Garante dei detenuti

 

Ipotesi su una possibile dimensione pattizia

di Luigi Manconi

 

Dal momento che la mia attività di Garante delle persone private della libertà personale è recentissima, non posso esporre il resoconto di una esperienza già matura: posso, augurandomi di fare cosa utile, raccontare come si è arrivati all’istituzione dell’ufficio e illustrare gli obiettivi che esso persegue. Si è partiti dalla constatazione che la persona privata della libertà personale è titolare di un ampio sistema di prerogative, diritti e garanzie e che il punto dolente, il nodo aggrovigliato, è la loro effettività: cioè la loro esigibilità all’interno dei luoghi della detenzione. Tale esigibilità oggi è assai ridotta, in larga parte virtuale, quasi sempre discrezionale.

La detenzione, in altre parole, è una sfera interamente o - nel migliore dei casi - parzialmente sottratta al controllo continuativo di un organo esterno all’amministrazione penitenziaria: è assente, cioè, una figura terza, una istituzione "tra custodi e custoditi", una autorità cui rivolgersi e appellarsi per ottenere l’effettiva applicazione dei diritti riconosciuti, di cui si resta titolari anche se reclusi. Abbiamo ipotizzato che questa figura potesse essere, appunto, il Garante delle persone private della libertà personale. Come è documentato, si tratta di una figura che, con varia definizione e con diversa fisionomia, con differenti poteri e facoltà, è già presente, in qualche caso da molti anni, in numerosi paesi europei. Sul tema è stato presentato, nella scorsa legislatura parlamentare, un disegno di legge, sia alla Camera che al Senato: e analogamente si è fatto nella presente legislatura.

Sulla base di quei disegni di legge, è stato organizzato da A Buon Diritto. Associazione per le libertà e dall’Associazione Antigone - nel novembre del 2002 - un convegno, patrocinato dalla Camera dei Deputati, dove si è giunti alla formulazione di un testo largamente condiviso dai responsabili per la Giustizia dei partiti di centrodestra e centrosinistra. Tale disegno di legge ha poi iniziato il suo iter parlamentare. Attualmente si trova nel Comitato ristretto della commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati. Il fatto che l’iter di quel disegno di legge sia stato avviato e la previsione di un ritmo di marcia non rapidissimo ci hanno indotti a ipotizzare quella che abbiamo chiamato e (tuttora confermiamo essere) una sorta di "anticipazione-sperimentazione" di quella stessa figura a livello locale.

Il risultato è che, oggi, esiste un difensore civico o un garante, presso le amministrazioni comunali di Roma, Firenze, Bologna e Torino. Discorso analogo è stato avviato, e io ritengo possa essere concluso nell’arco di qualche tempo, presso le amministrazioni comunali di Genova, Bari, Padova e presso la Provincia di Milano. Immediatamente, cioè già nel momento in cui si è avviata la discussione sulla figura del Garante a livello nazionale, abbiamo dovuto affrontare quello che è tuttora il primo dilemma; dilemma che non va, in alcun modo, né messo tra parentesi, né differito, né diplomatizzato.

Ovvero: c’è bisogno di una nuova figura? Correlata a questa domanda, evidentemente, ce n’è un’altra: perché non è, perché non può essere, la magistratura di Sorveglianza a interpretare quel ruolo di cui stiamo parlando? Io credo che, sostanzialmente, siano tre le argomentazioni che possono efficacemente rispondere a quel quesito e che, comunque, hanno determinato la nostra risposta. La prima ragione è di natura funzionale: stiamo parlando di una magistratura di Sorveglianza il cui organico è palesemente ridotto, e il cui carico di lavoro nel corso degli anni è cresciuto in maniera costante fino a raggiungere una dimensione abnorme.

