Mediazione e Giustizia riparatoria nel sistema penale italiano
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congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento del
reo
Vienna, 10-17
aprile 2000
Documento tratto dal Sito
Internet www.giustizia.it
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La mediazione
penale minorile in Italia
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La mediazione
penale nella giustizia ordinaria
La
mediazione penale minorile in Italia
Linee guida della mediazione penale minorile
A partire dalla metà degli anni '70, anche sulla scia delle esperienze di "diversion"
attuate in altri Paesi europei e delle ricerche nazionali e internazionali sui
potenziali effetti negativi insiti nell'interazione fra minorenni e giustizia
penale, si è andato affermando il principio della "minima offensività del
processo", ovvero della riduzione degli interventi giudiziari, in particolare di
quelli di natura coercitiva e restrittiva, al minimo indispensabile. Il giudice
tiene in considerazione la capacità offensiva del processo nei confronti del
minore, e valuta caso per caso l'opportunità di continuare il procedimento
ovvero di interromperlo, in vista degli scopi educativi.
In Italia l'espressione di questo principio è rappresentata dal D.P.R. n° 448
del 22 settembre 1988 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a
carico di imputati minorenni), che ha raccolto e utilmente elaborato le
indicazioni provenienti dalle riflessioni ed esperienze anche internazionali,
anticipando in alcuni casi la stessa elaborazione dei principi contenuti in
importanti carte internazionali, come la Convenzione ONU sui diritti del
fanciullo firmata a New York nel 1989.
Per quanto riguarda l'applicazione concreta degli interventi, le principali
linee-guida elaborate dall'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile del
Ministero della Giustizia sono:
-
definire e proporre
un nuovo regolamento di esecuzione delle misure penali nei confronti dei
minorenni, con limitazione degli interventi a carattere fortemente contenitivo,
come il carcere, alle situazioni più gravi, sia in relazione alla tipologia di
reato, sia all'età e alla particolare problematicità del soggetto;
attuare ed
utilizzare, a tal fine, un sistema di polifunzionalità dei Servizi quale nuovo
modello di intervento nei confronti della devianza minorile, tenendo anche
conto delle esperienze di altri Paesi europei (mediazione penale, lavori di
utilità sociale, ecc.) ed accogliendo le raccomandazioni internazionali in
materia e le linee di indirizzo dell'U.E.;
in considerazione
dell'alto numero di minorenni denunciati per reato, ma non sottoposti a misure
restrittive, potenziare e strutturare diversamente l'intervento dei servizi
penali minorili a loro favore, mediante la definizione di modelli che
prevedano la collaborazione e l'interconnessione di tutte le risorse
disponibili sul territorio, sia statali sia locali, sia private sia pubbliche;
collegare
funzionalmente la politica d'intervento dell'Ufficio Centrale per la Giustizia
Minorile del Ministero della Giustizia con quella di tutte le altre
istituzioni pubbliche e private - fra cui l'Università e gli enti di studio e
di ricerca - coinvolte nel problema del disagio minorile.
Il contesto politico e normativo appena descritto rappresenta uno scenario
favorevole per il pieno sviluppo del nuovo paradigma di gestione della giustizia
penale, il cosiddetto principio riparativo. Il passaggio dall'ottica punitiva e
riabilitativa a quella riparativa corrisponde ad una nuova concezione della
sanzione penale che, pur mantenendo intatti gli aspetti di rinvio alla
responsabilità personale, rimanda chiaramente, anche utilizzando tutte le
risorse presenti sul territorio, ad una serie di proposte e di opportunità che
il soggetto può cogliere per il proprio cambiamento, e ad una migliore
considerazione degli interessi della vittima del reato, persona singola o
società nel suo complesso. In quest'ambito si colloca la mediazione penale per
la quale reo e vittima, adeguatamente supportati, realizzano l'opportunità di
prendere parte alla gestione del conflitto causato dal fatto reato, anziché
limitarsi a sottostare ad un giudizio pronunciato da altri.
Obiettivi della mediazione penale in ambito minorile
In un documento curato dall'Ufficio Centrale per la Giustizia Minorile, la
mediazione penale minorile viene intesa come "attività intrapresa da un terzo
neutrale al fine di ricomporre un conflitto fra due parti...attraverso la
riparazione del danno alla vittima o la riconciliazione fra vittima e autore del
reato"; viene inoltre sottolineato che per attività riparatoria può intendersi
anche una riparazione che prescinda dal risarcimento del danno in senso stretto
privilegiandone gli aspetti simbolici.
