinvio al sistema della prescrizione civile, è coerente con il sistema della legge n. 689/81, ma disfunzionale rispetto all'opzione per un modello processuale unitario. Il distacco da tale soluzione poggia dunque su ragioni tecniche.
La sanzione fondamentale è quella pecuniaria, applicabile in qualsiasi caso. Pure la pubblicazione della sentenza di condanna può essere disposta in ogni caso, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, o in via esclusiva qualora per il reato commesso sia prevista l'applicabilità di tale tipo di pena in via esclusiva o alternativa (art. 127 comma 3).
Una disciplina ad hoc (art. 127 comma 4) è parsa opportuna a proposito della commisurazione della sanzione. In coerenza con il complessivo impianto di disciplina, il giudice dovrà tenere conto - oltre che della gravità del fatto - del grado di coinvolgimento della persona giuridica nella realizzazione del reato, e delle misure adottate per eliminare o attenuare le conseguenze del reato e per prevenire futuri reati.
I successivi articoli disciplinano le diverse specie di sanzione.
Per la sanzione pecuniaria, l'importo della quota giornaliera di sanzione pecuniaria va da un minimo di lire 50 mila a un massimo di lire 10 milioni (art. 128 comma 1): i livelli sono superiori a quelli previsti per le persone fisiche, ma non tali da portare a conseguenze squilibrate. L'adozione del sistema delle 'quote giornaliere' rende superflua una disposizione del tipo di quella contenuta nella legge delega, che circoscrive la responsabilità entro i limiti del fondo comune o del patrimonio sociale.
Poiché la responsabilità delle persone giuridiche può riguardare reati per i quali è prevista la pena detentiva, si rende necessario un criterio di ridefinizione della sanzione edittale. Si propone che, se la legge non dispone diversamente, alla persona giuridica si applichi la sanzione pecuniaria da 3 mesi a 2 anni (che è il limite edittale massimo per le pene pecuniarie) ovvero quella corrispondente ai limiti edittali della pena detentiva prevista, se meno elevati (art. 128 comma 2).
Quanto alle sanzioni interdittive, la disciplina proposta (art. 129) è costruita in chiave esclusivamente specialpreventiva. La Commissione, ben consapevole dei riflessi negativi di misure che interrompano la normale attività economica, propone un modello nel quale la minaccia della sanzione interdittiva tende essenzialmente a ottenere risultati utili per la salvaguardia degli interessi tutelati, e consenta alla persona giuridica di evitare, con il proprio attivarsi successivo al reato, la concreta applicazione della misura interdittiva.
Per l'interdizione da una determinata attività si propone una durata da tre mesi a un anno. Detta sanzione colpisce l'attività nella quale è stato commesso il reato; può consistere anche nella chiusura totale o parziale di uno stabilimento. Viene disposta, in aggiunta alla sanzione pecuniaria, esclusivamente in caso di reato di particolare gravità, e a stringenti condizioni: se non sono state eliminate le condizioni di pericolo che hanno dato causa al delitto; se non sono state eliminate le conseguenza dannose o pericolose del reato, eliminabili da parte della persona giuridica; se non sono stati adottati modelli di organizzazione, gestione e controllo idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Evitarne l'applicazione è dunque nella possibilità della persona giuridica che doverosamente si attivi.
Analoga disciplina è dettata (art. 129 comma 2) per l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, che si prevede applicabile alla persona giuridica nei casi di delitto commesso da persona munita di poteri di direzione della persona giuridica o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia funzionale, per il quale sia applicabile all'autore del delitto una pena interdittiva.
Fuori dal catalogo delle sanzioni è disciplinata la confisca (art. 130). E' parso opportuno prevedere che, nei casi in cui sussista la responsabilità della persona giuridica, le cose appartenenti a questa siano sottoposte, ai fini della confisca, al regime delle cose appartenenti all'autore del reato.
Per l'applicazione delle sanzioni alla persona giuridica si prevede la competenza del giudice penale (art. 133). Ciò risponde ad un elementare criterio di razionalità organizzativa, e alla soluzione adottata nel disegno di legge di ratifica delle convenzioni internazionali.