La seconda ragione ha a che vedere con quella che è la ragione istituzionale della magistratura di Sorveglianza stessa: e, cioè, il fatto che si tratta di una funzione (anche) giudicante e che, dunque, essa aspira a un’identità di ruolo separato e di autonomia rispetto a quella che è la popolazione carceraria, nei cui confronti esercita prerogative tutt’altro che "terze". Terzo punto - che potrebbe essere il più efficace argomento rispetto al quesito posto - è che, sempre più, la magistratura di Sorveglianza si vede attribuire compiti di giudice monocratico nel settore delle misure alternative: per esempio, rispetto a provvedimenti come i permessi. Il che, immediatamente, le dà un potere su quello che è il corpo del detenuto, il suo destino, il suo tempo, la sua vita, la sua organizzazione dell’esistenza; un potere tale per cui il detenuto dipende dalla magistratura di Sorveglianza per una serie ampia di facoltà e possibilità. E questo, a mio avviso, rende problematica l’attribuzione di quel ruolo di garante dei diritti alla stessa autorità: ovvero alla magistratura di Sorveglianza.

Si può presentare, insomma, un conflitto, in certi casi assai problematico, tra una funzione di tutela di diritti, garanzie, prerogative, e un’altra funzione collegata all’esercizio di una serie di poteri che interferiscono con la vita del detenuto, con la sua concreta possibilità di autonomia, col godimento delle sue prerogative. Questa terza considerazione si aggiunge a quelle precedenti e ci induce a ritenere necessario distinguere le due funzioni e, quindi, immaginare che la tutela dei diritti sia da attribuire a un altro soggetto. Quali sono i compiti principali che possiamo immaginare, dunque, per questo altro soggetto: ovvero per un ufficio tutto focalizzato sulla tutela dei diritti? Sia chiaro che qui mi riferisco solo ed esclusivamente al Garante dei diritti delle persone private delle libertà in ambito locale, quindi alla figura che fa riferimento all’amministrazione comunale.

In questo caso, io credo che due siano essenzialmente le funzioni che il Garante può utilmente svolgere: la prima riguarda la prevenzione dei conflitti all’interno dei luoghi di detenzione e la mediazione tra i diversi soggetti che in quei luoghi si trovano a passare parte del proprio tempo o l’intera esistenza quotidiana. La seconda funzione configura una sorta di rapporto triangolare tra ufficio del Garante - e, attraverso di esso, popolazione detenuta - amministrazione penitenziaria e amministrazione comunale. In particolare, l’amministrazione penitenziaria lamenta l’assenza di comunicazione o il carattere discontinuo, provvisorio, sempre poco definito dell’interlocuzione con i poteri pubblici locali: il Garante deve tendere ad assolvere quella funzione di raccordo.

Abbiamo, cioè, un sistema complesso di rapporti che vede, da un lato, l’amministrazione penitenziaria e la popolazione detenuta e, dall’altro, una incerta e sfuggente pluralità di interlocutori, spesso indefiniti e anonimi. L’ufficio del Garante dovrà impegnarsi affinché si realizzi una sintesi efficace e - se possibile - rapida dell’offerta di risorse e servizi da parte dell’amministrazione pubblica locale, superando l’attuale polverizzazione delle competenze in differenti uffici, facenti capo a più assessorati, in genere poco coordinati tra loro. Ma consideriamo con più attenzione la delibera istitutiva dell’ufficio del Garante: vi si fa riferimento a un ruolo definito (con linguaggio singolare per un documento amministrativo) come "di utile mediazione e persuasione": termini che, in questo caso, sono particolarmente pertinenti ed efficaci, perché rimandano, appunto, a quel ruolo di prevenzione dei conflitti prima richiamato. In un altro comma dell’art. 3, così si legge: "Rispetto a possibili segnalazioni che giungano, anche in via informale, e riguardino diritti violati o a rischio, il Garante si rivolge alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni e segnala ad esse il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti".

Questo rimanda a quella ragione fondativa dell’ufficio del Garante che è, poi, la questione della effettività e della esigibilità dei diritti riconosciuti e, all’opposto, la denuncia della loro costante violazione. Questo implica, a sua volta, altre due conseguenze estremamente importanti, che collocano il tema nella concretezza del lavoro e delle sue difficoltà. La prima si riferisce al contesto nel quale nasce questo ufficio: ovvero, come dicevo, nelle more dell’iter parlamentare del disegno di legge nazionale. È così che abbiamo ipotizzato l’istituzione di questa figura a livello locale, come occasione - lo ripeto ancora una volta - di "anticipazione-sperimentazione", come verifica delle sue potenzialità e, infine, come una sorta di test.