Viene dato particolare risalto alla cosiddetta "terzietà" del mediatore, che
deve collocarsi in posizione equidistante rispetto alle parti in causa, e che
soprattutto non svolge una funzione giudicante, né sul piano giuridico né su
quello morale: il mediatore non ha il compito di prendere una decisione o di
trovare una soluzione al conflitto, mentre è invece utile che ne espliciti i
termini, al fine di facilitare uno scambio fra le parti fondato sull'ascolto
delle reciproche ragioni. Si tratta di prevedere uno spazio (sia fisico che
temporale) finalizzato al ristabilimento di un ordine che risulti condiviso,
contrattato fra le parti in causa piuttosto che sovradeterminato.
Gli obiettivi della mediazione penale in ambito minorile sono principalmente
tre; essa assume rilevanza:
-
per l'autore del
reato, che viene stimolato al confronto con le conseguenze delle sue azioni;
-
per la vittima che
viene rivalutata. L'atteggiamento di disponibilità da parte della vittima,
talvolta rifiutato in partenza a causa di ostacoli diversi (paura, rancore,
ignoranza, ideologie, culture, etc.), può essere sviluppato attraverso
un'azione chiarificatrice proposta e gestita da una terza persona. La vittima
e l'apparato giudiziario si ispirano a sistemi valoriali diversi, prevalendo
nella vittima aspetti personalizzati, influenzati dall'azione negativa subita
(odio, conflitto, coinvolgimento), e nel sistema giudiziario relazioni
impersonali, ispirate ad una logica di funzionalità e di prestazione. Appare
necessario instaurare un nuovo tipo di relazione che possa soddisfare i
reciproci bisogni; si manifesta la necessità che la vittima sia contattata,
informata, sostenuta non alla fine del processo burocratico, ma lungo tutto il
percorso giudiziario, fin dal momento in cui ha subito il reato, essendo messa
in tal modo nella condizione di conoscere e capire;
-
per la società,
all'interno della quale vengono promossi valori e modelli nuovi, volti a
superare la contrapposizione ideologica e morale fra reo e vittima, e ad
avvicinare maggiormente la comunità al problema della gestione della devianza.
Il processo avviato dall'intervento di mediazione si compone di uno sforzo di
costruzione di regole e significati condivisi, di una volontà di assumere il
punto di vista dell'altro, di un tentativo di approfondimento ed elaborazione
di comportamenti e vissuti individuali, tutti elementi che sarebbe riduttivo
ricondurre primariamente o unicamente all'obiettivo di riconciliazione fra due
singole parti (reo e vittima), e che possono invece costituire la base per una
più complessiva strategia di politica criminale.
Per coinvolgere la comunità in un più generale processo culturale di mediazione
dei conflitti, occorre che questa rintracci una finalità comune rispetto alla
gestione della devianza e della diversità, e che rinunci alla facile tentazione
di consegnare il trasgressore alle autorità per isolarlo.
Il coinvolgimento della comunità locale nella gestione della devianza implica:
|
uno sforzo
finalizzato alla destrutturazione delle categorie di disagio e diversità che
le varie teorie sulla devianza hanno di volta in volta avanzato, per proporre
una concezione del reato come "emergente nel sociale" e che dunque nel sociale
deve essere affrontato; |
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prevedere una
educazione permanente (civica, alla solidarietà, alla tolleranza, ecc) per la
comunità locale; |
|
definire di volta
in volta i valori di riferimento specifici di ciascuna comunità; |
|
valorizzare le
competenze pedagogiche delle diverse rappresentanze del territorio
(amministrazione locale, parroco, vigile urbano, insegnante...), affinché
contribuiscano a sviluppare nella comunità momenti di incontro e di scambio. |
I tre obiettivi enunciati (verso l'autore del reato, verso la vittima e verso la
società) evidentemente convivono, anche se l'uno o l'altro vengono più o meno
enfatizzati all'interno di diversi approcci teorici.
Approcci teorici
Esistono in Italia almeno due diverse prospettive culturali dalle quali si
guarda al problema; per la prima, la mediazione viene collocata all'interno del
sistema penale minorile quale strumento aggiuntivo di questo, e viene così in
special modo evidenziata la funzione responsabilizzante che essa può svolgere
nei confronti del minore. Secondo un'altra prospettiva, la mediazione viene
intesa come progetto socio-culturale volto a promuovere la convivenza e la pace
sociale; in questa seconda accezione la mediazione non è più interesse solo
dell'amministrazione della giustizia, ma della società intera.