Il testo proposto prevede espressamente (art. 131) l'applicabilità alla persone giuridiche dell'istituto dell'oblazione, differenziandosi dalla scelta effettuata nella legge delega, che esclude il 'pagamento in misura ridotta'.
L'ammissione all'oblazione - che è per le persone giuridiche una soluzione più favorevole - è coerente con il sistema del codice. L'oblazione è infatti pensata avendo riguardo ad un ambito di applicazione il cui nucleo essenziale è quello delle contravvenzioni relative ad attività d'impresa, nei settori 'ambiente e sicurezza', per i quali acquista particolare rilievo l'esigenza di eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato. Non vi è ragione di sottrarre alla persona giuridica la possibilità di avvalersi di tale istituto.
In coerenza con l'ottica 'specialpreventiva' che regge sia l'istituto dell'oblazione, sia la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche, viene previsto che l'adozione e attuazione di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi è condizione necessaria per l'ammissione all'oblazione, in aggiunta alle condizioni di cui all'art. 89, e può venire in rilievo come circostanza attenuante (quest'ultima previsione corrisponde a una indicazione della legge delega). Come circostanze attenuanti sono inoltre previste (art. 132) le ipotesi in cui l'autore del reato abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi, e la persona giuridica non ne abbia tratto profitto o abbia tratto un profitto insignificante; ovvero abbia agito in consapevole violazione di specifiche disposizioni ricevute.
Nel disegno di legge di ratifica delle convenzioni internazionali si prevede l'introduzione di istituti (possibilità di recesso) a tutela del socio incolpevole, per il caso di accertata responsabilità 'da reato' della persona giuridica. La Commissione non ha preso in considerazione istituti del genere, perché di pertinenza del diritto societario, e, dal punto di vista considerato, non necessari ad assicurare il rispetto del principio di personalità della responsabilità (la sanzione a carico della persona giuridica non è a carico dei soci; per questi ultimi non è che un aspetto del rischio del loro investimento, non diversamente da altri costi, per es. per risarcimento di danni).
Rispetto ad eventuali interventi legislativi a tutela dei soci, il testo proposto è intenzionalmente neutrale, e pienamente compatibile con la normativa della legge delega.
Piena convergenza vi è fra il testo proposto e la legge delega in ordine alla esigenza di prevedere le opportune garanzie processuali. Trattandosi di materia non di competenza del codice penale, si è pensato ad una disposizione di coordinamento, la quale stabilisce che si applicano alla persona giuridica chiamata a rispondere ai sensi del titolo VII del codice penale le disposizioni processuali relative all'imputato. La persona giuridica sta in giudizio per il tramite del suo legale rappresentante o di un procuratore speciale; non può stare in giudizio per il tramite di persona imputata per il medesimo fatto. E' ammessa nei suoi confronti la costituzione di parte civile.
Disposizioni di attuazione
e coordinamento
La riforma del sistema delle sanzioni sollecita interventi su materie non di competenza del codice penale, ma che fanno parte del complessivo sistema di giustizia penale, la cui disciplina viene in rilievo per il funzionamento del nuovo sistema.
Su alcuni problemi, prevalentemente di carattere tecnico, sono proposte precise soluzioni in una serie di disposizioni di coordinamento. Su altri, che implicano scelte più impegnative, la Commissione si limita a segnalare i problemi e a ipotizzare talune linee di approccio.
Esigenze di coerenza complessiva del disegno riformatore sollecitano interventi sull'ordinamento penitenziario, cui compete il delicato compito di dare concreta attuazione alle indicazioni di principio del codice circa la finalità e la struttura delle pene o misure detentive.