Non va dimenticato nemmeno per un secondo, infatti, che è la legge nazionale quella che può attribuire facoltà e poteri davvero effettivi ed efficaci, mentre il consiglio comunale assegna all’ufficio del Garante una base giuridica indubbiamente fragile. Il che ha un immediato riflesso sulla natura e l’entità dei poteri di cui può disporre l’ufficio del Garante. Bisogna ricordare, per capirci, che un consigliere comunale di Roma non può entrare all’interno di un carcere romano; e che il sindaco di Roma, se volesse visitare Regina Coeli, non può esigere tale facoltà: può chiedere che gli venga concessa. Di conseguenza, nemmeno il Garante dei detenuti può entrare in carcere se non perché gli viene consentito, discrezionalmente, dalla direzione dell’istituto.

Dunque, solo una legge nazionale potrà attribuire a questo Ufficio quella base giuridica che assicuri stabilmente tale facoltà. Che è, evidentemente, la prima prerogativa di cui una simile figura dovrebbe disporre. In attesa di questo, oggi, ci si pone un interrogativo: è possibile arrivare a una convenzione tra l’amministrazione penitenziaria e le amministrazioni comunali, che attribuisca all’ufficio del Garante per lo meno le stesse facoltà di cui dispongono il consigliere regionale e il parlamentare nazionale? Questo è, evidentemente, un passaggio ineludibile: il solo in grado di dotare il nostro ufficio di una possibilità di intervento tale da rendere effettive le sue funzioni.

Noi riteniamo che questo sia possibile. Difficile, ma non impossibile: tanto più se saremo in grado di fare della figura del Garante il soggetto capace di interloquire all’interno di quel sistema triangolare di rapporti tra amministrazione penitenziaria, amministrazione pubblica e popolazione detenuta, di cui si diceva. E, tuttavia, voglio essere chiaro: anche in assenza di questo, io non penso assolutamente che l’ufficio del Garante non abbia funzioni da svolgere, ruoli da giocare, competenze da esercitare. Ma, indubbiamente, tutto si farebbe più difficile. In ogni caso, come ufficio del Garante di Roma – e a prescindere da come verrà risolto il problema di cui si è appena detto - abbiamo due obiettivi da realizzare: uno a medio termine, uno di lungo periodo.

Il primo riguarda la sanità carceraria. Partirà, tra qualche settimana, una ricerca all’interno delle carceri di Roma, concentrata su pochi ed essenziali punti: ovvero i tempi di ottenimento delle visite specialistiche, i tempi di ricovero esterno, i tempi di disponibilità dei farmaci. Vogliamo realizzare una ricerca dettagliata per verificare, poi, a scadenza di un anno, se siamo riusciti a velocizzare quei tempi, così fondamentali per la vita delle persone recluse. E per documentare che cosa è possibile fare per rendere più rapide quelle pratiche o che cosa impedisce che tale accelerazione si realizzi. Seconda questione: il problema del lavoro in carcere conosce oggi, nell’intero sistema penitenziario nazionale, uno dei livelli più bassi. Noi pensiamo di concentrare molte energie di questo ufficio sul sistema economico esterno, affinché - attraverso accordi con le associazioni di categoria e con il sistema delle imprese nelle sue diverse articolazioni - si possa arrivare a incrementare la percentuale, oggi davvero irrisoria, di detenuti che svolgono una attività lavorativa.