Le due prospettive non appaiono fra loro incompatibili, e anzi hanno entrambe
contribuito a mantenere vivo il dibattito e attenta la verifica sul tema della
mediazione penale minorile.
Una questione non meno importante riguarda la definizione dei destinatari degli
interventi di mediazione, ossia se imputati e vittime debbano essere selezionati
ed in base a quali criteri. Occorre, in altre parole, precisare se la proposta
di mediazione possa nascere in relazione a tutte le tipologie di reato oppure
solo a reati di lieve entità - eventualmente accompagnati da una valutazione di
"rilevanza sociale" del reato stesso - o ancora se la mediazione possa farsi
utilmente in presenza di contesti normativi particolari (come ad esempio avviene
nei casi di recidivismo) e di situazioni familiari e sociali particolarmente
disagiate o complesse.
Allo stato attuale si ritiene preferibile non definire criteri vincolanti per
l'individuazione dei casi, mantenendo elasticità e discrezionalità come salienti
caratteristiche delle decisioni da prendere, nella consapevolezza sempre più
chiara che sia impossibile definire a priori concetti quali "interesse del
minore" o "bene comune".
Il quadro normativo
In Italia vige il principio della "obbligatorietà dell'azione penale"; pertanto
nessuna politica di sviluppo delle pratiche di mediazione può rispondere
all'esigenza primaria di riduzione e snellimento delle procedure processuali; il
processo penale minorile tuttavia ha in sé la possibilità di ridisegnare i
confini dell'intervento penale, creando delle "terre di mezzo" nelle quali è
possibile "fare giustizia" senza fare processi.
Ne sono esempio i diversi contesti precedenti il dibattimento e il giudizio,
quali:
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l'art. 9 del DPR
448/88, che prescrive, in fase di indagini preliminari, di acquisire elementi
utili alla valutazione delle condizioni e delle risorse personali, familiari,
sociali e ambientali del minore; |
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l'art. 27 DPR
448/88, che contempla la pronuncia di non luogo a procedere e quindi di non
esercitare l'azione penale per irrilevanza del fatto, prevedendo
preliminarmente l'audizione del minorenne, dell'esercente la potestà dei
genitori e della persona offesa dal reato; |
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l'art. 28 DPR
448/88, che prevede la sospensione del processo e messa alla prova del
minorenne, attraverso un provvedimento del giudice che può anche contenere
prescrizioni dirette alla riparazione del danno e alla promozione di
iniziative di conciliazione con la vittima. Inoltre, è previsto che il
giudice, qualora valuti che la prova abbia avuto esito positivo, debba
dichiarare con sentenza l'estinzione del reato; |
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l'art. 564 del
codice di procedura penale, che offre un ulteriore spazio per l'attivazione
della mediazione in quanto attribuisce al Pubblico Ministero la facoltà di
tentare una conciliazione fra querelante e querelato. |
Oltre a tali spazi, che precedono la definizione giudiziaria del procedimento,
l'intervento di mediazione è possibile anche in fase di esecuzione penale,
nell'ambito delle sanzioni sostitutive, già applicabili in fase di udienza
preliminare, e all'interno del provvedimento di affidamento in prova al servizio
sociale, misura alternativa alla detenzione, in relazione all'opportunità che:
"...l'affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo
reato...." ( comma 8 dell'art. 47 della L. 354/75). Infine, sempre in fase di
esecuzione della pena e, in particolare di quella pecuniaria, spazi per la
mediazione sono ravvisabili nel caso in cui detta pena debba essere convertita
dal giudice per insolvenza del condannato (artt. 101 e ss. della legge 24
novembre 1981, n° 689).
Le esperienze concrete
Per l'applicazione della normativa, nell'elaborazione del progetto di messa alla
prova, è prevalsa, inizialmente, un'interpretazione "simbolica" della
riparazione e della riconciliazione, attraverso programmi di inserimento del
minore in attività di utilità sociale, attribuendo a tale esperienza contenuti
riparativi ed effetti riconciliativi tra soggetto e comunità sociale.
La riparazione è stata quindi realizzata come partecipazione del minore ad
interventi di volontariato sociale nell'ambito delle prestazioni svolte da enti,
associazioni ed organismi di volontariato.
Secondo tale applicazione operativa, le attività di riparazione non prevedono un
incontro tra le parti e, di fatto, è l'operatore della Giustizia che aiuta il
minore a comprendere il significato dell'esperienza di volontariato, per la
quale non si configura certamente un carattere afflittivo quanto invece un
carattere evidente di attività di utilità sociale.