Inoltre, è necessario coordinare le misure alternative, che l'ordinamento penitenziario ha introdotto, con il rinnovato sistema sanzionatorio. Quelle misure sono state introdotte, e sono servite, a dare elasticità a un sistema troppo rigido e severo, del quale si propone una radicale riforma. La restrizione dell'area della pena carceraria, e la valorizzazione di istituti con finalità specialpreventiva (sospensione condizionale arricchita di contenuti), dovrebbero diventare caratteristica strutturale del sistema codicistico. Da ciò l'esigenza che le misure dell'ordinamento penitenziario siano ridisegnate in modo da potersi inserire armonicamente entro il nuovo sistema, come coerente sviluppo delle medesime linee di politica penale. Quanto meno, occorre evitare che gli istituti penitenziari introducano (lascino persistere) aspetti di incoerenza rispetto agli equilibri avuti di mira nel ristrutturare il sistema delle sanzioni.
Sulle possibili e auspicabili riforme dell'ordinamento penitenziario, la Commissione non ha formulato proposte, perché tale tema fuoriesce dal suo mandato. Ritiene, peraltro, di dover segnalare che il sistema sanzionatorio proposto trova giustificazione, e può funzionare, soltanto se la sua pratica applicazione sarà assicurata, anche in sede di ordinamento penitenziario, da istituti coerenti con i suoi presupposti e obiettivi.
Problemi di coordinamento si pongono, in particolare, con riguardo alla disciplina della sospensione condizionale, cioè di un istituto che dovrebbe assumere un ruolo centrale, di cerniera, fra il sistema codicistico delle sanzioni e l'area assegnata al 'penitenziario'.
Una elementare coerenza d'indirizzi esige che l'affidamento in prova venga sottoposto a presupposti soggettivi analoghi a quelli della sospensione condizionale, e alla accettazione, da parte del condannato, dei medesimi obblighi. In mancanza di ciò, l'affidamento in prova potrebbe avere effetti di scardinamento dei criteri su cui si vuole ricostruito e delimitato l'istituto della sospensione condizionale.
L'affidamento in prova al servizio sociale dovrebbe essere inoltre riportato alla originaria fisionomia di istituto alternativo a pene brevi ab origine, avendo riguardo alla pena complessiva determinata dal giudice nella sentenza o nelle sentenze cui si debba dare esecuzione (considerando cioè pena inflitta i periodi già espiati e la parte di pena estinta per indulto). Per i residui di pena, l'ordinamento prevede altri istituti, come la liberazione condizionale, che per evidenti ragioni di coerenza sistematica si propone di trasferire dal codice nell'ordinamento penitenziario, concernendo una possibile evoluzione del trattamento del condannato a pena detentiva. Di questo nesso sistematico tiene conto anche la proposta di legare la liberazione condizionale ad un previo periodo di semilibertà. Naturalmente nell'ambito di un ridimensionamento delle pene inflitte si dovrà prendere in considerazione l'introduzione di limiti più rigorosi per la stessa semilibertà, che dovrebbe svolgere solo un ruolo di avvio alla liberazione condizionale.
La liberazione anticipata, in un sistema che dovrebbe portare alla applicazione di pene meno prolungate, potrebbe comportare una detrazione più ridotta.
Entro l'ordinamento penitenziario, infine, troverebbero appropriata collocazione le norme sulle cause di differimento o sospensione dell'esecuzione. E' per questo che non sono inserite nel testo proposto. Nel complesso, appaiono recuperabili le disposizioni degli articoli 146 e 147 del vigente c. p. Rocco.
La revisione del sistema sanzionatorio sollecita anche una rinnovata riflessione sugli aspetti 'premiali' dei riti alternativi. Il modello qui delineato tende alla applicazione di pene che siano giustificate secondo i criteri propri del diritto sostanziale; la vigente disciplina dei riti alternativi ne modifica il volto, secondo criteri di ritenuta utilità processuale. La Commissione si limita a segnalare il problema, che tocca peraltro un punto cruciale per gli equilibri del sistema di giustizia penale.
