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Espulso a vita dalla terra in cui è nato
Nato in Germania da immigrati italiani, ha accettato di "barattare" una pena in carcere con l’espulsione dal paese. Ma ora ne è pentito
Ristretti Orizzonti, n° 4 - 2003
Giuseppe Colangelo, per gli amici Pino, ha una storia particolare. Nato nel ‘71 in Germania, a Bensberg, da genitori immigrati di seconda generazione, a sedici anni rifiuta, pur avendone diritto, la cittadinanza tedesca, per una specie di orgoglio nazionale legato al passato della sua famiglia. Entra in carcere da minorenne per piccoli reati, e poi da maggiorenne finisce di nuovo dentro per reati contro il patrimonio, gli viene proposta l’espulsione a vita dalla Germania, al posto della galera. Accetta, e di fatto ora si trova nella condizione di non poter più tornare nella sua terra natale, dove ancora vivono i suoi genitori. Quella che segue è la sua testimonianza.
Negli anni settanta la mia famiglia, d’origine pugliese, si trasferì in Germania perché in Puglia non c’era lavoro. Già mio nonno era immigrato in Germania tra gli anni ‘50-’60 e aveva lavorato lì per molti anni. I miei genitori si sposarono giovanissimi, avevano 16 anni quando, neosposi in Italia, seguirono le orme del nonno paterno, per cercare fortuna in quel paese, dove trovarono entrambi lavoro, mio padre come meccanico tornitore e mia madre in una fabbrica che produceva oggetti in plastica. Nel 1969 è nata mia sorella Teresa e nel 1971 io. Entrambi frequentammo lì la scuola, ottenendo la licenza che è l’equivalente della terza media italiana (io la presi in collegio), e poi io mi iscrissi a una "scuola tecnica": muratura, pittura, elettricista. Alla fine dei tre anni potevi scegliere su quale dei tre rami prendere la specializzazione. Mio padre e mia madre con i risparmi misero su un esercizio di vendita di abbigliamento per uomo e donna. Dopo anni di sacrifici nel 1990 rilevarono un bar, cominciando così a condurre una vita decorosa ed abbastanza agiata. Attualmente mio padre ha un ristorante e mia madre lavora come infermiera specializzata. Per quanto riguarda me, avevo avuto a quindici anni i primi problemi con la legge, per piccole cose: risse, furtarelli. In Germania non ti mettono subito in galera, ma in collegio. In seguito finii anche in un carcere minorile ed a 18 anni in quello per maggiorenni, sempre per piccoli reati. Nel 1991 sono stato arrestato per rapina aggravata, ricettazione e furto; tra tutto accumulai cinque anni di galera. Mi portarono a Wuppertal, a cinquanta chilometri da Colonia. Pur essendo un carcere di sicurezza, il trattamento non è male. All’entrata in carcere ci sono delle accurate visite mediche ed una buona assistenza medica durante la detenzione. Le sezioni sono aperte, in cella al momento che entri non hai niente oltre alla branda al tavolo e lo sgabello, ma puoi comprarti il televisore, l’antenna, lo scalda acqua, lo stereo della misura di 70 X 30 cm. Il lavoro è obbligatorio, e si possono ricevere dei pacchi dai nostri familiari. Se uno non ha niente c’è una rete di assistenza di volontari, a me i preti mi portarono un piccolo televisore in bianco e nero e me lo lasciarono, finché non percepii il primo stipendio e potei acquistarmene uno a colori. Restai a Wuppertal circa otto mesi, poi mi fecero la proposta di andare in un carcere aperto nel nord della Germania, sempre vicino a Colonia, dove avrei potuto diplomarmi, finendo la scuola edile, e sarei stato anche pagato. Ma non feci in tempo a prendere la prima busta paga. Scappai dopo neanche un mese. Dopo un mese e mezzo mi ripresero, anche perché non avevo alcuna esperienza di latitanza. Mi portarono a Remsheid, che è un carcere di media sicurezza per definitivi. Quando sei definitivo non puoi tenere i tuoi indumenti personali. Ti è concessa solo una tuta. Tutto il resto dalla biancheria, ai calzoni, alle giacche è del carcere, ed è tutto siglato con il tuo numero di matricola. Là non mi trovavo male. Gli agenti erano in maggioranza donne e facevano servizio anche in sezione. Con noi italiani si comportavano molto bene e non ho mai avuto problemi. In cella potevamo, volendo, anche lavorare a cottimo, montavamo dei giocattoli. Più lavoravi e più guadagnavi, potevi prendere sino a mille marchi il mese e la spesa era illimitata. Dopo un anno e mezzo che ero lì lavoravo, avevo la stanza singola e facevo regolari colloqui con la mia ragazza. Una sera mi chiamarono in matricola e mi chiesero che intenzioni avevo una volta ritornato in libertà. In Germania verso la metà pena ti lasciano uscire libero, con qualche obbligo. Per me era un po’ diverso, perché avevo un’evasione alle spalle che limitava la possibilità dei benefici. Ma loro mi proposero di uscire e lasciare la Germania, in cambio non avrei scontato il resto dei tre anni di galera. Il trucco stava nel fatto che non avrei mai più potuto mettere piede nella Repubblica Federale Tedesca. Avrei avuto il timbro di diffida definitiva sul passaporto. Accettai. Non avevo più nessuna voglia di farmi la galera. Ripensandoci ora, ad anni di distanza, credo di avere fatto una cattiva scelta, perché successivamente in Italia sono caduto nella droga pesante, ed ho accumulato otto anni di galera, per reati legati alla tossicodipendenza. Ho ancora alcuni processi da fare. Quando mi fu data l’espulsione dalla Germania, pur essendo nato lì, non esisteva ancora il trattato di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini europei. Ora mi domando: chissà se un domani potrò ancora tornare in Germania? In Italia ho la mia famiglia, composta dalla mia convivente e da mia figlia, ma mi piacerebbe avere la possibilità di rifarmi una vita in Germania con loro due al mio fianco, oltre che con mio padre e mia madre, nella terra dove sono nato. |