L'operatore, specificamente l'educatore o l'assistente sociale incaricato del
caso, favorisce nel minore l'attribuzione di significati e di contenuti
riparatori all'attività di volontariato individuata, in quanto tale cognizione
ha un valore responsabilizzante riguardo al danno prodotto dal reato commesso.
La necessità di rafforzare il patto sociale e di ridurre la conflittualità,
aumentando il senso di sicurezza del cittadino e confermando l'adesione a valori
comuni, ha favorito l'interesse per quelle attività che, secondo le esperienze
attuate in diversi paesi europei ed extra europei, si pongono obiettivi di
azione diretti non solo all'autore ma anche alla vittima del reato.
In questa linea di ricerca e sperimentazione, la mediazione penale si è
connotata come un possibile strumento di intervento a favore anche della
vittima.
L'attività di mediazione-riparazione, in linea con i principi cui si ispira la
legislazione penale minorile, privilegia inoltre l'azione responsabilizzante dei
provvedimenti e degli interventi e consente al minore di acquisire una maggiore
consapevolezza dei danni cagionati dal reato, riflettendo sulle motivazioni del
proprio comportamento.
Nel processo di mediazione la vittima è considerata quale soggetto attivo e non
come semplice destinatario di un eventuale risarcimento materiale: il danno
prodotto dal reato comporta infatti non soltanto una possibile perdita
economico-patrimoniale, ma anche una sofferenza personale nella dimensione
emotiva e psicologica. La mediazione costituisce quindi una opportunità per la
vittima di esprimere il proprio disagio in termini di emozioni e di vissuti di
paura e di rabbia.
Sul piano dell'efficacia simbolica, la mediazione permette, infine, alla
comunità di farsi carico dei problemi della devianza minorile, compresi i
riflessi dannosi nei confronti delle vittime, e di partecipare alla
realizzazione di interventi destinati a ristabilire la pace sociale ed a
rafforzare il senso di sicurezza sociale.
La mediazione è quindi un percorso relazionale che prepara, motiva e configura
la successiva definizione dell'attività riparatoria.
La sperimentazione attuata in area minorile prevede l'incontro tra la vittima e
l'autore del reato, come percorso di relazione e di confronto che risulta
responsabilizzante per il minore e che consente alla vittima di utilizzare uno
spazio di accoglienza e di espressione.
Tale percorso è parallelo al processo giudiziario in quanto, anche se
l'iniziativa viene esperita su richiesta dell'Autorità Giudiziaria, l'adesione è
comunque volontaria per entrambe le parti ed il contesto in cui si attua è
neutrale onde permettere una comunicazione che, per essere efficace, dev'essere
riservata.
L'esito della mediazione viene comunicato all'Autorità giudiziaria nella forma
sintetica di risultato positivo o negativo e con l'eventuale definizione
dell'accordo riparativo, senza ulteriori specificazioni sull'andamento degli
incontri.
L'attività di mediazione condotta su richiesta dell'Autorità giudiziaria è
realizzata da un gruppo di lavoro composto da tecnici appartenenti ai Servizi
Minorili della Giustizia, agli Enti locali, al settore del volontariato.
La somma di competenze professionali viene assunta come risorsa e come garanzia,
in quanto l'intervento di mediazione interessa l'autore del reato e la vittima,
rispetto ai quali interagiscono operatori appartenenti ai diversi ambiti
istituzionali, portatori di conoscenze e di competenze specifiche che possono
utilmente integrarsi.
Le sperimentazioni sono state avviate a Torino nel 1995, poi successivamente a
Milano, Bari, Trento e Catanzaro.
Sul piano dell'organizzazione è da evidenziare il carattere interistituzionale
che contraddistingue le sperimentazioni, tutte maturate in un clima di accordo,
sia rispetto all'approfondimento teorico della materia e al percorso formativo,
sia riguardo all'evoluzione organizzativa.
Per le sedi di Torino, Milano, Bari e Trento sono stati siglati protocolli
d'intesa tra il Centro per la Giustizia Minorile, la Regione e gli Enti locali,
al fine di consentire l'attuazione del progetto attraverso la definizione di
impegni in termini di risorse economiche e di personale.
Tali protocolli prevedono, inoltre, la firma o comunque l'accordo esplicito e
formale del Presidente del Tribunale per Minorenni e del Procuratore della
Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni.