Il modello di scelta e di commisurazione della sanzione, delineato nel disegno di nuovo codice, pone il giudice dinanzi a molteplici opzioni, e a complessi problemi di valutazione e di prognosi, che richiedono una adeguata base conoscitiva. E' inoltre dato rilievo ad atteggiamenti dell'imputato (richieste o consenso a pene sostitutive; assunzione o accettazione di dati impegni ai fini della sospensione condizionale) che debbono poter trovare spazio nel giudizio di merito. Ciò rende stringente l'esigenza di assicurare alla questione della sanzione uno spazio adeguato in sede processuale, nel quale possano essere approfonditi (anche sul piano probatorio) i temi specificamente rilevanti, e le parti (in primis l'imputato) possano prospettare le loro ragioni e determinazioni.
Da ciò la proposta (art. 12 disp. coord.) di consentire la autonomia della pronuncia sulla sanzione, rispetto alla pronuncia sulla responsabilità, ogni volta che il giudice lo ritenga necessario.
La Commissione è ben consapevole che questa indicazione interferisce con le scelte finora effettuate del legislatore processuale, richiedendo innovazioni di non poco momento. Ha ritenuto, peraltro, che tale indicazione non ecceda la propria competenza, essendo strettamente legata ad esigenze immanenti al nuovo sistema sanzionatorio. La sollecitazione di modifiche del processo intende, per così dire, riaffermare il primato del diritto sostanziale, nella prospettazione di obiettivi e di esigenze cui il diritto processuale è tenuto ad apprestare strumenti idonei.
Al solo fine di facilitare il recepimento della proposta, e ferma l'opportunità di più approfondite riflessioni sugli strumenti processuali, sono state ipotizzate anche alcune disposizioni di adeguamento del codice di procedura.
Disposizioni di coordinamento sono state previste per consentire la corretta applicazione del diritto sostanziale in situazioni nelle quali potrebbe essere ostacolata da contingenti situazioni processuali.
E' stata così espressamente prevista (art. 6) l'applicazione del cumulo giuridico in fase di esecuzione, secondo le regole attualmente previste per il reato continuato.
E' stata espressamente prevista (art. 7) la possibilità di revoca della sospensione condizionale, ove in separati procedimenti sia stata concessa al di là dei limiti consentiti. Lo stesso articolo chiarisce che, ai fini della concessione o della revoca della sospensione condizionale della pena, la sentenza di applicazione della pena a richiesta è equiparata a una pronuncia di condanna.
Nelle disposizioni di coordinamento è stata anche inserita (art. 10) la disciplina della detrazione delle misure cautelari dalla durata della pena, che non attiene alla struttura del sistema sanzionatorio, ma al coordinamemto fra diritto sostanziale e processo.
Con riguardo ad attività sottoposte ad autorizzazioni o controlli dell'autorità amministrativa, si pone un problema di coordinamento fra processo penale, adempimenti 'di riparazione' e competenze amministrative. Da ciò la proposta di una disposizione (art. 13) in base alla quale, quando il fatto contestato riguarda attività sottoposte ad autorizzazioni o controlli dell'autorità amministrativa, le attività volte ad eliminare le conseguenze dannose o pericolose siano effettuate previa informazione dell'autorità competente, e in conformità all'autorizzazione amministrativa, se richiesta dalla legge.
Con riferimento al trattamento dei soggetti in condizione di capacità ridotta disciplinato dall'art. 102 comma 1 sono stati previsti specifici benefici penitenziari (art. 9).
La eliminazione della definizione di cittadino, ha imposto una disposizione di coordinamento con riferimento alla posizione degli apolidi (art. 3), mentre in tema di riconoscimento delle sentenze penali straniere e transitoriamente in tema di estradizione è stato previsto l'art. 4.
Diversi istituti (oblazione, sospensione condizionale, disciplina della responsabilità delle persone giuridiche) sollecitano adempimenti successivi al commesso reato, volti all'eliminazione delle sue conseguenze. Ciò comporta la necessità di assicurare congrui termini, per adempimenti che sono, ad un tempo, di salvaguardia degli interessi tutelati, e nell'interesse dell'imputato.