Ma questo sarà possibile solo se l’ufficio potrà cooperare efficacemente con gli assessori competenti e con l’intera amministrazione comunale. Riteniamo che queste due funzioni - ripeto: una a medio e l’altra a lungo termine - siano estremamente importanti: e possano essere perseguite anche in assenza di quella facoltà di accesso (e di esercizio di poteri reali) di cui dicevo. In ogni caso, credo che queste due funzioni rispondano perfettamente alla ragione fondamentale che ci fa ritenere preziosa l’esperienza in corso, in particolare quella che chiamavo "anticipazione-sperimentazione". Per concludere. Credo che l’effettivo funzionamento di questo ufficio sia affidato alla possibilità di creare un patto tra i diversi soggetti che sono destinati ad avere rapporti assidui con l’ufficio stesso.

Insomma, il lavoro del Garante può essere prezioso se è l’esito di una relazione costante, e fortemente integrata, tra i diversi attori coinvolti. Per capirci: se per un secondo solo consentissimo che la figura del Garante venisse agitata contro, che so?, gli agenti di polizia penitenziaria, o venisse proposta come concorrenziale e competitiva nei confronti della magistratura di Sorveglianza, già avremmo compromesso questa stessa figura fino a una dichiarazione anticipata di fallimento. Oggi - ma il discorso non cambierebbe se pure la base giuridica di questa istituzione fosse più robusta - non abbiamo il minimo interesse a un organismo agonistico-conflittuale: esso, in ogni caso, non avrebbe alcuna possibilità di azione, di agibilità, di successo dentro un universo come quello dei luoghi di detenzione. Non è così che può funzionare questo ufficio. Pur se dotato dei più ampi poteri, uno strumento proposto con una funzione, ripeto, agonistico-conflittuale, sarebbe comunque destinato all’insuccesso.

L’esigenza più importante e più urgente riguarda, piuttosto, la capacità di creare cooperazione e integrazione tra i diversi soggetti, pur nella consapevolezza che il rapporto è, ed è destinato a rimanere, asimmetrico. Qui interviene la questione, diciamo così, dello scarso "successo popolare" che l’argomento carcere riscuote presso le "larghe masse", ma il problema riguarda anche altri soggetti: per esempio, il corpo degli agenti di polizia penitenziaria, che dovrà essere (ricorro al termine prima citato) "persuaso" pazientemente della bontà di uno strumento come questo, che in prima istanza – temo - non verrà accolto con grida di giubilo. Tuttavia, a mio avviso, ottenere quella cooperazione è possibile. E proprio perché è nel comune interesse. Alcune considerazioni, infine, a proposito della normativa nazionale. Nel testo unificato, a firma Pisapia, Mazzoni e Finocchiaro, si legge che il Garante nazionale "concorre con il magistrato di sorveglianza alla vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, nonché dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere sia attuata in conformità delle norme e dei principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti"; che il Garante "adotta le proprie determinazioni in ordine alle istanze ed ai reclami che gli vangano rivolti dagli internati e dai detenuti" e "verifica che le strutture edilizie pubbliche adibite alla restrizione od attenuazione della libertà delle persone siano idonee a salvaguardarne la dignità con riguardo al rispetto dei diritti fondamentali".

Questa è la sostanza del disegno di legge nazionale, attualmente in discussione presso il Comitato ristretto della prima commissione Affari costituzionali della Camera. Se quel disegno di legge parlamentare non venisse approvato, non dico - non dico assolutamente, e non lo penso nemmeno lontanamente - che tutto sarebbe inutile. La funzione di Garante anche solo a livello locale, anche se dotata di una facoltà di accesso assai limitata e di poteri parziali, è tutt’altro che superflua.

Molti, diversi e preziosi possono essere, in ogni caso, i compiti di un ufficio di questa natura. La distinzione delle funzioni resta, in ogni caso, una condizione preliminare: dobbiamo ribadire non solo che non esiste sovrapposizione tra l’ufficio del Garante e la magistratura di Sorveglianza, ma che solo la più costante integrazione fra questi soggetti e gli altri soggetti del sistema dell’organizzazione penitenziaria e dell’amministrazione pubblica può consentire lo sviluppo di un sistema di rapporti, che vada nella direzione della più efficace tutela dei diritti delle persone private della libertà.

 

 

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