Il modello organizzativo e gestionale della mediazione penale minorile, in
assenza di una previsione normativa specifica, è quindi basato su un sistema
d'intervento condiviso da tutti i soggetti interessati.
Non esistono, peraltro, standards nazionali veri e propri, in quanto gli accordi
sono stati elaborati a livello locale, tenendo conto delle risorse disponibili.
E' possibile comunque desumere i requisiti minimi, come il sostegno
dell'Autorità Giudiziaria, la formazione, la partecipazione degli operatori
della Giustizia e degli Enti locali al progetto.
Nelle esperienze italiane, il ruolo attribuito al mediatore è di creare una
situazione neutrale in cui reo e vittima possano incontrarsi e riconoscersi
reciprocamente come persone.
Il mediatore è quindi un facilitatore della comunicazione, non deve sostituirsi
alle parti ma deve consentire a queste ultime di esprimere il proprio vissuto,
instaurando una comunicazione diretta ed efficace. Il mediatore ha, inoltre, un
ruolo contraddistinto da imparzialità, riservatezza, non direttività
dell'intervento e deve possedere una competenza in ambito relazionale supportata
da una formazione specifica in materia di mediazione penale, in quanto i
contenuti "penali" del conflitto comportano specifiche capacità, che sono
certamente diverse da quelle richieste in altri campi di applicazione, quali, ad
esempio, la mediazione familiare, la mediazione scolastica o la mediazione
sociale. Rispetto all'appartenenza istituzionale, nelle predette sperimentazioni
di mediazione penale sono stati individuati operatori della Giustizia e degli
Enti Locali.
La mediazione viene svolta da un'équipe di operatori, nessuno dei quali assume
una posizione direttiva rispetto agli altri. La presenza di più mediatori
assicura maggiori garanzie sulla tenuta dell'incontro, sulla necessità d'imporre
delle regole di comunicazione, sulla capacità di far procedere la comunicazione.
Il mediatore deve considerare costantemente che il fine della sua attività
consiste nello stabilire una comunicazione tra le parti e nel ridurre il
conflitto; nel caso della mediazione penale, l'obiettivo specifico è quello di
arrivare ad una riparazione, in quanto il reato ha originato una posizione di
asimmetria, un'offesa, una sottrazione che può e deve essere reintegrata.
Pertanto l'incontro di mediazione dovrebbe naturalmente concludersi con un
accordo riparativo, attraverso attività di riparazione/risarcimento dirette alla
vittima o dirette alla comunità sociale.
Qualora, pur avendo avuto esito positivo l'incontro di mediazione, la
riparazione diretta non sia possibile, è comunque prevista la possibilità
d'inserimento del minore in un'attività di utilità sociale che consenta un
impegno effettivo da parte dello stesso.
Presentiamo di seguito alcuni dati relativi alle attività svolte negli anni 1998
e 1999.
Rilevazioni effettuate a dicembre '98 e a dicembre '99.
Sedi /Anno |
n° casi |
Esito positivo |
Esito negativo |
Non fattibili |
In corso |
1998 |
1999 |
1998 |
1999 |
1998
|
1999 |
1998 |
1999 |
1998 |
1999 |
Bari |
n.p |
12 |
n.p |
2 |
n.p |
- |
n.p |
8 |
n.p |
2 |
Catanzaro
|
14 |
75 |
8 |
30 |
- |
22 |
2 |
- |
4 |
23 |
Milano |
28 |
42 |
9 |
21 |
- |
3 |
6 |
15 |
13 |
3 |
Torino |
20 |
40 |
3 |
16 |
1 |
2 |
7 |
22 |
9 |
5 |
Trento |
22 |
11 |
7 |
1 |
- |
- |
8 |
8 |
7 |
2 |
Dall'esame dei dati è possibile rilevare che in tutte le realtà il numero di
casi è aumentato nel tempo, così com'è per lo più aumentata la percentuale di
conclusioni della mediazione con esito positivo.
In conclusione, dato il carattere fortemente sperimentale delle esperienze
avviate, particolare valore viene conferito alla formazione degli operatori. Si
ritiene che questa debba procedere su due livelli, prevedendo un percorso di
base per tutti gli operatori (sensibilizzazione al tema della mediazione), e una
formazione rivolta esclusivamente a coloro che svolgeranno materialmente gli
interventi di mediazione, finalizzata quindi all'acquisizione di specifiche
competenze professionali.
La mediazione penale
nella giustizia ordinaria
Il quadro normativo
La mediazione ha avuto una discreta accoglienza nella giustizia penale minorile
dalla prima metà degli anni '90 mentre nella giustizia penale ordinaria sta
muovendo i primi passi.