Lo spazio per poter provvedere dovrebbe essere di regola assicurato dalla normale durata del procedimento, e, spesso, dalla conoscenza ancora più anticipata che l'interessato può avere, circa le situazioni su cui intervenire. Poiché però ciò potrebbe non sempre essere sufficiente, si è ipotizzata una disposizione (art. 13) la quale riconosca all'imputato, o alla persona giuridica cui sia contestato l'illecito, di chiedere, prima dell'apertura del dibattimento di primo grado, un termine per realizzare adempimenti cui il codice penale condiziona l'esclusione di particolari tipi di sanzione, o l'ammissione all'oblazione. Per evitare usi strumentali di questa facoltà, il corso della prescrizione è sospeso dalla data della presentazione della domanda a quella della scadenza del termine concesso dal giudice.
L'applicazione del sistema sanzionatorio riformato, nel quale largo spazio è assegnato a valutazioni e a prognosi d'efficacia delle misure, richiede che gli apparati del law enforcement dispongano di informazioni adeguate sulla persona sottoposta a giudizio. Si impone, sotto questo profilo, un completo ed efficiente sistema di raccolta dei dati relativi alla posizione dell'imputato di fronte alla giustizia penale.
Esigenze di riservatezza e di garanzia esigono che a un tale sistema informativo possano attingere esclusivamente l'autorità giudiziaria penale e di polizia giudiziaria, nell'esercizio delle rispettive funzioni, oltre alla persona cui le iscrizioni si riferiscono.
Nel casellario giudiziale dovrebbero essere iscritte tutte le sentenze che abbiano fatto applicazione di sanzioni o misure previste dal codice penale, o che comunque contengano una pronuncia di affermazione di responsabilità, o che abbiano dichiarato non luogo a procedere per oblazione, prescrizione, amnistia.
Dovrebbe inoltre essere istituito un casellario dei carichi pendenti, centralizzato come il casellario giudiziale, nel quale siano iscritte le sentenze non definitive che abbiano fatto applicazione di sanzioni o misure previste dal codice penale, o che comunque contengano una pronuncia di affermazione di responsabilità, e ordinanze che hanno disposto l'applicazione di misure cautelari personali. Ciò appare di fondamentale importanza per la corretta applicazione di istituti (come il cumulo giuridico delle pene, o la sospensione condizionale) che richiedono la considerazione della complessiva posizione dell'imputato di fronte alla giustizia penale.
Appare coerente con il nuovo sistema che analoga raccolta di dati rilevanti sia prevista con riferimento alle persone giuridiche.
La necessità di una articolata disciplina tecnica ha indotto la Commissione a limitarsi a segnalare il problema.
7. Interventi sulla parte speciale possono apparire necessari per apprestare adeguata tutela in caso di inadempimento di taluni obblighi introdotti dal nuovo sistema sanzionatorio.
Fin dove possibile, si può fare leva su una soluzione interna al sistema 'di parte generale': conversione della pena, a seguito dell'inadempimento, in una pena più grave. Tale soluzione, come si è visto a suo luogo, è parsa adeguata in materia di detenzione domiciliare (in caso di allontanamento, conversione in reclusione) e di affidamento di minori al servizio sociale (in caso di gravi inottemperanza, collocamento in comunità).
Una soluzione di parte speciale potrebbe essere invece proposta per il caso di inosservanza di pene interdittive, o di sanzioni interdittive nei confronti della persona giuridica. Lo schema potrebbe essere il seguente: "chi svolge attività o tiene comportamenti vietati, a seguito di condanna a pena interdittiva, è punito con ...". Potrebbe essere opportuno un aggravamento di pena per il caso di violazione reiterata.
Con riferimento alle sanzioni interdittive nei confronti della persona giuridica, la sanzione dovrebbe colpire sia la persona fisica responsabile del reato, sia la persona giuridica secondo le regole di cui al titolo VII.
Queste indicazioni non sono state tradotte in articoli, essendo materia da approfondire (anche per la scelta delle sanzioni) nel quadro dell'avviando lavoro di revisione della parte speciale.