La legge processuale penale entrata in vigore nel 1989 dava al pubblico
ministero il potere di tentare la conciliazione tra la vittima e l'autore del
reato solo per i reati perseguibili a querela.
Una recentissima riforma processuale dell'inizio dell'anno 2000 ha tolto questo
tentativo di conciliazione al pubblico ministero e lo ha attribuito al giudice.
La legge processuale penale premia il comportamento dell'autore del reato che
risarcisca la vittima o che elimini le conseguenze dannose del reato con una
diminuzione della pena.
Alcune norme processuali tutelano la parte offesa attribuendogli il potere di
costituirsi parte civile e riconoscendo i diritti di presentare memorie, di
indicare elementi di prova, di essere informata in caso di archiviazione e di
richiedere al pubblico ministero di impugnare la sentenza.
In alcuni casi al condannato possono essere imposti degli obblighi di fare a
favore della vittima e della collettività. In particolare il condannato a una
pena non superiore ai tre anni può essere affidato in prova al servizio sociale
con l'obbligo di adoperarsi a favore della vittima; al condannato che non paga
la pena pecuniaria può essere imposto un lavoro sostitutivo a favore della
collettività; infine al condannato per reati a sfondo razziale possono essere
imposti obblighi di prestare un'attività non retribuita a favore della
collettività.
La tendenza attuale di protezione delle vittime
Negli anni più recenti è cresciuta una nuova sensibilità tra gli operatori del
settore giudiziario, nella cultura universitaria e nello stesso mondo politico
per una maggiore attenzione alle esigenze delle vittime dei reati.
In Italia la consolidata tradizione di particolare attenzione alle vittime era
finora limitata ai reati di strage, di terrorismo e di criminalità organizzata;
sono state approvate leggi specifiche per riconoscere alle vittime e ai loro
famigliari indennizzi per le perdite subite in occasione di quei gravissimi
reati.
Oggi nel nostro paese comincia però ad affermarsi una cultura anche giuridica di
tutela generale della vittima di reati: intendiamo dire una tutela non
condizionata dall'eccezionalità dell'evento criminoso ma fondata sulla
consapevolezza che la giustizia del terzo millennio si fonda innanzitutto sulla
ricerca del soddisfacimento dei bisogni delle vittime.
La prospettiva della mediazione e della giustizia riparatoria fornisce alla
giustizia minorile nuovi strumenti per una migliore responsabilizzazione del
minorenne; nella giustizia penale ordinaria si presta indubbiamente ad una
migliore considerazione della vittima del reato.
Uno dei tratti più interessanti di questa tendenza risiede nel fatto che
l'azione positiva in favore delle parti offese non può certo esaurirsi
nell'ambito della risposta giudiziaria al reato. Il risarcimento e la
riparazione dei danni sono certamente aspetti essenziali per una giustizia
riparatoria ma non gli unici; le stesse attività di mediazione è preferibile che
si svolgano in un contesto meno giudicante di quello caratteristico del
procedimento penale.
Non deve quindi stupire che a livello locale alcune
amministrazioni locali e le associazioni di volontariato abbiano investito in
numerose iniziative per la tutela delle vittime di reati comuni. In molte grandi
città italiane sono nati dei centri di assistenza per gli anziani vittime di
reati (in particolare per le truffe e i furti in abitazione); in alcuni comuni
sono sorti dei centri di mediazione sociale e in alcuni casi vi sono stati degli
stanziamenti ad hoc per l'indennizzo a favore delle vittime di reati di
strada in precarie condizioni economiche.
Mediazione e riparazione nell'esperienza delle forze dell'ordine
L'arte della mediazione-riparazione consiste nella capacità del mediatore di
creare le condizioni per la ripresa di una corretta comunicazione tra i
protagonisti del reato. E' dunque fondamentale che le parti in conflitto
riescano a recuperare nel contesto della mediazione il potere di giudicare e
decidere delle loro vicende quale condizione irrinunciabile per riconoscersi,
ricostruire una verità dei fatti accettabile per entrambe e per, infine, trovare
autonomamente una soluzione o, quanto meno, una positiva gestione del conflitto.
La riparazione, in questo senso, è l'esito di questo procedimento comunicativo:
un esito interiore, pacificatorio, e un esito esteriore che può assumere le
sembianze più diverse, dalle scuse ad attività utili alla vittima e alla
collettività. Al sistema penale interessa soprattutto quest'ultimo aspetto della
giustizia riparatoria perché è l'unico suscettibile di una valutazione da parte
dell'ordinamento: è bene tuttavia non dimenticare mai tutto il procedimento che
può preparare e favorire una soluzione genuinamente riparatoria.
Queste specificazioni ci permettono di capire come la mediazione-riparazione non
sia sempre conciliabile con le caratteristiche proprie del processo: la delega a
terzi nella decisione, il formalismo della procedura, i ruoli rigidi dei
soggetti processuali.
E' importante quindi riservare uno spazio autonomo alla mediazione-riparazione
svincolato dalle esigenze e dai ritmi del processo.
Anzi è importante predisporre le risorse organizzative e sociali per uno
sviluppo della mediazione-riparazione come risposta preliminare e preprocessuale
per tutti quei conflitti la cui gestione possa essere positivamente rimessa alla
volontà delle parti.
In questa prospettiva si sta conducendo una interessante attività di formazione
delle forze dell'ordine nell'area della Provincia di Torino che potrebbe essere
una buona base di partenza per l'estensione nazionale dell'esperienza.
L'idea di fondo è quella di venire incontro alla parte offesa dal reato
attivando gli operatori del "sistema giudiziario" ad una immediata "presa in
carico" della lite in contrasto con l'attuale schema fondato sulla delega di
ogni iniziativa alla magistratura.
Sappiamo - per esperienza - che le querele vengono presentate normalmente presso
gli uffici di polizia e le stazioni dei carabinieri. Si tratta appunto di
valorizzare questo contatto tra querelante e il primo operatore a cui viene
comunicata la volontà di querelarsi per organizzare in tempi ragionevoli un
tentativo di conciliazione.
Si tratta di valorizzare la disposizione d'apertura del Testo unico di pubblica
sicurezza, laddove l'Autorità di pubblica sicurezza è invitata "per mezzo dei
suoi ufficiali e a richiesta delle parti a provvedere alla bonaria
composizione dei dissidi privati". Questa funzione può essere uno degli
strumenti essenziali perché la stessa autorità di pubblica sicurezza possa
vegliare alla sicurezza dei cittadini. L'insicurezza dei cittadini infatti
per quanto possa concentrarsi - nei modi più svariati - su fenomeni come lo
spaccio di sostanze stupefacenti, l'immigrazione e la prostituzione trova una
conferma certa tutte le volte che il conflitto personale e concreto (per motivi
che nulla hanno a che fare con i fenomeni sopracitati) viene trascurato
dall'apparato giudiziario o trattato a distanze temporali inaccettabili.
In questo quadro la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino e la
Provincia di Torino hanno ritenuto di pervenire ad un accordo per realizzare un
"progetto speciale" finalizzato a trattare in forme nuove innanzitutto la
conflittualità di tipo famigliare nell'atto in cui questa si rivela all'esterno
con una richiesta di punizione avanzata alle forze dell'ordine.
Il progetto viene seguito nelle sue diverse fasi da un gruppo di lavoro
rappresentativo degli enti e delle forze che vi sono coinvolti (Procura della
Repubblica presso il Tribunale di Torino, Provincia di Torino, Polizia di Stato
e Carabinieri).
La prospettiva è quella di un gruppo di lavoro permanente costituito per l'avvio
del progetto, per la direzione delle diverse fasi di realizzazione dello stesso
e, soprattutto, quale elemento di continuità rispetto alle esigenze di
valutazione dell'andamento del progetto nonché per garantire l'inevitabile
necessità di una "supervisione" e di una formazione costante degli operatori.
Innanzitutto è stata data una informazione ai responsabili delle forze
dell'ordine.
Una volta completato il momento puramente informativo si è proceduto alla
sensibilizzazione del personale operativo. La sensibilizzazione ha per il
momento (nel corso dei primi due anni di attivazione del progetto) coinvolto 280
operatori di polizia ed ha lo scopo, innanzitutto, di illustrare non tanto il
contesto o il percorso giuridico e pratico quanto le modalità e le
caratteristiche tecniche dell'approccio conciliativo.
Mentre la fase dell'informazione si risolve in un momento di comunicazione e di
esposizione dei temi, la fase della sensibilizzazione comporta un
approfondimento e una partecipazione maggiore del personale.
Il progetto è destinato agli operatori che ricevono materialmente la lamentela
del cittadino presso i commissariati o le stazioni. Si è ritenuto, comunque, di
non sottovalutare il momento del pronto-intervento della pattuglia o della
volante richieste di una azione in circostanze di crisi acuta del conflitto
(circostanza nelle quali occorre combinare il momento repressivo con quello
propositivo).
La formazione è la fase più delicata. Essa ha per ora coinvolto un centinaio di
operatori suddivisi in piccoli gruppi con un massimo di 20-25 "allievi" per
gruppo. Ogni gruppo segue un modulo di sei incontri di mezza giornata ciascuna.
I formatori sono stati scelti tra gli esponenti più autorevoli della cultura
della mediazione in Italia (un docente universitario, una psicologa, un
criminologo) e il loro lavoro è stato integrato da comunicazioni di vari esperti
nelle discipline della salute mentale, del servizio sociale, delle
alcoldipendenze proprio perché il conflitto che viene portato negli uffici di
polizia ordinariamente si intreccia con varie patologie sociali e personali.
Mentre le comunicazioni degli esperti hanno assunto la forma consueta della
relazione orale il resto della formazione ha fatto leva essenzialmente sulle
tecniche dei giochi di ruolo e sulla serrata discussione di gruppo.
I risultati sono positivi sia sul piano dell'apprezzamento di questa risorsa
formativa da parte degli operatori sia sul piano della sua immediata
applicazione pratica.
Mediazione e riparazione del giudice di pace
La novità più importante è senza dubbio la legge che attribuisce al giudice di
pace alcune competenze penali. Il giudice di pace è un giudice onorario
istituito nel 1995 e che finora aveva competenze limitate ai giudizi civili. Il
Parlamento ha deciso di riconoscere al giudice di pace dei poteri penali
soprattutto in relazione a reati che sono espressione della conflittualità
minore (ingiurie, diffamazioni, danneggiamenti, minacce, lesioni personali) o
che prevedono pene ridottissime. Questo intervento legislativo completa una
grande riforma dell'ordinamento giudiziario italiano che tende a distinguere una
giustizia "maggiore" riservata a reati di maggiore gravità e dotata di maggiori
garanzie per l'imputato da una giustizia "minore" riservata a reati di minore
allarme sociale e caratterizzata da procedimenti informali e da un sistema
sanzionatorio totalmente rinnovato.
Questa legge introduce in modo organico un sistema di giustizia riparatoria
anche in Italia.
Secondo questa legge, che entrerà in vigore nel 2001, il giudice di pace non può
irrogare sanzioni detentive. Si prevede un sistema sanzionatorio articolato su
tre tipi di pene: le prestazioni di attività non retribuite a favore della
collettività, l'obbligo della permanenza a casa e misure prescrittive
specifiche.
La parte offesa ha il potere - assolutamente inedito in Italia - di citare
direttamente in giudizio l'autore del reato per ottenere la punizione del
colpevole: questo potere può essere esercitato solo nei reati perseguibili a
querela.
La natura "riparatoria" della giustizia di pace è resa particolarmente
significativa da due disposizioni.
Il giudice di pace deve procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti
riparatori e risarcitori conseguenti al reato. Questo significa che il tentativo
di conciliazione non può essere ridotto ad un intervento burocratico - come
accadeva nel passato - teso unicamente a registrare la volontà della parte
offesa di rimettere la querela. Con questa riforma si chiede al giudice di pace,
o a un suo delegato, di promuovere non solo la riconciliazione tra le parti in
conflitto ma la riparazione e il risarcimento del danno.
Il giudice di pace può archiviare il procedimento penale (o comunque pronunciare
una sentenza di proscioglimento) in ragione dell'attivazione dell'autore del
reato per la riparazione e il risarcimento del danno. Questo significa che
l'opera del colpevole per eliminare le conseguenze dannose del reato non si
limita a garantire una diminuzione della pena ma consente addirittura la
chiusura del procedimento penale.
La legge sulle competenze penali del giudice di pace può davvero collocare
questo giudice onorario al centro di un sistema di mediazione-riparazione che
assicuri una rete di interventi fondati sulla negoziazione e la gestione dei
conflitti non solo in campo penale. Occorre tenere conto, infatti, che il
giudice di pace è dotato di poteri conciliativi anche in sede civile nella quale
le parti in conflitto possono presentarsi a lui anche informalmente per ottenere
un intervento pacificatorio. Inoltre il giudice di pace può costituirsi quale
utile punto di riferimento per tutte le attività pubbliche e private che
favoriscono la mediazione e la gestione dei conflitti nell'auspicabile
prospettiva di una strategia coordinata che affianchi alla giustizia formale una
giustizia fondata sul consenso degli interessati.
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